CERISE, Guglielmo Michele
Nacque il 29 settembre del 1769 ad Allain presso Aosta da Giovanni Antonio e da Maria Petronilla Bal. Il C. fece i suoi primi studi nel collegio di S. Benigno ad Aosta sotto la guida dei barnabiti. Si trasferì in seguito a Torino presso il collegio delle Provincie: seguì i corsi di medicina ma non divenne mai medico. Nel 1793 era membro di un club torinese di tendenze repubblicane che, stabiliti contatti prima col Barras, inviato della Repubblica francese come commissario presso l'esercito d'Italia, poi col Tilly, rappresentante francese a Genova, su consiglio di quest'ultimo si fuse con un altro circolo torinese facente capo al medico Ferdinando Barolo e a Carlo Botta.
Il nuovo organismo acquistò nuovi affiliati, soprattutto giovani e ufficiali di estrazione borghese e stabilì contatti con altre organizzazioni esistenti nella provincia. Negli incontri con il Tilly fu messo a punto un piano d'insurrezione da attuarsi in concomitanza con la prossima offensiva francese prevista per la primavera del 1794. Soprattutto con l'aiuto del Dufour, impiegato al ministero, i congiurati si procuravano notizie e documenti sull'esercito e le fortificazioni piemontesi, che consegnavano al Tilly; una di queste consegne, comprendente i disegni delle fortificazioni del Piccolo S. Bernardo, fu effettuata dal C., accompagnato da M. Pellisseri, nell'aprile del 1794.
Ma mentre lo scoppio dell'insurrezione veniva rimandato, il console inglese a Genova, Brun, venuto in possesso di alcune carte del Tilly, le trasmise al governo di Torino. Furono effettuati numerosi arresti, fra cui quello del Barolo, che il 24 maggio fece un'ampia confessione, mentre molti congiurati fuggivano, come il C., che riparò a Parigi. Il processo si concluse con tre condanne a morte eseguite e tredici in effigie, fra cui quella del Cerise. Questo episodio diede inizio in Piemonte al fenomeno dell'emigrazione politica, così come negli stessi anni stava avvenendo in diverse altre parti d'Italia, i cui esuli si erano raccolti in buon numero attorno a Filippo Buonarroti, che allora si trovava a Oneglia come agente politico presso l'armata d'Italia. Allorché il Buonarroti, nel marzo 1795, fu destituito e imprigionato, i fuorusciti italiani andarono ad ingrossare i già importanti centri di raccolta dei giacobini italiani, che erano a Genova, a Nizza e a Parigi, dove era il Cerise. Secondo una notizia dovuta ad A. M. Eymar (ambasciatore francese a Torino, poi - dopo la caduta della monarchia piemontese - commissario civile nella Repubblica piemontese del 1798-991, il C. sarebbe stato in questo periodo segretario del Babeuf; ma questa circostanza non trova riscontro nella documentazione esistente.
A Parigi il C. aveva stabilito contatti col Buonarroti e con i giacobini "anarchistes" francesi, oltre che con i fuorusciti italiani. Per alcuni mesi i movimenti di questi gruppi furono resi difficili dall'atmosfera sospettosa successiva al 9 termidoro; poi, quando il Direttorio si trovò in difficoltà nel reprimere la reazione monarchica del 13 vendemmiaio (5 ott. 1795) e cercò l'appoggio degli ambienti giacobini, il Buonarroti fu scarcerato e con i gruppi dei fuorusciti si dette a organizzare un piano di rivoluzione per l'Italia in occasione della prossima ripresa dell'offensiva francese. Il C. in questo periodo risulta già inquadrato nell'esercito francese con il grado di sottotenente.
Nell'esilio il movimento giacobino compì un importante processo di maturazione politica, superando le concezioni utopistiche e velleitarie, quali si trovavano, nel 1793, nei progetti del Ranza e del L'Aurora, per approdare a una più realistica valutazione delle forze politiche in gioco e a una più concreta coscienza del concetto di unità nazionale, mentre il disegno insurrezionale piemontese era concepito come il primo passo verso una rivoluzione italiana. Il C. e il Buonarroti, rispondendo il 15 piovoso anno IV (4 febbr. 1796) alle richieste ricevute dai giacobini del Piemonte e di Genoya e dai fuorusciti di Nizza, di adoprarsi per ottenere dal Direttorio l'appoggio al prossimo tentativo rivoluzionario in Piemonte, inentre davano notizia dei colloqui avuti con il Saliceti, che si era dichiarato favorevole al progetto, esortavano a prepararsi e ad incoraggiare i patrioti di Torino, del Piemonte e di tutta Italia, fra i quali era essenziale far sparire le distinzioni fondate sui diversi luoghi d'origine, unica essendo la causa di tutti; raccomandavano poi che, appena scoppiata la rivolta, prima cura fosse la costituzione d'un governo provvisorio che precedesse l'arrivo dell'esercito francese, per evitare al paese un periodo di governo militare.
I congiurati si scontrarono tuttavia ugualmente contro realtà che non avevano potuto valutare appieno: certamente essi avevano confidato troppo nella reale disponibilità, ad appoggiare il loro tentativo, da parte del Direttorio, la cui intenzione all'atto di promettere il proprio appoggio era di strumentalizzare provvisoriamente il fermento dei patrioti dopo il fallimento delle trattative per un'alleanza col re di Sardegna. Inoltre i giacobini sopravvalutarono la stessa reale forza politica del Direttorio, che in realtà, non che voler aiutare il moto patriottico, non avrebbe neppur avuto la possibilità di sostenerlo a lungo di fronte all'iniziativa del Bonaparte; indice dell'impasse in cui vennero a trovarsi i patrioti sono le loro lettere - firmate anche dal C. (divenuto frattanto tenente) - al ministro degli Esteri francese Delacroix: dopo aver ottenuto, grazie al Buonarroti, che il ministro si impegnasse in loro favore, essi vedevano allarmati il Bonaparte sostituire il governo provvisorio di Oneglia con un governo militare e in due scritti del 29 germinale e del 4 floreale anno IV (18 e 23 apr. 1796) protestavano rilevando che l'iniziativa avrebbe danneggiato sia il loro progetto - impedendo che il governo provvisorio gettasse le basi di un governo popolare che avrebbe sostenuto il movimento estendendolo a tutta l'Italia - sia lo stesso esercito francese (chiamato ancora liberatore) che si privava dell'organismo che meglio avrebbe provveduto ad aiutarlo e sovvenzionarlo. Né il Bonaparte faceva mistero - avvertono i patrioti - delle proprie intenzioni di stabilire un governo militare anche in Piemonte e in Lombardia. I cospiratori italiani chiedevano perciò al Delacroix che il governo francese desse precise disposizioni ai propri generali e agli agenti presso l'armata d'Italia affinché favorissero le riunioni del popolo, necessarie alla sua istruzione e a promuovere il formarsi sia di autorità popolari locali sia di un potere centrale, che i giacobini concepivano ormai sotto forma di un'Assemblea costituente italiana. Ma pochi giorni dopo l'armistizio di Cherasco faceva naufragare il progetto e il 10 maggio il fallimento della congiura degli Eguali portava all'arresto del Buonarroti.
Dopo Cherasco il C. si recò a Milano, dove rinnovò diversi contatti; nell'ottobre si arruolò nella legione lombarda volontaria appena costituita dai patrioti col beneplacito di Napoleone e divenne, con il grado di capitano, aiutante di campo del generale cisalpino Lahoz. La sua posizione ideologica andava rapidamente precisandosi in senso ostile alla Francia: egli frequentava i clubs e teneva costantemente informato il Lahoz di ciò che vi avveniva; un rapporto che lo riguarda informa che nei suoi discorsi accusava il Direttorio di avere per mira la spoliazione e non la libertà dei popoli. Era d'altronde il periodo di Campoformio, e la tensione si aggravò nei mesi successivi: mentre le autorità di occupazione, sempre più ostili alle mire dei patrioti, tendevano a governare direttamente, questi ultimi intensificavano i rapporti con i giacobini di Francia, progettando una rivoluzione col loro aiuto; nel 1798 il Direttorio con un'ennesima sterzata politica annullò l'elezione di centosei deputati giacobini francesi e subito dopo progettò di far espellere i patrioti dai Consigli legislativi cisalpini. Il Direttorio milanese in luglio inviò a Parigi una delegazione guidata dal Lahoz e composta dal C., dal Pico e dal Teullié, che però non fu neppur ricevuta; anzi, il Direttorio parigino fece accusare dai giornali il Lahoz di essere un agente dello straniero. Il fallimento di questa missione, prima voce ufficiale dell'opposizione italiana, segna il momento in cui la tensione fra patrioti e Direttorio francese diventò rottura: i contatti fra i giacobini italiani e francesi si intensificarono e la lotta dei patrioti si orientò sempre più decisamente verso la cospirazione; ancora nell'estate il C., allora capitano della legione lombarda, aderì alla Società dei raggi divenendone uno dei capi. La congiura era già presente in Romagna, in Liguria e in Piemonte. Tuttavia i giacobini non desistevano dal collaborare con quegli stessi Francesi che essi si preparavano a combattere: nel governo provvisorio piemontese del 1798, accanto ai moderati sedevano noti democratici come il Botta e lo stesso Cerise. In un rapporto del Grouchy al Talleyrand si legge del C. che questi era "très attaché au système politique contre les français, contre lesquels il ne cesse de déclamer". La contraddittorietà della condizione dei giacobini italiani, e del C. in particolare, era destinata inevitabilmente ad acuirsi in questo periodo di impegno politico svolto in funzione ufficiale: nel febbraio 1799 maturava il problema della scelta dello status politico che i cittadini piemontesi avrebbero dovuto attribuirsi. Poiché l'unione del Piemonte con la Cisalpina fu esclusa dal Direttorio, ed era d'altronde invisa anche ai ceti borghesi timorosi di soluzioni troppo avanzate, rimasero aperte alla scelta la Repubblica separata o l'annessione alla Francia; quest'ultima probabilmente preferita dal Direttorio che, attraverso le autorità francesi in Piemonte, cercò in ogni modo di favorirla. Cosicché ferventi unitari come il C. dovettero adoprarsi, come membri del governo, contro l'unità italiana propagandando l'annessione; e a tale scopo il C. fu inviato ad Aosta come commissario per la Valle il 16 piovoso anno VII; proprio dove, secondo un Plan d'organisation secrette du Piémont trasmesso al Grouchy da un informatore segreto, lo stesso C., come membro di una congiura antifrancese, sarebbe stato inviato per organizzarvi un comitato di congiurati.
Una situazione contraddittoria quale questa che si è venuta rivelando sottende un problema: attraverso quali vie tanta parte dei patrioti dall'odio antifrancese approdò a un'accettazione, sovente entusiastica, del regime napoleonico? Il maggiore studioso di questi problemi, Giorgio Vaccarino, rileva il problema dichiarandosi stupito di vedere il C. nel 1804 allineato con la politica imperiale e fiero di indossare la divisa di ufficiale napoleonico, e ne propone una soluzione opinando, sulla scorta del Botta, che l'opposizione antifrancese italiana sarebbe stata sopravvalutata nell'ampiezza dei suoi scopi e nella determinazione a perseguirli: maggiori cautele nel valutare questi fattori potrebbero portare a un'interpretazione di tale processo come meno nettamente caratterizzato da una vera e propria soluzione di continuità. Ma, se appare verosimile l'interpretazione di questo processo in chiave di evoluzione e non di rottura, rimane tuttavia difficile non riconoscere a certi dati di fatto un carattere di decisa e violenta opposizione ai Francesi e accettare senz'altro l'ipotesi di un sostanziale moderatismo iniziale dei giacobini italiani: basti ricordare la chiara impostazione unitaria del problema italiano e il progetto di cacciare tutti i Francesi. Una spiegazione che andasse oltre il semplice negare la distanza fra i punti di partenza e di arrivo della parabola politica dei giacobini italiani dovrebbe distinguere in primo luogo fra l'estremismo politico - indubbio - e la reale apertura sociale, i cui limiti sono evidenti: si consideri per esempio l'opuscolo di Melchiorre Cesarotti Istruzione d'un cittadino ai suoi fratelli meno istruiti, la cui edizione piemontese (Torino 1799) fu promossa proprio dal governo di cui il C. e altri giacobini facevano parte e nel quale l'interpretazione data del concetto rivoluziopario di égalité esclude recisamente la sua lettura in chiave economica. Tale spiegazione dovrebbe poi valutare adeguatamente la dura lezione che dovette costituire, per i patrioti italiani, l'esperienza della restaurazione del 1799: tutte le fragili costruzioni repubblicane, tranne Genova, caddero di fronte agli Austro-Russi quasi senza combattere, dimostrando così la propria debolezza, mentre clero, aristocrazia, avventurieri e briganti trascinavano le masse popolari in una caccia al giacobino rivelando così anche la ristrettezza e la fragilità della base sociale del movimento. I patrioti, ormai esperti delle reali forze politiche, dovettero ricavarne facilmente l'insegnamento che i loro progetti di autonomia e indipendenza e le loro trame cospirative andavano bollati di ingenuità; che non avrebbero potuto realizzare nulla senza l'appoggio di una potenza estera e di una grande forza militare.
Così il C., da rappresentante dell'opposizione giacobina in seno al governo provvisorio, dopo la soppressione di questo (3 apr. 1799) e dopo duri contrasti con il Grouchy, il 1º floreale anno VII (20 apr. 1799) si adattò a rientrare nei ranghi militari come aiutante generale delle truppe piemontesi. Nella corrispondenza di questo periodo del C. con L. Martinet si coglie "l'evoluzione dei sentimenti di un giacobino che, senza rinnegare i più profondi sentimenti della propria giovinezza, accetta come ultima risorsa, un metodo, quasi per dimenticare le speranze cadute" (Nouat, p. 298). Il 17 floreale il C. era ad Aosta, donde si ritirò in Francia. L'anno seguente si distinse alla difesa di Genova dove, in un solo combattimento, fu ferito tre volte e tre volte ritornò in campo. Nel 1801 la Commissione esecutiva lo nominò aiutante comandante delle truppe piemontesi. Nel 1802 rientrò nell'esercito francese. Nel 1804, come si apprende da una lettera del 12 nevoso anno XII (3 genn. 1804) inviata dal prefetto di polizia parigino al ministro di Polizia, il C. era a Parigi per chiedere di prender servizio nell'armata di Inghilterra, secondo una promessa fattagli dal primo console. In questa lettera egli è peraltro ancora descritto come un malcontento del governo esistente, un esaltato capace di colpi di testa; analogo giudizio è in una lettera del 29 nevoso anno XII (20 gennaio 1804) inviata dal generale J.-F. Menou al ministro francese della Giustizia Regnier, dove il C. è descritto come persona intelligente, ma impetuosa ed esaltata, facile a lasciarsi trascinare ad eccessi, estremista e piena di livore contro i Francesi traditori del Piemonte e della libertà; in una parola, un uomo pericoloso, da utilizzarsi lontano dal suo paese e da Parigi. Così fu fatto, e Giuseppina Fournier, scrivendo da Utrecht a Felice Bongioanni il 26 pratile anno XII (15 giugno 1804), diceva di avervi incontrato il C., allora distinto ufficiale dello Stato Maggiore della I divisione e che le pareva un "buon uomo". E il C., scrivendo allo stesso Bongioanni il 30 termidoro anno XII (18 ag. 1804), si presentava come "adjutant commandant, chef de l'Etat Major et officier de la Légion d'Honneur". Tra il 1806 e il 1809 il C. partecipò alle campagne di Prussia, Polonia e Austria e nel 1810-11 alla campagna di Spagna. Nel 1810 venne nominato barone dell'Impero.
Nel 1811 per le numerose ferite riportate ottenne il collocamento a riposo e si ritirò in una sua villa nella campagna presso Tolosa. Nel 1815 fu arrestato e incarcerato dagli Austro-Russi. Liberato, si recò in Olanda insieme con la moglie, una nobile e ricca fiamminga che aveva sposato nel 1803 e che, rimasta vedova, si risposerà con Pierre Paganel.
Ritornato in Francia dopo alcuni anni, il C. morì a Tolosa il 28 febbr. 1820.
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