PUNICHE, GUERRE
. Si designano con tal nome tre guerre fra Roma e Cartagine avvenute rispettivamente tra gli anni 264 e 241 a. C. (con una ripresa nel 238 a. C.); 219 e 201; 151 e 146. I rapporti tra Roma e Cartagine furono cordiali finché Roma non fu una potenza navale e commerciale e finché quindi i suoi interessi furono limitati all'Italia continentale. Sia o no autentico il trattato che Polibio ci dice stretto fra le due città il primo anno della repubblica romana (509 a. C.) e si debba quindi riportare a tale data o piuttosto al 348 a. C., secondo vuole invece la tradizione di Diodoro, il primo accordo giuridico fra esse, è certo che una solida base per la loro amicizia stava da un lato nella comune rivalità con gli Etruschi, dall'altro nella convenienza per i Romani che in Sicilia e quindi indirettamente nell'Italia meridionale la forza degli stati greci fosse controbilanciata da quella punica. La solidarietà si era fatta naturalmente più stretta con l'intervento di Pirro in Italia, minaccioso per i Cartaginesi come per i Romani; e perciò l'apparizione di una flotta cartaginese a Ostia nel 279, venuta a promettere nel modo più significativo l'aiuto di Cartagine (sancito in un nuovo trattato del medesimo anno) ebbe parte decisiva nel persuadere i Romani alla prosecuzione nella guerra dopo le sconfitte di Eraclea e di Ausculo. Ma doveva essere appunto conseguenza logica, sebbene apparentemente paradossale, della lotta contro Pirro, che, condotta a fondo in nome della solidarietà punico-romana, dovesse creare la condizione di fatto per quella rivalità, che non finì se non con la distruzione di una delle contendenti.
Con il predominio su tutta l'Italia meridionale conseguito alla vittoria su Pirro, Roma si venne a trovare pressoché a contatto diretto con il territorio cartaginese in Sicilia; ciò che non poté mancare d'insinuare irrequietezza nelle relazioni tra i due stati. Inoltre, sempre in conseguenza della conquista, la sfera degl'interessi che toccava a Roma di tutelare si era enormemente allargata. È difficile dire quanto direttamente in Roma si sentissero allora gl'interessi commerciali, sebbene sia evidente che le prospettive economiche nuove né erano trascurate né di conseguenza potevano mancare di farsi sentire nella politica. Ma poi spettava ora a Roma tutelare la floridità delle città commerciali e marinare del Mezzogiorno nell'interesse della stessa floridità di Roma. Infine l'impeto di conquista, che fino allora aveva portato avanti Roma, non si poteva fermare davanti allo stretto di Messina. Il tacito accordo per cui Cartagine aveva lasciato indisturbata Roma nell'espansione in Italia, mentre Roma lasciava indisturbata Cartagine nella sua espansione in Africa, in Sicilia, Sardegna, Corsica e nella Spagna meridionale, si spezzava nel momento in cui i campi d'azione dei due imperialismi venivano a interferire.
L'interferenza fu quasi materialmente provocata da un invito a Roma dei mercenarî campani (Mamertini), che tenevano Messina dal 289 e, dopo aver chiesto aiuto ai Cartaginesi, per salvarsi da Gerone di Siracusa, pensarono di potersi liberare dal presidio cartaginese rivolgendosi ai Romani. Questi nel 264 a. C., deliberando dopo molte esitazioni d'inviare soccorsi, iniziarono la prima guerra punica. Non è caso che fossero Campani, cioè originarî da un territorio ormai suddito di Roma, coloro che ne invocavano l'intervento.
I Romani, riusciti a sbarcare in Sicilia, vi riportarono abbastanza rapidamente successi, che spinsero Gerone, già alleatosi con i Cartaginesi, a passare dalla parte loro. La guerra per altro, benché una delle più importanti città sottomesse ai Cartaginesi (Agrigento) fosse stata occupata con l'aiuto di Gerone nel 262, minacciava di prolungarsi infruttuosa, perché i Cartaginesi padroni del mare potevano continuamente inviare quei rinforzi di mercenarî dell'Africa, che le loro grandissime disponibilità economiche permettevano di raccogliere. Si presentava insomma a Roma la necessità di trasformarsi di colpo in potenza navale: ciò che del resto poteva accadere meno difficilmente di quanto agli antichi stessi non paresse, perché gli stati greci dell'Italia meridionale potevano fornire il modello per le navi e ciurme adatte. Il merito di Roma sta, comunque, nell'avere inteso a fondo la necessità e, dopo la grande vittoria presso Mile (Milazzo) nel 260 a. C., che dimostrò la perfetta attrezzatura della nuova flotta al comando del console Gaio Duilio, di averne tratto la logica conseguenza e di aver deciso di colpire al cuore Cartagine, portando, come era ormai possibile, la guerra in Africa.
Nel programma era la ripresa del tentativo dell'ultimo grande difensore dell'ellenismo in Sicilia contro i Cartaginesi, Agatocle. Roma (pure essendone scarsamente consapevole) per il fatto stesso di essersi posta contro Cartagine, veniva ad assumere in Sicilia, come nell'Italia meridionale contro Sanniti, Iapigi, ecc., la difesa delle città greche ridotte - dalle contese intestine e dal logoramento di una lotta secolare contro le stirpi avverse - a non bastare più a sé stesse. Anche in Sicilia le sorti della civiltà greca erano nelle mani di Roma nel senso che sarebbe dipeso dalla guerra se essa sarebbe confluita nella civiltà punica o nella romana.
Il console Attilio Regolo, apertosi la strada dell'Africa nel 256 con la battaglia dell'Ecnomo, riuscì dapprima a sollevare le popolazioni indigene contro Cartagine, spingendo quest'ultima a chiedere la pace. Rifiutate peraltro le condizioni poste da Regolo, Cartagine poté con un nuovo sforzo militare, in cui si procurò l'aiuto dell'esperienza tecnica di un generale greco, distruggere l'esercito romano e prendere prigioniero lo stesso Regolo. Il trasferimento della lotta in Africa era per allora fallito, e il centro della guerra fu riportato in Sicilia. La superiorità navale già conquistata da Duilio venne nuovamente perduta dai Romani anche per la eccezionale serie di naufragi che li colpì, sicché per quattordici anni i presidî cartaginesi, asserragliati nella parte occidentale dell'isola e sostenuti per mare, poterono resistere. Solo nel 242 la battaglia delle isole Egadi vinta da Lutazio Catulo ridava ai Romani quel dominio del mare che era condizione di vittoria e di pace. Respinto dal popolo in Roma il primo accordo stabilito fra i generali dei due eserciti, la pace fu definitivamente pattuita nel 241 con la cessione della Sicilia (territorio cartaginese) e isole minori e il pagamento di 3200 talenti.
Poco dopo una ribellione di mercenarî metteva in pericolo l'esistenza stessa di Cartagine: i Romani non ne approfittavano, ma quando Cartagine, superata, forse contro la loro aspettazione, la crisi, si accinse a recuperare il controllo sulla Sardegna e sulla Corsica, che aveva perduto, essi decisero d'impedirlo e, dichiarata nuovamente guerra, costrinsero la rivale a cedere le due isole e pagare altri 1200 talenti (238 a. C.).
Per Roma conseguenza essenziale della vittoria, in seguito a cui il bacino del Tirreno diventava interamente romano, era (se si prescinda qui dall'influsso sulla costituzione interna) d'iniziare un periodo nuovo del suo imperialismo. Mentre prima esso consisteva in un predominio su stati confederati, ora, in Sicilia (eccettuato il regno di Gerone che rimaneva indipendente) e poi nelle altre isole, prendeva la forma del diretto dominio, la provincia, in cui si conservavano talune forme di sudditanza già stabilite da Cartagine. Sebbene Roma procedesse assai cautamente e con molta esitazione per questa via, essa non poteva che portare a un rinnnovarsi e accentuarsi della rivalità con Cartagine. La quale stava compensando le perdite con una sistematica penetrazione in Spagna diretta da Amilcare Barca e poi da Asdrubale suo genero. Se questa penetrazione fosse dai suoi iniziatori considerata come un primo passo per la ripresa contro Roma non sappiamo ed è in fondo superfluo saperlo. Che anche operando in territorî lontani i due imperialismi si sentissero rivali (tanto più che Roma proteggeva Marsiglia, che aveva interessi in Spagna) indica il cosiddetto trattato dell'Ebro del 226. Roma, in un momento in cui era particolarmente minacciata dai Galli nell'Italia settentrionale, si accordava con Cartagine riconoscendole il diritto di espandersi a mezzogiorno dell'Ebro in Spagna, purché i Cartaginesi non varcassero quel fiume. E che i Cartaginesi sapessero di potersi servire della Spagna contro Roma dimostra l'attività stessa di Annibale, succeduto nel 221 al padre Asdrubale che gli aveva fatto giurare sin da fanciullo odio eterno a Roma. Purtroppo, come non è ben noto, per le informazioni contraddittorie delle fonti, il trattato dell'Ebro, così è oscuro il complesso di avvenimenti intorno a Sagunto che portò alla seconda guerra punica. Sembra che Roma, conservando l'alleanza con Sagunto sita a mezzogiorno dell'Ebro anche dopo il trattato, si valesse di un suo diritto formale, ma ledesse però l'implicita promessa contenuta nel trattato di non contendere a Cartagine il territorio a mezzogiorno del fiume. A sua volta Annibale, assalendo Sagunto, si valeva di un suo diritto, perché la città era in territorio di sua spettanza, ma provocava consapevolmente Roma in difesa della sua alleata (219). Comunque stiano i particolari, assai discussi dai critici moderni, è ovvio che Sagunto fu l'occasione della seconda guerra punica, come i Mamertini di Messina lo furono della prima. La lotta era sempre fra due imperialismi. Ma la vastità e novità del suo svolgimento fu il prodotto della personalità. eccezionale di due condottieri: Annibale nella prima fase e Publio Scipione nell'ultima.
Annibale volle la guerra, perché seppe che l'avrebbe comandata. Egli poteva anzitutto contare su quella sua genialità di generale che poi ebbe piena conferma e sul fascino che la sua indomita natura esercitava sui soldati. La tattica da lui adoperata in tutte le battaglie combattute in Italia darà infatti la misura della sua superiorità militare: egli, servendosi del sistema ellenistico di combinare opportunamente la cavalleria e la fanteria, lo perfezionerà fino a renderlo capace di aggirare i nemici e così distruggerli. Aggiramento e conseguente annichilimento saranno i principî fondamentali della sua arte della guerra. Ma, evidentemente, egli attribuiva valore, ancora più che a questo sistema militare, alla novità del suo piano politico: portare la guerra in Italia e provocare con la sua presenza la dissoluzione della federazione stretta intorno a Roma. In questo audacissimo piano sta la grandezza, ma anche il limite della grandezza di Annibale. Egli, abituato al sistema cartaginese della oppressione dei sudditi, non si accorse né allora né parecchi anni poi che la federazione italica aveva per la sua struttura una solidità tutta particolare. La fedeltà a Roma era ormai radicata nelle convinzioni e negl'interessi della maggioranza, e infatti, anche nei momenti peggiori, in complesso non venne meno. Annibale perciò, arrivato in Italia, ebbe dapprima quel vantaggio che gli veniva dalla sorpresa e dalla sua superiorità di stratega. Ma, allorché i Romani impararono a evitare le sconfitte in campo aperto, la loro compattezza e il dominio del mare che essi seppero mantenere, non permettendo quindi ad Annibale quel rinnovo di forze, che era invece loro possibile, crearono le condizioni per arrivare alla vittoria finale. Essa sopravverrà quando un generale romano (Scipione) non solo s'impadronirà e migliorerà la tattica del Cartaginese, ma ne emulerà anche l'audacia spostando il campo principale della lotta, pur rimanendo l'Italia invasa, prima in Spagna e poi in Africa.
Appena si annunciò che Annibale marciava verso l'Italia, i Romani dovettero naturalmente rinunciare a portare la guerra in Africa, come intendevano. È però indizio di lungiveggenza che non rinunziassero ugualmente a trasportare soldati in Spagna: ciò che permetterà di dare sviluppi impreveduti alla guerra. Non trattenuto in Gallia, né sul Ticino, Annibale sconfisse nel 218 quattro legioni sulla Trebbia, poi l'anno dopo, penetrato nell'Italia centrale, sapeva trascinare uno degli eserciti consolari, di Gaio Flaminio, presso il lago Trasimeno e lo distruggeva. Prevaleva per poco in seguito tra i Romani una strategia di temporeggiamento con la nomina a dittatore di Fabio Massimo cunctator; ma con le elezioni consolari del 216 (Emilio Paolo e Terenzio Varrone) riprese vigore il programma offensivo, che portò all'ultimo e maggior disastro: presso Canne forse quattro (Polibio dice otto) legioni romane con una manovra di attanagliamento diventata classica erano distrutte, e uno dei consoli, Emilio Paolo, ucciso.
I Romani avevano dato la possibilità ad Annibale di svolgere tutto il suo piano: schiacciare in campo aperto a uno a uno gli eserciti romani e valersi del terrore che le vittoria e i saccheggi conseguenti suscitavano per chiamare a ribellione gli abitanti dell'Italia. Nell'Italia settentrionale erano già ribelli, anche prima dell'arrivo di Annibale, i Galli Insubri e Boi, che ora, aiutati da Annibale, scacciarono i Romani da tutta la regione, le colonie di Cremona e di Piacenza eccettuate. Nell'Italia meridionale la prima ribelle fu Arpi in Puglia; la seguirono la maggioranza dei Sanniti, de' Bruzî e i Lucani, finché si diede ad Annibale Capua: nel 215 aprirono le porte Cosenza, Locri, Caulonia, Crotone, ecc. Poco dopo Canne, Annibale stringeva anche un'alleanza con Filippo V di Macedonia.
E tuttavia la situazione non divenne disperata perché la maggioranza dei confederati rimase fedele a Roma. Tutta l'Italia centrale, a cominciare dai Latini e dagli Etruschi, non si mosse: nell'Italia meridionale centri come Napoli, Nola, Reggio, a tacere delle colonie di Benevento, Venosa, Luceria, ecc., furono altrettanto fedeli. Ciò permise di riprendere la strategia del logoramento, già iniziata nel 217 da Fabio Massimo, che ora divenne il più influente consigliere militare del senato. Dalla Macedonia del resto, per la corta vista di Filippo, che preferì combattere i Romani in Illiria, non vennero ad Annibale aiuti: e pochi anni dopo, nel 212, i Romani seppero immobilizzare Filippo suscitandogli con l'aiuto degli Etoli, del regno di Pergamo e stati minori, una guerra in Grecia. Pure in Sicilia, benché parecchie città si ribellassero e Siracusa stesse contro Roma, la situazione ridiventava lentamente favorevole ai Romani: sinché nel 212 Siracusa era presa d'assedio e nel 210 era ricuperata Agrigento. Le truppe romane in Spagna infine impedivano che di là potessero giungere rilevanti soccorsi ad Annibale e dimostravano con la vittoria d'Ibera di aver appreso la lezione di Canne e di sapere evitare la manovra a tenaglia (215), mentre dall'Africa non potevano nemmeno pervenire rinforzi, essendosi posto contro Cartagine il re dei Numidi Masesili Siface. Nel frattempo Roma aveva superato in Italia il momento critico. Né importa che poi la ribellione di Siface fosse presto domata, almeno provvisoriamente, e che in Spagna nel 211 i Romani toccassero dure rotte: Annibale era ormai costretto alla difensiva dalla nuova strategia romana che capovolgeva tutti i suoi piani e le sue previsioni. Nel 213 Arpi era ripresa, e se nel 212 ancora cadeva in mano di Annibale Taranto, nel 211 era rioccupata Capua, benché Annibale per liberarla, durante l'assedio, facesse un'improvvisa apparizione davanti a Roma, così impressionante come, in definitiva, senza conseguenze.
Gli anni decisivi furono il 209 e il 208. Sin dal 210 era stato inviato in Spagna a restaurarvi le fortune romane Publio Cornelio Scipione con un comando eccezionale (egli era soltanto edile) che corrispondeva alla natura eccezionale dell'uomo, in cui fede mistica nel proprio compito e aristocratica finezza di spirito si univano a solide qualità di organizzatore e di generale. Scipione scorgeva la possibilità di fare della Spagna un centro di rifornimento per Roma, mentre lo era stato finora per Cartagine, e occupava di sorpresa nel 209 il principale arsenale nemico, Cartagine nuova (Cartagena). Con la conquista della Spagna, che procederà sistematica da allora, si veniva quindi innanzitutto ad apportare un essenziale miglioramento alla condizione economica dello stato romano stremato dalla permanenza di Annibale sul proprio suolo. Questi intanto aveva dovuto chiamare a soccorso in Italia nel 208 il fratello Asdrubale con un'armata dalla Spagna; e, sebbene Scipione non potesse impedirgli il passo pur infliggendogli gravi perdite nella battaglia di Becula, Asdrubale era poi sconfitto e ucciso in Italia sul Metauro, prima che si potesse congiungere col fratello. L'abilità manovriera dei due consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore, riunitisi prima che Asdrubale se ne avvedesse e capaci poi di arrestarne la marcia e di costringerlo a battaglia, diede ai Romani la prima grande vittoria in campo aperto in Italia. Il peggioramento della situazione in Italia e in Spagna procederà d'allora parallelo per i Cartaginesi. Infine nel 205 un altro fratello di Annibale, Magone, trasportava l'ultimo esercito cartaginese di Spagna nell'Italia settentrionale per rianimare la ribellione dei Galli. Nello stesso anno con il trattato di Fenice i Romani si liberavano della ostilità dei Macedoni, che poco pericolosa fino all'anno prima, in cui la cooperazione degli Etoli aveva trasferito la lotta in Grecia, si era fatta nuovamente minacciosa dopo che gli Etoli erano stati persuasi a pace separata da Filippo.
Padroni della Spagna - e di quelle riserve che vi erano lasciate dai Cartaginesi - sicuri alle spalle di un attacco da quella parte come dall'Illiria, i Romani erano ora nelle condizioni, pur dovendo ancora combattere a nord e a sud in Italia, di trasferire la guerra in Africa: la sola mossa risolutiva contro uno stato, che era rimasto indenne sul proprio suolo durante la guerra e aveva potuto anche mantenere in molta parte le sue relazioni commerciali. Scipione nel 204 fu inviato in Africa. Vi trovò forti difficoltà per l'isolamento e anche perché il re Siface dei Masesili, su cui originariamente contava si era riconciliato con Cartagine, ed egli si dovette invece alleare con Massinissa re dei Numidi Massili. Ma ormai la sua tattica, elaborata negli anni di due campagne spagnole, aveva qualcosa di nuovo anche in confronto a quella insegnata da Annibale ai suoi concittadini. Invece di fare servire la seconda e la terza fila dei manipoli (i principi e i triarî) a semplice rincalzo della prima fila (gli astati) le distaccò da quella in modo che avessero maggiore autonomia, sia per attaccare i fianchi dell'avversario, sia anche come riserva. Alla tattica di accerchiamento di Annibale era contrapposta un'altra tattica analoga, ma più perfetta, che sarà da allora tipica delle legioni romane. La vittoria ai Campi Magni aveva per prima conseguenza che Massinissa strappasse a Siface il suo regno e per seconda che i Cartaginesi chiedessero e ottenessero la pace, le cui condizioni provvisorie furono il ritiro delle truppe di Annibale e Magone dall'Italia e la rinunzia alla Spagna.
Quando però i Cartaginesi si trovarono accanto Annibale ritornato dall'Italia con l'esercito invitto e il prestigio non scosso, pensarono di poter tentare la sorte di un'ulteriore lotta piuttosto che cedere la Spagna e riaprirono le ostilità. Lo scontro fra le truppe di Annibale e di Scipione avvenuto in posizione incerta (di solito la battaglia è detta di Zama, ma anche dai critici moderni di Naraggara) diede vittoria completa ai Romani (202 a. C.). La pace fu naturalmente ora ben più dura. Rinuncia non solo alla Spagna, ma ai dominî extra-punici in Africa, ceduti a Massinissa; diecimila talenti d'indennità, la consegna di tutta la flotta eccetto dieci triremi, divieto di fare guerre fuori dell'Africa e di farla in Africa senza il consenso dei Romani (201 a. C.). Era la pace più dura che i Romani avessero mai imposta, ma non poteva essere attesa diversamente da un popolo che aveva lottato per vent'anni con disperata energia, mettendo in campo fino a venticinque legioni, vedendosi ripetutamente saccheggiata quasi ogni parte del suo territorio.
La vittoria era stato il frutto della superiorità di uno stato che sulla base della uguaglianza aveva creato la saldezza del proprio esercito confederale di fronte a uno stato, in cui l'oppressione di una città dominante non permetteva che eserciti di mercenarî. La vittoria dava a Roma l'incontrastato dominio sul Mediterraneo occidentale, la portava a sostituire Cartagine anche come stato commerciale e faceva sorgere - maggiore incognita - il problema dei rapporti tra Roma e i grandi stati ellenistici. Il cinquantennio successivo è quello del rapido affermarsi dell'egemonia di Roma in Oriente, battute la Macedonia e la Siria, ridotto l'Egitto a doversi fare tutelare da Roma. Finché Roma pensò solo a un'egemonia e non a una conquista, tollerò anche il rifiorire di Cartagine, se non come grande stato, per lo meno come un'imponente azienda commerciale con relazioni sempre più estese (due recenti testimonianze d'interessi commerciali cartaginesi sul Mar Rosso e sul Mar Nero rispettivamente presso U. Wilcken, in Zeitschr. für aegypt. Sprache und Altert., LX, 1925, p. 90, e S. Lambrino, in Dacia, III-IV, 1927-32, p. 401). La trasformazione della politica romana dalla egemonia alla conquista coincide anche con la definitiva soppressione di Cartagine: non per caso essa accade poco dopo la riduzione della Macedonia a provincia e press'a poco contemporaneamente all'analoga sistemazione della Grecia (146 a. C.). Già per ciò è impossibile spiegare la politica romana limitandosi al fatto cartaginese, mentre esso rientra almeno indirettamente nella lotta contro tutto un sistema. Per quel che riguarda in particolare Cartagine due motivi possono ritenersi probabili (ma forse non decisivi); la concorrenza dei Cartaginesi era evidentemente vista di mal occhio dai commercianti italici, sempre più potenti; i latifondisti romani, di cui può essere indicato a rappresentante Catone, il più tenace nemico di Cartagine, consideravano opportuno l'acquisto delle fertili terre in Africa. Si aggiunga un terzo più complicato motivo. Per sospetto contro Cartagine, i Romani permisero a Massinissa di accampare sempre nuove pretese sul territorio di Cartagine, valendosi dell'ambigua clausola del trattato per cui gli era lecito rivendicare le terre già occupate dai suoi antenati. Ma dopo avere sfrenato Massinissa, si doveva ora verosimilmente porre il problema ai Romani se conveniva lasciar formare invece di Cartagine un nuovo grande stato africano, che di Cartagine diventasse anche materialmente possessore. Se tutto questo complesso d'interessi si considera visto dai Romani attraverso quell'odio e quel sospetto per la rivale, che la secolare lotta aveva alimentato - e che non poteva non essere accresciuto dalla tenacia con cui Annibale anche dopo la sua sconfitta fino alla morte (182 a. C.) aveva cercato di tramare contro Roma - si comprenderà forse come si sia giunti all'ultima guerra. Ne fu occasione che nel 151, durante una delle solite contestazioni provocate dalle pretese di Massinissa, la città esasperata dichiarasse guerra al Numide, violando la clausola del trattato che le impediva di entrare in guerra senza l'autorizzazione di Roma.
Roma aveva un motivo legalmente ineccepibile di muovere guerra e la mosse. I Cartaginesi, che compresero di non poter resistere, cedettero a tutte le richieste romane, anche a quella di consegnare le armi; ma, sebbene già disarmati, si ribellarono alla ulteriore intimazione di abbandonare la loro città (che avrebbe dovuto essere distrutta) e fondarne una nuova a dieci miglia dal mare. Si riarmarono quanto poterono e si prepararono a subire l'assedio. Pur abbandonati da Utica resistettero eroicamente per tre anni (149-146), finché Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo e figlio adottivo di un figlio di Scipione l'Africano, nominato console anzi tempo nel 147, affrettò la conclusione della guerra, prima tagliando le comunicazioni con il retroterra, poi prendendo d'assalto la città all'inizio del 146.
A determinarne l'estrema sorte, cooperò il timore che avevano destato da ultimo i suoi approcci con la Macedonia insieme con l'ansia che, durante l'assedio, non avessero potuto sorgere altrove complicazioni: soprattutto nella Spagna ribelle. La città fu distrutta, e fu giurato che non avrebbe mai più potuto essere ricostruita: i cittadini furono uccisi o resi schiavi. Il territorio, salvo qualche piccola concessione ai figli di Massinissa morto nel frattempo, fu trasformato nella provincia romana di Africa governata da un pretore con sede in Utica.
La rivalità che terminava con questa immensa tragedia, di cui i primi a essere umanamente consapevoli saranno i Romani - a cominciare dal vincitore, di cui si dice che meditasse sulle rovine di Cartagine le sorti future di Roma, per giungere a Virgilio - ha una misura che oltrepassa ogni giudizio sui singoli uomini o i singoli moventi. Lo storico deve solo constatare che essa significa fuori dubbio la vittoria di una civiltà superiore e fu la causa o la condizione della latinizzazione dell'Occidente.
Le fonti per la storia delle guerre puniche. - Questioni relative. - La difficoltà maggiore per la ricostruzione della storia delle guerre puniche sta nella scarsezza estrema di testimonianze contemporanee, sia letterarie, che diano una narrazione continuata dei fatti, sia documentarie, che permettano di controllare almeno nei punti essenziali le narrazioni più tarde. S'intende da sé che un tale conflitto tra due popoli civili coinvolgente direttamente o indirettamente tutti gli altri stati del bacino del Mediterraneo non poteva non impegnare l'interesse storiografico di attori e spettatori. Sappiamo infatti di narrazioni contemporanee di parte romana, cartaginese e neutra. Ed è caratteristico che Annibale stesso prima di abbandonare l'Italia facesse incidere in duplice redazione, greca e punica, un sommario delle sue gesta (ingens rerum gestarum titulus punicis graecisque litteris insculptus, Livio XXVIII, 46, 16) nel tempio di Era Lacinia presso Crotone. Ma questa pubblicistica è andata quasi per intiero perduta. In parte è caso: come per la perdita della sezione di Polibio, che tra l'altro concerneva la distruzione di Cartagine, cioè i fatti a lui contemporanei. In parte è invece conseguenza della maggiore autorità assunta, anche a prescindere da altre ragioni, dalle opere che potevano comprendere tutte tre le guerre. Infine è da tenere conto del fenomeno generale, che vale anche in qualche parte per i testi epigrafici, della vasta sommersione degli scritti in latino arcaico sopravvenuta in conseguenza dell'affermarsi del latino classico.
Per la storia della prima guerra punica possediamo: la breve narrazione di Polibio nel I libro della sua opera, che ha solo valore introduttivo e perciò è assai sommaria; le notizie inserite in Diodoro, libri XXII-XXIV; le periochae di Livio perduto, libri XVI-XIX, e gli epitomatori relativi (Florio, Eutropio, Orosio); excerpti di Dione Cassio, libro XI, e il relativo riassunto di Zonara, VIII, 8-17; alcune notizie in Appiano, Trogo Pompeo (Giustino), alcune brevi biografie (di Appia Claudio, Duilio, Atilio Calatino, Attilio Regolo e Lutazio Catulo) nel De viris illustribus dello pseudo Aurelio Vittore, e in parte la vita di Amilcare di Cornelio Nepote. Tutti questi autori risalgono in varia misura a una duplice tradizione, quella di Filino di Agrigento rispecchiante un punto di vista favorevole ai Cartaginesi e quella annalistica romana, a cui del resto è verosimile che lo stesso Filino non sia rimasto ignoto. Polibio appunto lascia scorgere nel modo più evidente questa combinazione, perché in lui il rapporto fra le due tradizioni si presenta ancora nella forma più semplice, a Filino stando accanto un solo annalista, e, per ovvie ragioni cronologiche oltre che per chiari indizî intrinseci, fra i più antichi e autorevoli (quasi certo Fabio Pittore). In Diodoro alle notizie provenienti da Filino, che costituiscono il tessuto della sua narrazione, si aggiungono altre di fonte malcerta. In Livio si ritrova ancora Filino; ma la tradizione annalistica è già multipla e rivela i due strati più antico e recente. Il che si può ripetere, sebbene la misura di Filino sia maggiore, tanto per Dione Cassio quanto per gli scarsi accenni di Appiano. Le biografie dello pseudo Vittore risalgono verosimilmente a Livio.
La conseguenza della sommarietà della nostra informazione è naturalmente che noi possiamo solo ricostruire nelle grandi linee il complesso degli avvenimenti: di più Filino, se per un certo aspetto ha valore superiore a una fonte cartaginese, perché è un Greco di Sivilia osservatore dal teatro più importante delle operazioni militari, non ci permette però di formarci un'idea adeguata né della impresa di Attilio Regolo in Africa né tanto meno della politica cartaginese. A sua volta l'annalistica romana è per sua tradizione estranea a sistematiche ricostruzioni di operazioni militari, come era invece proprio della storiografia prammatica greca. Impossibile è tra l'altro il calcolo degli effettivi dei due contendenti; e qualche precisazione è solo lecita per le flotte (cfr. specialmente W. W. Tarn, in Journ. Hell. Stud., XXVII, 1907, p. 37 segg.).
Tanto meno può fare meraviglia (e il caso si ripeterà per la seconda e la terza guerra) che siano oscurate le premesse giuridiche da cui si sviluppò il conflitto. Donde infine anche abbellimenti poetici, come certo nella tradizione su Attilio Regolo (di cui però un nucleo storico vuole salvare E. Pais, in Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, IV, Roma 1921, p. 411 segg.), a cui non sarà rimasta estranea l'influenza sulle opere storiche delle vere e proprie opere poetiche, tra cui il Bellum poenicum di Nevio. Scarsissimo aiuto dànno le fonti epigrafiche, tra cui basti ricordare i Fasti trionfali, e la celebre iscrizione in onore di Duilio (Corpus Inscr. Lat., I, 37), rifatta ai primi tempi dell'impero, ma certo sul testo originario.
Di gran lunga maggiore, in vastità e profondità, la nostra informazione sulla seconda guerra. Polibio ci è conservato interamente nei libri III-V, di cui però solo il terzo riguarda direttamente la guerra con Cartagine, sino dopo Canne: dei libri VI-XV, che comprendono, fra l'altro, il resto della seconda punica, ci sono conservati più o meno vasti excerpti. Di Diodoro abbiamo la solita breve narrazione inserita nei libri XXV-XXVII. Ma la nostra informazione più ampia e continuata deriva questa volta da Livio integralmente conservato nella terza deca. A lui sono da aggiungersi, oltre Dione Cassio (libri XIII-XVII) e Trogo Pompeo, Cornelio Nepote, per le vite di Amilcare e Annibale, Plutarco, per le vite di Marcello e di Fabio, e Appiano, che assume particolare valore per le sue trattazioni specifiche nei libri sulle guerre annibalica, iberica, libica, illirica a prescindere dalle notizie date altrove, p. es., nei resti della sua esposizione delle guerre di Sicilia. Polibio ripensa e fonde in questa parte originalissima della sua opera, con esperienza di generale e di politico, fonti romane, cartaginesi e greche, prevalentemente le ultime due. Fare nomi su queste fonti non è agevole, e almeno in parte anche inutile. Però l'alto valore di queste fonti è provato direttamente dal brano che un papiro ci ha conservato di uno degli storici greci, che Polibio ebbe senza dubbio sotto occhio, Sosilo di Sparta: si tratta della narrazione di uno scontro navale fra Romani e Cartaginesi alla foce dell'Ebro nel 217 a. C. (v. F. Bilabel, Die kleineren Historikerfragmente auf Papyrus, n. 10). È notevole sotto molti aspetti che Polibio preferisse fonti cartaginesi per alcuni dei momenti più salienti: come la battaglia della Trebbia e quella di Canne, intorno alla quale è stato anzi suggerito, sebbene quasi certo a torto, che il racconto risalga in ultima analisi non solo a un ufficiale del seguito di Annibale, ma ad Annibale stesso. Polibio è naturalmente diventato una delle fonti essenziali per molti degli scrittori che lo hanno seguito, senza però riuscire a imprimere alla tradizione a lui posteriore più unità di quanto non avesse la tradizione anteriore. Polibio si trova largamente tradotto in Livio, soprattutto nelle parti che concernono i rapporti di Roma con l'Oriente ellenistico: in altre parti è verosimilmente utilizzato attraverso una fonte intermedia (p. es., nei libri XXI e XXII). La sua influenza è larga anche in Plutarco: minore in Diodoro (solo in taluni episodî), minima in Dione e in Appiano, salvo nelle parti, assai più estese in Dione che non in Appiano, in cui questi scrittori risalgono direttamente o indirettamente a Livio. In Livio, accanto alla tradizione polibiana, sta, spesso di grande valore, quella di L. Celio Antipatro, autore al tempo dei Gracchi di una coscienziosa monografia speciale sulla seconda punica. Se si riesce con difficoltà a separare nei particolari quanto in Livio è dovuto a Polibio e quanto invece spetta a Celio, la causa è nota: Celio si è valso, se non egli stesso di Polibio, per lo meno di una delle fonti principali di Polibio, Sileno di Calacte in Sicilia, che fu al pari di Sosilo al quartiere generale di Annibale, sebbene, come Sosilo, non sembra che eccedesse in favore dei Cartaginesi (cfr. H. Dessau, in Hermes, LI, 1916; p. 355 segg.). Infine si trova largamente in Livio, come in Dione (che, oltre di Livio, si vale pure direttamente di Celio), la cosiddetta tarda annalistica, soprattutto di Valerio Anziate e di Claudio Quadrigario, di cui si è detto troppo male perché non sia ancora necessaria l'avvertenza, la quale dovrebbe valere invece come ovvia, che non solo si deve andare cauti a rigettarne i dati, ma anche là dove l'errore è manifesto, si deve parlare raramente di voluta falsificazione, perché si tratta piuttosto di elaborazione, a modo suo critica, fatta in un tempo (sec. I a. C.), in cui l'atmosfera delle guerre puniche era troppo lontana e non si sapeva quindi comprendere le sconfitte romane nei loro giusti termini. Plutarco si vale di Polibio, Celio, Livio, Cornelio Nepote (vita di Marcello perduta), Posidonio, Giuba II e infine, per l'assedio di Siracusa nella vita di Marcello, della fonte stessa di cui si valeva Polibio. La biografia di Cornelio Nepote su Annibale conosce Polibio, Sileno e Sosilo e altri, quasi tutti certo dalla tradizione biografica (il che è vero in parte anche per Plutarco).
Posto a sé nella tradizione hanno Appiano e Diodoro, accomunati dall'uso di una stessa fonte annalistica di carattere malcerto, a cui Appiano aggiunge svariato materiale attinto, per es., da Fabio Pittore, da Celio Antipatro, da una epitome liviana, ecc.
Che la fonte nel complesso migliore, per il materiale di cui si serve e per l'intelligenza con cui lo elabora, sia Polibio, è fuori discussione. Ma bastano alcuni pochi esempî per dimostrare come una ricostruzione fondata esclusivamente su Polibio non solo sarebbe per il periodo dopo Canne monca, ma anche per quello antecedente sarebbe ora troppo unilaterale ora senz'altro errata. Manca intanto a Polibio ciò che invece Livio ha sentito e quindi capito con passione di Romano, per cui de re sua agitur: il travaglio di Roma nell'organizzarsi della resistenza e quindi il conflitto tra la tattica offensiva e quella difensiva. Le pagine di Livio sull'argomento hanno come intuizione complessiva un valore definitivo. E, per passare ad altro argomento, a Livio si deve anche la conservazione della lista delle legioni romane messe in campo ogni anno, la quale, insieme con la redazione del trattato fra Annibale e Filippo conservata da Polibio (VII, 9), è uno dei pochi documenti contemporanei di capitale importanza tramandatici e anche uno di quelli che resistono più sicuramente alla critica negativa. Così è da Livio (XXII, 36) o, per meglio dire, dalla tradizione annalistica, che sappiamo l'esistenza di una versione, secondo cui le legioni combattenti a Canne non erano già otto, come ammette anche Polibio (III, 117), ma quattro rafforzate: numero che è una delle condizioni indispensabili per poter collocare la battaglia sulla sinistra dell'Ofanto e non sulla destra. Né si devono dimenticare le molte congetture arbitrarie, che Polibio fa di testa sua, appunto per darsi ragione degli avvenimenti, come sulla marcia di Annibale attraverso le Alpi (ciò che rende ancora più difficile risolvere il problema, del resto non importante, del valico per cui egli passò), o sulle direttive di Annibale nella marcia che precedette la battaglia del Trasimeno (III, 82, 9). S'intende che qui si dànno esempî dei luoghi in cui Polibio non è attendibile, solo perché è più facile che non dare elenchi contrarî. Ma forse due esempî dell'attendibilità di Polibio possono essere ricordati: egli è l'unico, che ricordi la formula esatta del trattato dell'Ebro, senza le elaborazioni annalistiche (cfr. Polibio, II, 13, 7; Livio, XXI, 2, 7; Appiano, Iber., 7) ed è l'unico che ricordi l'esatta posizione giuridica di M. Minucio, posto a fianco di Q. Fabio temporeggiatore nel 217 come secondo dittatore (III, 103, 4 in confronto a Livio, XXII, 25, 10), come sembra confermare il Corpus Inscr. Lat., I, 1503.
Le difficoltà che si oppongono alla ricostruzione della seconda punica, nonostante l'ampiezza della nostra informazione, non vanno però tanto riportate alla maggiore o minore attendibilità di questa o quella fonte quanto piuttosto all'insufficienza delle indicazioni degli storici antichi per risolvere i nostri problemi. Noi in fondo chiediamo alle fonti antiche che esse ci servano in quello che noi cerchiamo, mentre esse ci indicano quello che esse stesse cercavano e hanno trovato. Di qui la maggior parte dei problemi politici e militari insufficientemente risolti o risolvibili: di qui le perpetue discussioni, ad es., sulla localizzazione delle battaglie della Trebbia, di Canne, di Zama (o Naraggara), dove anche un militare come Polibio ci dà meno di quello che chiediamo, perché egli non si occupa del nostro problema, quello della localizzazione. La difficoltà appunto cresce ancora con storici come Polibio o, per altri aspetti, Livio, che, essendo storici sul serio, hanno tanto più accentuatamente problemi proprî. Si prenda, ad esempio, la battaglia di Becula (208 a. C.). La questione delle fonti è qui piuttosto semplice. Polibio, X, 37, 7-39, è la fonte capitale, di cui Livio, XXVII, 18, non è che una rielaborazione, se pure conosce, come si è sospettato, oltre che Polibio, anche la sua fonte. La versione del tutto discrepante di Dione Cassio presso Zonara, IX, 8, è certo senza valore, supponendo che Asdrubale si sia lasciato attaccare, senza accorgersene, da Publio Scipione. Tutto si fonda dunque sulla interpretazione di Polibio. E questa è anche riuscita. Da tempo si è capito che Scipione attaccò dai fianchi il nemico, mentre lo teneva a bada di fronte, e, questi, per evitare più piena sconfitta, non poté che ritirarsi. È stata anche compiuta con sufficiente probabilità la localizzazione precisa della battaglia a sud-est di Bailen nella valle del Guadalimar (H. H. Scullard, Scipio Africanus in the second Punic War, p. 300 segg.). E tuttavia resta un dubbio fondamentale: Polibio asserisce che Asdrubale intendeva dare battaglia e, in caso di sconfitta, raggiungere Annibale in Italia. Ciò apparentemente contrasta con l'andamento difensivo della battaglia da parte cartaginese. Ma gli studiosi moderni continuano a discutere se la notizia di Polibio vada considerata come una sua congettura o risalga invece in definitiva alle informazioni degli ufficiali punici, perché ne dipende tutta la valutazione della campagna decisiva in Spagna del 208 a. C. Analoghe osservazioni si potrebbero fare per la battaglia di Zama, dove il limite tra le constatazioni di fatto e le ipotesi di Polibio è difficilmente tracciabile e ha dato luogo alle più varie interpretazioni (v. da ultimo P. Fraccaro, in Athenaeum, IX, 1931, pp. 426 segg.).
Per la terza guerra punica, la fonte essenziale è ancora Polibio; ma dei suoi libri XXXVI e XXXVII poco ci resta, e quindi la ricostruzione si deve fondare sugli scrittori che lo utilizzano. Diodoro (XXXII) ne deriva direttamente, ma è anch'esso conservato solo in frammenti. La fonte più importante resta Appiano, Guerre libiche, 68-135, che usa verosimilmente Polibio attraverso un annalista romano. La stessa mistione di Polibio con l'annalistica si ritrova in varia misura anche per Livio noto solo attraverso le periochae dei libri XLIX-LI e i varî epitomatori e per il riassunto di Dione in Zonara, IX, 26-30. Si comprende da sé come quest'inserzione di elementi più tardi di parte romana, se contribuisce fortemente a farci meglio conoscere le lotte interne in Roma, v'introduce la preoccupazione di giustificare la condotta romana e, dal punto di vista militare, turba la conoscenza topografica e strategica ricavabile da un testimonio oculare come Polibio. Il che sembra soprattutto evidente nel confronto tra la narrazione, che risale a Polibio, e quella annalistica delle origini della guerra. Le difficoltà d'interpretazione, che sono già intrinseche a questo fatto decisivo per lo sviluppo dell'imperialismo romano sono quindi ancora accresciute dalle discrepanze delle fonti.
Bibl.: U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, III, Berlino 1913; S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, I-IV, Parigi 1913-20; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i-ii, Torino 1916-17 (per le due prime guerre); H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, 3ª ed., I, Berlino 1920; E. Pais, Storia di Roma durante le guerre puniche, 2ª ed., voll. 2, Torino 1935. Cfr. anche Cambridge Ancient History, VII-VIII, 1928-30. Per le singole battaglie, fondamentale anche J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912, i cui risultati riassunti in Roms Kampf um die Weltherrschaft, Lipsia 1912. Sulla seconda guerra punica in particolare, altre indicazioni potranno essere trovate in E. Meyer, Hannibal und Scipio, in Meister der Politik, I, Stoccarda e Berlino 1923; W. Schur, Scipio Africanus und die Begründung der römischen Weltherrschaft, Lipsia 1927; E. Groag, Hannibal als Politiker, Vienna 1929; H. H. Scullard, Scipio Africanus in the Second Punic War, Cambridge 1930; R. M. Haywood, Studies on Scipio Africanus, Baltimora 1933. Per la questione giuridica sullo scoppio della seconda guerra punica, ripresa di recente in vario senso, cfr. G. De Sanctis, Annibale e la Schuldfrage d'una guerra antica, in Problemi di storia antica, Bari 1932, p. 160 segg.; W. Otto, Eine antike Kriegsschuldfrage, in historische Zeitschrift, CXLV (1931), p. 489 segg.; W. Kolbe, Die Kriegsschuldfrage von 218 v. Chr. Geb., in Sitzungsb. Heidelb. Akad., 1934.