GUGLIELMO da Pastrengo
Nacque intorno al 1290 da Iacopo e Armelina, quasi certamente a Verona: l'appellativo, che sempre accompagna il suo nome, indica, più che il luogo di nascita, l'origine dell'influente famiglia paterna, che nel 1223, al momento dell'investitura del feudo di Pastrengo con giurisdizione sugli abitanti, poteva già contare su un discreto patrimonio terriero nella zona.
Con l'atto d'investitura del 1223 il bisavolo di G., Pellegrino, divenne vassallo minore della locale abbazia. Iacopo morì nel 1307, lasciando in eredità il godimento di alcune decime a Pastrengo, Calmasino, Gaon, Volargne, Lavagno, Centegnano e Fonzana, la cui conferma fu richiesta e ottenuta da Almerico (Aimerico), uno dei figli di G., il 25 ott. 1363. Il feudo, invece, rimase nelle mani della famiglia fino al 3 giugno 1309.
Il trasferimento della famiglia a Verona doveva esser già avvenuto durante la vita del nonno di G., Nicolò, e probabilmente nella stessa città G. trascorse l'infanzia con due fratelli e tre sorelle, dedicatisi tutti alla vita religiosa: Celestino divenne familiaris di papa Benedetto XI, da cui ricevette, nel 1304, il canonicato di Reggio Calabria; Nicolò, entrato nell'Ordine dei domenicani, fu nominato inquisitore degli eretici per la Lombardia inferiore e priore di S. Anastasia di Verona, dove morì l'8 genn. 1321; Agnese, Egidia e Panfila furono monache nel monastero di S. Michele in Campagna.
A G. toccò invece la carriera di notaio, attestata da numerosi documenti, ma, soprattutto, quella di giudice, già avviata nel 1307, quando accanto al suo nome compariva anche il titolo in un atto del 13 gennaio stipulato in S. Michele in Campagna, dove la zia Egidia concludeva il suo mandato di badessa.
Intorno al 1315 si trasferì a Bologna per studiare diritto nella prestigiosa Università; qui ebbe a maestro il lodigiano Oldrado da Ponte. Nel 1320 Oldrado si trasferì a Padova, dove non sembra che il suo allievo lo seguisse. Tornato dunque a Verona, G. risiedette fino al 1321 nella contrada di S. Sebastiano e poi in quella della Pigna.
Durante il governo di Cangrande Della Scala G. vide fiorire la sua notorietà come giudice. La circostanza in cui poté distinguersi fece seguito all'occupazione scaligera di Feltre, Belluno e Treviso: il saccheggio perpetrato dalle milizie aveva provocato la richiesta da parte veneziana di un risarcimento per i danni arrecati alla popolazione. Nel 1323 Cangrande affidò a G., Antonio Nogarola e Guglielmo dei Servidei le trattative, che si conclusero con un indennizzo per le popolazioni danneggiate, l'abbattimento delle tasse per Feltre e Vicenza e l'apertura delle strade al commercio.
Tra il 1324 e il 1325 G. fu nominato giudice e vicario del podestà a Vicenza e in quel torno di tempo sposò Antonia dei Mambroti, da cui gli sarebbero nati quattro figli: Giacomo e Nicolò, morti in giovane età; Agnese, che avrebbe preso i voti nello stesso monastero delle zie paterne; e Almerico, l'unico a sopravvivere al padre.
Morto Cangrande nel 1329, G. vide confermato il suo prestigio a corte. Entrato nel Consiglio dei sapienti, il 15 apr. 1333 fece approvare, con il sostegno di Perfiliasio di Bonaggiunta, una legge suntuaria, il cui testo aveva probabilmente redatto insieme con Pietro Alighieri, figlio di Dante e generale vicario del podestà di Verona Guido da Correggio; negli statuti cittadini venne quindi inserito un articolo contro gli ornamenti preziosi delle vesti femminili. Il 23 giugno 1333 e poi il 24 ag. 1336 G. ricevette due investiture feudali da parte di Bartolomeo Della Scala, abate di S. Zeno.
Le fortune della signoria nel corso del governo di Alberto e Mastino (II) stavano intanto declinando. Le ultime imprese coronate da successo ebbero luogo nel 1335, ma non furono che le premesse di nuovi contrasti: l'occupazione di Lucca provocò il rancore di Firenze e, nell'estate del 1336, la costituzione di una lega antiscaligera; l'occupazione di Parma provocò la vendetta dei legittimi titolari. I Rossi, che erano stati esiliati e che avevano subito la confisca di tutti i loro beni, si rivolsero a papa Benedetto XII per ottenere giustizia.
Da Verona giunse ad Avignone, nell'estate di quell'anno, Azzo da Correggio affiancato da G. in qualità di migliore giurista di Verona. Durante il soggiorno i due ambasciatori ebbero modo di conoscere Francesco Petrarca, uomo influente presso la corte papale, e di stringere con lui legami di amicizia. Proprio a Petrarca Azzo e G. conferirono in breve la difesa della causa scaligera e la questione, per il momento, poté risolversi secondo gli auspici.
Nel 1337 la lega antiscaligera aveva raccolto nuove adesioni e il dominio veronese era ormai irrimediabilmente indebolito; a Mastino, esasperato da insormontabili problemi economici e da una preoccupante penuria di milizie, non restò che affidarsi alla generosità dei suoi concittadini. Fu in questo clima che prese corpo l'idea di costituire un gruppo di contribuenti denominato "Università dei cittadini veronesi", che ebbe, in cambio del prestito, l'usufrutto di alcuni immobili, tra cui l'anfiteatro. Il 30 apr. 1337 l'incarico di procuratore fu affidato a G. dal podestà di Verona Duxo Buzzacarini, dal Consiglio e dalla Casa dei mercanti. Il 18 maggio successivo G. stesso accordò un primo prestito, pari a 96 libbre veronesi, aumentato di altre 48 due anni più tardi. La restituzione non avvenne che il 28 luglio 1358, ma l'impresa nel suo complesso non raggiunse gli obiettivi sperati e le truppe fiorentine arrivarono alle porte di Verona.
Nel 1338, sentendosi ormai isolato tra le mura della sua città, Mastino arrivò a sospettare del cugino, il vescovo Bartolomeo Della Scala di complottare in favore di Venezia; nella notte del 27 agosto, nei pressi della cattedrale e con la complicità di Azzo, lo pugnalò.
La scomunica del pontefice giunse immediata, insieme con l'interdetto e il divieto di eleggere il nuovo vescovo. La situazione si schiarì solo dopo le trattative di pace concluse con la Serenissima nel gennaio 1339, al prezzo di onerose rinunce territoriali. Il 25 febbraio Mastino si risolse a inviare come ambasciatori presso la Sede pontificia tre celebri giuristi: G. fu affiancato in questa circostanza da Bonaventura da Ponte e Giacomo Arimondi. Benché non si possa escludere anche in questo caso un intervento di Petrarca, sta di fatto che il buon esito dell'ambasciata fu ufficialmente riconosciuto, nel testo della bolla del settembre 1339, come un merito personale di G., che riuscì abilmente a dimostrare, attraverso il reperimento di una corrispondenza, l'effettiva compromissione del vescovo veronese con Venezia.
Il papa pronunciò l'assoluzione dalla scomunica, revocò gli altri provvedimenti, concesse il mantenimento dei possedimenti scaligeri ancora non toccati dalla guerra contro la lega e, infine, nominò Mastino e Alberto vicari pontifici per Verona, Parma e Vicenza, purché s'impegnassero a perseguitare gli eretici e ad amministrare la giustizia in nome del pontefice, pagassero 5000 fiorini d'oro e tenessero a disposizione 200 cavalieri e 300 pedoni. In qualità di ambasciatore anche per Parma, G. riuscì inoltre a far revocare l'interdetto che aveva colpito la città per il sostegno concesso all'imperatore Ludovico il Bavaro. Notevole per le vicende culturali di Verona fu la sanzione dello Studium generale, ottenuta per sua iniziativa con la bolla del 1° ott. 1339.
Al ritorno in Verona, G. si dedicò agli studi, riservando il suo impegno di giudice ordinario al sostegno di istituti ecclesiastici eminenti, come il monastero di S. Zeno, S. Maria in Organo e il capitolo della cattedrale, che si sentivano minacciati dall'egemonia scaligera: così, nel maggio del 1343 difendeva l'arciprete di S. Giovanni in Valle contro Giovanni Della Scala.
Morto Mastino nel 1351, Cangrande (II) proseguì la politica filoveneziana inaugurata dalla pace del '39, proprio mentre cresceva il malcontento della nobiltà militare e curiale. Incurante dei contrasti interni e preoccupato di non perdere l'appoggio di Venezia, Cangrande aderì alla lega antiviscontea promossa dalla Serenissima; nel tentativo di trovare un nuovo alleato, si recò nel febbraio 1354 a Bolzano dal cognato Ludovico, marchese di Brandeburgo e conte del Tirolo. Approfittando della sua assenza, Fregnano Della Scala s'impossessò di Verona; alla proclamazione del nuovo governo, auspicato sembra dagli stessi Visconti, assistette anche Guglielmo.
La riconquista della signoria da parte di Cangrande fu seguita da una sanguinosa repressione, culminata nell'assassinio di Fregnano, dalla quale G. uscì indenne: il suo ruolo nella vicenda non fu giudicato decisivo, tanto più che non era da escludere un suo impegno diretto a far tornare il signore legittimo. Di lì a poco egli fu inviato a Vicenza come ambasciatore, in qualità di giudice e vicario del podestà: Cangrande volle in questo modo rinnovare la stima a uno degli uomini più illustri della città, il cui allontanamento in quel frangente doveva apparire, del resto, tutt'altro che inopportuno.
Vittima della vendetta di Cangrande fu invece il figlio di Petrarca, Giovanni, che lontano dalla città non aveva potuto partecipare alla congiura di Fregnano, ma che pagò l'amicizia del padre per Azzo con l'esilio e con la perdita del canonicato; per renderla nulla, su istanza di Petrarca, intervenne G., che forse s'era già adoperato per l'assegnazione, nel 1352, dello stesso beneficio da parte di Clemente VI. Finalmente, nel 1361, il provvedimento fu revocato, ma Petrarca annunciava all'amico, con una lettera da Padova databile al 10 agosto, l'improvvisa morte del giovane (Variarum, 35).
L'8 ag. 1362, nel verbale che registra l'elezione dell'abate di S. Zeno, si legge per l'ultima volta il nome di G., che morì il 30 di quello stesso mese.
La lettera di Petrarca del 10 ag. 1361 rappresenta l'estrema testimonianza di un fitto scambio epistolare di cui non ci sono giunti che pochi frammenti, sufficienti però a ricomporre il quadro di un'amicizia non occasionale. Quello che sarebbe potuto essere, nel lontano 1336, l'incontro ufficiale tra un ambasciatore e un poeta ben inserito nella corte avignonese s'era tradotto, già due anni più tardi, in una confidenza orientata da comuni letture. Se, come sembra probabile, risale agli anni 1338-39 l'Epyst., III 3 delle cosiddette Metrice, Petrarca poteva già rievocarvi l'intensità di un giorno trascorso insieme a Valchiusa in compagnia delle muse e il recente incontro con la donna che G. aveva amato in quell'occasione. Non mancano echi virgiliani e scritturali persino nel biglietto che G. indirizzava da Avignone a Petrarca, per rimproverarlo di non essersi presentato in casa del loro amico Lelio (Lello di Pietro di Stefano Tosetti). Il poeta, per giustificarsi, confessava un'irrimediabile insofferenza per la vita cittadina, che gli aveva ingiunto di cercare rifugio nella solitaria quiete di Valchiusa (Var., 13). Il rammarico mostrato dal corrispondente, nella successiva risposta, era ormai poco più d'un pretesto per contraccambiare le confidenze letterarie con altrettante fantasticherie dotte sulla fuga dell'amico verso la natura, in compagnia di ninfe e divinità campestri. La messe di citazioni classiche, tra le quali spiccano echi di Apuleio (autore dei più rari), era disposta in un'elaborata architettura retorica, tale da suggerire a Lelio, che aveva il ruolo d'intermediario, di non consegnare l'epistola. L'insistenza di Petrarca ebbe infine la meglio, e gli ornamenti della lettera contesa colpirono anche la sua sensibilità. Nel rispondere, il poeta riprendeva tutte le suggestioni classiche e trasformava in esametri rimati il dono d'un melone (Var., 30).
Forse nel 1344, o al più tardi nel '47, Petrarca informava l'amico, che gliene aveva fatto richiesta in una lettera perduta, sulla nuova casa di Parma e sui lavori destinati ad abbellirla. Ai versi imprimeva un sentimento di abbandono e di cupa meditazione, alleviata appena dall'impresa dell'Africa (Epyst., II 18).
Nel 1345 Petrarca giunse a Verona, dove rimase per qualche tempo, ospite in casa di Guglielmo. L'amicizia andò allora consolidandosi sulla base della comune passione filologica per il patrimonio antico che trovò a Verona l'ambiente ideale. In quel contesto, G. poteva essere considerato una figura chiave, per il ruolo che ricopriva a corte e il prestigio che ne derivava, per la sua raffinata cultura, non solo giuridica ma anche letteraria, e soprattutto per il libero accesso all'inestimabile tesoro custodito nella Biblioteca capitolare, rimasto precluso allo stesso Dante.
All'intuizione e alla curiosità filologica di G. sembra sia dovuta la straordinaria scoperta dell'epistolario ciceroniano. La vasta erudizione che gli proveniva da quella prossimità con i manoscritti dei classici si fregiava di scoperte altrettanto notevoli, fatte per proprio conto: gli Scriptores historiae Augustae, Claudiano, Plinio il Giovane e soprattutto Catullo riemersero così da secoli di oblio.
Il tempo trascorso insieme con l'amico Petrarca nell'assiduità degli studi alimentò il vincolo affettivo e quando il poeta, infine, lasciò Verona alla volta di Avignone G. si offrì di accompagnarlo fino a Peschiera. Il commiato in piena notte fu denso di malinconia: mentre Petrarca si sarebbe poi rammaricato di non aver condiviso con lui la scoperta di quel meraviglioso paesaggio (Epyst., III 20), una lettera di G. registrava le ansie per le difficoltà e il disagio che l'attraversamento dell'impervia regione alpina avrebbe comportato. Leniva quello stato d'animo la certezza che in Avignone il suo amico avrebbe trovato ad accoglierlo non tanto la Curia, che gli era ormai in odio, quanto gli amatissimi studi.
In un'altra epistola, d'incerta datazione e dalle oscure allusioni, Petrarca si lamentava con G. per la sua salute e si compiaceva, nella successiva, per l'avvenuta guarigione (Epyst., III 11 e 12). Durante l'infuriare della peste Petrarca tornò a Verona in due occasioni, ma nulla sappiamo di eventuali incontri con G., a cui invece chiese, nel giubileo del 1350, di accompagnarlo a Roma (Epyst., III 34), ricevendone un rifiuto.
A testimoniare la fiducia e la fraterna confidenza che ormai li legavano è poi una lettera del 9 giugno 1352 (Fam., XIII 3), in cui Petrarca, preoccupato di dover lasciare il figlioletto Giovanni a Verona - dove lo aspettava l'ufficio di canonico - pregava l'amico di volergli subentrare nelle cure paterne, mentre al maestro Rinaldo Cavalchini aveva intanto affidato l'educazione culturale. I due istitutori informarono poi regolarmente Petrarca sull'incerto andamento del ragazzo, che solo nel '53 mostrò segni di ripresa. Tra il '54 e il '55 Petrarca gli rinnovava, in un'altra lettera, la richiesta di un libro indispensabile alla composizione del suo De viris illustribus (Fam., IX 15). Nell'epistola successiva (Fam., IX 16) si abbandonava a meditazioni sulle lusinghe della speranza e della cupidigia umana, forse alludendo alla revoca del canonicato di Giovanni e riconoscendo al destinatario il merito d'essersi prodigato in quella circostanza.
Il 17 apr. 1360 Petrarca accompagnò con una lettera l'arrivo a Verona di un suo amico orafo, il bergamasco Enrico Capra, che, scoperti tardivamente gli studi, desiderava progredirvi. La lettera (Fam., XXII 11) voleva disporre l'animo di G. ad accordare l'aiuto che incoraggiasse un'impresa tanto meritevole, e al tempo stesso ricordare all'amico di inviargli al più presto il De agricoltura di Varrone.
Anche se sono ormai da escludere tra G. e Petrarca i rapporti di discepolanza ipotizzati dalla storiografia settecentesca, certo non trascurabile fu l'influenza reciproca, che culminò nella composizione di due trattati paralleli, De viris illustribus. Se le epistole, in virtù soprattutto della loro colta eleganza, ebbero in sorte, pur mantenendo il nome del loro autore, l'inclusione nel corpus petrarchesco nell'edizione del 1501, fu certamente il trattato che assicurò a G. la fama di erudito umanista. Egli vi lavorò intensamente negli anni '50, ma per portare a compimento l'elaborazione di una lunga schedatura, intrapresa forse già a partire dal '37.
Conservata in eleganti manoscritti, l'opera venne pubblicata a Venezia nel 1547, sotto il nome scorretto Guglielmo Pastregico e il titolo De originibus rerum libellus, derivato dall'explicit della seconda e meno rilevante parte dell'opera, da considerare quasi un trattato a sé stante. Si tratta di una rassegna minuziosa dei volti più celebri dell'antichità pagana e del mondo cristiano, che compaiono disposti in ordine alfabetico a costituire la prima galleria biografica italiana.
La sorprendente esiguità di alcuni ritratti mette in luce, piuttosto che una composizione frettolosa, il metodo di raccolta dei dati, che G. era solito affastellare via via che progredivano le ricerche. Proprio all'assetto non ultimato dell'opera deve attribuirsi l'assenza di personalità di riguardo, tra cui spicca il nome di s. Tommaso d'Aquino; mentre a un profondo disinteresse per il volgare, trasmessogli forse dalla cultura giuridica, va ascritta la menzione di Cino da Pistoia in qualità non di poeta ma di giurista, o il silenzio imposto all'opera di Dante. La Praefatio accanto all'omaggio ai modelli principali - Varrone, Cornelio Nepote, Eusebio, Girolamo e Gennadio - contiene una dichiarazione d'intenti: salvare da distruzione certa il patrimonio del passato, minacciato dai morsi dei topi, da possibili naufragi, dagli incendi, dall'incuria e dall'ignoranza degli uomini.
Molti di quei pericoli, dai quali aveva forse visto insidiati i volumi della Biblioteca capitolare, erano giunti ad assillare il suo zelo di filologo; ma G. mostra anche di possedere il rigore dello storico quando afferma, sul finire della sua breve introduzione, d'aver trascritto le notizie di prima mano, e d'essersi affidato alle fonti, scrupolosamente indicate, in tutti gli altri casi. Ogni voce contiene brevi cenni biografici e l'elenco delle opere del personaggio illustre, adattati in uno schema privo di cadenze narrative. Una delle maggiori novità dell'opera, oltre all'uso simultaneo di più fonti, è il ricorso a una documentazione fino ad allora inesplorata: da Prisciano, per esempio, derivano le notizie su Accio e, soprattutto, su Nevio, cui è dedicato il primo ritratto filologicamente attendibile. Le voci dei giuristi delineano la primissima storia del diritto, rimasta per lo più ignorata: i materiali, resi disponibili dalla cultura d'origine di G., e in particolare dall'attenta cognizione del Digesto e dei glossatori, sono particolarmente preziosi per la storia del diritto medievale e per le opere dei giuristi romani.
Il De originibus, suddiviso in sei parti, è ispirato ai grandi repertori medievali, quali le notissime Etymologiae di Isidoro di Siviglia, ma si apre sotto l'insegna, già tutta umanistica, "nil respuit curiositas". L'autore vi elenca gli inventori e le principali città del mondo conosciuto con i loro fondatori; spiega l'origine di alcuni nomi geografici e accenna notizie di carattere antropologico; illustra piante e pietre e conclude con la rassegna dei primi uomini ad aver ricoperto cariche pubbliche o ad aver compiuto imprese di grande valore. Ne risulta un'enciclopedia destinata a eruditi ma di facile consultazione, nelle cui definizioni è possibile distinguere, secondo i parametri dell'epoca, notizie dotate di fondamento da notizie tramandate in modo più generico. L'opera conobbe una rapida diffusione: nel 1374 Girolamo Nadal ne ricevette, insieme con la lettera d'accompagnamento, una copia in prestito da parte di Paolo De Bernardo. Dopo la stampa cinquecentesca, fu riscoperta nel '700 da Scipione Maffei, che ne auspicò un'edizione.
Le opere di G. sono edite in: Guglielmo Pastregico [sic] Veronese, De originibus rerum libellum, Venetiis, per Nicolaum de Bascarinis, 1547 (con il titolo De originibus rerum; De scripturis virorum illustrium, rist. anast. Verona 1990); Guglielmo da Pastrengo, De viris illustribus et de originibus, a cura di G. Bottari, Padova 1991. Tra le opere di incerta attribuzione vanno inclusi i Flores moralium autoritatum della Biblioteca capitolare di Verona, risalenti al 1334, e l'analogo florilegio conservato nella Biblioteca apost. Vaticana (Vat. lat., 5114). Le sole tre epistole di G. che ci sono giunte, incluse dapprima nell'epistolario di Petrarca (Librorum Francisci Petrarche impressorum annotatio, Venetijs per Simone / de Luere: impensa domini / Andree Torresani de / Asula, 17 Junij 1501, t. II, cc. 137v, 138rv, epistole XXXIIII, XXXVI, XXXVII), sono ora pubblicate a cura di G. Frasso, Tre lettere di G. da P. a Francesco Petrarca, in Petrarca, Verona e l'Europa. Atti del Convegno internazionale di studi, Verona… 1991, a cura di G. Billanovich - G. Frasso, Padova 1997, pp. 89-115.
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