DE MARI, Guglielmo
Era figlio del console Angelerio (e quindi fratello di Ansaldo, ammiraglio della flotta dell'imperatore Federico II), ucciso da Lanfranco Della Turca nel 1187, nel corso delle lotte intestine tra i partiti cosiddetti "De Volta" e "De Curia" che insanguinarono la città di Genova nella seconda metà del XII secolo, minandone le istituzioni. Come quella del padre, anche la vita del D. era segnata fin dalla prima giovinezza dagli effetti di faide lunghe e accanite persino all'interno della stessa famiglia. La sua biografia si presta quindi molto bene a caratterizzare la nobiltà genovese del Duecento, in lotta costante per mantenere o per impadronirsi delle principali cariche del potere comunale.
Non conosciamo l'esatta data di nascita del D. né sappiamo molto della sua giovinezza, ma le scarse notizie che si possono trarre dagli atti notarili attestano - sia pur con qualche sospetto di omonimia - la sua partecipazione alla vita economica genovese.
Tuttavia nel 1227il D. assunse improvvisamente un ruolo di primo piano sulla scena politica genovese, mettendosi alla testa di una vasta congiura ("conjurationem maximam et potentem"), appoggiata anche da altri nobili esclusi dagli uffici e dai Consigli pubblici e della quale, però, almeno a detta del cronista Maestro Baftolomeo, egli informò il podestà, Lazzaro di Gerardino di Giandone da Lucca (Annali genovesi, p. 28). Il termine "conjuratio" impiegato dal cronista, nostra unica fonte, non deve tuttavia trarre in inganno. Esso non designa tanto un atto eccezionale di eversione politica, quanto piuttosto una delle tante associazioni a carattere di fazione (in effetti piuttosto ampia), frequenti nella storia comunale di Genova.
In questo caso doveva trattarsi in sostanza di un tentativo dei ceti urbani inferiori, allora in via di rapida espansione grazie soprattutto allo sviluppo dei mestieri della lana e di altre attività artigianali, decisi a conquistarsi un ruolo politico al di fuori degli ordinamenti ufficiali dai quali erano stati esclusi.
La vera originalità di questo movimento popolare era però quella di appoggiarsi, mettendola anzi in primo piano, ad una parte della nobiltà insoddisfatta del ruolo ad essa assegnato nell'ambito del governo comunale. Si trattava di un'alleanza tra categorie sociali differenti fondata su un comune senso di frustrazione e sull'ostilità al governo civico allora al potere. In questa prospettiva, alla congiura capeggiata dal D. andrebbe attribuito perciò più un significato sociale (entrata del popolo nel gioco costituzionale) che propriamente politico in senso filoghibellino, come è stato ipotizzato in modo talora troppo deciso.
Grazie all'assenza fortuita (secondo il cronista) del podestà, che in quei giorni era tornato nella sua città d'origine, la congiura assunse in breve tempo proporzioni tali "che parea cosa da non credersi" (Annali genovesi, p. 29). I giudici assessori del podestà di Genova, per frenarne l'estensione, dovettero proibire formalmente ai podestà dei villaggi liguri di aderirvi, cosa cui erano fortemente propensi.
Effettivamente, a parte le masse più propriamente cittadine, formate in massima parte da lanaioli (tra i quali moltissimi anche gli stranieri), il nuovo movimento aveva fatto proseliti tra i contadini e i pescatori liguri: si trattava sia di abitanti della regione montuosa o dei porticcioli, sia di membri del popolo minuto genovese, che continuavano, dopo una o più generazioni, ad affondare le proprie radici nell'ambiente rurale. È proprio questo il profilo che il cronista traccia dei congiurati: "ere omnes populares ... et maxima quantitas illorum de villis" e "presertim ... lanerii et homines alienigeni" (ibid., p.31).
Va tuttavia notato che l'adesione del popolo, per quanto larga, non fu del tutto unanime. Noli, Portovenere, Recco, Camogli e Uscio, insieme ai loro distretti, non appoggiarono la congiura a causa di un certo legalismo che si fondava sull'antichità o sulla forza dei rapporti di alleanza odi protettorato politico con la città di Genova. In città, il principale polo di resistenza al nuovo organismo fu la parrocchia di S. Donato, con, le sue contrade nobili della zona di Piazzalunga, e in particolare quella degli Stregiaporco, famiglia ricca e influente. Proprio le simpatie ghibelline di molti degli Stregiaporco, nemici del D., che simanifestarono qualche anno più tardi, sembrano contradire il presunto carattere ghibellino della congiura.
Quando si sparse in città la voce che il podestà non sarebbe rientrato a Genova, il popolo, andando senza dubbio contro le intenzioni iniziali del D., lo costrinse ad abbandonare la sua dimora privata per portarlo in trionfo e infine insediarlo nelle case e nelle torri di Ingone Della Volta, che quest'ultimo dava in affitto, come precisa il cronista "con non modica pigione", nella contrada di S. Lorenzo. Di là, il D. inviò nelle due Riviere giudici e ambasciatori accompagnati da notai. per raccogliere il giuramento di quelli che volessero entrare nella nuova "compagna" e per dichiarare ufficialmente che aveva stabilito la propria residenza a S. Lorenzo.
Vale la pena di fermarsi sul valore simbolico di questo trasferimento di sede, sottolineato tra l'altro dalla vasta eco suscitata nel'pubblico, e presentato come una scelta ispirata e sostenuta dal popolo. La nuova residenza del D. comporta infatti l'affermazione implicita di un vero e proprio programma politico visto che la piazza della cattedrale di S. Lorenzo, tra la zona di Canneto e il Borghetto dei Doria, dopo la nascita degli uffici comunali e delle pratiche civiche nel corso del XII secolo, costituiva il luogo principale del potere pubblico.
Questo valore strategico e simbolico conferma la natura e la portata del movimento sovversivo guidato dal De Mari. Si trattava di sostituire alla tradizionale oscillazione interna al gruppo di potere, fondata sull'equilibrio e sull'alternanza delle varie componenti, l'ingresso massiccio del popolo, con l'obiettivo di stravolgere gli antichi rapporti di forza tra le fazioni. La nuova "compagna" del D. era così giunta a concedere al popolo la condirezione del Comune.
Al suo ritorno da Lucca, il podestà comprese la gravità della situazione, accentuata dal rapido estendersi della sovversione e dal suo radicarsi all'interno del popolo. I nobili al potere lo sospettavano inoltre di debolezza o addirittura di connivenze con il De Mari. Incerto sui sentimenti dei suoi consiglieri, egli fece armare quqlli di loro che considerava più sicuri e li riunì in segreto "nella casa dei Fornari dove si tengono i consigli", a poca distanza da S. Lorenzo.
Un consiglio ristretto veniva così dunque a sostituirsi, in un momento di grave crisi istituzionale, alla procedura deliberativa regolare. Nel corso della riunione, il D. si fece annunciare, ma il podestà e i consiglieri rifiutarono di riceverlo prima che si facesse sera. Davanti a loro, circondato dai suoi principali sostenitori, Pagano di Cogorno, Guaracco di San Lorenzo, Enrico Gontardo e Ingone Della Volta, il D. prestò giuramento di fedeltà. Gli fu quindi comunicato l'ordine di abbandonare le torri e le case di S. Lorenzo. A quest'ordine egli avrebbe probabilmente obbedito se i suoi partigiani, "vedendosi numerosi e sperando di rafforzarsi ancora" non avessero deciso di occupare e difendere con le armi la stessa cattedrale e le porte della città, strategicamente molto importanti. Questa occupazione, secondo il cronista, fu accolta negativamente dalla maggioranza della popolazione genovese, proprio perché eseguita da uomini delle classi inferiori, operai della lana e contadini delle Riviere. "I nobili, i ricchi e quelli che amavano la città di Genova" (Annali genovesi, p. 33) si riunirono nella chiesa di S. Maria delle Vigne. Presero la parola il giudice assessore del podestà, e quindi alcuni degli Otto nobili, Oberto Grimaldi, Diotisalvi di Piazzalunga e vari altri. Venne proposta l'istituzione di un giuramento obbligatorio per la salvaguardia del Comune e per l'abolizione delle "rasse" (associazioni politiche illegali) e in particolare contro il D. e gli uomini della sua società. Venne inoltre istituita una commissione di dieci membri, che cercasse di riportare il D. e i suoi nella legalità e fare aderire al giuramento gli abitanti delle "compagne". Un'altra commissione di tredici nobili fu incaricata di sostituire le guarnigioni dei castelli delle Riviere che avevano seguito la causa del D. e di riprendere il controllo, all'interno di Genova, di tutto il settore di S. Lorenzo. La città fu divisa in scacchieri, grazie all'appoggio di rinforzi giunti dalle località rivierasche sicure, come Noli, Albenga e Portovenere.
Il 2 novembre, il podestà riunì il Parlamento a S. Lorenzo, dove, dopo aver rinnovato la condanna contro il movimento illegale, ingiunse al D. e ai suoi partigiani di prestar giuramento d'obbedienza alle autorità del Comune e proclamare lo scioglimento della loro "compagna" in cambio di un generoso perdono cristiano. Una gran folla si affrettò a firmare nei luoghi stessi del Parlamento, e successivamente nelle parrocchie urbane e nei villaggi del distretto di Genova.
Si chiudeva così, con uno scacco totale e col ristabilimento dell'ordine nobiliare, un tentativo di riforma costituzionale. L'atteggiamento prudente del podestà era dipeso probabilmente più dallo sconvolgimento che l'inedita situazione istituzionale aveva causato all'interno del ceto dirigente tradizionale, che da un'abile strategia. In questo modo tuttavia, egli aveva potuto permettere al D. di disimpegnarsi progressivamente e con dignità dal movimento insurrezionale senza essere costretto ad un brutale voltafaccia che i suoi compagni non avrebbero certo accettato. Ci si puo anche chiedere se la conversione del D., come degli altri membri dell'oligarchia genovese coinvolti in questa avventura, sia stata provocata dalla considerazione dei rischi che un progetto politico, così nuovo e incontrollabile nella sua componente popolare, poteva comportare per i nobili.
L'esclusione del D. dalla vita pubblica fu di breve durata. Nel 1229il podestà Iacopo di Balduino lo nominò, insieme ad Enrico di Domoculta, ambasciatore del Comune presso l'imperatore Federico II, che allora si trovava a Pisa. Questa scelta derivava forse dal calcolo di mettere avanti un uomo il cui nome suscitava in tutti il ricordo, se non di un comportamento francamente filoghibellino, certo di un conflitto evidente con le autorità della città guelfa.
Ormai il D. aveva riconquistato il favore delle autorità comunali; lo conferma il fatto che l'anno seguente, quando fu podestà Spino di Soresina, egli entrava a far parte degli Otto nobili in compagnia di personalità guelfe come Ugo Ferrario, Lanfranco Bachimo, Oberto di Croce, Girardo de Murta, Daniele Doria e Ansaldo Fallamonica. Questa partecipazione del D. agli uffici ed ai Consigli del Comune antimperiale conferma una volta di più il carattere spesso fluttuante delle fazioni medievali genovesi. A questi impegni politici si affiancò in quegli anni una notevole attività nel campo degli affari con interessi che si estendevano in numerose regioni del Mediterraneo, in particolare verso Tunisi, via Bonifacio, come attestano gli atti dei notai del tempo.
Nel 1247, sotto il podestà Bernardo de Castronovo, cittadino di Piacenza, il D. fece di nuovo parte degli Otto nobili o dei clavigeri del Comune. Il testamento, del marzo del 1248, potrebbe essere stato redatto poco prima della sua morte.
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