Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Guglielmo di Ockham, filosofo francescano del XIV secolo, è un sostenitore della radicale singolarità del reale. La sua filosofia si presenta come un empirismo antiplatonico. Grazie a una semantica elaborata, Ockham identifica l’universale con un segno mentale e lo riconduce allo stesso atto di intendere. In ambito teologico sostiene la netta distinzione tra dato razionale e dato rivelato e fonda la propria visione etica sulle nozioni di volontà, libertà e amore. A livello della filosofia della natura, infine, elabora una metodologia originale, un principio di economia, conosciuto ancora oggi come “rasoio di Ockham”.
Guglielmo di Ockham
“Segno” può essere preso in due modi: in un primo modo segno è tutto ciò che, una volta appreso, fa venire in mente qualcos’altro, benché non riporti la mente alla prima conoscenza di quella cosa, come si è dimostrato altrove, ma faccia conoscere attualmente una cosa già conosciuta abitualmente. In questo modo ogni parola significa naturalmente, esattamente come ogni effetto significa almeno la sua causa e come il cerchio significa il vino in un’osteria. Ma qui non intendo far uso di un’accezione così generale di segno. In un secondo modo è detto segno ciò che fa conoscere qualche realtà ed è nato per stare al posto di essa o per aggiungersi ad essa in una proposizione, come nel caso dei sincategoremi e dei verbi e di quelle parti del discorso che non hanno un significato preciso, oppure ciò che risulta dalla composizione di tali parti, come nel caso del discorso. Se “segno” viene preso in questa seconda accezione, la parola non è segno naturale di nulla.
Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti , Firenze, Nardini, 1991
Guglielmo di Ockham
Affermo che esistono dei concetti comuni a Dio e alle creature, che si predicano di essi quidditativamente e per sé nel primo modo. Per dimostrare questo assunto, dimostrerò per prima cosa che Dio non può essere conosciuto in se stesso, in modo che la stessa essenza divina funga da tramite immediato dell’atto di conoscenza, senza che alcuna altra cosa vi concorra in veste di oggetto. In secondo luogo, dimostrerò che Dio non può essere conosciuto dall’uomo, nella sua attuale condizione, in un concetto semplice proprio solo di lui. In terzo luogo, dimostrerò che Dio può essere conosciuto dall’uomo in un concetto comune predicabile di lui e di altre cose. In quarto luogo, dimostrerò che un simile concetto, in cui Dio può essere conosciuto da noi, è un concetto quidditativo. In quinto luogo, da queste premesse concluderò che c’è un concetto predicabile quidditativamente e per sé nel primo modo di Dio e delle creature.
in Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Firenze, Nardini, 1991
“Ockham” designa il Paese in Inghilterra dove Guglielmo nasce nel 1280. Entra nell’ordine dei Frati minori e studia all’Università di Oxford. Nel 1324 viene denunciato come sospetto di eresia alla corte papale, che in quel periodo era ad Avignone, dove viene convocato per essere giudicato da una commissione. Dopo aver ottenuto un primo referto benevolo dalla commissione cui faceva parte anche Pietro Aureolo, viene successivamente incriminato. Nel 1327 arriva al convento dei Frati Minori di Avignone il Ministro generale dell’ordine Michele da Cesena, convocato dal papa per rendere ragione della difesa da parte dei Francescani della tesi dell’estrema povertà di Cristo e degli apostoli. Il 26 maggio 1328 Michele da Cesena, Guglielmo di Ockham e alcuni confratelli fuggono da Avignone, raggiungono l’Italia e a Pisa incontrano l’imperatore Ludovico il Bavaro, con il quale nasce un sodalizio. La leggenda narra che Ockham avrebbe detto a Ludovico: “Tu mi difenderai con la spada e io con la penna”. Guglielmo segue l’imperatore alla sua corte a Monaco di Baviera, dove muore nel 1349, pare vittima della peste.
La vita di Ockham per quanto riguarda le opere si può dividere in due momenti: fino al 1328 scrive di logica (Expositio in librum Porphyrii, in librum praedicamentorum, in duos libros perihermeneias, in duos libros elenchorum; Summa logicae), filosofia e teologia (Expositio super Physicam Aristotelis; Philosophia naturalis; Ordinatio; Reportatio; Quodlibeta septem; De sacramento altaris; Tractatus de praedestinatione et de praescientia Dei et de futuribus contingentibus; De relatione), di carattere didattico e speculativo; dopo il 1328 scrive di ecclesiologia (De dogmatibus papae Johannis XXII; Tractatus contra Benedictum XII; Compendium errorum papae Johannis XXII) e di dottrina politica (Opus nonaginta dierum; Dialogus; Octo quaestiones; Breviloquium de potestate papae; De imperatorum et pontificum potestate).
Ockham si presenta come un difensore dell’individuo, di una ontologia del singolare. Il singolare è, per lui, il primo sia nell’ordine dell’essere che nell’ordine del conoscere. La singolarità è il modo più radicale di essere da parte dell’ente; è immediata ed evidente, quindi né derivabile né dimostrabile. Molte formule sono state coniate per qualificare globalmente la posizione ockhamista: disincanto ontologico (P. Alféri), spogliamento linguistico del mondo (R. Paqué), criticismo e scetticismo (K. Michalski), pansemiotismo (U. Eco). L’insieme della sua filosofia, comunque la si voglia etichettare, costituisce una dottrina empirista ed antiplatonica, articolata su un realismo gnoseologico (intendendo realismo nel senso moderno del termine, per il quale il reale è accessibile e conoscibile direttamente) e un antirealismo ontologico (realismo qui invece assunto nel senso medievale del termine, anteriore o posteriore allo stesso Ockham, che afferma l’esistenza di cose universali, siano esse di stati di cose od oggettività ideali).
La tesi di Ockham è essenzialmente semantica: egli lega in modo indissolubile psicologia cognitiva, teoria del segno e teoria della referenza. L’universale non è una cosa, ma un concetto. Il concetto è un segno, referenziale, che rinvia a una pluralità di oggetti singolari. Prodotto da un atto di intellezione, il concetto è un accidente reale dello spirito, una qualità dell’anima, un termine di natura cognitiva che non ha una esistenza oggettiva (a titolo di puro e semplice oggetto intenzionale), ma solamente una esistenza soggettiva in anima, vale a dire in quanto qualità realmente inerente ad un soggetto: l’anima appunto. La soggettività così definita è la soggettività del sinolo aristotelico, la soggettività della sostanza singolare composta di materia e forma e dotata di accidenti o di proprietà. Tale qualità, questo accidente mentale che è il concetto, intrattiene un rapporto di somiglianza (similitudo) con le cose che rappresenta. Per Ockham questo è un rapporto di significazione naturale. Ogni concetto universale dunque può essere definito come un segno naturale, vale a dire come un termine mentale che significa molte cose di cui fa le veci nelle proposizioni mentali che, a loro volta, costituiscono il linguaggio mentale, al quale sono subordinati il linguaggio parlato e il linguaggio scritto, entrambi convenzionali.
La conoscenza umana è condizionata dal contatto diretto o indiretto con qualche oggetto o dato di esperienza. La conoscenza può essere distinta in intuitiva o astrattiva. È intuitiva quando si ha apprensione immediata dell’esistente individuale; tale conoscenza ha nell’oggetto la sua causa e precede ogni altra conoscenza. È astrattiva quando coglie l’oggetto semplicemente considerato come oggetto, prescindendo dalla sua esistenza o non esistenza.
Come si passa allora dalla conoscenza intuitiva del singolare alla conoscenza degli universali, delle specie e dei generi?
Ockham propone una soluzione originale a questo problema cruciale dell’epistemologia medievale: l’apprensione della specificità di una cosa accade contemporaneamente all’apprensione della cosa stessa.
La conoscenza intuitiva di una cosa singolare produce due notizie nello spirito: la notizia propria della cosa appresa e la notizia della specie cui essa appartiene. L’intuizione del singolare è così ad un tempo empirica ed eidetica (vedendo quest’uomo io vedo un uomo). L’unico problema è il passaggio dalla conoscenza della specie a quella del genere.
Per Ockham si rimane nell’ambito della conoscenza intuitiva: laddove la conoscenza specifica reclamava un atto di conoscenza vertente su un’unica cosa, la conoscenza generica reclama più intuizioni di cose appartenenti a specie diverse. C’è dunque la produzione di un concetto universale generico quando da una serie di atti conoscitivi relativi a una varietà di cose singolari che producono delle notitiae (intuitive e astrattive di primo tipo) di cose che sono tra loro simili per caratteristiche generiche, lo spirito produce un unico concetto mentale, capace di orientare verso una serie di cose accomunate dalla somiglianza nei caratteri generici. Per Ockham questa produzione è pressoché spontanea e sembra confondersi con la nozione e la realtà stessa dell’esperienza.
Alla conoscenza intuitiva del singolare, Guglielmo oppone la conoscenza detta astratta, che apprende le cose a prescindere dal fatto se esistano o meno: una conoscenza senza portata epistemologica reale, che si confonde più o meno con la capacità di immaginare una cosa in sua assenza.
Il ripiego della conoscenza astratta sull’immaginazione, il rifiuto della concezione scotista di un’apprensione dell’essenza indipendentemente dall’essere reale, il primato della conoscenza intuitiva implicano la riduzione dell’ontologia e la neutralizzazione della distinzione tra essenza ed esistenza. Essere, essenza ed esistenza, non sono cose distinte, ma sono modi di dire la stessa cosa, il singolare, la loro differenza non è che grammaticale. Nell’ordine della conoscenza naturale l’intuizione di una cosa, quella della sua essenza e quella della sua esistenza non si distinguono. Tutto ciò che costituisce una cosa concreta è indiscernibilmente un’essenza e un’esistenza: un’essenza individuale concreta.
In ambito logico Ockham approfondisce particolarmente la dottrina della suppositio elaborata all’interno dello studio delle proprietà dei termini sviluppato dalla logica Modernorum, definendola “proprietà che un termine ha di stare al posto di altro all’interno di una proposizione”. Tre sono i tipi principali di supposizione. La supposizione materiale (quando un termine non ha una funzione significativa, ma rappresenta il suono materiale o il segno scritto o la funzione grammaticale; per esempio la parola “uomo” nella proposizione: “uomo è una parola di quattro lettere”), semplice (quando il termine rappresenta un concetto, come il termine uomo nella proposizione “uomo è una specie”) e personale (caratterizzata dalla significatività, quando un termine indica l’individuo significato; per esempio il termine “uomo” nella proposizione “quest’uomo corre”). Tale teoria permette di decidere in che misura le proposizioni esprimono adeguatamente i rapporti sussistenti fra gli oggetti designati dai termini. In questo modo Ockham si sgancia dall’interpretazione scolastica di verità come adeguazione di intelletto e realtà, insistendo sul suo significato logico-semantico: la verità è una proposizione vera, la falsità una proposizione falsa. E una proposizione è vera non quando c’è identità reale tra soggetto e predicato, ma quando i termini che fungono da soggetto e da predicato suppongono per la medesima realtà. Ciò dipende dalla funzione segnica dei termini: essi non hanno valore per se stessi, quanto in riferimento alle cose che significano. Vero e falso sono dunque dei termini connotativi che significano proposizioni, connotando l’esistenza attuale o potenziale di cose la cui esistenza non dipende dall’essere in un contesto sintattico vero o falso, ma dalla cui esistenza può essere determinata la verità o la falsità di tali proposizioni.
Funzione significativa dei termini e attitudine supposizionale sono dunque naturali e, come tali, non hanno bisogno di essere giustificate. La capacità dell’intelligenza umana di attingere la realtà è garantita dall’essenziale funzione significativa dei concetti e dalla loro attitudine a stare al posto delle cose all’interno di un contesto sintattico.
Per Ockham l’oggetto primo dell’intelletto, rispetto alla priorità di origine, è costituito dal singolare, che viene colto con un’intuizione. L’esperienza attesta che il singolare entra nella conoscenza intellettiva; se il singolare può essere percepito immediatamente come tale dai sensi, a maggior ragione si deve affermare che può essere colto dall’intelletto, che è una facoltà conoscitiva più perfetta. Dal punto di vista dell’adeguazione, invece, l’oggetto primo del conoscere è l’ente, in quanto concetto univoco generalissimo. Infatti l’unico atto conoscitivo con cui l’uomo pensa l’ente, gli permette di riferirsi a tutti gli oggetti che possono entrare nel suo orizzonte conoscitivo. L’ente apre l’intelletto sulla totalità degli intelligibili. Quindi il primo atto conoscitivo umano si identifica con l’apprensione di un concreto esistente, ossia con l’intuizione a un tempo sensibile e intellettiva di una realtà singolare. Pur sottolineando che l’essere non è mai intuito, Guglielmo sostiene che l’intelletto si forma, nello stesso istante in cui conosce qualcosa di singolare, il concetto universalissimo di ente, ossia di quella positività che è comune a tutte le cose. Ente significa qualunque cosa che entra nell’universo empirico, e di conseguenza ogni individuo; è un concetto univoco generalissimo, atto a rappresentare tutte le cose, senza con ciò importare nulla di preesistente a ciò rispetto cui è univoco.
In ambito teologico, Ockham sostiene la netta distinzione tra dato razionale e dato rivelato: Dio non rivela all’uomo delle verità che l’uomo già conosce o che può conseguire utilizzando la ragione, ossia grazie a uno strumento idoneo a conoscere la verità che in ultima analisi proviene da Dio, il quale creando l’uomo l’ha provvisto della razionalità. Se Dio ha rivelato all’uomo alcune verità, significa che l’uomo da solo non poteva raggiungerle. Dio infatti non opera cose inutili. Data l’eterogeneità radicale tra fede e scienza, segue che le verità di fede non possono diventare oggetto di dimostrazione razionale, in quanto per poter dimostrare un articolo di fede occorrerebbe renderlo evidente.
Dal momento che generalmente le verità di fede sono quelle in cui Dio funge da soggetto deriva che per poter acquisire l’evidenza di tali proposizioni l’uomo dovrebbe essere in grado di formarsi un concetto semplice proprio di Dio. Ciò però è impossibile, in quanto Dio è al di là della conoscenza intuiva. L’uomo nella sua condizione storica può infatti avere di Dio solo un concetto comune a Dio e alle creature. L’uomo cioè non ha un concetto quidditativo di Dio, ma solo una sua rappresentazione nominale. A proposito delle verità rivelate non si possono elaborare dimostrazioni che impongono l’assenso incondizionato, ma si possono formulare esclusivamente delle argomentazioni persuasive, ossia dei ragionamenti probabili. Ciò impedisce a Ockham di accettare le prove elaborate a proposito dell’esistenza di Dio così come alcune verità considerate acquisibili razionalmente, come gli attributi divini o l’immortalità personale dell’uomo. La ragione umana può solo arrivare all’affermazione della trascendenza, a un discorso limitato alle condizioni esistenziali dell’uomo. La teologia razionale può quindi elaborare solo un discorso minimale e imperfetto su Dio, avvertendo la ragione a non andare oltre le sue possibilità nel discorso teologico: quello che essa scopre di Dio è davvero ben poca cosa rispetto a quanto Dio rivela di se stesso. Il Dio dei filosofi non è il Dio cristiano della rivelazione, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ockham richiama a più riprese l’onnipotenza divina distinguendo una potenza assoluta (Dio può fare tutto ciò che non include contraddizione) e potenza ordinata (Dio può fare tutto ciò che è compatibile con l’ordine e le leggi dell’universo da lui istituito), sottolineando così che l’ordine reale non adegua pienamente l’ordine ideale. Ossia l’universo attuale, caratterizzato dalla contingenza, non esaurisce tutta la capacità divina ad extra: Dio può fare molte cose, sebbene non tutte esistano realmente.
Per quanto riguarda l’ambito della filosofia della natura, Ockham è famoso per aver elaborato un nuovo metodo conosciuto, poi, come “rasoio di Ockham” o “principio di economia”, che recita: “si fa inutilmente con molte cose ciò che si può fare con poche”. In base a tale assunto si deve scegliere la spiegazione più semplice, che solitamente si accorda con l’esperienza immediata, piuttosto che una complicata, che ricorre a processi non verificabili empiricamente. Ockham si interessa alla natura in quanto oggetto di esperienza sensibile e fonte originaria della conoscenza. Alcune sue tesi si presentano come anticipatrici. Guglielmo riduce la quantità alla sostanza o alla qualità, in quanto essendo un termine connotativo, designa principalmente la sostanza e le qualità materiali e indirettamente indica l’esteriorità delle loro parti. Ockham inoltre nega la realtà del movimento, distinta dalla realtà del corpo che si muove e dello spazio in cui si muove. Così pure il tempo non ha alcuna realtà extramentale distinta da quella delle cose che si muovono e può essere definito aristotelicamente come la misura del moto secondo il prima e il poi. Il tempo quindi è una realtà mentale e implica tutte le cose che sono contenute nel concetto di moto e in più denota l’attività della coscienza umana che misura il movimento. Ponendosi invece contro Aristotele, Ockham ammette la possibilità di più mondi, facendo riferimento all’onnipotenza divina. Da ciò deriva la non assurdità dell’esistenza attuale di una molteplicità infinita. Per Ockham con la filosofia si può guadagnare il concetto di infinito potenziale, ossia di una infinità estensiva quale può essere quella di una potenza che sia indefettibile nella durata e che produca un numero indefinito di effetti.
Riguardo la sfera antropologica, Ockham sostiene che la natura dell’uomo sia profondamente unitaria, data dalla composizione di corpo e anima. Fedele alla tradizione francescana, Ockham afferma la pluralità delle forme nell’uomo. In ciascun individuo c’è una forma intellettiva, che conferisce all’uomo la capacità di ragionare e volere; una forma sensitiva, che qualifica il corpo umano come vivente; una forma della corporeità, che dà al corpo unità e identità.
La caratteristica principale dell’uomo è la libertà, intesa non solo come possibilità di opzione, ma anche come capacità di autodeterminazione.
I motivi dominanti del pensiero etico ockhamista sono la libertà e l’amore.
“Libertà” è un termine connotativo che designa la volontà umana in quanto dotata della capacità di produrre effetti contrari; la libertà perciò non sta nell’atto intellettivo, ma coincide con la volontà e la volontà, di conseguenza, è intesa come una potenza intrinsecamente attiva, che vuole o non vuole qualcosa di concreto. Essa resta sempre libera di volere o di non volere ciò che la ragione le propone; la volontà costituisce l’ambito della prassi e della moralità. La volontà risulta libera anche di fronte al fine ultimo, lo può volere o non volere anche nel caso in cui tale fine ultimo sia colto intuitivamente. L’esperienza attesta che esistono uomini che possono rinunciare alla felicità in generale, e quindi che l’uomo è libero di volere o non volere la felicità. Poiché non è possibile conoscere con la sola ragione il fine ultimo delle cose partendo dalla loro natura, non è possibile fondare filosoficamente l’etica, ma solo teologicamente.
È infatti la rivelazione a indicare all’uomo che il suo fine ultimo è Dio, insegnando così che Dio deve essere amato in sé e per sé e di conseguenza che l’imperativo morale: “fai il bene ed evita il male” si deve tradurre nell’imperativo: “agisci sempre in conformità alla volontà divina”. La norma morale oggettiva è dunque costituita dalla volontà di Dio che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male. Spetta all’uomo sottomettersi alla volontà divina. La norma soggettiva della moralità, quella che fa sì che l’azione che il soggetto compie in un preciso momento sia un’azione moralmente rilevante, è la retta ragione, costituita dall’atto con cui la volontà del soggetto vuole quell’azione in quanto è voluta da Dio. La ragione naturale riconosce che, se esiste un Dio che ha le caratteristiche del Dio biblico, è razionale amarlo sopra ogni cosa e seguirne i precetti. Sono quindi moralmente buone solo le azioni cui l’uomo intende dare una testimonianza d’amore verso Dio. Per rendere morale un’azione è decisivo il peso della volontà di amare Dio, ossia il volontarismo di Ockham può essere definito un’etica dell’amore. Ponendo nella volontà di Dio il fondamento ultimo della moralità, Ockham non intende l’agire morale come un sottomettersi alla legge imposta da una volontà impersonale, quanto piuttosto come l’accettazione di una normativa stabilita da una persona nella quale sapienza, bontà e giustizia si identificano. L’uomo raggiunge la felicità piena e completa soltanto unendosi a Dio attraverso la conoscenza e l’amore.
Gli ultimi vent’anni della vita di Ockham sono dedicati all’elaborazione di un pensiero politico incentrato sulla controversia contro le posizioni ufficiali della curia avignonese, in particolare circa la povertà evangelica e la natura di papato e impero. In primo luogo Ockham analizza e critica la tesi di Giovanni XXII, che condannava la dottrina francescana della povertà, secondo cui l’ordine ha solo l’uso dei beni e non la sua proprietà. Per Guglielmo, da un punto di vista sia filosofico sia teologico la proprietà privata è un diritto naturale e l’uomo può rinunciarvi volontariamente, riallacciandosi così allo stato d’innocenza originario.
Ockham prende poi posizione contro la concezione teocratica sancita dalla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII in cui si rivendica la subordinazione del potere temporale a quello papale. Partendo dall’affermazione per cui la legge di Cristo è legge di libertà, Ockham afferma che il papato non ha il potere assoluto né in campo politico né in campo spirituale: il potere papale non è di dominio, ma di servizio. La Rivelazione e la storia testimoniano non solo l’esistenza, ma anche la riconosciuta legittimità di ordinamenti politici e sociali vigenti anche presso popoli pagani. Il potere civile infatti risulta essere frutto di un’istituzione dell’uomo, che con la sua ragione ha individuato la convenienza dell’istituto dell’autorità; lo stesso si può sostenere circa l’origine della proprietà privata: Dio ha concesso all’uomo di appropriarsi dei singoli beni, originariamente comuni, per porre rimedio alle conseguenze negative legate al peccato originale. Potere e proprietà non si fondano sulla natura umana (che per Ockham è un’astrazione in quanto esistono i singoli uomini, non la natura umana), ma su un dato di fatto, ossia sull’incapacità riconosciuta dell’uomo di vivere in pace da una parte senza qualcuno che faccia le leggi e le faccia rispettare da tutti, e dall’altra senza il regime privatistico dei beni. L’istituzione dell’autorità non è però necessaria in senso assoluto in quanto è possibile ipotizzare che, in una società di uomini capaci di dominare con la propria ragione passioni ed egoismi, non sia necessario ricorrere all’esercizio dell’autorità (ognuno sarebbe legge a se stesso) e della proprietà (ognuno attingerebbe ai beni di tutti secondo le proprie necessità). È la ragione dell’uomo che ha il compito di valutare la convenienza di istituire l’autorità; ma è Dio che ha conferito all’uomo la ragione per ideare le forme necessarie e utili per vivere in modo ordinato e pacifico. In ultima analisi si dovrà dire che l’istituzione dell’autorità, come quella della proprietà privata, in quanto è dettata dalla ragione, deriva da Dio, sebbene solo indirettamente. La natura crea tutti gli uomini uguali, cosicché nessuno può vantare di sua iniziativa dei poteri sopra un suo simile. L’unica eccezione è rappresentata dall’autorità del marito sulla moglie e del padre sui figli: per Ockham l’autorità maritale e quella paterna sono volute da Dio e dalla natura per lo sviluppo di quella società naturale che è la famiglia, pertanto devono essere ritenute necessarie qualunque siano le condizioni storiche in cui può trovarsi l’umanità.
L’ingresso delle opere di Ockham nell’università di Parigi non avviene in modo indolore. La Summa logicae è conosciuta verso la fine degli anni Venti del XIV secolo e già nel 1330 nella Facoltà delle Arti si sviluppa un movimento ockhamista talmente vigoroso da portare nel settembre del 1339 al divieto dell’insegnamento delle dottrine di Ockham in pubblico o in privato.
Il 29 dicembre 1340 viene promulgato uno statuto universitario di toni decisamente antinominalisti.
Malgrado le restrizioni di tali statuti, la gnoseologia di Ockham trova largo seguito, viene studiata e approfondita, oltre che criticata. Le dottrine definite nominaliste nel XIV secolo infatti non sono delle semplici risposte a proposito del problema degli universali, ma esplicitano una teoria della conoscenza strettamente legata a una teoria del segno naturale mentale e una riduzione dell’esistenza reale al solo individuo.
Il nominalismo del XIV secolo esprime dunque l’esigenza di riformulare con rigore logico-linguistico molte questioni metafisiche, liberandole dal peso delle ipostatizzazioni cui alcuni scolastici avevano fatto ricorso con una certa intemperanza, e far emergere un aristotelismo purificato dalle contaminazioni neoplatoniche arabe e latine. Grazie a una approfondita semantica dei termini, sorretta da una logica puntuale e al costante richiamo al dato di esperienza, anche mediante l’uso del principio di economia, i maestri nominalisti elaborano un modello di filosofia che non è una semplice risposta al problema degli universali ma coinvolge una logica e una epistemologia connesse con un preciso modello di razionalità.
Se il primato spetta alle realtà individuali concretamente esistenti, non si può dire che i nominalisti neghino il valore di questa realtà per il fatto che riducono gli universali a concetti che significano la realtà.
L’esperienza attesta l’esistenza degli individui e non quella dell’ordine reale delle classi, tant’è vero che i singoli individui, pur fondando la legittimità dei raggruppamenti concettuali in classi di generi e di specie, nella realtà vivono e muoiono secondo i tratti della singolarità, contraggono cioè la loro nuda esistenza individuale, la sviluppano e la depongono in modo del tutto autonomo rispetto alle esistenze degli individui dello stesso genere e della stessa specie.