MARAMALDO (Maramauro), Guglielmo
Nacque a Napoli da Landolfo di Guglielmo intorno al 1317: questa data, come molte altre notizie intorno alla sua vita, si può desumere da un riferimento autobiografico presente nel Prologo del suo commento alla Commedia di Dante (par. 11).
I Maramaldo, o Maramauro come si trova anche trascritto il cognomen, appartenevano alla più antica nobiltà partenopea. Il M. porta il nome del nonno, funzionario regio e tesoriere dello Studio di Napoli, attivo nel primo decennio del Trecento; il padre Landolfo fu tra i militi e scudieri al seguito di Carlo, duca di Calabria, a Firenze nel 1326-27 e capitano di Anagni nel 1331. Landolfo ricevette in feudo una provvisione di 10 once d'oro che alla sua morte, avvenuta nel 1348, fu trasmessa al M., che era il primogenito, dalla regina di Napoli Giovanna I (diploma del 25 genn. 1349: Faraglia). Dopo il M., Landolfo ebbe Filippo, Francesco e Torella, sposata a Landolfo Caracciolo nel 1334. Guido Maramaldo, che taluni ritengono figlio del M. (Della Marra; Sabatini, p. 253 n. 168), ma che ne fu forse cugino, fu frate domenicano e inquisitore e morì in odore di santità nel 1391.
Il M. fu padre di tre figli: Landolfo, arcivescovo di Bari e cardinale, Carlo e Feulo, che furono legati alla corte di Carlo III d'Angiò Durazzo. Il figlio di Feulo, Filippo Antonio, rinverdì l'attività poetica del Maramaldo.
Il M. fu in stretti rapporti con la corte angioina di Napoli e fu impiegato nella diplomazia di Giovanna I per conto della quale compì numerosi viaggi in Italia e in Europa. Le retribuzioni per la sua carica di funzionario regio sono documentate dal 1344 al 1346 e nel 1348 (De Blasiis, p. 757). Fu anche lettore dell'opera di Tommaso d'Aquino presso lo Studio di Napoli. F. Petrarca si rivolge a lui in due Senili (XI 5 e XV 4, databili all'incirca agli anni 1368 e 1371) come a un amico con il quale intratteneva una fitta corrispondenza. Tra Verona, Bologna o nelle mete comuni di viaggi diplomatici, il M. frequentò Bernardo Scannabecchi, nobile ghibellino bolognese esule a Verona. Con Scannabecchi, che era in stretti rapporti con Pietro Alighieri, suo vicario nella podesteria di Vicenza nel 1342-43, il M. intrattenne un rapporto di amicizia e a lui dedicò probabilmente Vostro sì pio officio offerto a Dante (Coluccia, 1975), il sonetto, che si riferisce al restauro del sepolcro di Dante a Ravenna, compiuto da Scannabecchi tra il 1373 e 1374, a lungo ascritto all'opera di Menghino Mezzani.
Il poeta Giovanni Quatrario di Sulmona accluse, in un'epistola diretta nel 1383 al cardinale Landolfo Maramaldo in compianto del M., un epitaffio nel quale quest'ultimo è definito miles. Alcuni documenti messi in luce recentemente da Coluccia aggiungono nuovi elementi alla biografia del M. in grado di dissipare alcuni dubbi sollevati da questo appellativo e dal corrispondente eques con il quale Petrarca si rivolge al suo corrispondente. Nulla risulta dalle fonti documentarie su un impegno militare del M., mentre altri atti confermano l'appellativo di milite, come quello del 18 giugno 1379 vergato a Roma dal notaio Antonio Scambi (Coluccia, 2000, p. 349). Risolutivo appare un documento del 1379: negli statuti dei mercanti il M. è detto "prior hospitalis Sancti Johannis Gerosolimitani" (14 giugno 1379; ibid., p. 251). Considerando che quello di S. Giovanni di Gerusalemme fu il più antico ordine di cavalleria, si comprende con quale significato il M. possa essere detto cavaliere e anche giustificare la sua presenza, non ancora ventenne, presso il gran maestro dei cavalieri, Hélion Villeneuve, nell'isola di Coo, "la qual è de l'Ospital de li Frieri de San Ioane", come dichiara lo stesso M. in una chiosa al IV canto dell'Inferno (4.84: si cita dall'edizione Bellomo-Pisoni).
L'epitaffio allude alle molteplici attività del M. ed enumera anche le opere letterarie, alcune delle quali sono oggi perdute. Nulla rimane di una sua opera sulla genealogia degli dei, composta probabilmente su imitazione di G. Boccaccio, né rimane traccia degli interessi del M. per l'astrologia o la filosofia naturale. Un erudito del Seicento, Bartolomeo Chioccarello, ascrisse a lui un breve Chronicon de Regno Neapolitano, citandone un estratto riferito al 1373; la notizia fu poi ripresa da vari biografi e studiosi dell'opera del Maramaldo. De Blasiis, ritenendo il M. quel Guglielmo funzionario dell'Erario napoletano e tesoriere dello Studio attivo nel 1303, negò la paternità dell'opera storica al commentatore dantesco. Si può invece ritenere la notizia quantomeno verosimile, stabilito che il primo Guglielmo fosse il nonno del Maramaldo. Si aggiungano inoltre le lodi di Petrarca per la vivace descrizione di fatti napoletani che il M. gli aveva inviato: egli infatti scrive "me presentem rebus in mediis posuisti" (Senile, XV 4).
Bellomo, cui si deve insieme con Pisoni l'edizione critica dell'Expositione (Expositione sopra l'"Inferno" di Dante Alligieri, Padova 1998), conta cinque sonetti e due canzoni composti dal M., ai quali forse si dovrà aggiungere il sonetto dedicato allo Scannabecchi. Le composizioni mancano di scorrevolezza e di una spiccata originalità, documentando piuttosto quel travaso di modi fiorentini nella letteratura angioina della metà del secolo XIV. I sonetti sono prevalentemente ispirati dalla lirica di Petrarca e Dante (con il quale il M. contrae maggiori debiti nelle sue canzoni), ma non mancano influenze di G. Guinizzelli, G. Cavalcanti o dei siciliani.
Il M. attese alla composizione del suo commento alla Commedia di Dante più di quattro anni, dal 1369 al 1373. È giunta a noi solo l'esposizione alla prima cantica, conservata in un unico esemplare manoscritto acefalo, datato al 1464 e di fattura settentrionale, conservato nella Biblioteca Borromeo all'Isola Bella (Kristeller). L'esposizione, in volgare, contrae forti debiti con il commento di Pietro Alighieri nella redazione Ashburnhamiana e con le Chiose Filippine. Il commento manifesta debolezze culturali quanto all'interpretazione dei passi danteschi, ma anche alle stesse autorità citate; si muove inoltre con ben poca disinvoltura sui passi dell'esegesi tradizionale. L'accessus ad auctorem, eterodosso sotto alcuni profili rispetto alla convenzione medievale, è innovato con un elenco bibliografico. Il commento del M. al poema dantesco, scritto secondo Baranski con lo scopo di autopromuoversi presso i domenicani che gli avevano di recente affidato l'insegnamento di Tommaso d'Aquino, è ricco di notazioni autobiografiche. Insieme con le date, dichiarate o congetturabili, l'autore impreziosisce le sue chiose con note di genuina curiosità personale che aiutano a ripercorrere alcuni tra i numerosi viaggi che aveva compiuto. Le parentesi autobiografiche, insieme con il valore culturale di una glossa continua a Dante prodotta in volgare nella Napoli angioina, rappresentano gli aspetti più significativi dell'Expositione.
Il M. scrive di aver mangiato la coda di un castoro "la qual ha proprio sapor de pesse" (17.16) e descrive l'uso di occhiali per proteggersi dal freddo in alcune zone dell'Ungheria e della Germania (33.36) e il Danubio ghiacciato che sostiene il peso di "carri e cavalli carcati" (32.15).
Sempre dalle glosse sappiamo che frequentò il conte Scalore degli Uberti "in Scicilia e poi in Napoli"; la presenza di Scalore in Sicilia fu precedente al 1340, anno in cui ne fu probabilmente esiliato. Qualche anno dopo, nel 1343, il M. fu a Creta dove scrive di aver visto "il lambirinto" (14.40).
Per il giubileo del 1350 il M. si trovava a Roma dove sarebbe tornato dopo il 1369-70, potendo considerare di prima mano la notizia della vigna piantata da papa Urbano V nei giardini voluti da Niccolò III (18.19, 19.41).
In una chiosa al canto X dell'Inferno il M. asserisce di aver frequentato a Bologna Fazio degli Uberti in una data che non precisa, ma forse assegnabile agli anni 1358-59: in quel torno di tempo infatti Fazio risiedeva nella città emiliana. Il M. fu poi a Venezia (21.6) e nel Veronese. Del lago di Garda ricorda i carpioni, visti nel 1362 durante un'ambasciata in Lombardia per conto di Giovanna I (20.32).
Incerta appare la destinazione di un viaggio del 1368: nella chiosa sull'uccisione di Guido da Montfort nella chiesa viterbese di S. Silvestro, il M. scrive di aver letto con i propri occhi il verso in ricordo dell'avvenimento; ma l'interpretazione del passo è dubbia (12.64).
Nel Prologo al suo commento il M. informa anche dell'incarico universitario che dovette ricevere poco prima di attendere alla composizione del Commento e che, per quanto indica Quatrario, conservò fino alla morte. La sua candidatura si dovette probabilmente all'influenza familiare presso lo Studio (Guido Maramauro, ricordiamo, ebbe nome tra i domenicani soprattutto per la sua carica di inquisitore, e Pietro Maramauro fu docente di diritto canonico dell'Università napoletana e rettore, cfr. Monti, p. 79) o all'interessamento della stessa corte angioina, che ne controllava strettamente l'attività. È dubbio infatti che l'affidamento dell'insegnamento di Tommaso d'Aquino potesse dipendere dalla fama del M. in materia: citiamo per esempio come delle sette allegazioni tomistiche interne alla sua esposizione di Dante, sei derivino dal commento di Pietro Alighieri e la restante sia scorretta. La sua cultura, filosoficamente e teologicamente lacunosa, e il generico riferimento a quella docenza ("la qual opera cominciai io […] con la conduta del venerabile doctore miser san Tomaso d'Aquino" Prol., par. 11) fanno ipotizzare che più che un vero e proprio lettorato dell'opera di Tommaso, il M. coprisse un ruolo a questo subordinato, come quello di magister studentium o cursor (Baranski, p. 148).
Nel 1379 il M. fu nominato senatore di Roma. La carica poteva essere attribuita a due forestieri appartenenti alla cavalleria e il M., che poteva vantare il titolo di eques, fu nominato da Urbano VI per il semestre del 1379 comprendente i mesi di giugno e agosto. Nella serie cronologica dei senatori capitolini curata da Basotti, il M. è indicato con l'appellativo di "fra", spettante a quanti tra i cavalieri dell'Ordine di S. Giovanni avessero pronunciato i voti perpetui; potrebbe darsi dunque che in età avanzata egli avesse abbracciato la vita religiosa.
Non è invece necessario interpretare in questo senso la composizione di una sprezzante invettiva contro Amore, databile agli anni successivi al 1374: si tratta della canzone Per ch'io no m'abia sì de rime armato / quanto bastasse per dir mal d'Amore (Coluccia, 1983).
I documenti romani del 1379 sono le ultime testimonianze sull'attività del Maramaldo. Accettando per l'epitaffio del Quatrario la data di composizione del 1383 proposta da Pansa (pp. 153 s.), possiamo presumere che il M. sia morto tra il 1379 e questa data. I suoi resti furono deposti nella cappella di famiglia in S. Domenico Maggiore, a Napoli, che ora non è più conservata.
Fonti e Bibl.: F. Della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne' seggi di Napoli, imparentate colla casa Della Marra, Napoli 1641, p. 241; B. Chioccarelli, Antistitum praeclarissimae Neapolitanae Ecclesiae catalogus, ab apostolorum temporibus…, Neapoli 1643, p. 238; G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, II, 2, Napoli [1749], pp. 119 s.; G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1753, p. 209; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Bologna 1844, p. 196; G. De Blasiis, Fabrizio Marramaldo e i suoi antenati, in Arch. stor. per le provincie napoletane, I (1876), pp. 750-757; F. Torraca, Lirici napoletani del secolo XIV, in Studi di storia letteraria napoletana, Livorno 1884, pp. 229-236; N.F. Faraglia, Barbato di Sulmona e gli uomini di lettere della corte di Roberto d'Angiò, in Arch. stor. italiano, s. 5, 1889, t. 3, p. 331n.; G. Pansa, Giovanni Quatrario da Sulmona (1336-1402). Contributo alla storia dell'Umanesimo, Sulmona 1912, pp. 151-159; G.M. Monti, L'età angioina, in Storia dell'Università di Napoli, Napoli 1924, pp. 48, 79, 127; A. Salimei, Senatori e statuti di Roma nel Medioevo. I senatori. Cronologia e bibliografia dal 1144 al 1447, Roma 1935, p. 144; A. Basotti, La magistratura capitolina dal secolo XIV al secolo XIX con speciale riferimento ai senatori di Roma…, Roma 1955, p. 22; F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Cava dei Tirreni 1975, pp. 125-127, 253 n. 168; R. Coluccia, Tradizioni auliche e popolari nella poesia del Regno di Napoli in età angioina, in Medioevo romanzo, II (1975), pp. 51-54, 86-89; Id., Due nuove canzoni di G. Maramauro rimatore napoletano del sec. XIV, in Giorn. stor. della letteratura italiana, C (1983), pp. 161-202; P.G. Pisoni, G. Maramauro commentatore di Dante e amico del Petrarca, in Studi petrarcheschi, n.s., I (1984), pp. 253-255; S. Bellomo, Un sonetto su Dante da restituire al napoletano G. M., in Bibliologia e critica dantesca. Saggi dedicati a Enzo Esposito, a cura di V. De Gregorio, II, Ravenna 1997, pp. 329-333; Id., "Parvi Florentia mater amoris". Gli epitafi sul sepolcro di Dante, in Vetustatis indagator. Scritti offerti a Filippo Di Benedetto, a cura di V. Fera - A. Guida, Messina-Firenze 1999, pp. 26 s., 32; R. Coluccia, L'edizione dei documenti e i problemi linguistici della copia (con tre appendici un po' stravaganti intorno a G. M.), in Medioevo romanzo, XXIV (2000), 2, pp. 246-255; Z.G. Baranski, "Li infrascripti libri": G. M., l'"auctoritas" e la "lettura" di Dante nel Trecento, in Id., "Chiosar con altro testo". Leggere Dante nel Trecento, Fiesole 2001, pp. 117-152; S. Bellomo, Diz. dei commentatori danteschi, Firenze 2004, pp. 325-329; P.O. Kristeller, Iter Italicum, VI, p. 13.