GRASSO, Guglielmo
Le prime notizie di cui disponiamo su questo personaggio, nato probabilmente intorno alla metà del XII secolo, risalgono - stando alle affermazioni del Desimoni - a un testamento che sarebbe stato da lui dettato nel 1184. Grazie a questo e ad altri documenti, lo storico genovese ritenne di aver individuato tanto il nome della moglie del G., Romana, e del fratello di lei, Guglielmo Campanario, quanto l'ubicazione nell'area del castrum di alcune sue proprietà immobiliari in Genova. Tale identificazione, tuttavia, suscita non poche perplessità e potrebbe derivare da una confusione determinata da un caso di omonimia.
Se infatti furono dimostrate incontestabilmente già dallo stesso Desimoni l'infondatezza tanto della teoria, avanzata da K. Hopf, che voleva il G. figlio dell'ammiratus amiratorum Margarito da Brindisi quanto la possibile identificazione del G. con Guglielmo Porco, che ricoprì la carica di grande ammiraglio di Sicilia durante la prima parte del regno di Federico II, rimane tuttora insoluto il problema della precisa origine del personaggio, in quanto la forma cognominale Grassus, di evidente derivazione da un soprannome, appare assai diffusa nell'area ligure del tempo, tanto che dalla documentazione è stato possibile rilevare più omonimi coevi provenienti sia dalle Riviere, sia dalla stessa Genova, la cui compresenza rende oltremodo difficoltosa la ricostruzione degli aspetti non ufficiali della biografia del Grasso.
Non essendo stato possibile rintracciare il citato testamento del 1184 - per il quale non veniva peraltro indicata dal Desimoni alcuna segnatura archivistica - la questione rimane sostanzialmente aperta; ma in una pergamena conservata nel cartario del monastero genovese di S. Siro è riportato l'accordo stipulato il 17 marzo 1196 fra Richelda Campanaria e suo figlio Guglielmo da una parte e Guglielmo Grasso di Nervi dall'altra per la dote di Cara Campanaria, figlia di Richelda e futura moglie del Grasso (che potrebbe essere effettivamente il nostro personaggio). A rafforzare la tesi di una confusione ingenerata nel Desimoni dalla compresenza di vari omonimi coevi è poi la citazione, in un rogito del notaio Giovanni di Guiberto del 24 apr. 1206, di "Romana, uxor Wilielmi Grassi de Saona", moglie per l'appunto di un omonimo chiaramente distinto dal G. e documentato con sicurezza dal 1177 almeno fino al 1208.
Di chiara origine popolare e, se si accetta l'identificazione con il personaggio attestato nel citato contratto dotale del 1196, di provenienza da una delle pievi rivierasche vicine alla città, il G. appare comunque, fin dalle prime attestazioni documentarie a lui riferibili con una certa sicurezza, come membro attivo di quella classe di mercanti impegnati in commerci a largo raggio che all'epoca stava consolidando il ruolo di Genova nel panorama del grande commercio internazionale. Non è infatti del tutto certa, ma tuttavia assai probabile, l'identificazione con il personaggio che l'8 ott. 1186 presenziava alla stipulazione di un contratto dotale (documento che rappresenterebbe quindi la più antica attestazione attualmente reperibile relativa al G.) e alcuni anni dopo, il 25 febbr. 1190, era coinvolto in una transazione relativa a due carichi di pelli, uno proveniente da Ceuta e l'altro dalla Romania. Appaiono invece riferibili con maggiore sicurezza all'attività mercantile del G. alcuni rogiti del notaio Guglielmo Cassinese, composti fra l'aprile e il settembre del 1191, che lo presentano in attiva relazione con numerosi personaggi dell'ambiente economico genovese. In società con Gualtiero di Voltri egli stabilì in quel periodo rapporti d'affari con Oberto de Valdettaro e Guglielmo Rataldo, mercanti la cui attività è ampiamente testimoniata dalla documentazione; nella fattispecie, l'interesse economico del G. appare orientato, in concordanza con il citato atto del 1190, verso il commercio delle pelli e l'attività della loro concia, un settore che rivestiva un notevole rilievo nella bilancia commerciale della Genova del tempo.
Fu probabilmente proprio la sua partecipazione alle transazioni commerciali in questo settore a condurlo in Oriente, dove si trovavano alcune delle principali fonti di approvvigionamento della materia prima, nonché dell'allume, fondamentale per le attività di concia. Qui dovette avvenire però qualche evento traumatico - forse un rovescio finanziario connesso con il difficile momento attraversato dalle relazioni fra i Bizantini e i Latini - che determinò una svolta decisiva nelle sue attività, trasformandolo da pacifico mercante in temuto corsaro e comandante di mare.
Il passaggio da attività commerciali ad azioni di pirateria era del resto abbastanza comune nelle marinerie del tempo, e sono numerosi gli esempi di personaggi che alternavano l'esercizio della mercatura ad altrettanto lucrative attività piratesche o al comando di flotte ufficiali, tanto al servizio della propria patria quanto al soldo di potenze straniere, soprattutto nei momenti in cui l'attività economica tendeva a ristagnare, o quando era necessario rifarsi di perdite o torti subiti.
Qualunque sia stato il motivo che spinse il G. a intraprendere un'attività di questo tipo, in breve tempo egli divenne il terrore delle acque dell'Egeo prossime alla costa anatolica (area che, per la sua stessa conformazione geografica, si prestava in modo particolare all'esercizio dell'ars piratica), dove si mise a incrociare in cerca di preda con una flottiglia di navi, una delle quali comandata da un pisano oriundo di Bonifacio - noto nido corso di pirati -, e ad assalire navi lungo la costa meridionale dell'Anatolia, tra la Panfilia e l'Isauria.
Spostata la sua zona di operazioni più a occidente, il G. scatenò con i suoi complici un feroce saccheggio delle coste dell'isola di Rodi, nel corso del quale un gran numero di abitanti delle località aggredite venne ucciso e derubato di qualunque oggetto di valore. Poco dopo il G. compì due ulteriori attacchi che suscitarono un clamore ben maggiore dei precedenti e rischiarono di compromettere seriamente gli equilibri politico-diplomatici della regione.
Incontrato infatti un convoglio veneziano di ritorno da Alessandria, le navi del G. si avvicinarono pacificamente fingendo di voler chiedere rifornimenti di viveri ma, non appena si furono accostate sufficientemente, assalirono le navi mercantili catturandole con tutto ciò che trasportavano. I mercanti genovesi, pisani e veneziani trovati a bordo furono lasciati andare con le loro merci, ma quelli bizantini e siriani furono depredati; fatto ancor più grave, gli ambasciatori bizantini di ritorno da una missione diplomatica in Egitto e gli inviati del sultano egiziano, il Saladino, che li accompagnavano a Costantinopoli con ricchi doni per l'imperatore Isacco II Angelo - gioielli e coppe d'oro, spezie e profumi e inoltre cavalli, muli e animali esotici per quelle riserve di caccia che erano l'autentica passione del sovrano bizantino, per un valore complessivo che fu stimato in ben 6675 iperperi - furono uccisi e il prezioso carico rubato.
Un simile atto di violenza contro i rappresentanti diplomatici delle due potenze non poteva certo passare inosservato, e in effetti taluni storici hanno ravvisato in questo attacco un deliberato tentativo delle potenze occidentali di far naufragare quel riavvicinamento fra l'Impero bizantino e il Sultanato ayyubide d'Egitto che avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la sopravvivenza delle ultime roccheforti rimaste ai Latini in Terrasanta dopo la disastrosa sconfitta di Ḥaṭṭīn nel 1187 e il crollo del Regno di Gerusalemme, proprio nel momento in cui gli eserciti dei re di Francia e d'Inghilterra stavano finalmente soccorrendo ciò che rimaneva dei principati fortunosamente fondati dopo la prima crociata. In quest'ottica potrebbe inquadrarsi anche la cattura, avvenuta poco dopo, di un'altra ambasceria bizantina che, a bordo di una nave "longobardica", stava recandosi a trattare per conto dell'imperatore con l'usurpatore Isacco Comneno che aveva separato l'isola di Cipro dal resto dell'Impero; anche in questo caso venne fatta strage di coloro che si trovavano sulla nave, con le sole eccezioni di alcuni pisani e del vescovo di Paphos, capo della delegazione imperiale, il quale venne però tenuto prigioniero.
Il governo imperiale reagì con estrema durezza alla provocazione, che di fatto annullava il trattato di pace e collaborazione siglato pochi mesi prima con Genova, e si rivalse sulla comunità dei mercanti genovesi residenti a Costantinopoli. Questo tipo di rappresaglia non era usuale per la politica bizantina e forse per questo i Genovesi inizialmente pensarono di poter limitare i danni semplicemente negando qualsiasi complicità con il pirata, ma l'affronto subito era troppo grave anche per il debole Isacco II e a esso si aggiungeva il furto dei doni del Saladino e di altre merci, appartenenti in parte anche al fratello dell'imperatore, il sebastokrátor Alessio, per un valore complessivo di ben 96.000 iperperi, cosicché si scatenò un vero e proprio saccheggio dei magazzini commerciali e delle navi genovesi ancorate nel porto della capitale imperiale fino a quando i mercanti non si impegnarono a pagare immediatamente 20.000 iperperi quale anticipo sul risarcimento integrale del danno.
La gravità della situazione era tale che Genova si affrettò a inviare a Costantinopoli una nuova ambasceria, composta dagli stessi ambasciatori, Guglielmo Tornello e Guido Spinola, che erano riusciti a concludere l'accordo precedente, con l'incarico di tentare di sanare la controversia. Per fortuna dei Genovesi, i due diplomatici riuscirono a convincere l'imperatore della buona fede dei loro compatrioti, asserendo - secondo una linea difensiva che anche in seguito i governanti genovesi avrebbero spesso adottato in frangenti simili - che tanto il G. quanto i suoi complici erano stati da tempo banditi dalla città e che, in caso di loro cattura, non si sarebbe esitato a consegnarli alla giustizia imperiale e riuscendo quindi sia a far riconfermare la validità del trattato precedentemente stipulato, sia a far ridurre l'entità del risarcimento da pagarsi al governo imperiale.
Se però la versione ufficiale presentata a Costantinopoli era quella di un'assoluta estraneità genovese alle imprese del G., le vicende successive ci portano a concludere che l'atteggiamento del governo nei confronti del pirata dovesse essere ben diverso. Non abbiamo notizie infatti sulla sua attività negli anni 1193-95, durante i quali egli potrebbe anche aver unito le sue forze a quelle del famigerato Gafforio, la cui flotta pirata divenne il terrore della navigazione commerciale nell'Egeo; ma dopo il 1196, possibile data del suo matrimonio in Genova, se si accetta l'identificazione con il personaggio che compare nella citata pergamena del monastero di S. Siro, egli ricompare attivissimo in un nuovo settore di operazioni: le acque della Sicilia.
La partecipazione genovese alla campagna di conquista del Regno normanno scatenata da Enrico VI si era conclusa con aspri dissidi fra i Genovesi e l'imperatore, accusato di non aver mantenuto gli impegni che si era assunto in materia di privilegi commerciali, ma ciò non aveva impedito che singoli patroni genovesi continuassero a prestare servizio nella flotta imperiale; tra loro doveva trovarsi anche il G., il quale, resosi benvoluto al sovrano svevo, ottenne, in cambio dei propri servigi, il titolo di conte di Malta, al quale era tradizionalmente connessa la carica di ammiraglio di Sicilia. La morte improvvisa del sovrano dovette spingere il G. a rientrare per qualche tempo a Genova, e proprio qui egli venne contattato nel 1199 da Marquardo di Annweiler, l'antico gran siniscalco di Enrico VI che agiva ora per conto di Filippo di Svevia contro la reggenza siciliana insediata da Costanza d'Altavilla e Innocenzo III e guidata dal cancelliere del Regno, Gualtieri di Palearia. L'appoggio di una forza navale era infatti indispensabile per l'attuazione del piano d'invasione dell'isola elaborato da Marquardo il quale, con grande audacia, scelse di non seguire il consueto cammino di tutti gli invasori, attraverso lo stretto di Messina, ma di sbarcare a occidente, a Trapani, e da lì marciare direttamente su Palermo. La collaborazione del G. alla buona riuscita dell'operazione dovette risultare così determinante da valergli i personali fulmini di Innocenzo III, che in una lettera ai vescovi siciliani lo qualificò "non marinus latrunculus, sed latronem". La consueta ambiguità dell'atteggiamento del G. non tardò però a riemergere - forse grazie anche a sollecitazioni pervenutegli dalla madrepatria - e l'ammiraglio, dopo il rovescio subito da Marquardo nella battaglia di Monreale (luglio 1200), passò rapidamente nel campo del reggente, che gli confermò titoli e cariche e, probabilmente quale compenso per il cambiamento di bandiera, si affrettò a concedere ampi privilegi ai Genovesi nell'isola.
L'ultimo tradimento del G. non doveva però rimanere impunito: nel giro di pochi mesi, un nuovo rovesciamento della situazione vide il prevalere di Marquardo, che entrò da trionfatore in Palermo catturando, oltre al piccolo re Federico II, anche numerosi suoi oppositori, tra i quali il Grasso. Nonostante l'impegno profuso da Genova per ottenere la sua liberazione, anche attraverso l'invio di una galea sotto il comando personale del console Guglielmo Embriaco, il G. rimase in carcere fino alla morte, avvenuta nel 1201.
Le fortune dei suoi familiari non furono però compromesse: alla morte di Marquardo, nel 1202, Gualtieri di Palearia, tornato padrone della situazione, non mancò di riconfermare i titoli di conte di Malta e ammiraglio di Sicilia al genero del G., quell'Enrico Pescatore che nel decennio successivo avrebbe ripreso, su scala più ampia, le imprese e la politica del suocero.
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