DE PERNO, Guglielmo
Nato da Nicolò probabilmente intorno al 1388, appartenente al ramo cadetto di una famiglia di patrizi siracusani che annoverava tra i suoi membri senatori e milites, fu avviato, secondo la tradizione, agli studi di diritto. Suo maestro fu l'arcivescovo palermitano Ubertino De Marinis, noto feudista. Nel 1405 ricevette un sussidio di 6 onze (riconfermato per gli anni successivi) per andare a studiare diritto civile presso l'università di Bologna, dove fu allievo di Bartolomeo da Saliceto. Il padre, Nicolò, morì quando il figlio era ancora studente, comunque prima del 1410. Da quest'anno il D. continuò gli studi a Padova, università allora frequentata da un gran numero di siciliani, e qui conseguì il 2 marzo 1412 la licentia privati exantinis; il 12 dello stesso mese gli furono consegnate le insegne del dottorato. Si presume che si sia fermato qualche anno ancora nel continente a esercitare l'insegnamento, poiché risulta che ritornò in Sicilia verso il 1415-16.
Iniziò nell'isola una intensa carriera nella magistratura ricoprendo diverse cariche presso gli organi giudiziari centrali del Regno e della Camera reginale e presso tribunali cittadini (Noto, Catania). Il primo incarico gli fu affidato nel 1418, allorché fu nominato avvocato fiscale della Regia Gran Corte in sostituzione di Adamo Asmundo, impegnato in altri servizi per conto del sovrano. Nel 1420 era giudice a Catania e nel 1421 ricevette l'incarico di sindacare gli ufficiali uscenti di Trapani, Monte San Giuliano, Salemi, Sciacca e Corleone (si trattava di controllare il loro operato nell'ufficio che avevano ricoperto). Contemporaneamente dovette dare esecuzione a una sentenza di confisca dei beni emanata nei confronti della famiglia del "ribelle" Filippo Chiaramonte. Giudice della Gran Corte reginale, dal 1423 fu accusato di non essere stato imparziale nella decisione di una lite e venne rimosso dalla carica nel 1425. Il D. fu costretto a recarsi in Aragona presso la regina Maria, reggente per il marito, per discolparsi e per qualche tempo la sovrana tenne nei suoi confronti un atteggiamento freddo e riservato.
Frattanto il D. aveva ottenuto la cittadinanza di Catania (1428) e aveva continuato a godere della fiducia del re Alfonso V d'Aragona e del viceré. Continuano infatti ad essergli affidati incarichi come giudice in cause particolari (1429) e finanziariamente doveva trovarsi in ottime condizioni, tanto che prestò alla corte la somma di 50 onze, che gli sarebbe stata rimborsata solo diversi anni più tardi. Nel 1431 comunque la regina tenne ad affidargli un incarico delicato, quello di trattare e decidere una causa nella Gran Corte reginale, dove i processi solevano andare troppo per le lunghe. Ormai però il D. era chiamato sempre più spesso a ricoprire posti nelle magistrature del Regno, in specie come giudice della Gran Corte (1442, 1444). Nel 1442 fu altresì incaricato di curare la riscossione delle rate di donativo dovute dagli arcivescovi di Cefalù e Patti, dall'archimandrita di Messina e da alcuni grossi feudatari del Catanese e del Messinese.
Qualche anno più tardi, ormai anziano e stanco (forse ammalato), il D. cercò di avvicinarsi alla sua città di origine, e nel 1451 si fece nominare giudice delle prime appellazioni a Noto. Morì probabilmente sul finire di quell'anno, poiché nei primi del 1452 venne nominato al suo posto il siracusano Antonio Mantello.
Aveva sposato Novella Schifano, appartenente a una nobile famiglia di Lentini, e ne aveva avuto due figli, Giovanni Nicolò e Ruggero. Attraverso la moglie il D. poté realizzare l'aspirazione comune a tutti gli uomini di legge, di entrare a far parte dell'aristocrazia terriera e feudale. Ottenne infatti, proprio in considerazione dei servizi da lui resi al sovrano, che la moglie nel 1445 venisse investita della terza parte pro indiviso dei tenimenti di Fiumetorto e Raja, territorio di Castronovo (vendutale nel 1428 dalla madre Desiata, vedova di Giovanni Schifano), con la facoltà di trasmetterli agli eredi. Giovanni Nicolò infatti ne fu investito nel 1478. Novella possedeva inoltre, in comune con il cugino Onofrio Bonzuli, i feudi di Malinventre, Cuba e Sparagogna, in territorio di Centuripe. Nei primi del secolo XVI Giovanni Benedetto De Perno, figlio di Ruggero, sarebbe restato unico possessore di Malinventre, previo accordo con i Bonzuli.
Il D. aveva alternato gli uffici pubblici con la professione di avvocato e con l'attività di trattatista. Egli stesso raccolse e ordinò la sua produzione dividendola in quattro volumi, che contenevano, il primo, i Consilia pheudalia (pervenuto incompleto e tuttora inedito); il secondo, cinquanta "trattati" (trattazioni) su argomenti diversi, di cui ci è pervenuta solo una parte (i Tractatus de rege, De principe ac de regina, le Interpretationes ai capitoli Si aliquem e Volentes, e forse i Notabilia pheudorum); il terzo, anch'esso perduto, il Repertorium in iuris apicibus, e il quarto, il Commento alle Consuetudini di Siracusa.
Quest'opera, la più importante e la più nota del D., completata nel 1447, si conserva tuttora manoscritta in diversi esemplari, posseduti uno dalla Biblioteca del Seminario arcivescovile di Siracusa, uno dalla Biblioteca nazionale di Palermo, uno dalla Biblioteca nazionale di Roma e uno, incompleto, dalla Biblioteca universitaria di Catania. Nel Seicento lo storico siracusano Cesare Gaetani aveva lasciato al collegio dei gesuiti di quella città un legato destinato alla pubblicazione dell'opera, ma l'iniziativa non ebbe seguito; e Vito La Mantia, pubblicando nell'anno 1900 le Consuetudini di Siracusa, ha dedicato solo brevi accenni al commento del De Perno.
Sul valore della sua opera i giudizi non furono subito concordi. Parte della dottrina lo considerava il maggiore trattatista del secolo XV in materia feudale: nel secolo successivo Pietro De Gregorio lo definì "summus inter modernos siculos feudista". Non è invece positivo il giudizio di Rosario Gregorio che nella sua Introduzione allo studio del diritto pubblico siciliano (1794) lo accusa in pratica di mancare di rigore e di metodo, sovraccaricando le sue opere di citazioni spesso inutili, con stile di avvocato piuttosto che di studioso, e lo accusa inoltre di scarsa coerenza nell'enunciazione delle proprie teorie. Tale giudizio comunque è ritenuto troppo severo dalla critica moderna, che invece riconosce al D. il merito di avere apportato un reale contributo alla evoluzione della dottrina, in particolare per quanto concerne l'interpretazione del capitolo Volentes, con la quale dà una solida base teorica alle pressanti istanze di carattere politico concernenti il frazionamento e l'alienabilità dei feudi.
Opere: XXIIII Consilia pheudalia, et in medio De principe, de rege deque regina tractatus, atque pheudorum nonnulla notabilia; nec non super duobus huius Regni Siciliae capitulis, quorum alterum incipit "Si aliquem", alterum vero "Volentes", ac super aliquibus etiam pragmaticis, et privilegiis interpretatio, Messanae 1537, Lugduni 1553, Venetiis 1573 e 1601; Volumen consiliorum. Consilia super consuetudinibus civitatis Syracusarum. Cons. 85, 114, 123, in A. Romano, Giuristi siciliani dell'età aragonese, Milano 1979, pp. 83-143.
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