GUAIFERIO
Fonte primaria per ricerche biografiche sul monaco e letterato cassinese G. è la Historia Normannorum di Amato di Montecassino, conosciuta solo grazie a un volgarizzamento del sec. XIV. Al silenzio di Amato circa l'attività letteraria di G. suppliscono le notizie di Guido (morto dopo il 1127), primo continuatore della Chronica cassinese di Leone Ostiense, e di Pietro Diacono (morto dopo il 1159), che oltre al capitolo XXIX del suo Liber illustrium virorum archisterii Casinensis, dedica a G. anche un medaglione agiografico nell'Ortus et vita iustorum cenobii Casinensis.
Ignota è la data della nascita di G., che dovette avvenire nella prima metà del secolo XI a Salerno, città della quale lo dice espressamente oriundo Guido nella continuazione della Chronica, e dove sicuramente visse prima dell'esperienza monastica a Montecassino. Di nobili origini, G., che il solo Pietro Diacono denomina "Benedictus qui et Guayferius" (Liber illustrium virorum, col. 1037), dopo una formazione culturale e spirituale di cui ci sfuggono i precisi contorni, e che pure dovette condurlo a una perfetta padronanza delle arti liberali, abbracciò lo stato clericale con un impegno e una qualità di vita che sembrano assimilarlo allo stato monastico - "aviengne qu'il fust chanoinne et clerc, toutes voies, par vie et par costumes, aloit come moinne" (Historia Normannorum, p. 216) -, con tre caratteristiche fondamentali, quelle stesse per le quali brillarono i "saint Peres" italici ritratti nei Dialogi di s. Gregorio: "soit pour asterité de cors, ou soit pour vigilie, ou soit par autre vertu spirituale" (ibid.).
Questo aspetto della biografia di G. merita una particolare attenzione e puntualizzazione poiché occorre subito sgombrare il campo da un equivoco al quale - come sembra - non è sfuggito finora nessuno di coloro che a lui si sono interessati. Durante il suo soggiorno a Salerno G. non fu monaco, nel senso più pieno della parola, cioè non appartenne ad alcuna comunità monastica benedettina e tanto meno ne fu l'abate. Oltre che con quello di "chanoinne et clerc", di certo Amato designa a più riprese G. con il titolo di "abbé", specialmente per sottolineare il contrasto che in quella veste ecclesiale egli dovette sostenere con il principe di Salerno Gisulfo (II). Un solo documento del 1058, riportato nel Codex diplomaticus Cavensis, ci illumina sul ruolo che in realtà G. esercitò all'interno della compagine ecclesiastica di Salerno: quello appunto di abate della chiesa di S. Massimo: "Memoratorium […] coram presentia domni Guaiferii abbas ecclesie sancti Maximi", tipico esempio, quest'ultima, di "chiesa privata", i cui abati-rettori non guidavano una comunità monastica bensì, come ha ben documentato Ruggiero, esercitavano l'ufficio di "superiori di un collegio di "canonici"" (p. 39), cioè di chierici dei quali l'abbas era il rappresentante, mentre solo a partire dal 1079 è documentata una progressiva dipendenza della chiesa dall'abbazia della Ss. Trinità di Cava, pienamente confermata nel privilegio di Pasquale II del 30 ag. 1100. Privo di solido fondamento è anche il titolo di "sacerdote" attribuito a G. da Limone (L'opera agiografica…, p. 77), dato il silenzio di Amato, che, come già rilevato, parla solo di "canonico e chierico" o di "abate", e visto inoltre il solo titolo di abbas ascrittogli nel citato memoratorium cavense, mentre al contrario nei contemporanei atti relativi a S. Massimo si tende a precisare la distinzione tra clericus et abbas e sacerdos et abbas. G. dovette quindi ascendere solo qualcuno dei gradi dell'Ordine, raggiungendo probabilmente già a Salerno quello di suddiacono, proprio come viene commemorato nel necrologio cassinese del codice conservato presso la Biblioteca apostolica Vaticana, Borg. lat. 211, appartenuto al cronista e poi cardinale Leone Ostiense ("Guaiferius subdiac. et mo.", segnato al 12 aprile e riportato in Hoffmann).
Quale particolare causa motivasse il contrasto tra G. e il principe Gisulfo non è facile precisare: Amato tende a rappresentarlo come episodio esemplare della persecuzione da parte del principe salernitano nei confronti dei "membres de Christo" (Historia Normannorum, p. 214), al punto di concludere che "avieingne que Gisolfe eüst fait molt de malvestié et iniquité, toutes voies est de croire que pour nulle cose Dieu lui fust tant adiré et corrocié vers, quant pour la moleste qu'il faisoit contre cest saint Abbé" (ibid., p. 219). La sottolineatura del conflitto tra l'abate-rettore e l'autorità principesca sembra riflettere la notevole importanza della chiesa di S. Massimo che, come scrive Ruggiero, "raccoglieva in una innegabile solidarietà di interessi intorno ai suoi Eigenkirchenherren - i possessori di diverse quote di proprietà - l'adesione ed il consenso di larghi e vasti strati della società salernitana" (p. 64); e tuttavia - come ancora nota lo stesso autore - ormai nella prima metà del sec. XI "la funzione spirituale della chiesa ed il suo prestigio decadevano senza scampo" (p. 72). In tale difficile contesto, mentre un nuovo fervore religioso animava il vicino monastero di Cava, fondato intorno al 1020 da Alferio nobile salernitano, e lo stesso arcivescovo Alfano a partire dal 1058 tracciava per la sede salernitana le linee del rinnovamento ecclesiale promosso da Roma, G. dovette scontrarsi con una vecchia mentalità ancora tenacemente legata al soffocante rapporto tra l'interesse privato dei singoli proprietari della chiesa di S. Massimo, il più cospicuo dei quali era in quel momento il conte Castelmanno, e le esigenze più propriamente spirituali e pastorali legate al servizio divino. Basterebbe ciò a dare significato alle rivendicazioni di G., cui accenna Amato: "Et dist li juste que sa poësté est plus grant que la poësté seculere, secont la autorité de li Apostole. Et appella à lo Pape" (Historia Normannorum, p. 215), non senza sottolineare il coinvolgimento nella questione dello stesso arcivescovo salernitano, al quale, dopo la minaccia del taglio della lingua rivolta contro G., si era rivolto il padre di quest'ultimo ("li Archevesque là ploroit li pere; et li parent estoient entor, qui sans dolor cele chose non pooient veoir"). La collocazione dell'episodio nell'economia dell'Historia di Amato, le vicende stesse del principe Gisulfo (il suo viaggio in funzione antinormanna a Costantinopoli tra il 1061 e il 1062; la ribellione dello zio Guido conte di Conza, posteriore a tale viaggio; il suo contemporaneo "incrudelire contro alcuni eminenti suoi sudditi") inducono a ritenere che il contrasto tra Gisulfo e G. sia databile, come giudica Michelangelo Schipa, successivamente al viaggio costantinopolitano, forse intorno al 1064. Del resto Amato all'incomprensione politica di cui fu vittima G. associa anche quella privata da parte dei suoi familiari, dal momento che di fronte ai digiuni e all'amore per la preghiera che lo caratterizzavano, "ses parens malitiouz cerchoient de lui soustraire l'arme soë", sebbene G. non si lasciasse condizionare "et pensoit de nuit et de jor la loi de Dieu; et aloit par lo conseil de li parfait"; è a questo punto che, secondo Amato, egli abbraccia il nuovo stato di vita monastica: "il rechut, par grant desirrier et volenté, lo habit de saint Benedit" (ibid., p. 217), senza peraltro che venga fatta espressa indicazione del monastero che accolse Guaiferio. Nondimeno l'episodio narrato nell'Historia Normannorum a conclusione dell'excursus guaiferiano, di cui fu protagonista Alberico senior (morto non oltre il 1105), il retore cassinese che assisté insieme con altri confratelli il morente G., e al quale lo stesso G. dopo la morte avrebbe rivelato il suo stato di eterna beatitudine, è la traccia più chiara per riconoscere già nel testo di Amato l'appartenenza di G. alla comunità di Montecassino, un dato che poi sia Guido, nella continuazione della Chronica di Leone, sia Pietro Diacono confermano abbondantemente, anche se non sono mancati dubbi, peraltro di debole consistenza, circa la genuinità di questo specifico episodio, riportato anche da Pietro Diacono nell'Ortus et vita iustorum cenobii Casinensis, la cui tradizione sarebbe frutto di un'interpolazione operata dallo stesso Pietro sul perduto originale latino di Amato.
G. giunse dunque a Montecassino avendo lasciato Salerno - come sottolineano Guido (Chronica, III, 62, p. 443) e Pietro Diacono (Ortus, p. 70) -, dopo i fatti che lo videro contrapporsi a Gisulfo, senza che vi sia alcuna certezza sulla data d'ingresso. Sembra improbabile che il periodo salernitano sia durato "forse fino al 1075 circa" (Oldoni, p. 64), anche considerando il quadro entro cui Amato delinea la vicenda di G., incastonandola fra il ritorno di Gisulfo dal viaggio a Costantinopoli (1062 o poco dopo) e i tentativi dello stesso principe salernitano di seminare discordia tra l'arcidiacono Ildebrando - futuro papa Gregorio VII -, diffidente verso i Normanni, e l'abate Desiderio (poi papa Vittore III) ben più favorevole, databili tra la seconda metà del sesto decennio del secolo e il periodo anteriore all'elevazione dello stesso Ildebrando al soglio pontificio, avvenuta nell'aprile del 1073. D'altra parte ben più improbabile è che la vicenda cassinese di G. si restringa ai soli anni 1084-86, come si dovrebbe concludere qualora si seguissero alla lettera le troppo vaghe indicazioni cronologiche che fornisce Pietro Diacono nel Liber illustrium virorum. Accolto nella comunità cassinese, G. respirò il tonificante clima di quegli splendidi anni desideriani, caratterizzati dalla rinascita spirituale e culturale dell'antico monastero di S. Benedetto. Lo testimonia la sua stessa attività letteraria, che, pur non brillando per assoluta originalità, ne fa ugualmente un protagonista della letteratura cassinese, accanto ad Alfano, Amato e Alberico.
Di lui agiografo, poeta, autore di sermoni e omelie, Guido nella continuazione della Chronica leoniana offre un primo catalogo delle opere che, se confrontato con quello elaborato da Pietro Diacono nel Liber illustrium virorum, appare meno completo: "scripsit ad Troianum episcopum Vitam sancti Secundini et cantum eius; versus in laudem psalterii; de miraculo illius qui seipsum occidit et per beatum Iacobum vite redditus est; de conversione quorundam Salernitanorum; de laude sancti Martini; in laudem sancti Secundini; ymnos de eodem; omeliam de Adventu; sermones de Nativitate Domini, de Epiphania, de Cena Domini, de Septuagesima, de ramis Palmarum; passionem sancti Lucii pape". Quest'ultimo elenco con l'intera produzione di G. trova riscontro nell'unico manoscritto che ce l'ha trasmessa, il codice 280 dell'Archivio di Montecassino, in scrittura beneventana della fine del sec. XI (Dell'Omo, pp. 167 s.; Newton, pp. 368 s.), che oltre a G., contiene opere di Alfano, e riveste un particolare significato in quanto parzialmente vergato dal cronista cassinese e responsabile dello scriptorium, Leone Ostiense: omelie e sermoni, pp. 1-35; vita di s. Secondino, pp. 35-47; Passio di s. Lucio, pp. 47-58; opera poetica, pp. 59-73. Annoverato tra i "grands rhétoriqueurs" dell'XI secolo insieme con Pier Damiani, Alfano di Salerno e Anselmo da Besate, G., originario di una città cosmopolita come Salerno, reca con sé un patrimonio di cultura sostanziato di classicità, a tal punto che le sue due opere agiografiche, la Vita di s. Secondino vescovo di Troia e la Passio di s. Lucio papa, sono state definite "straripanti di citazioni classiche" (Baglio - Ferrari - Petoletti, p. 229). È stato il Reynolds a rilevare come nei due menzionati testi G. faccia uso di passi tratti dai Dialogi di Seneca, opera che dopo Martino vescovo di Braga scompare dalla tradizione testuale per poi riemergere solo cinque secoli dopo, appunto alla fine del sec. XI, in un codice vergato a Montecassino (Milano, Biblioteca Ambrosiana, C.90 inf.), e appunto nell'opera di G., il quale, come sembra, pur non avendo attinto Seneca direttamente da questo manoscritto, sicuramente fece uso di un esemplare-modello già presente nella biblioteca cassinese o da lui stesso portato con sé dalla nativa Salerno a Montecassino. Insieme coi Dialogi senecani anche i Florida di Apuleio e il De oratore di Cicerone (di quest'ultimo la sua sembra essere l'unica attestazione in Italia prima del sec. XIV) trovano eco in Guaiferio. Sensibile al modello virgiliano, la lingua letteraria di G. riflette invece solo una scarsa presenza del magistero poetico oraziano. In particolare da Cicerone, abbondantemente citato in forma diretta o per allusione nel prologo alla Vita di s. Secondino, G. trae la concezione dell'attività agiografica come opera di retorica, come lavoro di scrittura alla cui perfezione e al cui successo è necessaria la raffinatezza dello stile: "Constat enim quia, si eleganti eloquentie gloria, inepte potius ignominia debeatur" (Limone, L'opera agiografica…, p. 94), in perfetta sintonia con gli insegnamenti di Alberico senior, il più ciceroniano degli intellettuali cassinesi di quegli anni.
Le opere di G. si leggono nelle seguenti edizioni: Florilegium Casinense, V (appendice a Bibliotheca Casinensis seu Codicum manuscriptorum qui in tabulario Casinensi asservantur series, V, Montis Casini 1894), pp. 238-257 [omelie e sermoni]; A. Mirra, I versi di G. monaco di Montecassino nel sec. XI, in Bull. dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, XLVI (1931), pp. 93-107 [opera poetica]; O. Limone, L'opera agiografica di G. di Montecassino, in Monastica, III, Scritti raccolti in memoria del XV centenario della nascita di s. Benedetto (480-1980), Montecassino 1983, pp. 77-130.
Un ultimo tassello della biografia di G. è offerto ancora da Amato, allorché intesse la lode finale del "bon Gualfere", per aver rivelato la sua sorte beata al confratello cassinese Alberico, e soprattutto per non aver soddisfatto le richieste di coloro che volevano farlo arcivescovo di Benevento: "tu contradixiste à ceaux qui à temps te vouloient faire gauder et te donnoient esperance que te vouloient faire archevesque de Bonivent, et tu non volisti celle honor, quar maintenant tu as l'estole et la benediction celestial" (Historia Normannorum, p. 219). La notizia di per sé non avrebbe nulla di straordinario, ben potendo tale proposta coincidere, come ritiene Hoffmann, con la lunga vacanza della sede beneventana a partire dal 1069, in seguito alla morte dell'arcivescovo Ulderico, a cui successe solo nel 1074 Milone. Ciò che la rende più problematica è il tenore del prologo alla Vita s. Secundini, nel quale G., rivolgendosi al committente, il vescovo di Troia Stefano (1059-80), lo chiama "frater et coepiscope" (Limone, L'opera agiografica…, p. 92), riconoscendo al tempo stesso di essere stato spinto a comporre quel testo agiografico per amore fraterno verso di lui e per obbedienza all'abate Desiderio di Montecassino, cui lo stesso Stefano si era rivolto, probabilmente in occasione della sua presenza a Montecassino durante la consacrazione della nuova basilica il 1° ott. 1071. Inspiegabilmente Mirra (1935, p. 21) riferendosi al manoscritto cassinese 280 scrive: "il codice porta intanto molto chiaramente "episcope" e non "coepiscope", perciò mi risparmio di riferire e discutere la quistione dello stesso Migne sul fatto se G. sia stato o meno vescovo". In realtà a p. 35 si legge senza alcun dubbio "f[rate]r et coep[iscop]e S⟨tephane>", un particolare che non può essere sottovalutato e che pone qualche interrogativo circa il senso di quel coepiscopus, tanto più che il titolo è di uso frequente allorché un vescovo si rivolga a un altro vescovo di pari dignità, e ben più raro allorché a farlo è per esempio un presbitero (Ch. Dufresne Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, II, Niort 1883, p. 390). Nel caso di G. il fatto appare ben più singolare, dal momento che egli, come già notato, non sembra aver ricevuto altro grado dell'ordine che quello del suddiaconato. Un'ipotesi formulabile, data anche l'importanza e quindi la probabile notorietà ai contemporanei dell'informazione fornita da Amato circa l'offerta a G. della sede episcopale di Benevento, è che tra il 1069 o meglio tra il 1071 e il 1074, in perfetta coincidenza quindi con la vacanza della sede beneventana e con un segmento dell'episcopato di Stefano di Troia, al quale appunto G. si rivolge come a un fratello e collega, in qualche momento G. stesso abbia goduto del titolo di vescovo eletto e, per imponderabili ragioni, in seguito non consacrato, una condizione che, in base a una disposizione del concilio di Calcedonia (Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di J. Alberigo et alii, Basileae 1972, p. 74) poi passata nel Decretum di Graziano (c. 2, D. LXXV), non poteva protrarsi oltre tre mesi, fatta eccezione in caso di necessità.
Incerto e ipotetico è infine lo stesso anno della morte di G., oscillando necessariamente tra il 1078 e il 1086, cioè lo stesso arco cronologico nel quale, con diverse opzioni, la critica data la conclusione dell'Historia Normannorum di Amato: il 1078-80 (Smidt, pp. 222-226) o il 1082-86 (De Bartholomaeis, pp. LXVII-LXXIV).
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