GUAIMARIO
Princeps di Salerno, quarto di questo nome (o quinto secondo alcuni lineamenti genealogici, cfr. Taviani Carozzi, 1991, pp. 366, 369), nacque probabilmente verso il 1013 dal principe salernitano Guaimario (III) e dalla seconda moglie Gaitelgrima, figlia di Pandolfo (II) principe di Benevento-Capua; da questo matrimonio nacquero anche Guido, futuro gastaldo di Conza e duca di Sorrento, e Paldolfo, divenuto successivamente dominus di Capaccio.
Ancora in tenera età suo padre lo elevò formalmente alla coreggenza del Principato, uniformandosi in questo alla linea di condotta dei suoi predecessori. In precedenza, dal settembre del 1015, Guaimario (III) aveva affiancato alla guida del Principato il suo primogenito, Giovanni (III), nato da un precedente matrimonio con una donna di nome Purpura (Schipa, 1968, p. 180; Taviani Carozzi, 1991, p. 372). Solo dopo la morte improvvisa di Giovanni nel 1018 G. fu designato alla successione.
G. è ricordato una prima volta nelle carte emanate dall'attiva cancelleria principesca nel maggio del 1023 (Diplomata…, pp. 62 s.; Pratesi, passim), quando con suo padre sottoscrisse un diploma che sanciva un importante ampliamento non solo dei possedimenti terrieri della mensa archiepiscopale salernitana, ma anche e soprattutto un allargamento dei poteri giurisdizionali del presule locale.
Da allora, la "signoria episcopale" salernitana, come è stata giustamente definita da H. Taviani Carozzi (1991, pp. 1020 s., 1024 s.), si sarebbe potuta esplicare anche sui soggetti laici dipendenti dalla chiesa cattedrale. Il diploma, redatto dal notaio Accepto in forma solenne nel palazzo principesco di Salerno, era stato voluto in special modo da Gaitelgrima, fautrice di una politica di avvicinamento della dinastia non solo alla Chiesa, ma anche agli enti monastici. G. e suo padre patrocinarono pertanto la fondazione del monastero della Ss. Trinità di Cava de' Tirreni. Il progetto per l'erezione di quel monastero, avviato in realtà verso il 1011 dall'aristocratico Alferio su un sito inizialmente occupato dall'eremo di Liuzo, già monaco cassinese, era stato in breve abbracciato dai principi di Salerno. La Badia di Cava, che fu dotata da G. e dal padre di beni e privilegi di varia natura, divenne in pochi anni di rilevanza europea, non solo per la vita liturgica e culturale della sua comunità monastica, ma anche per la sua ricchezza e la sua potenza.
Alla morte del padre, avvenuta nel 1027, iniziò il governo autonomo di G. che aveva, probabilmente, solo quattordici anni. Intorno agli anni Trenta si unì in matrimonio con Gemma, figlia di Laidolfo, conte della dinastia capuana; da questa unione nacque una numerosa prole: Giovanni (IV), precocemente associato al padre nel 1037, ma già scomparso nel 1039; Gisulfo (II), che divenne dal 1042 coreggente del Principato; e ancora Pandolfo, Guaimario (V), Landolfo, Guido, un altro Giovanni, Sichelgaita - che avrebbe sposato il normanno Roberto il Guiscardo - Sica e Gaitelgrima.
Nel maggio 1038 l'imperatore Corrado II aveva sconfitto e cacciato il principe Pandolfo (IV)(zio di G., che gli era ostile), sia da Capua, sia dal piccolo Ducato di Gaeta. G., al quale fu offerto dall'imperatore il controllo di quelle circoscrizioni, divenne quindi anche principe di Capua e, per qualche tempo, di Gaeta.
Dal 1038, inoltre, c'erano state episodiche incursioni contro l'altrettanto ridotto ma florido Ducato amalfitano. L'anno successivo G. riuscì ad annettere anche questo territorio al suo Principato sostenuto, anche in quell'occasione, da una serie di favorevoli congiunture: l'aiuto dell'imperatore Corrado II, il sempre più aspro dissidio tra quest'ultimo e l'imperatore d'Oriente Michele IV Paflagone e, infine, l'appoggio ottenuto dai sempre più forti e agguerriti contingenti normanni. In questa circostanza il duca amalfitano Giovanni (II) fu costretto a recarsi in esilio a Costantinopoli: tuttavia, nel 1042, G. abbandonò il governo diretto di quest'area optando per una sorta di alta tutela, e riaffidando il ducato a Mansone (III), a suo tempo destituito proprio dal duca Giovanni.
In quello stesso periodo G. estese il proprio controllo politico e militare sul piccolo Ducato di Sorrento imponendo, in un momento di grave e confusa crisi politica, suo fratello Guido al trono ducale (Schwarz, p. 539; cfr. anche Schipa, 1968, che anticipa la conquista di quel Ducato al 1038-39). Sempre nel 1042 allo stratego e catepano bizantino Giorgio Maniace giunse l'ordine da parte di Michele V Calafato di procedere a una seconda campagna militare contro i musulmani, coinvolgendo in questa azione anche Guaimario.
Il comandante bizantino, infatti, prima di intraprendere l'azione, chiese a G. un cospicuo contributo in uomini e mezzi; G. fornì una leva di truppe longobarde - salernitane, ma anche beneventane - condotte da un Arduino proveniente da Milano, secondo quanto riferito da Amato da Montecassino (II, 14, pp. 63 s.). A queste aggiunse un ulteriore corpo di spedizione formato da mercenari normanni che, sempre per Amato da Montecassino, non avrebbe superato i trecento uomini, affidandone il comando a Guglielmo, figlio di Tancredi d'Altavilla, a sua volta affiancato dai fratelli Drogone e Umfredo. L'impresa tuttavia, dopo un brillante inizio coronato dalla conquista di quasi tutta la Sicilia orientale, da Messina a Siracusa, per cause diverse fallì. Iniziò allora un periodo di gravi scontri che infiammarono l'intero Meridione peninsulare. Insurrezioni antibizantine inizialmente localizzate nella sola Puglia vennero ben presto allargandosi e organizzandosi. Le truppe longobarde e normanne, ritornate in Campania dalla Sicilia, diedero inizialmente impulso a occasionali azioni di guerriglia contro quelle orientali e, ottenuto un tacito assenso da G., aprirono le ostilità contro i Bizantini. Nei primi, decisivi scontri, l'esercito normanno-longobardo, che era affiancato da insorti pugliesi ed era comandato da Atenolfo, figlio di Pandolfo (III) di Benevento, ebbe la meglio e il territorio di Melfi venne occupato. Atenolfo tuttavia, giudicato debole, superficiale e inetto dai contingenti normanni a causa di alcuni suoi atteggiamenti verso le truppe, dopo l'ultima, vittoriosa battaglia di Montepeloso in breve non godette più della stima e della fiducia dell'esercito. A quel punto G. intervenne, richiamando presso di sé parte delle truppe e incitando quelle rimanenti, in particolare quelle normanne e dei ribelli pugliesi, ad abbandonare Atenolfo. Quale nuovo responsabile dell'esercito venne scelto, forse da G. o direttamente dai Normanni Argiro, figlio di Melo da Bari, protagonista delle prime sommosse antibizantine. La decisione di richiamare a sé le truppe dipese essenzialmente dall'inattesa, pericolosa vicinanza di Pandolfo (IV) di Capua che, presente con armati nel Casertano, avrebbe potuto agevolmente attaccare il territorio salernitano. Proprio in quest'occasione G. si preoccupò inoltre della successione al trono affiancando a sé il giovane Gisulfo (II). Calmatasi momentaneamente la situazione su questo fronte, G. ebbe la possibilità di seguire con maggiore attenzione lo sviluppo degli avvenimenti in Puglia. Le truppe rimaste di presidio, al comando di Argiro, affrontarono nuovamente i Bizantini. Un'urgente richiesta di aiuto militare venne inviata da Argiro direttamente a Rainulfo, conte normanno di Aversa che, probabilmente con l'approvazione di G. - ma su questo particolare le fonti tacciono -, spedì i rinforzi richiesti. Ancora una volta però la situazione ebbe una svolta inaspettata. Maniace disattese infatti le aspettative imperiali, si ribellò e in Puglia tentò di farsi eleggere basileus dalle sue truppe. Costantinopoli operò in tale frangente con abilità blandendo Argiro che, allettato dalle promesse bizantine, sciolse l'esercito e si ritirò dal conflitto. L'inatteso epilogo dell'ennesima rivolta antibizantina in Puglia vide Maniace richiamato in Oriente, dove fu eliminato, mentre Argiro usciva ingloriosamente di scena. Le sue truppe disorientate e senza più un capo si rivolsero nuovamente a G., ponendosi alle sue dirette dipendenze. Questi agì a sua volta con diplomazia accogliendo i reduci e dando addirittura in sposa al capo normanno Guglielmo d'Altavilla una sua nipote, figlia di Guido, conte di Conza e duca di Sorrento. In seguito provvide a suddividere tra i comandanti normanni le terre conquistate nominando Rainulfo, già conte d'Aversa, anche duca di Gaeta e riservandosi allora l'ulteriore titolo di duca di Puglia e Calabria.
L'alleanza, l'amicizia e la parentela con i Normanni procurarono a G. anni di sicurezza militare e politica: l'incognita capuana, determinata dall'esuberanza di Pandolfo (IV), fu ridimensionata dalle schiere normanne, pronte a intervenire in ogni occasione e sempre, in quegli anni, a vantaggio di Guaimario.
Qualche iniziale problema sorse per G. alla morte di Rainulfo, specie riguardo alla successione nella Contea di Aversa e nel Ducato di Gaeta (circa 1045). La popolazione e l'aristocrazia aversane, d'accordo con G., innalzarono al potere locale Asclettino Drengot, un nipote del defunto Rainulfo. La prematura morte di Asclettino diede di nuovo inizio alla lotta per la successione a quel titolo comitale e mise in crisi i rapporti di G. con la locale aristocrazia di origine normanna. Si giunse infine all'elezione del candidato sostenuto da quest'ultima, Rainulfo Drengot, cugino di Asclettino, soprannominato, nelle fonti, Trincanotte - ma G. impose quella di un tale Rodolfo, che Amato identifica in Rodolfo Cappello (II, 33, p. 97); per maggior sicurezza, inoltre, G. fece rinchiudere Rainulfo Trincanotte in un carcere salernitano.
In quei mesi un susseguirsi di torbidi locali provocati dal perenne tramare del conte di Aquino, Atenolfo (IV), e di Rodolfo, genero del defunto conte Rainulfo, insieme con il principe di Capua, Pandolfo (IV), ritornato quest'ultimo dall'esilio di Costantinopoli, avviò un processo di destabilizzazione del potere di G. che vide, inoltre, espellere da Aversa quel Rodolfo Cappello da lui posto al controllo della Contea. Rainulfo Drengot era infatti riuscito a fuggire dalla prigione salernitana, a far esiliare Rodolfo e, grazie alla corruzione e ad appoggi politici locali, a farsi eleggere conte di Aversa.
Altri dissidi occorsero poi in Puglia, in seguito alla morte di Guglielmo d'Altavilla (1046). Sulle più diverse correnti prevalse quella principesca: G. decise infatti che a Guglielmo sarebbe succeduto Drogone, un fratello del defunto.
La scelta, va sottolineato, rispettava un ben delineato progetto politico teso al mantenimento di ruoli e titoli in ambito strettamente dinastico. Ma i guai non erano ancora finiti. Ai dubbi sulla fedeltà di alcuni capi normanni e di vari signori longobardi circonvicini si aggiunse un'ulteriore preoccupazione per Guaimario. Con l'avvento di Enrico III, succeduto a Corrado II morto nel 1039, si ebbe infatti dal 1048 un mutamento di rotta nella politica meridionale. Il sovrano infatti guardava ora con sospetto il principe salernitano, malvisto non solo per la sua parentela con papa Benedetto IX (suo fratello Paldolfo aveva infatti sposato Teodora di Gregorio di Tuscolo, casata alla quale apparteneva il pontefice, Fedele, pp. 5 s.), deposto nel corso di un concilio tenutosi a Roma nel dicembre del 1046, ma anche per la sua pericolosa potenza e per le sue relazioni privilegiate con i Normanni. Quando, nel gennaio 1047, il nuovo pontefice Clemente II accompagnò l'imperatore in un viaggio nell'Italia meridionale a G. fu imposto di restituire il territorio e la città di Capua al deposto Pandolfo. Due anni più tardi infine fu eletto papa l'alsaziano Leone IX, legato all'imperatore da vincoli di parentela e particolarmente ostile alla crescente potenza normanna.
G., sebbene avesse emanato non pochi privilegi a favore dei principali enti monastici del territorio, e segnatamente a quelli di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno, non riuscì a evitare che anche da parte dei monaci giungessero aspre critiche al suo operato. Il malcontento derivava dalla serie di concessioni terriere fatte ai cavalieri normanni dopo il loro stanziamento e la loro sottomissione a G. con il riconoscimento della Contea di Aversa. Occorreva d'altra parte ricompensare la loro fedeltà e la loro perizia in combattimento, ma un uso siffatto di parte delle terre cassinesi e vulturnensi non mancò di suscitare lo sdegno dei monaci. G. inoltre beneficò con quelle terre altri suoi fedelissimi, e in special modo Grimoaldo del fu Madelmo, conte di palazzo. In quello stesso torno di tempo i principi beneventani che, in occasione della venuta di Leone IX, gli avevano negato l'ingresso in città vennero fulminati da scomunica alla quale seguì una sommossa che li allontanò favorendo l'accoglimento di Benevento nel Patrimonio della Chiesa di Roma.
Nel luglio del 1051 G. e il conte di Puglia, Drogone d'Altavilla, si recarono a Benevento dove il papa raccomandò loro di preservare quelle terre dalle razzie normanne (Kehr, n. 17 p. 337). Ma queste non tardarono e, anzi, Drogone medesimo venne ucciso in Puglia, dove si era recato per cercare di far cessare le incursioni verso la Campania. G., prontamente accorso, era riuscito a ristabilire l'ordine ma nel maggio del 1052 il pontefice, deciso a fermare a ogni costo la minaccia dei Normanni che infestavano la zona, giunse con sue milizie ai confini pugliesi intimando contemporaneamente a G. di unirsi a lui con il suo esercito. G., il cui potere e prestigio erano fondati in gran parte sull'accordo con i Normanni, ai quali era unito non solo da forti legami d'amicizia ma anche familiari, non raccolse l'ordine del papa, ma si tenne fermo nelle sue alleanze (Kehr, n. 18 p. 337).
Da Amalfi tuttavia incalzava un altro pericolo. Stanchi, a loro dire, per le continue imposizioni fiscali, gli Amalfitani, dopo aver spodestato Mansone, richiamarono Giovanni (II) e congiurarono contro G., il quale fu infine ucciso, forse il 3 giugno del 1052 (Amato, III, 28, p. 211; Leone Marsicano, II, 82, p. 685).
Con la morte di G. si chiudeva l'epoca di massima potenza del Principato salernitano. Con lui si assistette a una progressiva, vigorosa ripresa della spinta espansionistica, non disgiunta da una lungimirante abilità politico-diplomatica. G. cercò di mantenere sempre altissimo il senso quasi-regio della propria dignità principesca e del proprio potere sulle vaste dominazioni del suo magmatico Principato. Seppe mantenere e sviluppare il prestigio e l'aulicità nei predicati e nelle titolature, specie nell'emanazione di atti pubblici o privati principeschi. Dando credito a quanto narra Amato, Corrado II, con il quale G. mantenne sempre ottimi rapporti, addirittura lo adottò quale figlio (Historia, II, 6, p. 63; cfr. Delogu, 1977, p. 164), su pressione dei suoi stessi grandi. Grazie all'ennesimo aiuto di Umfredo d'Altavilla e di Riccardo d'Aversa, chiamati in soccorso da Guido, fratello di G., nel giugno 1052 saliva al trono salernitano il suo secondogenito Gisulfo (II).
Fonti e Bibl.: Gaufredus Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis…, a cura di E. Pontieri, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., V, 1, pp. 5, 10, 12, 15, 22; Romualdus Salernitanus, Chronicon, a cura di C.A. Garufi, ibid., VII, 1, pp. 179, 181, 184; Annales Cavenses, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, III, Hannoverae 1839, p. 189; Catalogus principum Salerni, a cura di G.H. Pertz, ibid., p. 211; Chronicon ducum Beneventi, Salerni…, a cura di G.H. Pertz, ibid., p. 212; Leo Marsicanus, Chronicon monasterii Casinensis, a cura di W. Wattenbach, ibid., VII, ibid. 1846, pp. 626 s., 670 s., 673, 675, 678, 680 s., 685, 700 s.; Codex diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi - M. Schiani - S. De Stefano, V, Neapoli 1873, n. 764 p. 93 e passim; K. Voigt, Beiträge zur Diplomatik der langobardischen Fürsten von Benevent, Capua und Salerno (seit 774), Göttingen 1902, pp. 9, 14 s., 30, 33; Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, a cura di V. De Bartholomaeis, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], LXXVI, Roma 1935, ad ind.; Desiderio di Montecassino [Vittore III papa], Dialoghi sui miracoli di s. Benedetto, a cura di P. Garbini, Cava de' Tirreni 2000, p. 71; P. Fedele, Di alcune relazioni fra i conti del Tuscolo ed i principi di Salerno, in Arch. della Soc. romana di storia patria, XXVIII (1905), pp. 5-21; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia. Ducato di Napoli e Principato di Salerno, Bari 1923, pp. 135, 148-168; P.F. Kehr, Italia pontificia, VIII, Berolini 1935, pp. 336 s.; C.G. Mor, L'età feudale, Milano 1952, I, p. 476; II, p. 127 (per il potere e le titolature del princeps); Diplomata principum Beneventi, Capuae et Salerni de gente Langobardorum, a cura di A. Pratesi, in Arch. paleografico italiano, XV (1956), pp. 62 s., tavv. 10-15, 20 s.; A. Pratesi, La diplomatica dei principi longobardi di Salerno, in Pubblicazioni dell'Arch. di Stato di Salerno, I, Salerno 1958, pp. 3-15; R. Volpini, Diplomi sconosciuti dei principi longobardi di Salerno e dei re normanni di Sicilia, in Contributi dell'Istituto di storia medioevale. Raccolta di studi in memoria di Giovanni Soranzo, Milano 1968, pp. 489-512; M. Schipa, Storia del Principato longobardo di Salerno, in F. Hirsch - M. Schipa, La Longobardia meridionale, Roma 1968, pp. 182 s. e passim; B. Ruggiero, Principi, nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo: l'esempio di S. Massimo di Salerno, Napoli 1973, pp. 65, 111; E. Garms-Cornides, Die langobardischen Fürstentitel (774-1077), in Intitulatio II: Lateinische Herrscher- und Fürstentitel im neunten und zehnten Jahrhundert, Wien-Graz-Köln 1975, p. 418; C. Carlone, I principi Guaimario ed i monaci cavensi nel Vallo di Diano, in Archivi e cultura, X (1976), pp. 47-60; P. Delogu, Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli 1977, pp. 127, 154, 156 s., 163-167; V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina in Italia meridionale, Bari 1978, pp. 38 s.; Id., I Longobardi meridionali, in Storia d'Italia (UTET), III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 280-287; S. Leone, La data di fondazione della Badia di Cava, in Minima Cavensia, a cura di S. Leone - G. Vitolo, Salerno 1983, pp. 51 s. e passim; S. Leone, La data di associazione di Gisulfo II al Principato di Salerno, ibid., pp. 129 s.; I. Di Resta, Il Principato di Capua, in Storia del Mezzogiorno, II, 1, Napoli 1988, p. 179; P. Delogu, Il Ducato di Gaeta, ibid., pp. 219 s.; G. Sangermano, Il Ducato di Amalfi, ibid., pp. 292-296; Id., Il Ducato di Sorrento, ibid., p. 331; E. Cuozzo, L'unificazione normanna e il Regno normanno-svevo, ibid., pp. 602 s.; H. Taviani Carozzi, La Principauté lombarde de Salerne. IXe-XIe siècle, I-II, Roma 1991, ad ind.; M. Galante, La documentazione vescovile salernitana: aspetti e problemi, in Scrittura e produzione documentaria nel Mezzogiorno longobardo. Atti del Convegno…, Badia di Cava… 1990, a cura di G. Vitolo - F. Mottola, Badia di Cava 1991, pp. 231-233, 242; H. Taviani Carozzi, Il notaio nel Principato longobardo di Salerno (sec. IX-XI), ibid., p. 275; J.M. Martin, La Pouille du VIe au XIIe siècle, Roma 1993, pp. 523, 722; U. Schwarz, Giovanni, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma 2000, pp. 538 s.; Lexikon des Mittelalters, VIII, col. 1933.