BOCCANEGRA, Guglielmo
Proceduta forse da un "Buccanigra", che appare come teste in un contratto genovese del 1201, la famiglia del B. si proclamò sempre "popolare", cioè borghese e non aristocratica, anche se presto imparentata con le maggiori casate nobiliari della città. Mancano prove dell'asserita partecipazione del B. alla conquista aragonese di Maiorca (1229), ma già a quel tempo diversi membri della sua famiglia erano attivi nel commercio del Mediterraneo occidentale e nel prestito e cambio in fiera.
A Genova, Rinaldo e Marino Boccanegra faranno parte del Consiglio del Comune nel 1235 e nel 1248. La prima crociata di Luigi IX permette ai Boccanegra di mettersi in vista tra i molti Genovesi che armano navi, accumulano provviste, concedono prestiti e si uniscono ai crociati al punto d'imbarco (Aigues-Mortes, fondata tra le paludi costiere dal re di Francia) o nelle tappe successive.
Il B. è uno dei "consoli dei Genovesi a Aigues-Mortes nel 1249 e, ad Acri nel 1249-50, si incarica coi suoi "soci genovesi" di pagare stipendi ai seguaci di Alfonso di Poitiers, fratello di Luigi IX. Questi servizi, lucrativi ma fedeli, non saranno dimenticati quando, più di dieci anni dopo, dovrà cercare asilo in Francia. Finita la crociata, il B. torna a Genova e diventa consigliere del Comune nel 1251 e nel 1256.
Genova è appena uscita da un'aspra lotta contro Federico II e i suoi alleati, ed è ancora impegnata in guerra su diversi fronti; ha corso gravi pericoli e va incontro a nuove delusioni, pur dopo la morte dell'imperatore e il trionfo del papa genovese, Innocenzo IV Fieschi. Ciò non toglie che gli anni tra il 1248 e il 1255 costituiscano per l'economia genovese una fase di rapida e continua espansione. Da ogni parte si chiedono navi e marinai per le guerre del Comune e dei suoi potenti amici, e per i traffici in tutte le direzioni del Mediterraneo (e, sull'Atlantico, fino a Safi nel Marocco); da ogni parte si offrono occasioni per investire capitali nel commercio delle derrate alimentari, dei materiali da costruzione dei tessuti, delle spezie. Il genovino aureo del 1252, prima tra le monete d'oro coniate dalle città italiane, è la testimonianza più appariscente della nuova opulenza. Ma a sostenere il mercato serve soprattutto il credito, esercitato non soltanto da Genovesi, ma anche da un numero crescente di cambiatori, banchieri e mercanti forestieri, specialmente piacentini e toscani. Anche l'artigianato, fino allora poco sviluppato, ottiene una modesta prosperità, particolarmente nell'industria della lana, esercitata anch'essa non solo da Genovesi, ma da immigrati lombardi e francesi, accentrati in un nuovo sobborgo. Ma più degli artigiani e degli stessi banchieri si arricchiscono i grandi mercanti.
Tra questi ultimi primeggiano le maggiori famiglie guelfe che sin dall'inizio della guerra contro Federico II controllano le cariche pubbliche, e ne approfittano per lucrare sugli appalti, i prestiti e le forniture dello Stato. Nella fase più pericolosa del conflitto, dal 1239 al 1242, avevano ritenuto, prudente allargare la base del governo con una nuova magistratura: due "capitani del popolo e del Comune", scelti però tra i nobili e muniti di poteri assai limitati. Migliorate le condizioni militari ed economiche, l'apertura verso il "popolo" parve superflua. Per contro, morto Federico, il governo richiamò dall'esilio i magnati ghibellini che avevano combattuto per lui, accordando loro una grossa somma a risarcimento dei danni sofferti: gesto insolito nell'atmosfera italiana del tempo, e dettato forse non tanto da un desiderio di concordia quanto dalla speranza di rafforzare la nobiltà di fronte al "popolo" che aspira a salire. Per qualche anno ancora, l'euforia economica e politica trattiene i malcontenti e favorisce la corruzione; ma al primo segno di crisi, i ghibellini ricorderanno i loro rancori e il popolo i suoi sacrifici. Nel 1256 falliscono parecchi lanaioli e almeno due tra i banchieri più in vista; la Francia non ordina nuove navi e non paga le vecchie; all'esterno, una clamorosa vittoria su Pisa è offuscata da crescenti difficoltà in Sicilia e in Terrasanta; per di più, il Comune si vede costretto ad applicare una costituzione papale contro gli eretici nel suo territorio. In questa atmosfera matura la sommossa che al principio del 1257 porterà al governo il B., forse perché, consigliere del Comune nel 1256, avrà denunciato abusi e suggerito rimedi, o perché, ricco ma popolare, ha amici in tutte le classi.
Il tumulto scoppia, a quanto pare, spontaneo quando il popolo minuto prende a sassate il podestà uscente, Filippo della Torre milanese, assolto dai sindacatori nonostante le sue provate malversazioni (verrà invece imprigionato e multato). Poi la folla si ingrossa e, aizzata da "alcuni potenti" (cioè da nobili ghibellini), corre in armi alla piazza di S. Siro, sede consueta del parlamento cittadino, proclama il B. capitano del popolo, lo trascina riluttante in chiesa, e gli giura obbedienza. L'atto rivoluzionario viene legalizzato il giorno seguente, davanti al nuovo podestà, nella cattedrale di S. Lorenzo. Il B. è investito del potere supremo, "secondo l'uso degli altri capitani", e avrà a suo fianco trentadue Anziani (quattro per ogni quartiere), che lo aiuteranno a riformare gli statuti. Qualche giorno più tardi la sua posizione viene meglio precisata: resterà in carica dieci anni (e, se morisse prima del termine, avrà per successore uno dei suoi fratelli); gli verranno assegnati a spese pubbliche uno stipendio, un palazzo, diversi aiutanti e una schiera di armati. In realtà il B., nato in città e non forestiero, eletto per un lungo periodo e non per un anno solo, capo di un Comune indiviso e non di un Comune popolare in seno al maggiore, somiglia più ai signori dell'età successiva che non ai capitani del popolo proclamati al suo tempo in altre città italiane. Non stupisce che il podestà entrante, vedendosi esautorato, si dimetta e venga sostituito con un altro più docile; o che si intiepidiscano molti nobili che avevano sperato in un rovesciamento di fazione e non un vero e proprio cambiamento di regime. A sua volta l'opposizione aristocratica spingerà a poco a poco il B. a prendere le parti delle classi inferiori e ad accentuare le tendenze autoritarie del suo governo.
I primi due anni furono i più esitanti; era difficile liquidare l'eredità della vecchia oligarchia senza il pieno appoggio di una nuova. Ma un trattato con Manfredi si poté concludere quasi immediatamente; pur senza soddisfare tutte le pretese di Genova, riaprì al suo commercio il Regno dove il governo precedente aveva invano cercato di imporsi al seguito del papa. Invece la guerra contro Pisa, spostatasi in Sardegna, prese una cattiva piega: prima Cagliari, poi Santa Igia caddero in mano al nemico. Ancora peggio in Terrasanta, pernio del commercio di Levante. Una lotta tra le potenze che si dividevano il controllo di Acri, cominciata imprudentemente sotto il governo guelfa, portò a due sconfitte navali dei Genovesi, e infine, nel 1258, alla conquista e distruzione del quartiere genovese di Acri da parte dei Veneziani e dei Pisani collegati. Buon per Genova che il signore di Tiro, ghibellino e fedele alleato, offrisse ai suoi mercanti i più ampi privilegi. Ma se materialmente la perdita non fu irreparabile, il prestigio del B. non poté non soffrirne.
Dietro la sconfitta si intravvede una mancanza di collaborazione tra il capitano del popolo e almeno una parte della cittadinanza, che non sostenne con uno sforzo adeguato di uomini e denaro la campagna cominciata a cuor leggero. I comandi navali vennero assegnati non ai più autorevoli ma ai più fidati: prima un ammiraglio troppo giovane e impetuoso, poi uno esperto ma vecchio, anche se benemerito per aver servito come capitano, del popolo nel 1239-42. Le finanze erano dissestate: la maggior parte delle entrate ordinarie erano state "comperate" in anticipo per molti anni, a prezzi di favore, da uomini del vecchio governo e sottogoverno, che ne incassavano tutti i proventi; il resto era impegnato a pagare gli interessi di recenti prestiti forzosi. Il B. non volle aumentare le imposte indirette, ma fu costretto ad aggravare la cittadinanza con nuovi prestiti forzosi a interesse fisso; erano meno onerosi per il pubblico in quanto proporzionali al patrimonio, e per il Comune in quanto cedeva un interesse ma non un'imposta intera. Inoltre, senza toccare per il momento il sistema finanziario del Comune, il B. si sforzò di eliminare tributi di origine precomunale. Riuscì a proibire l'esazione di pedaggi da parte dei marchesi Malaspina e di altri feudatari del contado; riscattò a buone condizioni i diritti dell'arcivescovado sul commercio marittimo; tentò anche di eliminare quelli che alcuni potenti cittadini riscuotevano come eredi dei cessati visconti, ma più tardi ne ammise la legittimità.
Assunto al governo quando ai problemi finanziari si accompagnava una crisi economica generale, il B. non cercò di combatterla con interventi massicci, in contrasto con la tradizione genovese e coi suoi propri istinti di mercante, ma esercitò il controllo che spettava al governo in certi settori, come la navigazione in zone insicure e i dissesti commerciali.
Nelle banche la crisi continuò almeno fino al 1259: fu probabilmente scongiurato il fallimento del banco Aschieri, e le pressioni di Lanfranco Boccanegra, fratello del B., ottennero un concordato per Oberto di Nizza; ma la promessa di pagare i creditori al 90 per cento non bastò a evitare il fallimento e la prigione per debiti a Guglielmo Leccacorvo e ai suoi soci, che gestivano uno dei banchi più ragguardevoli della città. Il commercio internazionale si riprese più facilmente, anche grazie al trattato di amicizia con Manfredi. E si risollevò l'artigianato, che proprio a quel tempo, incoraggiato dal B., stava completando la propria organizzazione corporativa. Dal 1259 in poi i capi dei mestieri saranno inclusi coi consiglieri e gli Anziani che ratificano i trattati.
Ormai il B., forte del consenso popolare e appoggiato da alcune grandi famiglie ghibelline con le quali si è imparentato, ha avocato a sé la scelta dei funzionari, dei comandanti militari, degli ambasciatori. I nobili guelfi cospirano contro di lui; ma egli viene a saperlo e, abilmente, li fa avvertire che pendono sul loro capo condanne severe. I congiurati fuggono e vengono prontamente messi al bando; il B. si insedia nel palazzo di uno dei loro capi, Obizzo Fieschi. Poco dopo (sempre nel 1259), il cardinale Ottobono Fieschi entra a Genova col pretesto di una missione diplomatica; il B. lo accoglie con onore, ma il popolo tumultua, e il cardinale riparte, rinunciando a pescare nel torbido. Così, senza colpo ferire, il B. si è sbarazzato degli oppositori più pericolosi. E si serve del momento favorevole per varare la sua riforma finanziaria più coraggiosa: la conversione di tutto il debito pubblico in prestito consolidato e redimibile a interesse fisso. In un decreto altisonante del 16 giugno 1259 ricorda infatti "la costante fede degli antichi nobili che quasi mai... si rifiutarono a offrire le proprie sostanze quando le pubbliche facevano difetto", e la contrappone alla protervia di coloro che hanno approfittato dei loro uffici per comperare a vil prezzo e a lunga scadenza le entrate del Comune violando così la legge del 1155, che proibiva tali cessioni per più di un anno. Tuttavia il Comune non passerà la spugna sui debiti illegalmente contratti, ma li equipara ai prestiti forzosi, sui quali paga il modico interesse annuo dell'8 per cento, riservandosi il diritto di riscattarli al prezzo originario.
Il decreto, giurato dall'assemblea popolare e controfirmato da preminenti nobili ghibellini, danneggia molti potenti, ma mette a disposizione del B. il denaro che gli occorre per una politica di oculata grandezza. Già nel 1258 la piazza del Sarzano era stata assegnata a perpetuo uso della cittadinanza; nel 1260 si inizia la costruzione del nuovo palazzo comunale, l'odierno palazzo S. Giorgio; e si lavora all'ampliamento delle calate e dei moli: Oltre ad abbellire la città e a servire ai suoi commerci, queste opere pubbliche danno impiego a molta gente, affrettando la fine della depressione. Il B., al colmo del prestigio, governa sempre più personalmente, "velut tyrannus" (come scrivono gli Annali, espressione delle classi superiori). Ma è un tiranno illuminato e clemente, che nel 1260, commosso dalle turbe di flagellanti che profetizzano l'imminente fine del mondo, invita i fuorusciti a tornare impunemente, purché prima si riconcilino coi loro avversari.
Non perdona però a Venezia lo smacco di Acri, ma prepara la rivincita accordandosi con Michele Paleologo, imperatore greco, per aiutarlo a riprendere Costantinopoli all'imperatore latino e ai suoi alleati-padroni veneziani. Viene così concluso, il 13 marzo 1261, il trattato di Ninfeo, che promette ai Genovesi una serie di scali e di privilegi in tutto il territorio bizantino. Entrato nella capitale il 25 luglio, Michele concede ai Genovesi di occupare e distruggere, a suon di musica, il palazzo del podestà veneziano. Si apre una nuova era di espansione per Genova.
Il 5 maggio del 1262 Ansaldo D'Oria, membro della grande famiglia ghibellina che ha sempre parteggiato per il B., porta a Genova le notizie inebrianti di Costantinopoli, e, pegno della vittoria, alcune pietre del palazzo veneziano, che verranno murate nel palazzo S. Giorgio. Parrebbe il momento buono per stroncare la congiura che gli ex fuorusciti Grimaldi, troppo riconciliati con gli altri nobili, ordiscono contro il capitano. Questa volta il B. ha deciso di far arrestare i capi sediziosi nottetempo, chiamando rinforzi dal contado. Ma il segreto trapela, i congiurati insorgono in armi qualche ora prima, il 9 maggio, e sbarrano le porte della città. A sua volta il B. fa chiamare il popolo alle armi, concentra ottocento uomini in piazza Fossatello, si accinge ad attaccare il palazzo Grimaldi; ma, incerto se convenga aspettare rinforzi o forse sperando di evitare spargimento di sangue, torna a chiudersi nel proprio palazzo. Il fratello Lanfranco cade combattendo (un altro fratello, Marino, è in Oriente a capo della flotta che impone la fortuna di Genova lungo le rive bizantine); i fedeli si sbandano di fronte ai rivoltosi meglio armati; e il B. rinunzia a lottare. L'arcivescovo gli ottiene un salvacondotto perché si rifugi nel palazzo di Pietro D'Oria prima di partire in esilio. La libertà di Genova è salva; ma con la libertà torneranno il disordine e la corruzione.
Oltre al potere - e alle illusioni - il B. ha perduto i suoi beni in Genova, confiscati dal nuovo regime; ma non gli mancano amici in Francia, dove la sua carriera aveva preso il primo slancio. Alfonso di Poitiers, divenuto ormai conte di Tolosa, prodiga gli sforzi per fargli restituire i beni, con una fitta serie di lettere al Comune, al podestà, all'arcivescovo di Genova; e sollecita l'intervento di quanti possono avere un'influenza sui Genovesi, dal re suo fratello al balì di Provins, che sopraintende alle fiere internazionali. Invano; ma già nel 1264 ottiene che la regina di Francia ricorra al B., per non sappiamo quale incarico, e ancora nel 1270 ordinerà al siniscalco del Rouergue di assegnare al B. terre che producano la rendita annua di 40 lire tornesi, "da lungo tempo" concessa al "nostro amato e fedele Guglielmo Boccanegra". E poiché in altre lettere del medesimo periodo Alfonso allude al B. come a un suo vassallo, dobbiamo supporre che l'esule sia vissuto per tutti quegli anni come un onorato e retribuito seguace del conte di Tolosa.
La seconda crociata di Luigi IX (1270), che come la prima si prepara a Aigues-Mortes con un concorso ancora più ampio di Genovesi, offrirà al B. una migliore occasione di impiegare il suo talento di uomo di affari, amministratore e costruttore. Aigues-Mortes, costruita in fretta in una zona paludosa e malsana, non è certo un soggiorno ideale. Quasi ironicamente una petizione al re, di data incerta, aveva proposto che il suo nome poco incoraggiante all'immigrazione fosse mutato in quello appena più allegro di "Bona-perforsa". Ma il re, che già nel 1246 vi aveva fatto costruire una torre-faro possente (la Torre di Costanza, più tardi rimaneggiata e ancora esistente), è più che mai deciso a farne la base principale delle sue operazioni nel Mediterraneo. Nel 1266, con l'autorizzazione di papa Clemente IV (nato nella vicina St-Gilles), Luigi IX impone una tassa di un denaro per lira sul carico di tutte le navi che approdino al porto (esentandone soltanto i crociati e i pellegrini), per finanziare la costruzione e manutenzione della città. Il B. viene incaricato di riscuotere la tassa, amministrare la giustizia (probabilmente come viguier o vicario del re) e sopraintendere ai lavori delle fortificazioni e del porto. Non più come console dei Genovesi, ma come rappresentante del re, vedrà i suoi compatrioti imbarcarsi a Aigues-Mortes per la sfortunata crociata di Tunisi, e assumerà ai suoi servizi un buon numero di concittadini, attratti dalla speranza di guadagno o spinti dai rivolgimenti politici in patria.
I lavori prenderanno un nuovo slancio dopo la morte di Luigi IX. Nell'aprile 1272 Filippo III concede al B. uno stipendio annuo di 40 lire tornesi; nel maggio precisa in un contratto ciò che attende da lui. Il B. investirà nei lavori 5.000 lire tornesi (pagabili in dieci rate); il re tutti i suoi redditi in Aigues-Mortes. Al B. sarà affidata la giustizia, salvo in casi di omicidio, mutilazione o forestazione, e l'alta direzione dei lavori sotto il controllo supremo del siniscalco di Beaucaire; soltanto in caso di crociata, poteri straordinari verranno deferiti all'ammiraglio che il re vorrà designare. Al termine di dieci anni, profitti e spese di manutenzione verranno divisi a metà tra il re e il B. o i suoi eredi.
Il B. non vide il compimento dei lavori; era già morto nel gennaio 1274, quando il siniscalco di Beaucaire ricevette l'ordine di accordarsi con la vedova e i figli minorenni di Guglielmo (Giacomina, Niccolò, Rainerio e Ottobono), residenti in Montpellier, per la liquidazione del contratto, che fu annullato col versamento di 4.734 lire agli eredi (nel 1278 i figli del B. riscossero inoltre 7.500 lire depositate presso mercanti piacentini a Montpellier). Le fortificazioni, un gioiello di architettura militare intatto ancor oggi, furono compiute da altri Genovesi, specialmente Niccolò Cominelli e Guglielmo Bucuccio De Mari, secondo un piano uniforme che probabilmente era stato ideato dal Boccanegra. Questi aveva lasciato in patria rancori di cui gli Annali portano traccia, ma anche la nostalgia di un governo favorevole al popolo, nostalgia che animerà coloro che nel 1339 proclameranno Simone Boccanegra, figlio di Giacomo di Lanfranco e pronipote di Guglielmo, primo doge di Genova.
Fonti e Bibl.: Manca una biografia vera e propria, ma se ne trovano gli elementi in Annali genovesi, IV, a cura di C. Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1926, pp. 25-48; G. Caro, Genua und die Mächte am Mittelmeer, I, Halle 1895, passim; C. Imperiale di Sant'Angelo, Iacopo d'Oria e i suoi annali, Venezia 1930, pp. 77-112; V. Vitale, Il momento eroico della storia genovese, in Atti della Soc. ligustica di sc. e lett., XIV (1935), pp. XVII-XXXVI. Complem. indisp. per lo sfondo econ. e finanz. offrono gli studi di H. Sieveking, Studi sulle finanze genovesi nel medio evo (trad. riveduta), in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXXV (1905), pp. 61-68; e di R. S. Lopez, La prima crisi della banca di Genova, Milano 1956. Più frammentaria la documentaz. dell'attiv. svolta dal B. in Francia: cfr. in partic. J. Morize, Aigues-Mortes au XIIIe siècle, in Annales du Midi, XXVI (1905), pp. 313-48; qualche elemento nuovo apporta T. Philoon, The Early Economic and Commercial Development of Aigues-Mortes, tesi ined:, Yale University, New Haven, Conn, 1950, passim.