GUERCIO, Guglielmo
Nato presumibilmente a Genova nel terzo decennio del sec. XIII, apparteneva a una famiglia di origine vicecomitale tra le più influenti dell'aristocrazia consolare che aveva dominato il Comune genovese nella prima fase della sua esistenza; era nipote dell'omonimo Guglielmo più volte console del Comune fra il 1193 e il 1212.
Il suo inserimento agli alti livelli della politica genovese appare evidente fin dalla prima attestazione documentaria a lui relativa: il 20 apr. 1256 fu infatti uno dei testimoni degli accordi di alleanza fra il Comune di Genova e Chiano di Massa, giudice di Cagliari.
Tali accordi, rivolti contro Pisa, avrebbero dovuto consentire ai Genovesi di recuperare influenza nella Sardegna meridionale a discapito dei Pisani, e a Chiano di esercitare un controllo sui territori del Giudicato, escluso il Castel di Castro, con un'autonomia politica e amministrativa ben maggiore di quella concessagli fino a quel momento da Pisa. Gli accordi rientravano pienamente negli obiettivi generali della politica genovese e nella politica filoguelfa in quel momento seguita dal Comune.
In seguito ai tumulti contro gli atteggiamenti autoritari del podestà, si verificò nel 1258 un radicale rinnovamento della situazione politica interna con l'instaurazione del regime del capitanato del Popolo nel quale, dietro allo schermo rappresentato dal popolare Guglielmo Boccanegra, si muovevano gli interessi delle famiglie ghibelline da lungo tempo tenute ai margini del potere; ciò comportò un'estromissione del G. e di tutti i suoi congiunti dai circoli del potere per tutto il periodo di governo del Boccanegra.
Solo dopo la caduta del capitano del Popolo e nel momento in cui le opposte fazioni nobiliari, tornate al potere, avevano raggiunto un provvisorio punto di equilibrio politico, il G. ricompare come titolare di un incarico di rilievo, la carica di podestà della colonia genovese a Costantinopoli, e il suo nome si lega a eventi cruciali per i successivi sviluppi della presenza commerciale genovese nell'area dell'Impero bizantino.
L'alleanza stipulata con l'imperatore di Nicea Michele VIII Paleologo a Ninfeo nel 1261, ultimo frutto della spregiudicata e dinamica politica estera perseguita dal Boccanegra, aveva riaperto ai Genovesi gli spazi economici dell'Impero bizantino restaurato dal loro alleato. In tale quadro era stato possibile ripristinare un'autonoma colonia commerciale genovese nella capitale imperiale, cancellata nel 1204 dalla conquista veneziana.
La scelta del G. da parte delle autorità genovesi per questo delicato incarico non era assolutamente casuale; la famiglia Guercio intratteneva infatti da generazioni rapporti privilegiati con l'Impero ed era stata presente in Costantinopoli almeno dalla seconda metà del XII secolo. In considerazione di ciò, dovette apparire naturale affidare l'incarico di riorganizzare la colonia genovese sul Bosforo proprio al G., anche se è quasi ovvio ipotizzare dietro a tale designazione una serie di discrete pressioni esercitate dalla famiglia per assicurarsi nella capitale orientale un personaggio direttamente interessato alla soluzione di tutte le questioni patrimoniali che il lungo intervallo rappresentato dall'Impero latino aveva lasciato pendenti.
L'attività del G. nella sua nuova qualità di responsabile dell'amministrazione della colonia si sviluppò tuttavia in modo del tutto imprevisto e difforme da quanto sia i governanti del Comune sia i membri del suo parentado avevano progettato e sperato.
Agli inizi del 1264 il G. venne infatti accusato di aver ordito, in accordo con re Manfredi di Sicilia, una cospirazione per rovesciare il governo imperiale e aprire ai Latini le porte di Costantinopoli; arrestato e tradotto alla presenza dell'imperatore, egli ammise la veridicità delle accuse di fronte a un gran numero di testimoni greci e genovesi.
Il gesto incredibile del G. non ha mai avuto una spiegazione chiara e univoca; esso rischiava di compromettere in un sol colpo tutto il risultato degli sforzi diplomatici condotti per decenni da Genova per assicurare la propria posizione nello spazio politico ed economico dell'Impero di Bisanzio, e in effetti comportò l'espulsione di tutti i genovesi dalla capitale imperiale e il loro confinamento nel remoto sobborgo di Eraclea.
Le motivazioni del G. nell'aderire a un progetto così rischioso, e inoltre promosso da un sovrano che rappresentava il vertice della fazione contro la quale da sempre si era rivolta l'attività politica della sua famiglia, sono rimaste sempre nell'ombra. La reazione sdegnata dei suoi parenti - che si presentarono in Consiglio a Genova chiedendo che, in omaggio alle prerogative loro derivanti dalle origini vicecomitali, il reo venisse condotto a Genova in catene e fosse loro consegnato per esercitare su di lui lo ius sanguinis loro spettante - sembrerebbe deporre in favore dell'ipotesi che la sua iniziativa si fosse concretizzata completamente al di fuori di qualunque coinvolgimento non solo delle autorità del Comune, ma anche degli interessi familiari. Tuttavia alcuni elementi portano a sfumare i contorni di questa posizione così netta: va innanzitutto considerato il fatto che alla fine del 1263 Michele VIII, esasperato dagli scarsi risultati militari ottenuti in cambio delle fortissime spese sostenute, aveva congedato la squadra di 60 galee genovesi in quel momento al suo servizio, e che da allora il suo atteggiamento nei confronti degli alleati si era andato continuamente raffreddando. La singolare coincidenza di tempi potrebbe quindi portare a ipotizzare che il G., lungi dall'agire di propria iniziativa, avesse applicato direttive fattegli pervenire in maniera riservata dal governo genovese (il quale, del resto, nonostante il suo prevalente orientamento guelfo non aveva mai denunciato gli accordi politici e commerciali che il Boccanegra aveva stipulato con Manfredi), miranti a prevenire un nuovo rovesciamento degli equilibri in Oriente in un senso negativo per gli interessi genovesi.
Un secondo fatto da tenere presente è l'identità del presunto candidato al trono imperiale che il G. si sarebbe impegnato a sostenere in accordo con il sovrano svevo: essendosi notevolmente raffreddati i rapporti, inizialmente assai cordiali, fra quest'ultimo e il deposto imperatore latino d'Oriente Baldovino II, la scelta del possibile nuovo signore di Costantinopoli era caduta sul suocero dello stesso Manfredi, il despota Michele II d'Epiro. Già nel 1258-59, del resto, Manfredi e suo cognato, il principe di Morea Guglielmo II di Villehardouin, avevano sostenuto militarmente il suocero contro l'allora imperatore di Nicea Michele VIII nella campagna militare conclusasi con la sconfitta degli alleati sul campo di Pelagonia; il piano, dunque, rappresentava per loro la ripresa di un vecchio progetto. Michele II era però discendente dalle casate imperiali degli Angeli e dei Comneni, verso i quali il G. e la sua famiglia non avevano mai rinnegato obblighi di servizio e notevoli motivi di riconoscenza. Nel confronto con Michele Paleologo, che in fondo aveva brutalmente usurpato il trono al legittimo imperatore di Nicea, il fanciullo Giovanni IV Lascaris, questa situazione potrebbe aver avuto un notevole peso nella scelta di campo del G., del quale non va dimenticata l'origine da una famiglia di tradizione signorile-militare; a tale scelta non dovette comunque essere estraneo il fatto che non risulta fossero ancora stati restituiti dal governo imperiale i già ricordati beni fondiari appartenenti alla famiglia Guercio presso Costantinopoli. Antichi legami di fedeltà, e soprattutto forti interessi economici, potrebbero dunque aver condizionato pesantemente le decisioni del G. alle quali, nonostante le plateali manifestazioni di dissociazione sopra ricordate, non si può escludere che abbiano concorso altri membri della casata; questo sospetto è rafforzato dal fatto che i Guercio furono tra i principali bersagli dei tumulti antinobiliari del 1265 a Genova, nel corso dei quali venne accidentalmente uccisa una cugina del G., figlia di Folco Guercio.
A rafforzare i sospetti circa il preteso isolamento del gesto del G. viene del resto la natura delle sanzioni che risultano essere state adottate verso di lui: respinta la richiesta dei congiunti di poter esercitare la loro giustizia privata, le autorità genovesi deliberarono infatti di applicare nei suoi confronti la pena del bando perpetuo, accompagnata da una multa di 10.000 lire di genovini. Si tratta certamente di una pena assai severa e di una multa rilevante, che appaiono però curiosamente sproporzionate e sostanzialmente inadeguate per un reato della gravità di quello commesso dal G., che rischiava di compromettere la politica estera perseguita fino a quel momento dal Comune complicando ulteriormente, con l'appoggio fornito allo scomunicato Manfredi, la posizione di Genova, già colpita da interdetto per l'alleanza col Paleologo, nei confronti del papa.
Anche l'atteggiamento del Paleologo, del resto, appare assai curioso: a dispetto dell'aperta confessione resa di fronte a numerosi testimoni, tra i quali lo stesso imperatore, non risulta infatti che il G. abbia subito particolari sanzioni da parte della giustizia imperiale per un reato di alto tradimento che, a rigor di logica, avrebbe dovuto condurlo direttamente sul patibolo. Sia che questo atteggiamento derivasse dalla volontà di non esasperare i Genovesi, sia che fosse connesso a protezioni e amicizie sulle quali il G. poteva ancora far conto presso la corte di Bisanzio, la sostanziale inerzia di un sovrano che in più occasioni aveva dimostrato di avere un carattere estremamente deciso suscita più di un dubbio. Si potrebbe infatti pensare che, in qualche modo, l'azione del G. - sia che fosse stata da lui direttamente promossa, sia che ne fosse venuto a conoscenza in tempo per sfruttarne abilmente le conseguenze - potesse rientrare nella trama di intrighi di Michele VIII per neutralizzare le eccessive interferenze genovesi e veneziane nella politica imperiale mantenendo i privilegi delle due potenze in una situazione continuamente instabile.
A rendere ulteriormente complesso lo scioglimento di questo intrico di dubbi e fatti discordanti interviene poi la assai probabile identità del G. con il personaggio dallo stesso nome che compare fra i membri del Consiglio chiamato a ratificare il trattato siglato il 12 ag. 1269 tra Genova e gli emissari di Carlo I d'Angiò, trattato nella cui elaborazione e ratifica altri membri della casata dei Guercio, come Nicola e Simone, avevano avuto un ruolo di rilievo. Siamo quindi di fronte a un enigma che l'assenza di documenti rende per il momento insolubile. L'unico fatto certo, sulla base delle evidenze documentarie, è che nel 1276 il G. si trovava, in qualità di ammiraglio di Acaia, al servizio del già citato principe di Morea Guglielmo II di Villehardouin, passato nel frattempo dal campo del caduto Manfredi a quello di Carlo d'Angiò.
Il fatto di trovarsi inserito nel campo del massimo campione del guelfismo trionfante era in plateale contraddizione con gli orientamenti politici genovesi del tempo, in quanto proprio il regime ghibellino dei due capitani del Popolo Oberto Doria e Oberto Spinola rappresentava il principale ostacolo all'affermazione dell'egemonia angioina in Italia, ma perfettamente confacente alle tradizioni familiari del G. e coerente con la posizione adottata dai suoi congiunti. Tuttavia, proprio nel giugno del 1276 si era giunti, sotto l'egida di papa Innocenzo V, a un accordo di pace accettato anche dal re, e pertanto la presenza del G. alla corte angioina di Napoli (probabilmente al seguito della giovane Isabella di Villehardouin, figlia del principe e moglie di Filippo d'Angiò, secondogenito di Carlo I) fra l'estate e l'inizio dell'autunno di quell'anno potrebbe essere stata assai meno estranea agli interessi generali di Genova di quanto possa apparire in un primo momento. Proprio a lui sarebbe toccato il compito, nell'ottobre di quell'anno, di portare al principe Guglielmo notizie più dettagliate sul tragico incidente del quale era rimasto vittima Filippo che, oltre a colpire profondamente re Carlo, privava il principato di Morea dell'erede designato al trono, avviandone il processo di devoluzione alla Corona napoletana destinato a compiersi nel 1278, alla morte di Guglielmo II.
Non abbiamo ulteriori notizie relative al G., ma è ipotizzabile che egli sia passato indenne anche attraverso questo rivolgimento politico, forse continuando a servire la politica imperiale concepita dall'ambizione di Carlo I verso l'Oriente.
Si ignorano il luogo e la data della sua morte.
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