CAPRAIA, Guglielmo da
Appartenne alla famiglia di quei conti di Capraia che, forti di possessi nei contadi fiorentino, lucchese e pistoiese, si erano stabiliti in Pisa e mischiati di buon ora alle cose sarde.
Incerta è la sua paternità, che pur sarebbe essenziale conoscere per stabilire la reale portata dei suoi diritti sull'Arborea e sul Cagliaritano. Taluno lo ritiene figlio di quel Bertoldo che nel 1221 era riconosciuto da Onorio III signore di Usellus in Arborea, e che sarebbe a sua volta figlio di Anselmo di Guido (Borgognone). Prevale però l'idea ch'egli sia non figlio, bensì fratello di Bertoldo e di Anselmo, entrambi signori di Usellus, nonché di un Rodolfo (II) da Capraia; e che tutti e quattro siano nati dal matrimonio contratto nel 1193 da Bina, già moglie del giudice Pietro d'Arborea, con un conte Ugo il quale sarebbe figlio di Guido Borgognone o, comunque, imparentato strettamente con i da Capraia.
Nel 1238 il C. figura come fatto già segno di speciale affetto da Pietro II di Bas, giudice d'Arborea, la cui nonna materna era Guisiana da Capraia e che dalla moglie Diana Visconti (altra sua parente, perché figlia di Ubaldo di Eldito Visconti e di Contessa da Capraia) non aveva avuto figli. Evidentemente il giovane e brillante Guglielmo si era fatto benvolere, alla corte del suo congiunto, e lo vediamo fino da allora far parte dei suoi fedeli e portare il titolo di "donnicello", riservato ai componenti delle famiglie giudicali.
Alla morte di Pietro, nel '41, il C. si impadronì a poco a poco del giudicato, approfittando anche della minor età del legittimo erede di esso, quel Mariano di Bas nato troppo tardi dal secondo matrimonio di Pietro d'Arborea con Sardinia. Del resto il C. fu un "usurpatore" sui generis, tenne presso di sé l'erede legittimo, governò con moderazione sfruttando in modo intelligente tutti i titoli familiari e politici che al governo dell'Arborea lo abilitavano, dalla sua posizione di imparentato - essendo un da Capraia - ai Visconti e ai di Bas, all'appoggio fornitogli dal Comune di Pisa. Assai più cauta fu invece con lui la S. Sede, della quale Pietro d'Arborea era un vassallo fedele e che viceversa non scordava i guai che le avventure di un altro conte di Capraia, Rodolfo, le avevano procurato nell'isola.
Fino al 1250 il C. resse quindi l'Arborea senza il riconoscimento pontificio e, semmai, con l'appoggio ghibellino. Ma col prevalere della Chiesa sull'Impero nella politica generale del tempo la situazione si fece più pesante e consigliò il compromesso. In effetti nell'estate del '50 egli chiese alla Curia romana il riconoscimento dei suoi poteri, e lo ottenne il 29 settembre di quell'anno. Nella sua rafforzata posizione il C. poté meglio governare, elargendo favori ai mercanti pisani e marsigliesi e collegandosi ai più grandi casati di Pisa: sposò difatti una figlia di Ildebrandino Gualandi Cortevecchia e ne ebbe il figlio Nicolò, mentre suo nipote Anselmo di Bertoldo si univa con Teccia di Gherardo conte di Donoratico. Altre famiglie furono favorite: per esempio i Sighelmi, che già erano stati in rapporto con Rodolfo da Capraia.
Questa politica pisana e consortile perseguita dal C. preoccupava Innocenzo IV il quale era obbligato ad assistere all'egemonia pisana su tutta l'isola, eccetto il Turritano. Ma un tentativo pontificio di limitare l'autonomia del C., nel '52, rimase privo di risultati apprezzabili. Le cose parvero mutare quando il giudice Chiano di Cagliari, stanco dell'egemonia pisana sulle sue terre e in particolar modo sulla sua capitale, si alleò nel 1256 con Genova e prese addirittura la cittadinanza genovese. Il castello di Cagliari fu strappato ai Pisani e nonostante la morte di Chiano (ottobre '56) la guerra continuò, e in essa il C. svolse un ruolo primario. Un tentativo di mediazione, proposto da Alessandro IV e dall'arcivescovo di Cagliari, nominato per la circostanza legato pontificio, non sortì a niente. Il C. comandò l'assedio di Cagliari, che alla fine si arrese; e più tardi la sua azione per via di terra - combinata con quella di Ottone Gualduccio per via di mare - fece sì che anche l'ultima roccaforte genovese nel Cagliaritano, il castello di Santa Igia, si arrendesse (20 luglio 1257). In questa guerra portò il titolo di "generalis vicarius Pisanorum in Sardinia existentium". Il risultato della campagna fu che il Cagliaritano, sgombrato dall'ipoteca genovese, venne diviso in tre parti date rispettivamente in feudo ai conti di Capraia giudici di Arborea, ai Visconti giudici di Gallura e ai conti della Gherardesca. Saranno queste le famiglie dei domini Sardiniae, attraverso le quali Pisa controllò l'isola nel periodo compreso fra 1257 e 1284 e caratterizzato da un'egemonia apparentemente quasi assoluta su di essa.
Da allora il "magnificus vir dominus Guilelmus, comes Caprarie, iudex Arboree et tertie partis regni callaritani" divenne l'elemento dinamico del gruppo dirigente pisano in Sardegna: fece sua l'antica ambizione dei giudici d'Arborea, quella di sottomettere una parte del Logudoro, e la perseguì nonostante i rapporti tra Genova e Pisa si avviassero, dal 1258, verso una fase distensiva. Alla morte della giudichessa Adelasia, si profilò uno scontro fra Doria e Spinola da un lato - i quali avevano possessi e mire sul Logudoro - e Ugolino di Donoratico - che tutelava come vicario i diritti di re Enzo e del proprio figlio Guelfo, sposo della figlia di questo Elena - dall'altro. Gugliemo appoggiò Ugolino e tentò di metter le mani su alcuni castelli logudoresi.
Ma l'ingresso nella questione di Manfredi in deciso appoggio a Genova e alle pretese dei Doria modificò la situazione. Ugolino di Donoratico si affiancò a Manfredi, in ciò seguito dal Comune di Pisa. Il C. continuò da solo l'offensiva nel Logudoro proseguendo l'attacco contro il castello del Goceano che gli opponeva resistenza accanita, e trovò un nuovo alleato nel pontefice Urbano IV che nell'aprile del 1262 interveniva decisamente in suo aiuto bandendo la crociata contro Manfredi.
Pisa cercò ancora una volta di comporre la questione e di piegare pacificamente il C. alle esigenze della sua politica utilizzando il suo arcivescovo, Federico Visconti, fratello del giudice di Gallura nonché- come figlio di Contessa da Capraia - imparentato con Guglielmo. Il Visconti giunse nell'isola nel marzo 1263 per una "visita pastorale" di trasparente contenuto politico; si atteggiava a legato papale per favorire in questa veste la causa di Manfredi, il che sollevò naturalmente le proteste del pontefice. Il C., da parte sua, non volle rompere col parente ch'era anche emissario della sua patria: dopo aver evitato dapprima un abboccamento, si piegò ad incontrarlo, a rendergli omaggio, a passare con lui la Pentecoste. In pratica non si lasciò però dissuadere dalla sua linea politica: nel giugno, quando l'arcivescovo lasciò la Sardegna, la guerra continuava.
Ma il C. non riuscì a piegare il Logudoro. Egli si spense infatti poco dopo, pare nell'anno 1264, senza esser riuscito ad aver ragione neppure del castello del Goceano.
Lasciava due figli minorenni, Nicolò e Guglielmino, che pare fosse illegittimo. Nel testamento affidava i suoi beni sardi a Nicolò sotto la tutela del donnicello Mariano di Bas e con la clausola che, se fosse morto ancor minorenne o senza prole, l'eredità sarebbe passata a Guglielmino. Nel giugno del 1265, una convenzione tra il Comune pisano e "Marianus donnicellus, Arboree baiulus" per sé e per il suo pupillo Nicolò, che ribadiva il vassallaggio dei giudici d'Arborea a Pisa e la loro cittadinanza pisana, veniva come tale inserita negli statuti della città. Ma ben presto Mariano, imprigionato Nicolò - che peraltro morì nel 1274 senza prole - e senza tener conto dei diritti di Guglielmino, s'impadronì del potere proclamandosi giudice d'Arborea, signore del terzo del Cagliaritano e vicario della Chiesa per il Logudoro. Finiva così per svanire la potenza dei da Capraia in Sardegna.
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