GRUE
Famiglia di ceramisti originaria di Castelli in Abruzzo, attiva dal XVII sec. a tutto il XVIII. La famiglia è attestata a Castelli già nel XVI secolo; ma il cognome era Trua, divenuto poi Grua e quindi Grue nel corso del secolo successivo. I capostipiti furono due fratelli: Marco e Domenico. I figli di Marco, Antonio (1540 circa - 1603) e Giovanni (1560 circa - 1622) diedero vita a due rami tra i cui componenti, pur registrandosi uomini di legge e religiosi (a indicare una condizione sociale agiata), furono numerosi i pittori di maiolica.
Il contributo più importante all'arte della pittura ceramica giunse dalla discendenza dell'ultimo figlio di Antonio, Marco (nato a Castelli nel 1582; morto nel 1623), che sposò Margherita (1590 circa - 1669), figlia del pittore Serafino Cappelletti, appartenente a un'altra importante famiglia di maiolicari castellani, e che fu padre di Francesco Angelo (Francesco).
Nato a Castelli l'11 sett. 1618, Francesco fu il vero innovatore della pittura castellana su maiolica.
La città vantava già dal XVI secolo numerose fornaci di maiolica e una produzione di stoviglie e suppellettili decorate assai apprezzate che si smerciavano alle fiere di Lanciano e Senigallia. Questi manufatti, di ispirazione faentina per decorazione e colori, presentavano nel Seicento ornati di stile "compendiario" o recavano figure sacre. Francesco, invece, volle riprendere la tradizione rinascimentale dell'istoriato e contribuì a elevare la qualità pittorica della produzione di Castelli.
Poco si sa della sua formazione, che egli, rimasto orfano fin da bambino, forse compì con lo zio paterno Domenico, traendo ispirazione dai lavori del nonno materno. Coerentemente con la ripresa della maiolica istoriata, egli privilegiò sempre la decorazione pittorica invece del modellato, mentre già dalla seconda metà del Cinquecento la produzione ceramica tendeva a creare figure professionali competenti in entrambi gli aspetti. E con tale scelta finì per condizionare l'attività dei successori, che furono tutti eminentemente pittori ceramici. Per quanto non vi fosse una manifattura Grue tramandata di padre in figlio, questi si sentirono sempre artefici, accomunati da dati di stile e di cromatismo ben riconoscibili.
La produzione di Francesco, protrattasi per decenni, rivela una positiva evoluzione sino all'estrema maturità, con un continuo arricchimento cromatico e compositivo. Le opere giovanili, infatti, presentano figure dai contorni molto definiti, duri, e una tavolozza dominata dai toni più accesi del giallo e dell'azzurro, stesi secondo ampie campiture piatte. Nel corso del sesto decennio, il ricorso a fonti incisorie, riportate a spolvero, ma utilizzate con libertà, indusse Francesco a concentrarsi sui valori del colore, che si stemperò progressivamente e acquisì i toni di bruno manganese e verde rame, giungendo a esiti di naturalezza e efficacia chiaroscurale inattesi. Negli ultimi anni adottò, infine, le lumeggiature d'oro cotte a terzo fuoco, che furono in seguito tratto dominante della produzione del figlio Carlo Antonio, ingenerando più di un problema attributivo nella compilazione dei rispettivi cataloghi. Esempio della qualità pittorica degli ultimi anni è il piatto custodito a Sèvres (Arbace, 2000, fig. 107) con al centro una scena di battaglia desunta da un'incisione di A. Tempesta e delle panoplie sulla tesa. La piena integrazione tra la scena e lo sfondo a paesaggio, ottenuta con un attento studio della luce naturale che conduce il pittore a tenui passaggi chiaroscurali, palesa un artista vigoroso e padrone dei mezzi espressivi, che tramanderà al figlio. Predilesse temi eroici, di caccia o bucolici; ma praticò anche i soggetti sacri, come nella bella mattonella con la Madonna, il Bambino e s. Antonio da Padova, in collezione Paparella Treccia a Pescara, datata 1670, tratta da un'incisione da Pietro da Cortona (ibid., n. 50).
Francesco ebbe tre mogli: Domenica Pompei (sposata nel 1645; morta nel 1651), di una rinomata famiglia di maiolicari, dalla quale ebbe tre figlie tra cui Superna che sposò Berardino Cappelletti padre di Candeloro; Cecilia Nicolini (1634-61), sposata nel 1651, dalla quale ebbe tre figli; e infine Maria. Francesco morì a Castelli il 5 ott. 1673.
Dei figli di Francesco il solo Carlo Antonio, nato a Castelli il 20 ag. 1655 da Cecilia, ne raccolse l'eredità d'arte, benché il padre desiderasse avviarlo allo studio delle lettere. Sono scarse le notizie che lo riguardano, e pochi i documenti, a fronte di una notorietà indiscussa tra i contemporanei. Tale penuria di informazione si deve probabilmente alla vita stabile che raramente lo condusse al di fuori di Castelli, decretandone un precoce oblio critico nelle fonti sette-ottocentesche, a tutto vantaggio della figura di Francesco Antonio, suo figlio.
Carlo Antonio si sposò nel maggio 1685 con Ippolita di Geronimo Pompei. Dal breve matrimonio (Ippolita scomparve nel 1692) nacquero tre figli: Francesco Antonio nel 1686, Cecilia nel 1688 e Anastasio nel 1691. Si risposò nel 1696 con Orsola Virgilii, dalla quale ebbe Aurelio Anselmo nel 1699, Isidoro nel 1701 e Liborio nel 1702. Pur guidando una fornace con un'ampia gamma di prodotti, Carlo Antonio si riservò essenzialmente il ruolo di pittore, muovendo dall'esperienza paterna.
Ricorrendo anch'egli alle incisioni (dai Carracci, Pietro Berrettini da Cortona, A. Tempesta e altri), si concentrò sulla pittura barocca e sullo studio del paesaggio, che a partire dalla sua opera divenne un tema dominante nella maiolica castellana; egli arricchì ulteriormente la gamma di smalti adottati, allargando le possibilità espressive della pittura ceramica. La critica ha spesso sottolineato negativamente il frequente ricorso di Carlo Antonio a repertori formali già noti, elemento che non sminuisce il suo valore come artista, ma che è da collegare alla crescita di una clientela, in virtù dell'espansione di un ceto medio colto borghese o di piccola nobiltà che desiderava adornare la propria casa con oggetti di pregio, analogamente a quanto accadeva nell'oreficeria (Fittipaldi, pp. 61 s.). In questo senso va intesa la vasta produzione di mattonelle che riproducono celebri dipinti secenteschi e che sostituivano questi ultimi a costo accessibile nelle case dei più abbienti. I manufatti dipinti da Carlo Antonio soddisfecero una clientela altolocata, trovando mercato anche all'estero. Artista di raffinata cultura visiva, conobbe Francesco Solimena, cui inviò delle tazzine nel 1695, e intrattenne rapporti professionali con Francesco Bedeschini, architetto e incisore abruzzese attivo anche a Roma e Napoli, che gli fornì i disegni di gusto barocco per le tese di alcuni piatti imperiali (Coutts, 1986). La sua produzione più tipica furono i piatti: putti festanti con ghirlande, talora alternati a particolari architettonici o a mascheroni di gusto tardomanierista, nella tesa, e scene sacre, bucoliche o a paese nel cavetto.
Delle opere, conservate nei musei più importanti del mondo, può essere valido esempio il piatto con Allegoria della maternità del Museo della Certosa di S. Martino (Fittipaldi, n. 24), ascrivibile al decennio 1680-90, che presenta al centro una pastorella con il bambino addormentato in grembo e il gregge in un paesaggio arcadico, mentre la tesa è animata da un volo di fanciulli recanti fiori dai toni azzurri su un fondo giallo puntinato.
Il tratto disteso, i colori armonici nelle tonalità calde e terrose nel cavetto, le ombreggiature sfumate che conferiscono rilievo alle figure - accresciuto dalle lumeggiature d'oro a terzo fuoco - rendono questo manufatto un oggetto a forte valenza pittorica.
Per l'affinità tematica e la maniera di rappresentare la natura, è da riferire a Carlo Antonio un piattino del Museo del Palazzo di Venezia, a Roma. Di analoga qualità la mattonella raffigurante La Sacra Famiglia con s. Giovannino della collezione Acerbo di Loreto Aprutino (Acerbo, 1993, n. 59) che rimanda nella composizione alla pittura sacra romana secentesca da cui trae evidente ispirazione anche nella modulazione cromatica.
Tutta la successiva produzione ceramica di Castelli è debitrice sul piano tecnico e stilistico di Carlo Antonio, avendo egli educato al mestiere suo nipote Candeloro Cappelletti e il cugino di questo, Carmine Gentili, i quali a loro volta aprirono delle botteghe di successo. I figli di Carlo Antonio, invece, operarono fuori da Castelli, alla ricerca, presumibilmente, di uno spazio autonomo e di nuove fette di mercato. Tutti esercitarono (con l'eccezione di Isidoro, ecclesiastico) l'arte paterna; ma fu certamente il primogenito Francesco Antonio, nato a Castelli il 7 marzo 1686, ad assurgere alla maggiore fama.
Egli è stato a lungo considerato l'artista più importante uscito dalle botteghe castellane; ma oggi la ricostruzione della sua vita richiede cautela poiché, a fronte della scarsità di documenti sinora rinvenuti, la sua esistenza avventurosa e nomade ha nel passato indotto a delinearne una biografia spuria, talora romanzata o propriamente agiografica. In assenza di prove documentali, non di rado le maioliche da lui firmate e datate rappresentano la sola attestazione di un soggiorno fuori Castelli o di una relazione di committenza.
Destinato dal padre, contro la sua volontà, alla carriera ecclesiastica, fu iscritto al seminario di Penne. Fuggitone nottetempo (dando origine alla leggenda di avere un carattere irruento e rissoso, tramandata concordemente dai suoi biografi) fu inviato da Carlo Antonio al seminario di Ascoli. Benché fermamente deciso a non abbracciare la vita religiosa, Francesco Antonio trasse profitto dai corsi di seminario per apprendere il latino e la metrica, dilettandosi di poesia, come alcune iscrizioni su manufatti di sua mano rivelano. Lasciata anche Ascoli, intraprese studi di medicina a Teramo con un certo Antonio Tattoni; in seguito fu a Napoli e forse a Roma per ampliare le proprie conoscenze di legge e diritto canonico.
Nel 1705 è attestato a Urbino, come dimostrano due mattonelle a tema paesistico autografe e datate (Berlino, Staatliche Museen). Qui riprese e completò gli studi universitari, laureandosi in teologia e filosofia nell'ottobre 1706; e del titolo conseguito amò sempre fregiarsi nella firma delle maioliche. Sono incerti gli anni immediatamente seguenti; verosimilmente egli fece rientro a Castelli, dove perfezionò le sue capacità pittoriche accanto al padre. I soggiorni fuori Castelli trovano conferma nel testamento del padre Carlo Antonio, il quale detrasse dalla quota spettante al primogenito 354 ducati, quale indennizzo ai fratelli per averlo a lungo mantenuto agli studi (Battistella, 1985). Dal 1713 al 1715 Francesco Antonio risiedette a Bussi, nell'Aquilano, ricoprendo il ruolo di governatore della cittadina e operandovi come maiolicaro, come dimostra il paliotto in mattonelle della chiesa di S. Angelo a Lucoli, firmato e datato (L'Aquila, Museo nazionale d'Abruzzo).
Tornato a Castelli nel 1716 fu coinvolto nella rivolta popolare contro il marchese Ferdinando Alarcón y Mendoza, che accampava diritti sulla vendita delle maioliche, primaria fonte di reddito per la comunità castellana.
La storiografia ottocentesca esaltò il ruolo di Francesco Antonio, descrivendolo come un ribelle capopopolo e raccontando di una sua lunga prigionia (secondo alcuni ben dieci anni, secondo altri otto), nelle carceri della Vicaria a Napoli. Secondo la tradizione qui egli avrebbe tenuto una scuola, insegnando l'arte figulina ad alcuni tra i più celebri ceramisti partenopei del Settecento: Carlo Coccorese, Pasquale Criscuolo e Lorenzo Salandra.
Il saggio dell'abate Nicodemi sulla rivolta, scritto a partire dai documenti, pur proseguendo tale consolidata tradizione, non asseverò il racconto con prove documentali. Oggi la critica ha confutato tale teoria, essendo assai arduo immaginare una scuola di maiolica nello squallore delle galere del XVIII secolo ed esistendo per contro alcune opere di Francesco Antonio risalenti al periodo contestato, le quali fanno intuire una sua piena e libera attività a Napoli, forse con una propria bottega.
Risale infatti al 1717 la prima opera datata e firmata, un albarello farmaceutico raffigurante Andromeda con paesaggio marino (Londra, British Museum); mentre è dell'anno seguente il piatto custodito dal Museo della Certosa di S. Martino (Fittipaldi, n. 58). Il manufatto rappresenta nel cavetto un paesaggio fluviale con rovine classiche e nella tesa dei festoni di fiori e frutta e due cartigli che riportano la data e la firma. Risolto con una tavolozza di pretto gusto castellano - dominano il giallo, l'azzurro e il verde-bruno - il piatto rivela un tratto corsivo e veloce e una preferenza per il paesaggio di ascendenza francese e olandese, mediato da incisioni, disciplina che lo stesso Francesco Antonio praticò.
Francesco Antonio risiedette lungamente a Napoli, operando per una clientela di alto rango: nel 1729 realizzò alcuni vasi da farmacia per la certosa di S. Martino, raffiguranti il santo certosino Brunone in atto di pregare, di alta qualità pittorica. Il giorno 20 dic. 1730 presso la chiesa di S. Maria in Piazza a Napoli, Francesco Antonio prese in moglie Candida Ruggieri, originaria di Eboli. In tale occasione egli dichiarò di abitare a Napoli dal 1717 e di essere parrocchiano della chiesa di S. Maria a Cancello alla Vicaria: la coincidenza di tempo e di luogo potrebbe spiegare la tradizione della sua carcerazione. Dal matrimonio nacquero tre figli: Francesco Saverio, nato a Castelli nel 1731; Vincenzo, nato intorno al 1734 e morto dopo il 1768, che fu soldato, e Ippolita, nata nel 1739 e morta dopo il 1768. La famiglia fu a Napoli certamente sino al 1735, quando Francesco Antonio eseguì il corredo di vasi farmaceutici per la spezieria del protomedico Carlo Mondelli, realizzazione che riscosse un grande successo.
Il ritorno definitivo a Castelli si data al 1736, quando l'artista affittò una bottega di tre stanze e riprese l'attività. Nel 1739, infatti, produsse dei vasi per la farmacia della S. Casa di Loreto (in loco), firmati, opere modeste, ma che indirettamente testimoniano della sua fama, considerato il valore da sempre riconosciuto al corredo lauretano, opera prevalentemente delle officine cinquecentesche urbinati dei Fontana e dei Patanazzi. Negli anni seguenti, e sino alla morte, visse a Castelli (è attestato nel catasto onciario del 1743: Polidori, 1936), agognando, come riferiva in una missiva al fratello Isidoro, canonico della collegiata di Collecorvino, di essere chiamato da Carlo di Borbone a operare nella Real Fabbrica di Capodimonte che apriva in quegli anni. Senza vedere esaudito tale desiderio, morì di malattia il 24 ag. 1746 e fu sepolto nella chiesa di S. Pietro.
Pochi sono i dati biografici certi relativi agli altri figli di Carlo Antonio: Anastasio, indirizzato anche lui alla vita ecclesiastica, seguì le orme del fratello, rifiutando i voti e dedicandosi alla pittura di paesaggio su maiolica. Le opere attribuitegli sono invero di dubbia paternità. Visse a Castelli, dove risulta ancora vivo nel catasto onciario del 1743 indossando sempre la veste di chierico.
L'unico figlio di Carlo Antonio a ricevere una educazione artistica nella bottega paterna fu Aurelio (nato a Castelli il 16 giugno 1699), che visse vicino al padre sino alla morte di questo. Nel 1726 si trasferì ad Atri, dove proseguì la produzione maiolica, con uno stile coerente al gusto di Carlo Antonio. Nello stesso anno fu raggiunto dai fratelli Isidoro e Liborio (nati a Castelli, rispettivamente, il 18 marzo 1701 e il 13 ott. 1702), con i quali cercò di dirigere una fornace in società, ma inutilmente per una lite insorta fra loro. Favorito dalla nobile famiglia degli Acquaviva, egli produsse manufatti decorati a paesaggio, caratterizzati da una cromia dai toni azzurrini. Morì dopo il 1742.
Liborio visse e operò in luoghi differenti: in gioventù fu a Ancona, quindi ad Atri. Nel 1731 era nuovamente a Castelli, dove rimase per un decennio. Rimasto vedovo, si risposò. Nel 1745 abitava a Teramo; ma nel settimo decennio del secolo è attestato ancora a Castelli. Morì intorno al 1780.
La sua produzione è contraddistinta da un peculiare interesse per la figura umana, che lo spinse a trarre ispirazione dalle incisioni romane classiciste, come dimostra la coppa con coperchio raffigurante soggetti carracceschi dagli affreschi di palazzo Farnese (Londra, Victoria and Albert Museum).
Francesco Saverio, detto Saverio, figlio di Francesco Antonio, fu l'ultimo esponente di rilievo della famiglia. Nacque a Castelli nel 1731 e, avendo vissuto nella prima infanzia a Napoli, vi tornò nel 1747, ottenendo insieme con suo fratello Vincenzo la cittadinanza, per volontà del re Carlo di Borbone, in memoria del padre. A differenza dei suoi avi Francesco Saverio intraprese una carriera prevalentemente istituzionale, al servizio delle manifatture reali borboniche: nel 1754-55 difatti è documentato operativo presso la Real Fabbrica di maioliche a Caserta, dove gli era richiesto di dipingere "all'uso d'Abruzzo", cioè di decorare il vasellame con motivi paesistici. I compensi corrispostigli, paragonabili a quelli percepiti da Angelo Del Vecchio, ceramista e pittore di grande esperienza, indicano che il giovane Saverio fosse già affermato (Donatone, 1981). Rifiutatagli nel 1758 l'assunzione alla Fabbrica di Capodimonte, Saverio fu compreso nell'organico della Real Fabbrica Ferdinandea di Portici con un soldo di 15 ducati al mese e venne proposto per una gratifica, a testimonianza del suo valore come pittore.
In data imprecisata, ma presumibilmente in quegli anni, sposò Anna Russo, dalla quale ebbe Francesco Antonio, che fu avviato agli studi di legge (si laureò nel 1798), ma fu ugualmente educato alla pittura in ambito domestico. Occasionalmente Saverio fece ritorno, per periodi di alcuni mesi, a Castelli, come documentano le richieste di congedo inoltrate, nel 1781 e nel 1796, alla direzione della manifattura reale. Nel 1794, in qualità di direttore di dipartimento, chiese che gli venisse pagata la pigione di casa; ma la richiesta fu accolta soltanto nel 1797. L'anno seguente, definendosi direttore dei tornanti, chiese alla direzione l'assunzione di suo figlio, in qualità di "aiutante senza soldo", ma evidentemente non la ottenne, se nel 1800 quest'ultimo, ormai orfano, replicò la domanda, ottenendo stavolta un chiaro rifiuto (Carola Perrotti, 1978). La morte di Saverio avvenne prima del febbraio 1800, quando la moglie impetrò un sussidio vedovile alla direzione della manifattura. Il figlio Francesco Antonio, sposatosi con una cugina, trascorse la vita ad Atri.
Di tutti i membri della sua famiglia, Saverio appare oggi come la figura culturalmente più duttile, che seppe trarre profitto dall'esperienza maturata presso le manifatture reali napoletane - luoghi di sperimentazione tecnica e formale - per sviluppare negli anni un raffinato linguaggio personale ed elegante, che culminò nel gusto rococò. I manufatti del periodo giovanile sono, infatti, stilisticamente dipendenti dalla tradizione di Castelli e deboli nella resa pittorica: per esempio, la placca ovale raffigurante La costruzione della torre di Babele (Napoli, Museo nazionale di S. Martino: Fittipaldi, n. 107), datata 1755, rivela un'adesione stretta a una fonte incisoria cinquecentesca, tradotta con un accordo cromatico in giallo e blu e composta giustapponendo, in un angusto primo piano, i personaggi, che ne risultano assai compressi. La conoscenza delle porcellane d'Oltralpe, francesi e germaniche, che giungevano alla corte di Napoli, influenzò i modi dell'artista, che vieppiù semplificò le scene raffigurate, focalizzando l'attenzione su poche figure rese con una tavolozza più ricca e lieve, a vantaggio di una spazialità interna dell'immagine, come nel caso delle mattonelle con scene di vita dei campi (ibid., nn. 110-112) già di gusto rococò, che richiamano le contemporanee esperienze francesi. Ma certo dovette riflettere anche sulla porcellana orientale, le cineserie tanto amate nel Settecento, come indicano le belle bottiglie a tema floreale, apparse nella Mostra dell'antica maiolica di Castelli (catal., 1965, nn. 90-92), e quelle pertinenti alla collezione Acerbo (Arbace, 1993, nn. 272 s.), a elegante monocromo blu cobalto. Peonie, crisantemi e narcisi, minuziosamente descritti a punta di pennello, si stagliano sul fondo smaltato in bianco, sviluppando una raffigurazione nel contempo sintetica e di attenta resa naturalistica. È verosimilmente di sua mano il piatto del Museo del Palazzo di Venezia raffigurante un vaso di fiori con farfalle intorno su fondo azzurrato. Colorato con toni morbidi di ocra e bruno, l'attenta resa della natura morta e la profondità ottenuta per mezzo di trapassi cromatici inducono a riferirgli il manufatto.
Un ramo laterale dei G., discendenti di Giovanni di Marco, diede i natali ad alcuni ceramisti di valore: Giovanni di Nicola Tommaso (nato nel 1698 e morto il 13 apr. 1752), che, imparentato con Carmine Gentili, forse operò presso la bottega di quest'ultimo, e i suoi figli Francesco Saverio (nato il 12 maggio 1721 e morto il 17 dic. 1755) e Nicola Tommaso (nato il 13 nov. 1726 e morto il 27 marzo 1781). Francesco Saverio lavorò lungamente a Teramo presso l'officina De Santhis, manifattura ceramica che vantava un ampio mercato alla fiera di Senigallia: le sue creazioni, talora confuse con quelle dell'omonimo, manifestano influenze di entrambe le più valide botteghe settecentesche, i Gentili e i G. di Carlo Antonio. La tavolozza è quella tipica di Castelli, il repertorio decorativo e dei soggetti è quello barocco; ma la resa è delicata, perfino leziosa nelle fisionomie dai sorrisi soavi già rococò. Valido esempio della sua arte è la coppia di vasi con raffigurazioni tratte dalla serie di incisioni di J. Callot, Les bohémiens, del Museo dell'Aquila. Poco conosciuta è, invece, l'opera di Nicola Tommaso, che si dedicò alla pittura di paesaggio con architetture, di memoria rinascimentale, rese con toni ingenui.
È datata 1772 la fiasca della collezione Acerbo (Arbace, 1993, n. 228) in cui viene rappresentato un paesaggio fluviale dai colori vividi, chiuso da quinte arboree ai lati e da architetture turrite nel fondo. Lontano dal naturalismo del miglior "ornato a paese" castellano, l'oggetto si distingue per la freschezza della raffigurazione, dai toni bozzettistici.
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