GUERCINO (Prete da Guercino)
Nacque probabilmente a Guercino (oggi Guarcino), nella provincia pontificia di Campagna, intorno al 1550.
Su G., "famoso bandito" o "assassino da strada", secondo le cronache del tempo, si hanno poche notizie certe e i suoi connotati, come per altri fuorilegge, si stemperano in un alone di leggenda. Con molta probabilità era un prete datosi al crimine, come sembra confermato da un ordine del vescovo di Anagni ai suoi diocesani di non fornire obbedienza al prete ribelle. Una prima testimonianza risale al 1583, anno in cui viene intentato un processo a suo carico dal tribunale del governatore di Roma per il sequestro di un facoltoso cittadino di Frascati.
G. è descritto come un uomo sui trentacinque anni, "facciuto, grossotto, di pelo rosciotto et di statura giusta, barba pizzuta, mostacci pieni et corti". "Buon parlatore" e di "buona cera" vestiva con una certa ricercatezza: "gappone di pelle bianca, colletto di cordovano con berretta di velluto, tre penne et trina d'oro avvoltata al cordone, calzoni di muschio et calzette incarnate". Nel corso delle conversazioni con le sue vittime egli dimostrava di essere cosciente della precarietà della sua situazione, e di subire il peso della pressione della politica di Gregorio XIII contro il banditismo. Secondo un testimone egli avrebbe detto: "io non ho terra ferma, ogn'un dice mora il prete, ammazza il prete, nanzi che mora io ne voglio far morire più de quattro, et bisogna spedirla o male o bene poi che questo papa non mi lascia terra ferma" (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del governatore, Processi del secolo XVI, vol. 183, f. 16).
G. capeggiava una banda numerosa, con almeno una decina di uomini a cavallo, bene armata, in grado di assaltare ripetutamente il procaccio che andava da Roma a Napoli. La zona d'azione era in Marittima e Campagna, nel Sud dello Stato pontificio, e precisamente nel tratto da Frascati a Terracina.
Una delle sue vittime, un membro della famiglia Odescalchi, ricevette un'intimidazione a pagare 300 ducati dietro la minaccia della distruzione dei casali e l'uccisione degli animali nei suoi fondi. La richiesta di intervento indirizzata dalla vittima al papa non sortì effetti, anzi l'arresto del bandito mandato a ricattare l'Odescalchi provocò la risentita e minacciosa reazione di Guercino. L'Odescalchi si rivolse quindi nuovamente al pontefice, ma stavolta per domandare il rilascio del prigioniero a protezione della propria incolumità. Alla fine della vicenda l'Odescalchi, "fatto tanto amico del Guercino", impetrò il perdono per lui presso il pontefice (Storia arcana…, I, p. 155), e pare che questi si fosse deciso per l'assoluzione. Di fatto G. perseverò nei suoi delitti nonostante la ferma intenzione di Gregorio XIII, pur tra difficoltà e tentennamenti, di venire a capo del banditismo.
Un presidio composto da un numero rilevante di soldati - Giampietro Maffei riferisce di 500 fanti e 300 cavalieri - era stato affidato al commissario generale Giulio Ongarese, nominato nel 1584 governatore di Marittima e Campagna, per mettersi sulle tracce della banda. All'inizio del 1584 una compagnia di corsi ingaggiò uno scontro armato conclusosi con il ferimento di G., che riuscì a fuggire.
La temerarietà ormai acquisita si giovava della copertura offerta da una fitta rete di relazioni. Le numerose testimonianze tratte dai registri dei "malefitii" della Tesoreria provinciale di Marittima e Campagna mostrano come tra il 1583 e il 1585 vari individui tra Carpineta (l'attuale Carpineto Romano), Ferentino e Frosinone fossero condannati per avere intrattenuto rapporti con G. e i suoi affiliati. Si trattava di "conversationi", fornitura di cibo, ospitalità e, da parte di alcune autorità di Carpineta, di connivenza o tolleranza nei loro confronti. La resistenza alla repressione compiuta dalle autorità pontificie non impediva a queste ultime di conseguire importanti successi: risulta dagli Avvisi di Roma che all'inizio del 1584 il fratello di G. fu ucciso e la sua testa esposta a ponte S. Angelo.
Nel marzo del 1585 venne istruito un secondo processo contro G. e il suo seguito. In base ai dettagliati ordini contenuti in un breve di Gregorio XIII del 1° marzo 1585, una compagnia di venti militi al comando del commissario apostolico Antonio Ghini si recò a Maenza, feudo dei Colonna. In quella zona, che aveva già attirato i sospetti delle autorità per la protezione dei Colonna ai ricercati, risiedevano i familiari dei componenti di maggiore spicco della banda, accusati di mantenere continui rapporti con i fuorusciti.
L'indagine era scaturita da un'azione compiuta presso Terracina ai danni del procaccio diretto da Napoli a Roma. Nel corso delle indagini si distinsero due figure che avranno un ruolo centrale nell'eliminazione di G.: Lelio di Patrica, uno dei più stretti collaboratori di G., e il capitano Giovanni Domenico de Baccharis, meglio noto come Paglialunga, capo dei birri di Maenza. La promessa di una congrua ricompensa per chi avesse collaborato alla cattura, secondo la normativa emanata dal nuovo papa, Sisto V, costituì uno strumento decisivo, supportato dalle trame probabilmente ordite durante gli interrogatori che avevano messo a repentaglio gli equilibri della comunità.
Dopo un ultimo assalto al procaccio di Napoli presso Terracina, il 23 maggio 1585, nel corso del quale fu coinvolto Antonio Carafa, fratello del duca di Nocera, prima rapito e poi rilasciato, si giunse all'epilogo. A Maenza il giorno successivo Lelio di Patrica, in seguito ad accordi con il Paglialunga e dopo aver invitato G. a desinare con lui, lo colpì alla testa uccidendolo.
Per quell'azione Lelio aveva ottenuto 2000 scudi dal cardinale Alessandrino, Michele Bonelli, e la promessa dell'immunità per sé e per alcuni dei suoi compagni. Tale versione dei fatti, ricavata dagli Avvisi di Roma e dalla corrispondenza del Capilupi, sembra ridimensionata da altri documenti: un chirografo del 15 giugno indirizzato al tesoriere generale Benedetto Giustiniani ordinava di disporre presso il tesoriere provinciale di Marittima e Campagna, Marcello Filonardi, il pagamento della ricompensa ai latori della fede del governatore di Roma, Giovanni Francesco Biandrate di San Giorgio, attestanti la partecipazione all'uccisione di Guercino. L'ordine risulta evaso pochi giorni dopo, ma i destinatari e le somme in gioco appaiono diversi da quelli riportati negli Avvisi. La taglia, più modesta ma pur sempre ragguardevole, fu di 700 scudi. Beneficiari, secondo i conti di Marcello Filonardi, risultano Giulio da Cevano e Antonio Masi. La testa di G. fu inviata a Roma dove, per ordine del papa, nel corso di un solenne cerimoniale fu esposta su un palo, cinta da una corona d'oro finto sulla quale fu apposta l'iscrizione "re della Campagna", titolo con il quale egli si era fatto chiamare. La notizia della sua esecuzione fece scalpore e trovò ampio spazio nei resoconti diffusi nello Stato della Chiesa e nelle corrispondenze dei diplomatici residenti a Roma. Una tradizione vuole che il busto di G. fosse gettato nel Tevere: in realtà fu squartato e le sue membra pubblicamente esposte in vari luoghi della provincia di Marittima.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del governatore, Processi del secolo XVI, voll. 183, f. 16; 195, cc. 210r-236r; Camerale I, Tesoreria provinciale di Marittima e Campagna, b. 6 bis, ff. 73, cc. 11-14; 74, cc. 10, 13, 24v; 75, c. 18; Chirografi, Coll. B., b. 1, c. 47; Arch. di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 937, cc. 360-361; Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1052, c. 18v; 1053, cc. 67r, 242, 244v; Roma, Biblioteca nazionale, Fondo Gesuitico, 164: G. Gualterio, Sixti V pontificis optimi maximi ephemerides…, c. 27r; G. Maffei, Degli Annali di Gregorio XIII pontefice massimo…, II, Roma 1742, pp. 356-358; Storia arcana ed aneddotica d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori…, a cura di F. Mutinelli, I, Venezia 1856, pp. 154 s.; J.A. von Hubner, Sisto quinto: dietro la scorta delle corrispondenze diplomatiche inedite…, I, Roma 1887, pp. 215, 223; L. Beltrami, La "Roma di Gregorio XIII" negli "avvisi" alla corte sabauda, Milano 1917, pp. 46-51; L. von Pastor, Storia dei papi, IX, Roma 1925; X, ibid. 1928, ad indices; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du 16e siècle, II, Paris 1959, pp. 546-549; I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, pp. 94-96.