GUARINI, Guarino (Guarino Veronese, Varino)
Nacque a Verona, in contrada S. Eufemia, nella prima metà del 1374, dal fabbro Bartolomeo e da Libera, figlia del notaio Zanini.
La famiglia era di origine modenese. Il G. ebbe anche un fratello, Lorenzo, del quale si perdono le tracce e di cui non si sa ancora nulla nel gennaio 1426, quando la madre del G. testò a favore del figlio. Bartolomeo aveva preso parte alla guerra tra Francesco da Carrara e Antonio Della Scala e fu presente alla totale disfatta dei Veronesi nella battaglia del 25 giugno 1386 alle Brentelle, presso Padova, dove, fatto prigioniero, morì poco dopo.
Non si hanno notizie certe dei suoi studi giovanili (non sembra che sia stato allievo del magister veronese Marzagaia, come ha ipotizzato Sabbadini); unico dato a disposizione è la dichiarazione di Biondo Flavio che vuole il G. allievo di Giovanni Conversini, probabilmente a Padova nel 1392-93, o forse addirittura a Venezia nel 1388. Nell'ultimo decennio del XIV secolo dovette aprire scuola privata a Verona. Per la sua prima attività didattica si basò probabilmente sulle Epistulae ad familiares di Cicerone, che possedeva in un codice mutilo, dal quale cavò un estratto di cinquanta lettere. Il G. esercitò anche la professione di notaio.
Oltre a questo, dei primi vent'anni circa della vita del G. non si sa altro, restando incerte le sue prime attività e i suoi spostamenti.
Dall'incontro col dotto bizantino Manuele Crisolora maturò la decisione di portarsi a Costantinopoli per apprendere il greco. Si impiegò presso un nobile veneziano allora savio del Consiglio, Paolo Zane, che ne stipendiò il viaggio e gli studi. La partenza dev'essere posta dopo il 21 ag. 1403, data nella quale il G. è testimone a un atto rogato a Venezia. Ospitato dal Crisolora, durante le assenze del maestro studiava il greco col nipote di lui, Giovanni, oltre a svolgere il compito di segretario dello Zane, ambasciatore dal luglio 1404.
Del suo periodo greco si hanno poche notizie: l'acquisto di un codice con tre commedie di Aristofane e gli Erotemata del Crisolora il 1° marzo 1406 (Biblioteca apost. Vaticana, Pal. gr., 116); la sua partecipazione, in qualità di notaio e cancelliere dello Zane, a un atto pubblico fra quest'ultimo e l'imperatore, rogato il 22 maggio 1406 in greco dal notaio Teofilato Vasilicò e tradotto in latino dal G.; una non meglio precisata magistratura di cui fu incaricato nell'isola di Chio probabilmente presso il governatore Gabriele Racanello; infine, l'acquisto a Rodi di un manoscritto, oggi perduto, contenente la Suda. Il 12 giugno 1408 scrisse da Costantinopoli una lettera al giovane Francesco Barbaro, conosciuto prima della partenza, che risulta essere a tutt'oggi la più antica lettera guariniana conosciuta.
Il G. tornò a Venezia nell'agosto successivo seguendo la costa dalmato-istriana: al suo attivo una biblioteca di due codici (non certo i più di cinquanta cui alludeva Omont, seguito poi da Sabbadini, e tanto meno le due casse di libri, di cui una caduta in mare, al centro della favola raccontata da Pontico Virunio nella sua vita del Crisolora), un'ottima conoscenza del greco e le prime traduzioni latine di opere greche, la Vita di Alessandro di Plutarco e la Calunnia di Luciano, quest'ultima già inviata da Costantinopoli al patrizio veneto Giovanni Quirini. Il G. rimase qualche tempo a Venezia, dove insegnò privatamente a Leonardo Giustinian e Francesco Barbaro, ma lo troviamo a Verona almeno dal 10 ott. 1409, quando recitò la Laudatio in praeclaros viros Zachariam Trivisanum et Albanum Baduarium Venetiarum cives, discorso di congedo per il podestà uscente e di saluto al suo successore.
È questa la prima di una lunga serie di orazioni d'occasione, che il G. tenne nel corso della sua vita. Il G. non pensò mai di raccoglierle e ce ne restano, sparse in vari codici, più di sessanta, divise fra inaugurali, epitalamiche, pretorie, funebri e panegiriche. Per la loro composizione il G. si rifaceva ad Asconio Pediano e a Quintiliano, ma soprattutto seguiva lo schema tracciato nella Rhetorica ad Herennium (III, 10-15). Interessante la sua tendenza a documentarsi sulle persone e sui fatti di cui parla, e a riportare le notizie in ordine cronologico.
Il 19 febbr. 1410 era a Bologna, dove risiedeva dal gennaio la Curia pontificia, e lo accompagnavano i greci Demetrio Cidonio e Giovanni Crisolora. Qui conobbe sicuramente Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni, e fu quest'ultimo che, pensando che il G. potesse insegnare il greco a Firenze, lo propose a Niccolò Niccoli, che accettò. Si trasferì dunque a Firenze il mese seguente, ospitato da Antonio Corbinelli, e si legò d'amicizia con Palla Strozzi. Tradusse il De liberorum educatione e la Vita di Cesare di Plutarco e insegnò greco privatamente, avendo fra i suoi allievi i due Corbinelli (Antonio e Angelo) e Giovanni Toscanella. Stipendiato da una società privata, dietro alla quale c'era il potente Niccoli, si vide ben presto tolta la provvisione dal permaloso umanista fiorentino. Ottenne, nell'ottobre 1413, l'incarico di leggere greco nel nuovo Studio di Firenze. A causa dell'inasprirsi dei rapporti col Niccoli e di un'invettiva scagliata contro di lui da un Lorenzo Benvenuti, il G. approfittò di una visita del Barbaro e partì con lui da Firenze nel luglio 1414 per recarsi a Venezia. Durante il viaggio si fermarono a Bologna, dove incontrarono il Crisolora che li accompagnò a Venezia via mare.
Giunto a Venezia, il G. fu ospitato in casa del Barbaro, ma presto si trasferì in una propria abitazione, per proseguire con la sua attività di insegnante privato, secondo il metodo della scuola-convitto usato anche da Gasperino Barzizza a Padova, città dalla quale passarono a Venezia il Filelfo, Giorgio da Trebisonda (Giorgio Trapezunzio) e Vittorino da Feltre, il primo a insegnare e gli altri due a lezione di greco dal Guarini. Il G. proseguiva con gli esperimenti di traduzione affrontando, forse nel 1415, i capitoli 1-71 del primo libro delle Storie di Erodoto dall'attuale cod. 203 conservato presso la Biblioteca Classense di Ravenna. Dell'importante scoperta fatta da Poggio Bracciolini nel monastero di Cluny (le orazioni ciceroniane Pro Sexto Roscio Amerino e Pro Murena) il G. fu subito informato, e già nell'estate 1415 poté averle dal Barbaro, e della prima apprestò un commento, richiestogli dall'amico Maggio Maggi. Nel settembre giunse la notizia che il Crisolora era morto il 15 aprile precedente a Costanza. Grande il cordoglio del G., che diede ad Andrea Giuliano il compito di recitare pubblicamente l'orazione in lode del defunto, mentre egli scrisse una lunga lettera consolatoria al nipote del maestro bizantino, Giovanni (n. 25 dell'Epistolario del G.), basata in larga parte sulla Consolatoria ad Apollonio di Plutarco. In quel tempo stava lavorando su un codice di Valerio Massimo, impegnato a emendarne le citazioni in greco su richiesta dell'amico Ugo Mazzolato. Tra il maggio e il giugno 1416 fuggì prima a Verona, poi a Padova per l'imperversare della peste a Venezia. A Padova insegnò il greco a Guiniforte Barzizza, e pare sia di questo periodo la prima traduzione-compendio degli Erotemata di Crisolora a uso di chi si accingeva a studiare i primi rudimenti del greco.
Riguardo ai manuali guariniani scritti per servire alla sua attività didattica, non si hanno date precise di composizione; tuttavia essi dovrebbero risalire generalmente a questo primo periodo veneziano. Il più famoso è quello delle Regulae grammaticales, citate in una lettera a Girolamo Gualdo del 19 genn. 1418. La fonte principale del testo è stata identificata nelle omonime Regulae di Francesco da Buti: è quindi un testo non del tutto rivoluzionario, ma in parte ancora aderente alla trattatistica grammaticale del XIV secolo, della quale però elimina la tendenza alla teorizzazione speculativa e introduce una semplificazione della parte normativa. La grammatica e la sintassi sono trattate insieme, senza una particolare attenzione alla sintassi dei tempi e dei modi, gli esercizi e le spiegazioni lessicali sono dati in volgare ed è abbondante l'uso di versi memoriali, caratteristica delle più famose grammatiche medievali. Sono state segnalate infine particolari affinità con la grammatica contemporanea di Zomino da Pistoia. La diffusione di questo testo fu enorme, con almeno una quarantina di manoscritti e altrettante edizioni a stampa anteriori al 1500 e con le numerose riduzioni che circolarono fra XV e XVI secolo.
Il G. compose anche un De ortographia in 25 esametri memoriali, spesso stampato con le Regulae, col quale si unisce ai tentativi analoghi di Vittorino da Feltre, Cristoforo de Scarpis e Gasparino Barzizza di avviare la regolamentazione della scrittura latina, in vista dell'enciclopedico lavoro di Giovanni Tortelli; i Carmina differentialia, od Omonimi, una raccolta di omografi differenti per significato in poco meno di 300 esametri, ispirati al Graecismus di Eberardo di Béthune; il De diphthongis, dedicato all'amico veneziano Valerio Floro (quindi probabilmente del 1416-17); il De distinctione orationis in 64 versi memoriali, trattatello sulla compositio, in parte dipendente dall'Orator ciceroniano; un'antologia di versi greci con soprascritta la pronuncia e la traduzione letterale latina; i Vocabula, un lessico desunto dal commento di Servio a Virgilio (conservato in una redazione più breve, per es. nel codice Mss.lat. cl. XIII, 108 della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, e in una più ampia, per es. nel Vat. lat. 5144 della Biblioteca apost. Vaticana), infine dei versi nei quali riassume gli argomenti delle singole satire di Giovenale.
Nel 1417 tradusse il Temistocle di Plutarco e lo dedicò al condottiero Carlo Zeno. Fra il 1415 e il 1418 tradusse il De parasitica vita di Luciano, che indirizzò all'arcivescovo di Creta Pietro Donato e l'orazione In funere fratris scritta nel 1409 dall'imperatore Manuele II Paleologo per la morte del fratello Teodoro I e inviata al G. nell'estate del 1417 per la traduzione latina e la diffusione fra gli umanisti.
Alla fine del 1417 si può datare il tentativo del G. di trovare un impiego presso la Curia papale. Cercò di farsi assegnare un posto presso il neoeletto papa Martino V, o almeno al seguito di qualche cardinale, ma confessò ben presto agli amici di aver perso ogni speranza.
Continuava intanto a tenere scuola privata a Venezia, dove era sicuramente l'8 maggio 1418 presente alla cerimonia funebre per Carlo Zeno, del quale Leonardo Giustinian tenne l'elogio funebre. Su consiglio del giureconsulto Maggio Maggi e per le esortazioni della madre, il G. decise di trasferirsi a Verona, dove già si trovava, al servizio del podestà Niccolò Zorzi (forse come precettore del figlio Fantino), anche il maestro Cristoforo de Scarpis, che farà da testimone a uno degli strumenti preliminari del contratto nuziale del G., il 5 novembre. Il 27 dic. 1418 sposò Taddea Cendrata, figlia di Niccolò e di Fiordimilia Spada, ricevendo in dote case a Verona e terreni in Valpolicella, in località Castelrotto. Qui il G. si ritirò spesso, soprattutto in caso di pestilenze a Verona e per le ferie autunnali, dedicandosi allo studio ma anche ad attività agricole (si tratta dell'attuale, anche se radicalmente trasformata, villa Betteloni a Sausto di Castelrotto, frazione di San Pietro in Cariano).
Dopo essere rimasto ancora per un breve periodo a Venezia il G., ai primi di aprile 1419, si trasferì definitivamente a Verona, dove aprì la sua scuola privata, inaugurando le lezioni con una prolusione sulle Epistulae ad familiares di Cicerone, che resterà sempre uno dei testi basilari del suo insegnamento.
Dopo averne apprestato una piccola antologia nel primo periodo veneziano, il G. riprese in mano quel testo, aumentando il numero delle lettere antologizzate ed escludendone alcune ritenute non significative, e premettendovi la lettera quarta del secondo libro, dove Cicerone definisce il genere epistolare (Biblioteca nazionale di Firenze, Magl., VI.197).
Per lo scoppio di una pestilenza nel maggio di quell'anno il G. lasciò Verona e si trasferì nella sua villa in Valpolicella, dove restò fino al termine del 1419. In questo periodo inviò due carmi all'amico e allievo Ludovico Merchenti, che aveva una villa sul lago di Garda (Tibi non auro nitidam mitto, di 28 versi e il Proseuche ad Benacum, di 34 versi, che ispirò la carducciana Sirmione). Alla fine di ottobre, tornato a Verona, preparò un corso sulla Rhetorica ad Herennium, che inaugurò dopo Natale con una prolusione.
All'inizio del 1420 sia da Firenze sia da Vicenza giunsero richieste al G. per andarvi a tenere pubblico insegnamento. Il Consiglio di Verona, allora, si decise a nominarlo docente di retorica per un quinquennio, con lo stipendio annuo di 150 ducati aurei (20 maggio 1420). Nel settembre di quell'anno scrisse, a nome della città, al signore di Fermo Lodovico Migliorati, che andava a Brescia con le sue armate per soccorrere Pandolfo Malatesta assediato da F. Bussone, il Carmagnola, di risparmiare durante il suo passaggio i contadini veronesi e le loro terre (Pro agro Veronensi ab incursu suorum militum conservatione epistola). Tra l'agosto e il settembre 1421 scrisse un'oratiuncula (perduta) per la morte dell'ufficiale della Serenissima Giorgio Loredan. Fra gli allievi di questo periodo vanno annoverati Bartolomeo Facio, Giovanni Lamola e frate Alberto da Sarteano (Alberto Berdini). Tra il 1421 e il 1425 il G. ricoprì numerose cariche pubbliche per il Comune di Verona: fu uno dei 72 deputati totius anni (1421), consigliere aggiunto (1422), consigliere dei Cinquanta (1423, 1425, 1427, 1428), consigliere dei Dodici (1424, 1426), commissario per il riordinamento dell'ospedale dei Ss. Giacomo e Lazzaro (1425) e infine ambasciatore a Venezia (1424 e 1428) e a Vicenza (1425).
Nell'autunno 1421 si recò a Mantova, dove ricevette da Gianfrancesco Gonzaga l'invito a insegnare presso la sua corte. Il G. rifiutò, aprendo così la strada a Vittorino da Feltre, che andò a fondarvi la Zoiosa.
Il 20 sett. 1421 divenne padre per la prima volta (ebbe in tutto quindici figli), con la nascita di Girolamo. Il 22 maggio 1422 tenne la prolusione al suo corso estivo sul De officiis di Cicerone, mentre nel giugno venne a sapere della scoperta compiuta a Lodi dal vescovo Gerardo Landriani delle opere retoriche di Cicerone, di cui il G. cercò subito di avere copia.
Tra febbraio e giugno 1422 acquistò terreni per 262 ducati aurei e decime per altri 150. Nell'autunno tornò in Valpolicella dove Ermolao Barbaro, appena adolescente, tradusse 33 favole di Esopo "sub expositione dissertissimi ac eruditissimi viri Guarini Veronensis patris ac praeceptoris mei", dedicandole ad Ambrogio Traversari (Londra, British Library, Add. Mss., 33782). In questo periodo fu presente alle sue lezioni anche Bernardino da Siena, a Verona per predicare l'avvento. Alla fine del 1422 gli nacque il secondo figlio, Esopo Agostino.
Un altro acquisto di terre nel marzo 1423 e una gratulatoria per il neoeletto doge Francesco Foscari, l'Oratio habita in creatione ducis Venetiarum, precedettero il giro estivo per il contado veronese in compagnia degli amici Battista Cendrata, Antonio Concoregio, Cristoforo Sabbioni, Antonio Spolverini e Biondo Flavio e la villeggiatura autunnale in Valpolicella. Nell'aprile o nel maggio fu costretto, dall'imperversare della peste, a chiudere la scuola e a rifugiarsi in Valpolicella. Nel luglio, causa l'arrivo della peste anche lì, si imbarcò sull'Adige per Venezia, dove andò a preparare la residenza per la sua famiglia. Tornato a Verona, partì alla volta di Este con la moglie in attesa del terzo figlio e i due piccoli, ma venne fermato prima di entrare in territorio veneziano poiché proveniva da una zona infetta e allora si diresse verso Trento. Anche da qui dovette scappare e si rifugiò a Pergine. Qui lesse e postillò il De spiritu et anima di s. Agostino e imparò un po' di tedesco.
Durante la sua assenza, nel novembre 1424, nel Comune di Verona si sollevarono critiche contro il G., accusato di favorire gli allievi privati a danno degli altri e di percepire un salario troppo elevato.
In occasione di questo episodio fu composto un importante documento per la ricostruzione della vita del G., il discorso di un anonimo allievo che prese risolutamente le difese del suo maestro, scrivendone la biografia fino a quel momento, sottolineandone i meriti nei confronti della sua città e scagionandolo dall'assurda accusa: il documento, l'Oratio in laudibus Guarini, è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (O.66 sup., cc. 21-27).
Si era ormai alla scadenza del quinquennio di insegnamento, e il Comune era in dubbio se rinnovare o meno l'incarico al G., al quale, nel frattempo, giunsero inviti sia da Bologna sia da Venezia. Il Consiglio comunale decise pertanto di rinnovargli l'incarico per un altro quinquennio e alle stesse condizioni di prima. Intanto il G. tornò con la famiglia a Trento il 21 novembre, e qui nacque Manuele, suo terzo figlio. Tornato a Verona, nei primi giorni del 1425 recitò l'Oratio gratulatoria in adventu novi pretoris per l'arrivo (il 3 dicembre dell'anno prima) del nuovo podestà Vettore Bragadin in luogo dell'uscente Giovanni Contarini. Fu nel gennaio chiamato a un nuovo incarico pubblico, quello di interpretatormercatorius, cioè interprete di tedesco per i mercanti che venivano a Verona. Alla fine dei quattro mesi del suo mandato lasciò l'incarico recitando l'Oratio ad mercatores Veronenses. In questo periodo abbandonarono la sua scuola due allievi molto cari al G.: Martino Rizzoni e Giovanni Lamola. Richiesto dall'amico Francesco Barbaro, scrisse il Prohemium in municipales Vincentinorum leges, l'introduzione agli statuti municipali di Vicenza, che furono promulgati sotto la podesteria del Barbaro e il capitanato di Niccolò Corner. Il 2 febbr. 1426, in una lettera al Lamola (la n. 346 dell'Epistolario), il G. elogiò l'Hermaphroditus di Antonio Beccadelli, il Panormita, suscitando le ire di chi ne condannava l'eccessiva licenziosità. Il suo ex allievo Alberto Berdini chiese a più riprese al G. una ritrattazione della sua lettera elogiativa, che il G. concesse, contro voglia, nove anni dopo.
È a questo punto che nacque il primo significativo contatto del G. con la corte estense. Nel giugno 1426 arrivarono a Verona, per frequentare la scuola del G., Paolo e Bonaventura, figli di Giacomo Zilioli, uno dei più stretti consiglieri del marchese Niccolò (III) d'Este. Da qui partì una crescente stima reciproca fra Zilioli e il G., che portò il primo a suggerire al suo signore il nome dell'umanista, nel momento in cui a Ferrara il governo degli Estensi pensava di accrescere il prestigio culturale della città e rinnovare la fama del proprio Studio.
Sempre nel giugno morì Giannicola Salerno, amico d'infanzia e poi alunno del G., che lo commemorò in una delle sue più belle orazioni, conservata, fra gli altri, nel codice Mss. lat. cl. XI, 59 della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. In quell'anno il G. fu a Verona tra i fondatori della Domus Pietatis, un'istituzione di carità creata per soccorrere gli ammalati, i poveri e i bambini abbandonati. Fra maggio e giugno, poi, un episodio curioso: si diffuse la notizia della morte del G., e ne nacquero una lettera e un epitaffio scritti dal Panormita. Nell'autunno il G. si recò, more solito, in Valpolicella a sorvegliare la vendemmia e a leggersi un esemplare del De medicina di Cornelio Celso prestatogli dal Panormita, di cui preparò un'edizione, entusiasta per lo stile dello scrittore latino. La moglie rimase invece a Verona perché in attesa del quarto figlio, che nacque l'11 ott. 1426 e al quale venne imposto il nome Gregorio.
Il G. tradusse nel frattempo il Filopemene di Plutarco, dedicandolo al Maggi, e, ricevute dal Lamola notizie sulla ricchezza di codici posseduti dal monastero di Nonantola presso Modena, vi si recò per vedervi un antichissimo Lattanzio. In quell'anno studiò ed emendò pure le prime otto commedie di Plauto, e ne allestì una copia per l'amico Giacomo Zilioli. La sua autorità nel campo degli studi plautini divenne universalmente nota, e su questo testo egli tenne anche delle lezioni, tanto che abbiamo le recollectae Plautine del G., compilate da un suo scolaro, scritte sui margini del Vat. lat. 1631. Nel 1427 tradusse il X canto dell'Iliade e il XXII dell'Odissea, che non ci sono pervenuti (ma forse la traduzione non fu nemmeno completata). All'inizio del 1427 data un carme di ringraziamento del G. al Pisanello, che gli aveva donato un suo S. Girolamo, ora conservato alla National Gallery di Londra: Si mihi par voto ingenium fandique facultas, di 90 versi (è il testo n. 386 dell'Epistolario). Sempre alla ricerca di testi nuovi e di nuovi esemplari di opere già conosciute, il G. pregava l'amico Giacomo Zilioli di fargli copiare, dalla cattedrale di Reggio, un esemplare dell'opera di Papia "litteris vetustissimis". E nel febbraio - marzo riceveva dal Panormita un Erodoto completo e subito lo leggeva e se ne entusiasmava. A metà di quell'anno il Lamola trovò nella basilica di S. Ambrogio un codice di Celso meno lacunoso di quello che il G. aveva letto in precedenza e gliene inviò notizia (Laur. 73.1 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze). La vicenda biografica guariniana è tutta intessuta di queste ricerche e scoperte, e non può prescinderne, anzi mostra con chiarezza quanto la ricerca e lo studio dei classici antichi fossero la ragione prima della sua attività umanistica e il fine principale del suo metodo educativo. Per il G. punto fondamentale del suo programma pedagogico era l'aumento della conoscenza del mondo greco nel quadro della cultura umanistica. A ciò univa, come Vittorino, un intenso rapporto fra maestro e allievo e il largo spazio dato anche alle attività ricreative. Il triplice e graduale corso di studi concepito dal G. si proponeva di abbandonare la consuetudine medievale del trivio e del quadrivio; l'intero corso si divideva così in tre momenti: corso elementare (pronuncia e studio delle flessioni regolari), corso grammaticale (diviso in parte metodica, con lo studio di flessioni irregolari, sintassi, prosodia e metrica e primi elementi di greco; e parte storica, dove la teoria appena imparata si applica direttamente ai testi) e corso retorico (interpretazione di Cicerone e Quintiliano per arrivare allo studio di Platone e Aristotele). Al comporre orale il G. dedicava molta importanza, con i themata, semplici componimenti orali, e le declamationes, componimenti estesi e sviluppati. E richiedeva anche lettura ad alta voce dei testi e memorizzazione di larghi tratti di prosa e poesia. Vi era infine la tendenza a valorizzare gli autori più vari e i minori, soprattutto gli autori di testi scientifici (Plinio, Celso, Strabone, Pomponio Mela, Solino).
Del febbraio 1428 è la composizione della famosa orazione in lode del Carmagnola, che attirò sul G. le antipatie e le critiche degli umanisti milanesi. Intanto chiedeva ancora codici: avendo bisogno di una copia del trattatello di Prisciano In carmina Terentii, la chiese agli amici bolognesi. La ottenne nel febbraio 1432 dal giureconsulto parmense Ugolino Cantelli, insieme con un Gellio che riportava tutte le espressioni greche, cosa che gli permise di allestire una buona redazione delle Noctes Atticae, e a un apografo intero e molto corretto dell'archetipo di Lodi. Nel luglio si recò a Venezia per conto del Comune, per ottenere l'allontanamento di alcune bande armate che infestavano le campagne intorno a Verona. Alla fine di luglio nuova epidemia di peste a Verona e nuova fuga del G. in Valpolicella. Nell'ottobre cominciarono le trattative fra Zilioli e il G. per il suo trasferimento a Ferrara. Nel dicembre chiese al canonico veronese Filippo Regini di mandargli il trattato pedagogico De ingenuis moribus del Vergerio, sul quale preparò un corso, la cui prolusione è l'Oratiuncula pro libello deingenuis moribus incohando. Al principio del 1429 tenne ancora a Verona un corso sul De civitate Dei di s. Agostino, la cui prolusione fu recitata dal giovane Bernardo Giustinian, al quale il G. replicò con la Responsio Guarini ad Bernardum in Augustinum de civitateDei. Va posta in questo periodo, fra il settembre 1428 e il febbraio 1429, la nascita di un altro figlio, Battista, forse mortogli in tenera età (non può essere il futuro umanista, nato circa sei anni dopo).
Mentre a Verona si diffondeva nuovamente la peste, il G. ottenne la deliberazione del Consiglio comunale (7 apr. 1429) che gli permise di assentarsi durante l'epidemia, ma nel frattempo gli sospendeva lo stipendio. Il 23 aprile era già a Ferrara, ma anche qui arrivò la peste e così si rifugiò ad Argenta, in casa di Luigi Morelli, dove l'epidemia raggiunse il G. e gli amici che lo accompagnavano e il 15 giugno stroncò il giovane Paolo Zilioli, figlio di Giacomo, di cui il G. era istitutore. In questa circostanza si diffuse per la seconda volta la notizia della morte del Guarini. Siamo nel luglio, e ancora una volta il Panormita elogiò l'umanista veronese e invitò l'Aurispa a comporne l'elogio funebre. Si seppe a breve che la notizia era priva di fondamento, e allora Antonio Astesano compose la Querela supermorte Guarini Veronensis quae falso vulgata fuerat, alla quale rispose il G. con 26 versi in distici elegiaci, Qui facis arguta reducem me amonte Camena. Fuggito anche da Argenta, si rifugiò a San Biagio (settembre - dicembre 1429), da dove rispose a un carme di Tommaso Cambiatori sul tema della morte con un'epistola metrica di 133 versi sul valore della vita, Phoebus anhelantis et Eooab limite fessos. Raggiunta Ferrara, da solo, alla fine dell'anno, alloggiò in casa dei fratelli Strozzi e intanto preparava il primo corso delle sue lezioni ferraresi. Ai primi di gennaio gli nacque la figlia Libera, tenuta a battesimo da Giacomo Zilioli. Il mese seguente morì a Verona la madre del Guarini.
Su iniziativa dell'amico Alberto Zancari, i Bolognesi offrirono ancora una volta al G. una cattedra nel loro Studio, ma egli rifiutò, preferendo occuparsi dell'incarico affidatogli dal marchese d'Este, l'educazione del figlio Leonello, che sicuramente ben si inseriva nel progetto umanistico-politico del G. di realizzare il modello imperiale e classicheggiante di un regime saldo e retto da un signore illuminato, colto e raffinato, lui stesso fine letterato, per costruire una civiltà urbana pacificata, aliena da competizioni politiche e lotte civili e tutta tesa alla completa valorizzazione culturale dell'uomo.
Con l'arrivo del G. la vita culturale ferrarese si animò. Una discussione su Platone col medico estense Filippo Pelliccioni lo spinse a scrivere una Vita Platonis, adattamento dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e da Agostino, nella quale il G. mostra come il suo interesse per il filosofo greco non stia nella speculazione teorica o nella necessità di contrapporlo all'imperante aristotelismo di scuola, ma nell'evidenziazione della validità terrena e quotidiana dell'idealismo platonico, che lo porta a insistere sui temi più propriamente suoi, quelli della comunione umana attraverso lo studio e la scrittura epistolare.
Nel luglio 1432 terminò di studiare ed emendare il corpus Caesarianum, che leggeva nell'Est. lat. 421 della Biblioteca Estense di Modena, aiutato da Giovanni Lamola, che da Bologna era tornato a Ferrara nel 1430 per collaborare col maestro. Nel settembre 1432 arrivò a Ferrara uno dei codici più attesi dagli umanisti dell'epoca, e specie dal G.: il codice orsiniano (Vat. lat., 3870) con dodici commedie nuove plautine, scoperto a Colonia da Niccolò da Cusa nel 1425. Il G. se ne fece trarre una copia, che riuscì però a studiare per soli due anni. Infatti al principio del 1435 prestò il suo apografo al Panormita, e questi lo portò con sé quando si trasferì a Napoli, restituendolo, dopo molte insistenze, solo nel 1444-45: con la partenza del Panormita da Pavia, si allentarono molto i rapporti culturali del G. col circolo umanistico lombardo.
Nell'ottobre 1432 il G. andò ad abitare nell'attigua casa dei Boiardi, in via S. Michele, che prese in affitto per tre anni e che poi acquistò per 3500 lire marchesane, 550 delle quali donategli dal marchese. Nel giugno 1433 il Consiglio di Verona gli chiese di tornare a insegnare aumentandogli la paga da 150 a 200 scudi ma il G., che a Ferrara per la sola educazione di Leonello ne percepiva 350, non accettò. Nell'agosto 1433 terminò una redazione della Naturalis historia di Plinio, alla quale avevano collaborato anche Leonello e Guglielmo Capello, famoso per la sua erudizione storico-geografica (Milano, Biblioteca Ambrosiana, D.531 inf.). È il primo lavoro del G. su questo testo, che rivide anche poco prima della morte, nel 1459, quando ne apprestò una seconda redazione con l'aiuto di Tommaso da Vicenza e dello stesso Capello (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm, 11301). Poco dopo, il Valla, che andava a insegnare a Milano, si fermò due giorni a Ferrara per conoscere il G. e per donargli copia del suo De vero bono. Del 1434 è la traduzione della plutarchea Vita di Focione, che dedicò a Francesco Barbaro. Nell'estate avviò per i suoi allievi privati un corso sulla Rhetorica ad Herennium e sul De officiis ciceroniano.
In alcune lettere dell'ottobre 1434 il G. accenna alla prossima nascita del suo decimo figlio. Non vi sono dati certi per stabilire chi sia nato in questi anni. Certo, dato che si conoscono le date di nascita degli ultimi due figli, vanno poste fra l'inizio del 1432 e la fine del 1437 le nascite dei figli Leonello, Fiordimiglia (che sposerà un Guglielmo Calefini), Lodovica (che sposerà un Egidio Turchi), Margherita e una figlia di cui non conosciamo il nome e che entrerà in convento. Intorno alla fine del 1434 si può inoltre fissare la data di nascita di Battista, il successore del padre alla cattedra dello Studio ferrarese, mentre nel 1441 nacque una bimba che morì quasi subito e infine, nel maggio 1449, un'ultima figlia.
Il 6 febbr. 1435 tutta Ferrara festeggiò le nozze del principe Leonello con Margherita Gonzaga. In quest'occasione il G. recitò un'orazione epitalamica e dedicò a Leonello la traduzione delle Vite plutarchee di Lisandro e Silla.
All'aprile - giugno 1435 data forse l'unica vera controversia umanistica alla quale abbia partecipato in prima persona il G., peraltro spirito mite e alieno da questioni, battaglie, invettive. A una lettera del 10 aprile di Poggio Bracciolini a Scipione Mainenti, nella quale si affermava che, fra i capitani antichi, Scipione sopravanzava di gran lunga Cesare, criticato sotto il profilo sia politico sia letterario e stilistico, il G. rispose con veemenza inusitata con la lettera a Poggio del giugno (n. 670 della raccolta curata dal Sabbadini) nella quale si esalta la figura di Cesare, perfettamente consapevoli entrambi che, dietro il discorso sulla storia antica, si celavano precise allusioni alla contemporaneità: Poggio sa bene di difendere, in Scipione (dietro il quale può essere visto Cosimo de' Medici), le istituzioni oligarchico-repubblicane fiorentine, mentre il G. esalta in Cesare il suo Leonello e la forma di governo signorile da lui sperimentata a Ferrara. Seguirà ancora una Defensio di Poggio in forma di lettera al Barbaro nel novembre e la pacificazione fra i due, ottenuta per intercessione di quest'ultimo, nel maggio 1436. L'intera polemica venne diffusa in un libello contenente tutti gli interventi citati, che fu stampato nel secolo successivo (Antilogium Guarini et Poggii de praestantia Scipionis Africani et C.Iulii Caesaris, Vienna 1512).
Il G. partecipò anche alla controversia sulla natura della lingua latina nella quale alla teoria del bilinguismo proposta da Leonardo Bruni e appoggiata da Antonio Loschi e da Cencio de' Rustici (coesistenza nella Roma antica di latino colto per i dotti e latino volgare per gli umili, un linguaggio simile ai volgari attuali), si contrapponeva la ricostruzione storico-linguistica di Biondo Flavio (un'unica lingua per tutti, con variazioni giustificate dai diversi strati sociali dei parlanti, ma assolutamente non al di fuori del latino classico), appoggiato, fra gli altri, da Poggio Bracciolini, Carlo Marsuppini e Leon Battista Alberti. A Ferrara la questione fu al centro di una disputa in cui tenevano per il Bruni Leonello d'Este e Angelo Decembrio, Feltrino Boiardo e Niccolò Pirondoli, mentre il G. sosteneva la tesi di Biondo Flavio (lettera del 28 luglio 1449, intitolata in alcuni codici De lingueLatine differentiis).
È del marzo 1437 un episodio che conferma il disinteresse guariniano per le polemiche umanistiche. Un alunno del G., Andrea Agasone (il cui nome in alcuni repertori è considerato uno pseudonimo dello stesso G.), scoprì a Venezia la Retorica di Giorgio da Trebisonda, in cui compare una caustica critica stilistica all'orazione guariniana in lode del Carmagnola. Indignato, scrisse al condiscepolo Paolo Regini una lettera, dove inveiva contro il Trapezunzio e invitava gli scolari del G. a vendicare l'onore del maestro. Il greco, convinto che la lettera fosse del G., gli scrisse contro una feroce invettiva e la inviò in forma di lettera a Leonello. Toccò a Poggio riconoscere che lo stile della lettera incriminata non era affatto quello del G. e la cosa finì lì, senza che del G. stesso si conosca alcuna reazione.
Intanto il G. ricopriva, come aveva fatto a Verona, la funzione di oratore ufficiale, e molti furono i discorsi che si trovò a dovere scrivere o recitare.
Fra questi quello nella Pasqua 1430 in onore del veronese Paolo Filippo Guantiero, cui Niccolò d'Este conferì le insegne di cavaliere; nel giugno in onore di Ziliolo Zilioli che tornava da un viaggio a Roma per conto del marchese; nel gennaio 1431 a Ravenna per esprimere le condoglianze degli Estensi per la morte del padre di Obizzo da Polenta; nel luglio dello stesso anno per l'elezione a vescovo di Ferrara di Giovanni da Tussignano; nell'ottobre 1432 in lode del marchese per aver impedito un duello d'onore fra due rivali aragonesi; nel settembre 1433 per la visita a Ferrara dell'imperatore Sigismondo; nel febbraio 1437 per le nozze di Carlo Gonzaga con Lucia, figlia del marchese Niccolò; nel settembre 1437 a Bologna l'orazione dinanzi al pontefice Eugenio IV, recitata da Leonello.
Del 29 marzo 1436 è il decreto del Consiglio di Ferrara che affidava al G., che con le nozze di Leonello aveva concluso il suo incarico di precettore del principe, la carica di insegnante pubblico nello Studio, a 150 ducati annui più 100 lire marchesane per le spese della residenza a Ferrara. Alle proteste del G. (che prima, come precettore di corte, ne percepiva 350) il Consiglio, con deliberazione del 30 aprile, gli affidò un assegno di 400 lire marchesane più le 100 delle spese, al cambio quasi 300 ducati. Il G. accettò. La nomina era quinquennale, le condizioni: corso gratuito per i partecipanti e due lezioni nei giorni feriali e una nei giorni festivi. Il corso iniziò il primo maggio, ma già nell'agosto, a causa di un'ennesima epidemia di peste, fu sospeso e il G. si rifugiò in Valpolicella.
Nel 1437 il marchese concesse al G. la cittadinanza di Ferrara e gli pagò una parte della casa dei Boiardi. Per riconoscenza, il G. gli dedicò la traduzione delle Vite di Pelopida e Marcello di Plutarco. In quell'anno si registra anche la corrispondenza epistolare fra il G. e Isotta Nogarola.
Nel 1438 il concilio di Basilea si trasferì a Ferrara: inaugurato l'8 gennaio da Niccolò Albergati, impegnò moltissimo il G. nell'attività di interprete fra greci e latini, oltre che nella declamazione del discorso inaugurale delle sedute ferraresi. Il 27 gennaio arrivò a Ferrara il papa, Eugenio IV, con la sua corte, mentre Giovanni VIII Paleologo arrivò il 4 marzo.
Il G. tradusse la Homilia prima et secunda de ieiunio di s. Basilio e la dedicò al papa (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Mss. Laur., 89 sup. 16), mentre al Mainenti dedicò la sua traduzione della Musca lucianea. È probabile che durante il concilio il G. abbia discusso con Giorgio Gemisto Pletone dell'opera di Strabone.
La peste costrinse al trasferimento i partecipanti al concilio; il G. con la sua famiglia si portò a Rovigo, dove si trattenne fino al dicembre 1439 compreso, con una pausa a Ferrara fra il 24 gennaio e il 25 aprile di quell'anno. In quel tempo, oltre alla pestilenza, infuriava anche la guerra fra Venezia e Milano, a causa della quale nella primavera del 1439 fu danneggiata anche la villa del G. in Valpolicella. Il 7 luglio 1439 moriva Margherita Gonzaga, allieva sia di Vittorino da Feltre sia del G., il quale scrisse la Ad ill. Leonellumpro uxoris Margaritae obitu funebris oratio. Il G. stava probabilmente traducendo, in quel tempo, l'orazione Ad Nicoclem di Isocrate, visto il tenore della sua lettera a Leonello del 4 agosto, nella quale tiene una lezione di governo al giovane principe. Nuovi allievi del G. nel periodo 1438-44 furono Angelo Decembrio e Tito Vespasiano Strozzi.
La numerosa famiglia guariniana tornò a Ferrara nel gennaio 1440. Del 22 maggio 1441 è la conferma per un altro quinquennio dell'incarico di professore allo Studio. Due lutti colpirono il G. alla fine del 1441: la morte dell'amico e parente Battista Cendrata nel settembre e quella di Niccolò d'Este il 26 dicembre. Il G. scrisse per lui tre epitaffi e inviò a Leonello una consolatoria in forma di lettera.
Con il governo di Leonello si inaugurò il periodo più florido della rinascita umanistica ferrarese. Lo stesso Studio, che era stato un po' trascurato nel periodo precedente, nel 1442 fu rinnovato, soprattutto per quanto riguarda l'insegnamento del latino. Si deliberò inoltre che nessuno potesse aprire scuola a Ferrara se prima non avesse avuto l'approvazione dei Savi allo Studio. La solenne inaugurazione del nuovo Studio riformato da Leonello, sicuramente dietro precise indicazioni guariniane, ebbe luogo il 18 ott. 1442, con l'orazione inaugurale del G. sulle arti liberali e le discipline oggetto di insegnamento.
Nella seconda metà del 1443 il figlio del G. Girolamo andò a Napoli, presso la corte del re Alfonso d'Aragona, raccomandato dal Valla, amico del padre. Il G. gli inviò, nel corso di quell'anno, l'Hypothesia, una piccola guida del perfetto cortigiano in forma di lettera.
Nel marzo dell'anno successivo si diffuse la notizia della morte del Bruni, e il G. scrisse un epitaffio in suo onore. Intanto a Ferrara fu istituita una nuova cattedra di greco, e fu affidata a Teodoro Gaza, mentre la città si preparava per festeggiare le seconde nozze di Leonello avvenute a Ferrara il 25 apr. 1444, per le quali il G. compose e recitò l'epitalamio. Cinque giorni dopo, alle nozze di Isotta, sorella di Leonello, con Oddantonio da Montefeltro, duca d'Urbino, ne pronunciò un altro. Anche da queste occasioni solenni e ufficiali il G. sapeva trarre utili notizie per la sua diuturna ricerca di nuovi codici, di nuovi commenti ai classici. Alla sfarzosa cerimonia conobbe Rodolfo di Camerino, fratello di Costanza da Varano, alla quale poco dopo scrisse una lettera per elogiarla e chiederle copia del cosiddetto Pseudo Cornuto (scolii a Giovenale), posseduto da due medici di Camerino. Nel settembre 1444 si recò a Urbino per conto degli Estensi, dove conobbe personalmente il conte Federico da Montefeltro.
I nuovi allievi del G. erano ormai non solo italiani (fra gli altri il parmense Basinio Basini dal 1447 al 1450, il bresciano Giorgio Valagussa dal 1448 al 1455, il triestino Raffaele Zovenzoni dal 1450 al 1454), ma anche stranieri: la presenza alla scuola di G. di Giano Pannonio (dal 1447 al 1451), di Giorgio Agostino da Zagabria, degli inglesi John Free, William Grey, Robert Flemmyng, John Gunthorpe e John Tiptoft, dei tedeschi Peter Luder, Georgius Boemius, Gaspar Schmidhauser e dei figli di Samuel Karoch, del francese Henri Jeauffroy, del fiammingo Henri de Bruges, del portoghese Valesio e di diversi spagnoli dimostra come la diffusione del nome e della scuola guariniana fossero oramai un fatto concreto che tanta parte ebbe nella formazione della cultura nei paesi del resto d'Europa.
La tendenza nel G. a stemperare le riflessioni teoriche nella quotidianità dell'epistolario, senza dedicare loro un autonomo trattato, anzi rifiutando la forma della precettistica sistematica, si coglie anche nella riflessione sul genere storiografico, esposta nella lettera all'allievo Tobia Borghi, impiegato a Rimini come storiografo ufficiale dei Malatesta, e intitolata in qualche codice De historiae conscribendae forma (lettera 796 del 1446), con considerazioni tratte dallo scritto lucianeo De historia conscribenda: al G. interessa sottolineare soprattutto la fama che le opere storiche sanno donare ai personaggi di cui si narrano le vicende e la necessità di mantenere un equo distacco dagli eventi narrati. Scopo della storia è l'utilità che viene dall'esempio unita al piacere della lettura stessa.
Alla lettera De pingendis Musis, indirizzata il 5 nov. 1447 a Leonello che gli aveva richiesto come far ritrarre le muse nel proprio studiolo di Belfiore, è invece affidata una riflessione del G. sul valore delle arti in relazione alle lettere. È questo uno dei primi programmi umanistici per un gruppo di pitture. La proposta guariniana, con dettagliata descrizione delle nove muse, accompagnata da un carme in esametri latini (in doppia versione), i cui 9 versi dovevano essere posti sotto le raffigurazioni, è, dal punto di vista iconografico, abbastanza eccentrica, soprattutto per l'insistenza sulla caratterizzazione agricola di ben due delle muse, Talia (solitamente la musa della commedia e della poesia giocosa) e Polinnia (la musa della poesia lirica), che per il G. sono invece protettrici dell'agricoltura. Le sue fonti ispiratrici furono la quaestio XIV dei Moralia di Plutarco e, soprattutto, il commento alle Opere e i giorni esiodee del bizantino Giovanni Tzetze. I suggerimenti guariniani non furono seguiti per lo studiolo di Belfiore, bensì da Agostino di Duccio per i bassorilievi della cappella dedicata alle muse del tempio Malatestiano di Rimini, realizzata da Sigismondo Malatesta circa dieci anni dopo. Comunque il G. fu uno degli artefici della diffusione, in ambito umanistico, del concetto del limite delle arti figurative le quali, diversamente da quelle letterarie, avevano il torto di mostrare solo l'apparenza delle cose, non la loro qualità morale, di far considerare più la figura dell'artista che il soggetto rappresentato e di non durare affatto all'usura del tempo, non essendo quindi in grado di conferire gloria immortale.
Nell'ottobre 1448 il G. tenne un'orazione sulla retorica come arte, in risposta a un discorso del veronese Cristoforo Lafranchino, docente anche lui allo Studio (Guarini subsequens responsio post habitam a Christophoro de rhetorica collaudationem). Probabilmente nel 1449 tenne un corso su Giovenale, mentre nel 1450 dovette rispondere alle accuse lanciate dal pulpito durante le prediche quaresimali da fra Giovanni da Prato contro la lettura nelle scuole dei poeti classici, soprattutto del licenzioso Terenzio, uno dei poeti più letti nei corsi guariniani.
I problemi finanziari che affliggevano il G. durante questi anni si accentuarono con la morte di Leonello d'Este (1° ott. 1450), per il quale il G. compose e recitò l'elogio funebre. Deluso dall'atteggiamento del successore di Leonello, Borso, il G. decise di accettare la proposta di tornare a insegnare a Verona per la somma di 200 ducati d'oro all'anno e si preparò alla partenza mettendo anche in vendita la propria casa ferrarese. Gli allievi del G. pensarono di seguire il maestro ma Borso, dopo aver preso tempo per una decisione definitiva, spinto dai consigli di chi vedeva nella partenza del G. un evento negativo per il prestigio della corte estense, decise di accrescergli lo stipendio (febbraio 1452) e di affidargli il compito di fare da istitutore al figlio di Leonello.
Fra il 1447 e il 1453 morì la moglie del G.: spettò a Giano Pannonio comporre il suo epitaffio e, in quello stesso tempo (1453 circa), anche la Silva panegyrica ad Guarinum Veronensem praeceptorem suum, prezioso documento per la biografia del Guarini.
In questo periodo il G. decise di raccogliere degli scritti in onore del suo vecchio maestro Crisolora. Nacque la Chrysolorina (1452-55), che riuniva alcuni scritti del maestro, le lettere a lui indirizzate o che parlavano di lui, lodi e panegirici degli amici e lettere commemorative scritte dai figli del G. Niccolò, Gregorio, Battista, Girolamo e Manuele. Il testo completo è oggi perduto, ma si può ricostruire quasi interamente, giustapponendo vari codici che lo conservano frammentario.
All'inizio del 1454, con la morte di Francesco Barbaro, si attenuarono i contatti del G. col circolo umanistico veneziano. Nello stesso anno censurò, in una lettera a Sante Bentivoglio, l'eccessiva severità dei monaci, criticando le prediche ferraresi di fra Timoteo contro il lusso delle donne. Sono questi anche gli anni dell'incarico, affidatogli da Niccolò V, di tradurre l'intera Geografia di Strabone.
Nel marzo e settembre 1453 mandò a Giovanni Tortelli, che si occupava del progetto, alcuni saggi della traduzione (fino alla fine del libro IV). L'anno seguente lavorava intorno al libro VI, e lavorò incessantemente anche nel marzo 1455, quando giunse la notizia della morte del papa, al quale succedette l'8 aprile Callisto III (l'autografo dello Strabone guariniano è il Canon. 301 della Bodleian Library di Oxford). Il G. aveva tradotto tutta la parte dedicata all'Europa (libri I-X) e prima di riprendere il lavoro si mise in cerca di un altro mecenate cui offrire l'opera. A quel punto, mettendosi in competizione con il G., Gregorio da Città di Castello tradusse l'Asia (libri XI-XVI) e l'Africa (libro XVII), per cui nella princeps edita a Roma nel 1469-70, a cura di Giovanni Andrea Bussi, si pubblicò metà testo tradotto dal G. e l'altra metà dal Tifernate. Ma il G. non aveva lasciato incompiuto il lavoro. Lo riprese e lo terminò il 13 luglio 1458, dedicandolo al nuovo mecenate, il patrizio veneto Giacomo Antonio Marcello.
Nel 1456 il G. compì un viaggio a Bologna come ambasciatore degli Estensi. Nello stesso anno fu alle nozze del figlio Agostino con Margherita Saladini, e sempre nel 1456 il figlio Niccolò morì a Treviso di peste. La scuola guariniana si arricchiva frattanto di altri convittori illustri: i figli di Poggio e i figli del conte Angelo di San Vitale. L'anno seguente si sposò il figlio Girolamo, che morì poco dopo, fra l'agosto 1458 e la fine del 1460.
Le ultime lettere del G. a noi note sono quella del 25 apr. 1460 al vescovo di Ancona Agapito de' Rustici e quella, dello stesso periodo, al vescovo di Ferrara Lorenzo Roverella.
Ammalatosi di pleurite, il 4 dic. 1460 il G. morì a Ferrara dopo aver dettato il proprio testamento al notaio Niccolò de Vincenzi.
Nel testamento il G. nominava i nove figli ancora vivi: alle due figlie maritate Fiordimiglia e Libera lasciava le doti che aveva costituito all'atto del matrimonio, alle due ancora nubili, Margherita e Luigia, e alla piccola Taddea, figlia di Girolamo, 800 lire ciascuna, ad Agostino la casa in Verona e alcune terre, a Manuele una parte della casa in Ferrara, a Gregorio alcune terre, un mulino e la sua villa di Montorio, a Leonello la casa in Valpolicella, a Battista la casa grande in Verona. Nel novembre 1461 i figli del G. presentarono un'istanza a Borso per l'erezione di un monumento alla memoria del padre. Fu scelta la chiesa dei carmelitani di S. Paolo e nel 1468 fu eretto, in parte a spese pubbliche, un monumento di porfido sostenuto da quattro colonne di marmo e con un'iscrizione elogiativa. Ma chiesa e monumento crollarono nel 1570 a causa di un terremoto.
Il G. vive nel suo ricchissimo Epistolario (Epistolario di GuarinoVeronese, a cura di R. Sabbadini, Venezia 1915-19). La raccolta sabbadiniana contiene 983 fra lettere e testi vari di e sul G.: di questi sono del G. 783 lettere sicure e 12 dubbie. Le aggiunte recenti all'Epistolario sono 30 e si trovano negli interventi di Campana nel 1962 (1 lettera), Prete nel 1964 (1), Colombo nel 1965 (3), Capra - Colombo nel 1967 (17), Pastore Stocchi nel 1969 (1), Capra nel 1971 (6), Katusckina nel 1974 (1). Il G. non raccolse le sue lettere; il suo è un epistolario "familiare", con un uso del latino come lingua viva e la trattazione di tematiche personali e quotidiane. Molte sono le lettere oratorie, per la sua concezione delle epistole come orationes a distanza, e tipica è anche la tendenza a far confluire nell'epistola il genere trattatistico (vi si trova, per esempio, un vero e proprio De institutione principis, che raccoglie le sue più importanti lettere a Leonello: le lettere 620, 667, 682, 685, 748, 777). Una traduzione parziale dell'epistolario è in Epistole, a cura di V. Bertolini, Verona 1957.
Il G. compose versi latini fin da quando era a Costantinopoli, come dice egli stesso in lettera a F. Barbaro del giugno 1408. Sono stati raccolti in Guarini Veronensiscarmina, a cura di A. Manetti, Bergamo 1985: 52 testi latini e un frammento delle Regulae, di cui riporta 30 versi memoriali. A questa raccolta vanno però aggiunti altri 5 testi: Alma dies oritur, Ferraria laeta triumpha segnalato dal Thomson, l'epitaffio per Tobia Borghi Inclyta quam celebri splendes, Verona, Catullo del 1448-51; quello per il Lamola Flete decus vestrum Lamolamque del 1449, la Responsio Guarini a 6 versi indirizzatigli da Giano Pannonio, Convenere pares paribus, convenit adaetas, e infine il carme che il G. indirizzò a Sigismondo Malatesta signore di Rimini, Vivetefelices Sismundo auctore poetae, 1448 circa (in Trium poetarum elegantissimorum… opuscula, Parisiis, Simon de Colines, 1539, p. 108), tutti segnalati da Sabbadini nel vol. III dell'Epistolario.
Nessuna raccolta esiste delle orazioni del Guarini. Ce ne sono moltissime inedite, quali l'epitalamica per Federico Pittato, forse del 1419, quella per le nozze di Caterina Peregrino con Iacopino Persico (1421-22 circa), l'Oratio Guarini in consilio sinodali contenuta nell'Arundel 138 della British Library di Londra e scritta presumibilmente nel 1438 per i conciliaristi. Alcune sono state pubblicate singolarmente nell'Ottocento: F. Dalla Torre, Due opuscoli del G., Verona 1860; C. Cavattoni, L'epitalamio che il G. compose e disse quando il cancelliere Silvestro Lando s'ammogliò con la Fior Dell'Altre, Verona 1866; A. Zanelli, Due epitalamii inediti di G. Veronese, Pistoia 1896.
Oltre alle Vite già citate (in tutto 14 sicure, perché molte gli furono erroneamente attribuite: Alessandro, Flaminino, Dione, Bruto, Marcello, Cesare, Coriolano, Temistocle, Focione,Eumene, Pelopida, Filopemene, Silla, Lisandro), che si trovano quasi tutte pubblicate nelle Plutarchi vitae parallelae, Romae, Ulrico Han, 1470, il G. tradusse altre opere plutarchee: il De liberorum educatione già citato e i Quaedam antiquitatis monumenta dove sono compendiate le Quaestiones Romanae; il De assentatoris et amicidifferentia del 1437-39 dedicato a Leonello è più un compendio che una vera traduzione (fu pubblicato a cura di V. Nason in Plutarco, Come distinguerel'adulatore dall'amico, Palermo 1991, pp. 15-21); tradusse inoltre l'Helenae laudatio (nel 1408-09, con dedica a Pietro Miani, nel Bywater 38 della Bodleian Library di Oxford), il Nicocles (Roma, Biblioteca Angelica, C 3, 15 del 1431 circa) e l'Evagoras di Isocrate; il Demonicus dello Pseudo Isocrate, il De mutua parentum ac filiorum caritate di s. Basilio nel 1438 (Harl. 2580 della British Library), l'opera di Cirillo Alessandrino nel 1447 (Canon. misc. 169 della Bodleian Library) e la Vita di Timoteo apostolo nel 1450-55 circa (Roma, Biblioteca Vallicelliana, C 90, col titolo Commentarium in Timothei vitam apostoli sancti dei). A metà fra l'opera originale e la traduzione stanno i Commentarioli, raccolta di saggi e bozzetti di lunghezza variabile, sui più vari argomenti, la maggior parte desunti dagli opuscoli di Plutarco: se ne conoscono due versioni, una più estesa in 84 voci (nel Bywater 38) e una più breve, in 27 voci (Bologna, Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, 16 b III 3).
Del G. sono rimasti anche commenti e recollectae ai Paradoxa, al De amicitia (Milano, Biblioteca Trivulziana, Mss., 666), alle Epistulaead familiares (Milano 1489), al De officiis (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. lat., cl. VI, 93, probabilmente del periodo 1419-22), al Cato maior ciceroniani; delle recollectae alla Rhetorica ad Herennium; il Commentariolus Persii Volaterani (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. lat., cl. XII, 21, finito di copiare il 19 dic. 1465); un codice datato 1445-46 (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Phil. gr., 75) contiene una vasta selezione di opere aristoteliche con note a margine del G., una copia della Repubblica di Platone annotata dal G. limitatamente ai libri II-V si trova nel Reg. lat. 1131 della Biblioteca apost. Vaticana; il commento completo all'Amphitruo di Plauto e scolii saltuari alle altre commedie plautine sui margini del Vat. lat. 1631. L'edizione del Commento di Servio a Virgilio è stata stampata a Venezia dal Valdorfer nel 1472. Gioviano Pontano ebbe, infine, tra le mani un Horatianus codex optimus sane acvetustissimus postillato dal G., del quale non si sa più nulla (così come sembrano perdute le sue emendationes a Livio, Papia, Giustino, Celso, Valerio Massimo).
La dedica della sua traduzione straboniana è stata pubblicata in G. Berchet, Dedica della Geografia di Strabone a Jacopo Ant. Marcello, Venezia 1893. Tra le prolusioni è stata pubblicata quella dedicata all'elogio delle sette arti liberali per il corso del 1447: R. Sabbadini, Una prolusione di G. Veronese sulle arti liberali, in Biblioteca delle scuole italiane, VII (1897), pp. 33-37.
Altre opere biografiche: una Vita di s. Ambrogio dedicata a frate Alberto da Sarteano (nei codici II 90 e II 135 della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara) a metà fra compendio e traduzione; la Vita Platonis si trova posposta in molte edizioni delle Vite di Plutarco, dove si trova pure la Vita Aristotelis a lui attribuita (ma in realtà del Bruni).
Fonti e Bibl.: Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea, cod. 186: F. Borsetti, Memorie per servire all'istoria della vita di G. Veronese (1775); Biondo Flavio, Italia illustrata, Venezia 1503, c. Giii; A. Decembrio, De politia litteraria libri septem, Basileae 1562; G. Urbani, Discorso in difesa di Donato et di G., Camerino 1615; P. Cortesi, De hominibus doctis dialogus, Florentiae 1734, pp. 13 s.; F. Borsetti, Historia almi Ferrariae Gymnasii, Ferrariae 1735, I, pp. 32-34, 41-46, 57-60; S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1731, II, coll. 67-80; A.M. Querini, Diatriba praeliminaris ad Franc. Barbari epistolas, Brixiae 1741, pp. 60, 135, 373 s.; B. Facio, De viris illustribus, Florentiae 1745, pp. 17 s.; A. Zeno, Dissertazioni Vossiane, I, Venezia 1752, pp. 213-229; I.A. Fabricius, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, III, Patavii 1754, pp. 119-121; C. de' Rosmini, Vita e disciplina di G. 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