GUARINI, Alessandro, il Giovane
Nacque a Ferrara da Battista e Taddea Bendidio verso il 1563, essendo diciottenne nel 1581, quando, con l'appoggio del cardinale Ippolito d'Este, entrò nel collegio della Sapienza vecchia di Perugia, dopo avere studiato a Padova e nella stessa Ferrara.
Con il padre, celebre autore del Pastor fido, il G. instaurò presto un rapporto conflittuale che si sarebbe protratto per tutta la vita. All'origine dei primi dissapori fu la decisione improvvisa da parte del G. di abbandonare, adducendo motivi di salute, il collegio perugino; il padre gli ingiunse di farvi ritorno, ma il G. cercò rifugio a Parma, presso uno zio. La riconciliazione giunse nel 1584, ma non si trattò che di una breve tregua. Tornato a Ferrara, il G. proseguì gli studi di diritto, che lo avrebbero condotto alla laurea inutroque iure in una data imprecisabile posteriore al 1586. Si dedicava intanto alla letteratura, conquistando con le sue prime prove una certa notorietà, che consentì al padre, allora segretario particolare del duca Alfonso II, di procurargli già intorno al 1585 una sistemazione in corte.
Poco più che ventenne fu tra i promotori a Ferrara di un'accademia, di cui nelle fonti non è tramandato il nome (Maylender, pp. 417 s., la nomina Accademia di lettere, armi e musica), di cui fu consigliere per le lettere. Nel 1599 tenne una lezione nell'Accademia degli Invaghiti di Mantova su problemi di critica letteraria (A. Guarini, Varie compositioni raccolte in diverse materie, Ferrara 1611, pp. 17-35).
Argomento è il sonetto Doglia che vaga donna di G. Della Casa, ma l'introduzione verte sul sonetto in generale e il G., ricorrendo anche alla Poetica di Aristotele, si sforza di risollevare questa forma metrica dal giudizio dantesco nel De vulgari eloquentia di presunta inferiorità rispetto ad altri generi poetici considerati nobili.
Altre questioni di critica letteraria il G. affrontò nel dialogo Il farnetico savio ovvero il Tasso (ibid. 1610). Egli aveva conosciuto T. Tasso da bambino, prima che il poeta fosse internato in S. Anna nel 1579 e alla data del 16 giugno 1581 l'incontro doveva avere prodotto una qualche corrispondenza intellettuale, se il Tasso, dal suo ricovero, rivolgeva al G. la richiesta del De consolatione philosophiae di Boezio; tuttavia, se si esclude la comune adesione all'Accademia degli Innominati, fondata a Parma nel 1574, non ci sono altre notizie circa i rapporti tra i due.
Nel Farnetico savio il G. immagina che il Tasso, sul finire della vita, dialoghi con il poeta Cesare Caporali per metterlo a parte del segreto della sua follia. La figura del poeta appare così avvolta nel mito di una pazzia simulata per difendersi dall'invidia dei cortigiani. La scelta del tema denunciava la precisa intenzione di riscattare la memoria del Tasso e allo stesso tempo tacitare le polemiche attorno a un presunto suo antagonismo con Dante. Il dialogo si apre in medias res: ricordate le ragioni della sua inquietudine esistenziale ricorrendo a espressioni dantesche, il Tasso racconta di avere simulato la follia mostrandosi oltremodo triste e diffidente verso tutti, amici compresi. Su questo sfondo si collocano alcune digressioni, tra le quali ne spicca una sulla Commedia. Dante è paragonato a insigni artisti moderni: l'organista di Alfonso II e maestro di camera Luzzasco Luzzaschi, il compositore Carlo Gesualdo, Michelangelo, Tintoretto; il G. fa sostenere al Tasso che la forza espressiva della Commedia è legata proprio a quella libertà formale che i fautori della norma linguistica bembesca le imputavano. Nelle intenzioni del G., tuttavia, Dante doveva rimanere un'eccezione, tanto illustre quanto isolata, a quella stessa norma che egli considerava teoricamente ineccepibile: la lingua di Dante era infatti "opera di nuova alchimia" e quando si sottraeva alla regola era per affermare profonde esigenze poetiche, che solo pochi potevano comprendere. Infine, pur senza schierarsi nelle discussioni intorno al genere in cui collocare il poema dantesco suscitate dalla diffusione della Poetica di Aristotele, il G. mostra di condividere l'opinione espressa a suo tempo dal Tasso secondo cui la Commedia è da considerarsi un poema eroico.
Questioni di poetica il G. affrontò anche in una lettera a Claudio Achillini intorno all'uso della metafora (A. Guarini, Delle lettere, Ferrara 1611, p. 191).
Sulla base della Poetica di Aristotele, il G. manifesta le sue perplessità circa l'abuso della metafora e asseconda, più in generale, un "cauto" e "guardingo" procedere "in ogni genere di parlar figurato". Analoghe inclinazioni rivelano i pochi versi del G. raccolti nelle Rime scelte de' poeti ferraresi antichi, e moderni… (ibid. 1713, pp. 302-307). Si tratta di quattro sonetti di carattere encomiastico o amoroso e di sei componimenti in endecasillabi misti a settenari. Ai temi non originali si accompagnano, sfumati di lieve malinconia, spunti lirici comuni alla produzione contemporanea, come il trascorrere del tempo catturato dallo specchio e lo sfiorire della bellezza femminile.
Nel 1586 i rapporti del G. con il padre si incrinarono ulteriormente, in occasione del suo matrimonio combinato da Battista con la quattordicenne Virginia Palmiroli, erede di un ricco patrimonio. Il G. dapprima si mostrò restio, ma infine cedette, acconsentendo, per giunta, che il padre amministrasse l'eredità della futura sposa. L'anno successivo, per questioni legate appunto alla gestione del patrimonio, si giunse alla rottura: gli sposi vennero cacciati di casa e il G. decise di ricorrere alla legge. Per intervento del duca Alfonso, fu scelto come arbitro Giovan Mario Crispo. Battista giudicò il gesto del duca un favoritismo nei confronti del figlio, e con un atto polemico chiese e ottenne di abbandonare la corte. In seguito, grazie all'intercessione della madre, il G. poté tornare nella casa paterna, da cui fu tuttavia cacciato una seconda volta alla morte di lei. Sul finire del 1593, Battista, perso il favore degli Este, aveva deciso di trasferirsi a Roma, perciò costrinse il G. a recarsi a Padova presso la zia paterna Giulia. Con la devoluzione di Ferrara alla Chiesa e il trasferimento della corte a Modena (1598), il G. lasciò Ferrara e dopo qualche peregrinazione, prese servizio presso Vincenzo I Gonzaga a Mantova, dove rimase per un paio d'anni.
Nonostante gli aspri dissapori familiari, il G. collaborò talvolta agli allestimenti teatrali del Pastor fido: nel 1598 per la seconda rappresentazione certa a Mantova, utilizzò complessi macchinari di scena e intermezzi musicali sul tema dei quattro elementi naturali. In questo stesso periodo affiancò il padre in un lungo contenzioso con la Repubblica di Venezia per il possesso della Guarina, la villa della famiglia situata nel Polesine. Alla moglie il G. comunicò da Venezia di avere "finalmente vinta la lite", con ciò difendendo, insieme con la legittima proprietà di quella che sarebbe poi divenuta per qualche tempo la loro residenza, anche "la riputazione, ed honore del signor mio padre dalla malignità de' suoi detrattori" (Delle lettere, p. 167). La lettera, senza data come la maggior parte dell'epistolario, concepito come modello per la composizione, è con ogni probabilità anteriore al 1601, quando i rapporti del G. con il padre attraversavano un momento di tranquillità. Il 26 ag. 1601 fu costituita l'Accademia degli Intrepidi, di cui il G. fu tra i promotori insieme con il cugino Enzo Bentivoglio e altri illustri concittadini: all'istituzione, con il nome di Macerato, egli sarebbe rimasto legato per tutta la vita, ricoprendo anche la carica di censore.
Ma quello stesso anno il G. partì per Bruxelles; causa del viaggio è probabilmente la partecipazione del G. alla guerra di Fiandra, durante la quale egli assistette all'assedio di Ostenda. L'esperienza militare lasciò traccia in una lettera indirizzata alla moglie del Bentivoglio, Caterina Martinengo: rifiutando un invito a trasferirsi a Roma, il G. ricordava alla gentildonna che quelle stesse cure familiari che avevano vanificato la prospettiva "dell'acquistar il nome di soldato" lo tenevano ora lontano da Roma, dove pure sapeva attenderlo ogni sorta di delizie (Delle lettere, pp. 76 s.). La lettera risale probabilmente al 1608: in quell'anno il Bentivoglio era stato nominato ambasciatore straordinario della Comunità di Ferrara a Roma e il G. si offrì di accompagnarlo, intenzionato a incontrare Virginio Orsini (Delle lettere, p. 133).
Intorno al 1605 il G. portò la controversia con il padre nei tribunali di Ferrara, Rovigo e Venezia. Tornato in patria, dopo la vittoria giudiziaria ottenuta a Ferrara, sul finire del 1609 il G. fece ricorso alla Rota. Questa clamorosa iniziativa spinse Battista a comporre un libello, rimasto manoscritto (Risposta del cavalier Battista Guarino alle false cose che Alessandro suo figliuolo ha detto et fatto dir in giuditio contra di lui), in cui arrivò a maledire il figlio. Ma anche il tribunale di Rovigo e il Consiglio dei venti savi di Venezia gli diedero torto. Il G. rispose allora con un'Apologia: l'opera, rimasta anch'essa inedita, è la fonte principale su cui si basa la ricostruzione della vicenda, che si concluse solo con la morte di Battista (1612).
Il primo atto del G. fu allora quello di sanare la ferita aperta con la corte: chiese e ottenne la protezione del duca Cesare d'Este, da estendersi anche al fratello Guarino. La carriera politica, per la quale confessava di non sentirsi portato, preferendole la filosofia naturale (Delle lettere, p. 13), subì un'imprevista accelerazione: nel 1612 fu chiamato a succedere al padre nel Consiglio centumvirale di Ferrara, cui la famiglia Guarini era stata ascritta da Clemente VIII nel 1598. Procedeva, intanto, l'attività letteraria per lo più in seno all'Accademia degli Intrepidi, cui vanno ricondotte l'Orazione fatta in lode di d. Alderano Cybo marchese di Carrara (Ferrara 1609) e l'Anticupido (ibid. 1610), un'orazione parodica, entrambe recitate in Accademia, il Del campo aperto mantenuto in Ferrara l'anno MDCX la notte di carnovale dall'illustriss. signor Enzo Bentivogli… (ibid. 1610), nonché la Bradamante gelosa, tragicommedia sul tema della provvidenza, rimasta inedita, ma rappresentata a Ferrara nel 1616, su commissione del Bentivoglio, in onore del cardinale legato Giacomo Serra.
Il G. era nel frattempo tornato a Mantova, per riprendere servizio, in qualità di cameriere segreto, segretario e consigliere segreto, presso il duca Vincenzo I Gonzaga; passò poi al servizio del duca Ferdinando Gonzaga, al quale prestava ancora i suoi uffici nel 1621 in qualità di segretario di camera e di cameriere segreto "con honorato piatto" (M.A. Guarini, p. 180).
All'impegno politico è da riconnettere Il Cesare overo L'apologia di Cesare primo imperatore di Roma…, che uscì a Ferrara nel 1632, con dedica all'imperatore Ferdinando II (datata 1629); una seconda edizione fittizia - diversa solo nel frontespizio ma identica nel contenuto - reca la dedica a Vincenzo Gonzaga.
Fondandosi sulla distinzione tra tiranno e monarca vulgata nella trattatistica politica coeva, il G. intende dimostrare che Cesare non fu un tiranno ma un monarca e che il suo governo fu ispirato alla giustizia e alla causa della pace, quella "civile felicità" che solo attraverso la legge può essere conservata (p. 81). Quanto alla libertà che si presumeva Cesare avesse sottratto, il G. sosteneva al contrario che Roma, persane ogni traccia, si fosse affidata a lui per riscattarsi. La fortuna dell'opera merita una menzione particolare: in edizione ridotta e con veste linguistica normalizzata, fu pubblicata nel 1929, in pieno fascismo, da D. Guerrini, con l'intento di rimarcarne l'"utilità" (p. XXII) per la sua epoca.
Nel 1635 il G. pubblicò a Rovigo il Trattato del vero, e real fondamento della catolica fede.
L'opera, dedicata a Urbano VIII, segna una svolta controriformistica rispetto a tutta la produzione precedente. Il problema della conoscenza lecita sembra assillare il G. con maggiore severità. Il trattato intende dimostrare che la redenzione stessa sancì la necessità provvidenziale dell'affidarsi alla fede e non alla conoscenza umana. Che l'essere umano sia stato relegato, dopo l'"original miscredenza" (p. 50), nell'impossibilità di comprendere è infatti, secondo il G., giusto contrappasso per l'aver voluto assaggiare la conoscenza proibita. L'adesione alle direttive controriformistiche è completata dall'esortazione a riprendere l'impresa della riconquista della Terrasanta sotto la guida di Urbano VIII.
Il G. morì a Ferrara tra il 13 e il 15 ag. 1636; fu sepolto in S. Maria degli Angeli, chiesa ora distrutta.
Le opere del G. fino al 1611 furono raccolte dall'autore nelle Prose pubblicate, con dedica al duca di Mantova Vincenzo I, a Ferrara dal tipografo V. Baldini nel 1609-11 in sei volumi (oltre quelli già citati, un volume di Pareri in materia d'onor, e di paci, 1611). Il farnetico savio è in edizione moderna a cura di F. Ronchetti, Città di Castello 1895.
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