GREGORIO I, papa, santo
Nacque a Roma poco prima della metà del sec. VI, da famiglia appartenente all'élite sociale romana - "de senatoribus primis" lo definisce Gregorio di Tours -, quell'aristocrazia senatoria che aveva mantenuto prestigio sociale e potere economico, pur nella crisi delle istituzioni politiche. Non è invece in alcun modo provato il rapporto di parentela con la famiglia Anicia, sorta di luogo comune spesso usato per sancire l'identità sociale di un personaggio.
Il padre, Gordiano secondo il Liber pontificalis, sembra avere ricoperto una carica pubblica minore: "regionarius" lo definisce Giovanni Diacono (S. Gregorii Magni vita, IV, 83: anche in seguito, per le indicazioni bibliogr. complete si rinvia alla Enciclopedia dei papi, I, s.v.), da intendere forse come uno dei "curatores regionum", preposti all'ordine pubblico, mentre rimane solo un'ipotesi la carica di "defensor ecclesiae" (Richards, Markus). La madre, il cui nome, Silvia, è attestato solo dalle biografie posteriori, viene di solito considerata di origine siciliana e proprietaria di quei beni fondiari che G. devolverà ai sei monasteri da lui fondati nell'isola; si sarebbe ritirata presso il monastero di S. Saba, in luogo detto Cella Nova, a seguito della decisione di G. di fare della dimora paterna un monastero. La fisionomia sociale, religiosa e culturale della famiglia è confermata dalla parentela con il pontefice Felice III, definito dallo stesso G. come "atavus meus" (Homiliae XL in Evangelia, XXXVIII, 15; Dialogi, IV, 17): probabilmente suo bisnonno, come sembra provare la genealogia ricostruita sulla base di testimonianze epigrafiche, figlio di Felice presbitero del titolo "di Fasciola", e padre di Felice scriniario, padre di Gordiano e di altre figlie. Una zia materna, Pateria, è destinataria di un sussidio per il mantenimento degli schiavi, come risulta da una lettera diretta al suddiacono Antemio, rettore del Patrimonio di Campania (Registrum, I, n. 37, ed. Norberg: d'ora in poi indicata come Registrum). Le zie paterne sono: Gordiana, duramente giudicata per avere abbandonato la vita religiosa e per essersi sposata un "fattore dei suoi campi", dice spregiativamente G., quasi a simboleggiare la coincidenza fra decadenza morale e decadenza sociale; Emiliana e Tarsilla, consacratesi a Dio in una vita di rigida penitenza condotta nella loro stessa casa. Il racconto della morte di quest'ultima, con la sua visione del nonno Felice III che la invita nella casa celeste, e il coinvolgimento di Emiliana, a sua volta invitata dalla sorella a seguirla, diviene l'occasione per mostrare una rete familiare di esemplarità spirituale. La parentela con il pontefice Agapito non è invece provata se non dal comune ambiente sociale, e ancor più dalla vicinanza delle dimore familiari, entrambe poste sul Celio lungo il "clivus Scauri".
Quanto ad altri membri della famiglia, le testimonianze sono poche, alcune sicure, altre più incerte; tutte provano un alto senso della dignità familiare. Un fratello, senza indicazione del nome, è ricordato con sollecitudine come destinatario di denaro - forse in relazione ai beni posseduti dalla famiglia nell'isola - da parte di Pietro, rettore del Patrimonio di S. Pietro in Sicilia (ibid., n. 42), duramente rimproverato per il ritardo nell'adempimento dell'ordine; un (altro?) fratello a Roma aveva ricevuto in dono, da parte del tribuno della città di Otranto, uno schiavo panettiere, fuggito nella sua città, che il rettore del Patrimonio di Puglia e Calabria doveva prontamente recuperare e restituire al legittimo proprietario "in modo da non incorrere […] per negligenza e ritardo nei nostri rimproveri" (ibid., IX, n. 201). Un "glorioso nostro fratello" è indicato come colui che dovrebbe sottoscrivere nell'ottobre 598 al posto del pontefice la tregua con il re longobardo Agilulfo (ibid., n. 44), da identificare con ogni probabilità con il "glorioso mio fratello Palatino patrizio" che, insieme con il "consiliarius meus", il "vir magnificus" Teodoro, sono ricordati come informatori circa le malefatte di Leonzio ex console contro Libertino ex pretore (ibid., XI, n. 4). Più problematica la testimonianza di Gregorio di Tours: egli racconta (Storia dei Franchi, X, 1) che il prefetto della città "germanus eius anticipavit nuntium", bloccando la lettera con cui G. chiedeva all'imperatore di non ratificare la sua elezione e mandando invece all'imperatore la notizia del consenso ricevuto dal popolo. Il termine "germanus" è stato inteso sia da Paolo Diacono (Vita Gregorii Magni, 10), sia da Giovanni Diacono (S. Gregorii Magni vita, I, 40) come nome proprio, ma da tempo si ritiene (Fedele) che possa trattarsi proprio del fratello, ipotesi ormai accreditata (Martindale). L'esistenza di due fratelli attivi al suo fianco, Germano che lo avrebbe seguito nella carica di "praefectus urbi", e Palatino, "vir gloriosus" e "patricius", anch'egli impegnato in funzioni pubbliche, rafforza l'importanza del contesto familiare e sociale di Gregorio.
"Litteris grammaticis dialecticisque ac rethoricis ita est institutus, ut nulli in Urbe ipsa putaretur esse secundus", racconta ancora Gregorio di Tours. La lode non contribuisce a gettare luce sui luoghi e le modalità della sua formazione, data l'incerta sorte delle istituzioni scolastiche preposte all'insegnamento delle arti liberali a Roma nella seconda metà del VI secolo.
Quanto alla formazione culturale cristiana, se non si conosce la sorte della biblioteca fatta istituire da papa Ilaro presso S. Lorenzo in Damaso, più documentata è la biblioteca di papa Agapito "ad clivum Scauri", collocata in un edificio adiacente al palazzo di famiglia presso l'abside dell'attuale chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, destinata a raccogliere opere di santi padri latini e greci e finalizzata al progetto, elaborato in accordo con Cassiodoro, di fondare a Roma una scuola superiore di studi religiosi cristiani sul modello delle scuole religiose di Alessandria e di Nisibis in Siria. Tale biblioteca, anche per l'estrema vicinanza con la dimora paterna e quindi con il monastero in essa fondato da G., non fu certamente estranea alla sua formazione.
Se rimangono incerti i luoghi, non può in alcun modo essere messa in dubbio la sua formazione culturale di tradizione romana: tutte le sue opere provano - pur nell'originalità del linguaggio, dello stile, dei generi letterari - le sue competenze linguistiche e retoriche e la conoscenza di autori classici: Virgilio, Cicerone e Seneca e i "veteres philosophi" (Hofer). Non mancano testimonianze di conoscenze scientifiche e naturali, ma in modo tutto particolare va ricordata la sua conoscenza del diritto romano, ampiamente provata dai riferimenti impliciti ed espliciti delle sue opere, con citazioni tratte prevalentemente dal Codex e dalle Novellae.
Eppure il problema della sua formazione culturale è un nodo centrale della biografia di G., complicato (e spesso confuso) dal suo atteggiamento di condanna della cultura classica, il cui rifiuto nasce proprio da una indiscutibile approfondita conoscenza, come fa intendere il celebre passo della lettera-dedica premessa ai Moralia in Job, in cui dichiara di non avere volutamente rispettato l'"ars loquendi", "quia indignum vehementer existimo, ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati". La stessa condanna di questa cultura, espressa nell'altrettanto celebre lettera al vescovo Desiderio di Vienne, rimproverato di insegnare la grammatica e di unire, cosa "grave e nefanda per un vescovo", "le lodi a Giove con quelle a Cristo" (Registrum, XI, n. 34), è da ricondurre alle sue giuste proporzioni di intervento in una situazione specifica non generalizzabile, e non può costituire il pretesto per un'interpretazione di G. come testimone della decadenza delle lettere. La cultura antica di carattere profano costituisce uno strumento in funzione della comprensione e della comunicazione della verità divina contenuta nella Sacra Scrittura, in una linea di continuità con una tradizione che ha i suoi esponenti più illustri in Girolamo, Agostino e Cassiodoro.
Nell'ambito della sua formazione la conoscenza del greco costituisce un problema ulteriore che si inserisce in quello della progressiva diversificazione linguistica fra Oriente e Occidente (Dagron). A sostegno dell'ignoranza della lingua sono state utilizzate alcune affermazioni dello stesso G.; ma proprio quella più perentoria ("nos nec graece novimus nec aliquod opus aliquando graece conscripsimus", Registrum, XII, n. 55) va interpretata alla luce del contesto polemico di sconfessione della paternità di alcuni sermoni di contenuto non ortodosso a lui attribuiti. A imporre la conoscenza della lingua fu, dopo la probabile formazione scolastica, il prolungato soggiorno a Costantinopoli: qui G., oltre alla normale attività diplomatica e sociale, sostenne un impegnativo confronto teologico sulla resurrezione dei corpi con Eutichio patriarca di Costantinopoli, seguito da una convocazione dell'imperatore Tiberio (Moralia, XIV, 72-74): presumibilmente ognuno parlò nella propria lingua, senza dover ipotizzare (Bartelink) la presenza di traduttori. Le sue opere esegetiche provano infine, come si vedrà, l'uso della versione greca dei Settanta per verificare singoli passi del testo della Vulgata. Se la sua conoscenza del greco non fu tale da permettergli di scrivere opere letterarie, fu sicuramente sufficiente per leggere e comunicare oralmente.
Se non si può datare con precisione l'inizio dell'attività pubblica di G., si sa che nel 573 sottoscrisse la condanna dei Tre Capitoli da parte di Lorenzo vescovo di Milano, nella sua qualità di "praefectus urbi" (ibid., IV, n. 2). L'immagine di G. a passeggio per le vie di Roma vestito di seta e adorno di gemme, tratteggiata da Gregorio di Tours, è certamente efficace nel simboleggiare il prestigio inerente allo stato sociale e alla carica pubblica, in contrapposizione con la successiva scelta monastica.
Questa vocazione fu coltivata a lungo, pur restando egli coinvolto e anzi attratto dalle cure del mondo, come confessa nella lettera-dedica dei Moralia già ricordata, e si realizzò probabilmente dopo la morte del padre, intorno al 573. Potendo disporre del proprio patrimonio, decise di fondare sui propri possedimenti in Sicilia sei monasteri, dotandoli di beni, e di destinare la dimora paterna a una comunità monastica intitolata a S. Andrea, per la quale è stata erroneamente ipotizzata l'adozione della Regola di s. Benedetto. La fondazione, dotata anch'essa di beni, trasse origine da quelle esigenze spirituali largamente presenti nelle élites aristocratiche e vissute in forma sia individuale sia collettiva. G. istituì un nesso forte fra la propria tradizione familiare e la nuova comunità monastica, facendovi eseguire i ritratti dei genitori e di se stesso: quest'ultimo destinato secondo il committente a sottolineare i caratteri fisiognomici ripresi da entrambi i genitori. Il monastero attrasse persone di rango - come il fratello del "magister militum" Maurenzio - e uomini già esperti di vita monastica, come nel caso di Valenzione, abate di un monastero della provincia Valeria (Dialogi, IV, 22); fu luogo di formazione di validi collaboratori del pontefice, tra i quali Massimiano, vescovo di Siracusa, e Agostino, missionario e poi vescovo in Inghilterra: una comunità con cui G. divenuto pontefice manterrà un legame continuo e privilegiato.
La vocazione monastica rappresenta una componente fondamentale dell'identità biografica di Gregorio. Le espressioni di rimpianto, una costante delle sue opere, si accompagnano con l'amarezza per non avere difeso a sufficienza la sua vita monastica, come risulta dalla lettera-dedica dei Moralia, e permettono di correggere l'immagine apologetica di G. "strappato" contro la sua volontà alla quiete del chiostro. Pelagio II, poco dopo la sua elezione nel 579, lo ordinò diacono in vista del suo invio a Costantinopoli in qualità di apocrisario - forse in concomitanza con una legazione papale e una missione senatoria, volte a ottenere aiuti militari (Bertolini) - in un momento di grave crisi dell'Italia in generale e di Roma in particolare, a causa della pressione militare longobarda. L'assenza da Roma durò fino al 586-587: una lettera di Pelagio II testimonia che G. era ancora in Oriente nell'ottobre 584, mentre la donazione di G. a S. Andrea del 28 dic. 587 prova che egli era già tornato a Roma, dove rimase, vivendo nel suo monastero, fino all'elezione a pontefice.
A Costantinopoli si ricostituì intorno a lui una piccola comunità, percepita come baluardo spirituale di fronte alle incombenze della carica e come stimolo all'approfondimento esegetico. In questo contesto matura il commento al Libro di Giobbe, che molto deve anche alle sollecitazioni di Leandro, vescovo di Siviglia, a Costantinopoli per questioni relative al Regno visigoto, interlocutore nel corso della lunga stesura scritta dell'opera e infine suo destinatario. Frutto di un rapporto stretto fra esposizione orale e scrittura, come molte delle opere di G., i Moralia sono il risultato di diverse fasi di stesura e di revisione, concluse solo verso il 600, quando venivano inviati a Innocenzo prefetto del pretorio dell'Africa (Registrum, X, n. 16), come strumento atto a ricondurlo all'interiorità nel mezzo degli affari secolari. Nel 591, scrivendo a Leandro, l'autore conferma di avere trasformato i commenti fatti oralmente in un testo scritto, che tuttavia non era ancora in grado di mandargli, perché gli scribi lo stavano copiando (ibid., I, n. 41). Nel 594 nella lettera di dedica entrava maggiormente nei dettagli delle diverse fasi dell'elaborazione. La straordinaria cura editoriale era stata turbata dalla circolazione di un testo non rivisto dall'autore, una sorta di copia "pirata" (Fontaine), ricavata forse dalle note stenografiche prese su tavolette di cera. L'esistenza di edizioni "pirata", redatte a partire dalle note personali di G., o da quelle prese dai notai dal vivo, è stata confermata da frammenti dell'opera, presenti nel ms. conservato a Parigi, Bibliothèque nationale, Lat. 2342 del sec. XII, che non corrispondono al testo "edito" da G. (Meyvaert, Uncovering).
Oltre a rivendicare la patente di autenticità solo ed esclusivamente per la "sua" edizione dell'opera, quella conservata "in scrinio nostro", lo "scrinium" lateranense, contro il codice posseduto dal vescovo Mariniano di Ravenna, che avrebbe potuto generare confusione nei lettori (Registrum, XII, n. 6), G. evidentemente voleva controllare il corretto uso della sua opera, di cui non approvava la lettura pubblica, poiché non si trattava di un "opus populare" e poteva così causare più danno che giovamento "rudibus auditoribus", al contrario dei salmi, più idonei a invitare gli animi dei laici alle virtù. Egli si mostra così custode geloso dell'integrità testuale della propria opera, consapevole della sua originalità linguistica e stilistica.
La Scrittura, commentata avendo come testo base la Vulgata (Gribomont), confrontata in caso di dubbio con la Vetus e con la traduzione greca dei Settanta (Salmon), è il mezzo attraverso cui Dio si esprime, simile a un fiume "planus et altus, in quo et agnus ambulet et elephas natet", garanzia di "illimitata accessibilità di interpretazione" (Manselli). La tradizione esegetica basata sui tre sensi della Scrittura (storico, allegorico e morale), viene profondamente rinnovata, non solo con l'aggiunta del quarto senso, quell'"intelligentia contemplativa" o "coelestis", che riporta il discorso alla conoscenza di Dio (De Lubac), ma anche nei contenuti e nelle finalità, che stabiliscono una inedita circolarità fra progressi morali e spirituali e capacità interpretativa (Dagens). L'opera, nata come la "collatio" monastica di un abate ai suoi monaci, diventa di fatto "una vasta enciclica" per tutti i cristiani (Fontaine): certo così fu interpretata, come prova il suo immenso successo sia per quanto riguarda la tradizione manoscritta, sia le epitomi (Wasselynck; Braga).
L'insistito rimpianto per la vita monastica e l'impegno esegetico non devono falsare la nostra ottica. A Costantinopoli G. era andato con incarichi politico-diplomatici generali e particolari. Il 4 ott. 584 Pelagio II gli comunicava di avergli inviato, tramite persone ben informate, la relazione dei recenti eventi, in modo che G. potesse far presente all'imperatore le aggressioni subite da parte dei Longobardi e chiedere aiuti militari e in particolare un "magister militum" e un "dux", dato che l'esarca aveva fatto sapere di non potere intervenire nelle "partes Romanae", ormai prive di difesa (Registrum, ed. Ewald - Hartmann, II, 3, app. 2).
Il tono della lettera e i suoi contenuti si legano alla specifica carica di apocrisario, ma sembrano anche alludere a una certa facilità di accesso, di carattere più personale che ufficiale, alla corte imperiale. G. appare infatti inserito in una rete di rapporti in cui la dimensione politica ed ecclesiastica si intreccia con quella spirituale e personale: oltre a Leandro di Siviglia, conobbe l'allora diacono Costanzo, poi vescovo di Milano, ed ebbe rapporti di amicizia spirituale con alcune aristocratiche romane, destinatarie di lettere. Per quanto riguarda la famiglia imperiale e i membri della corte, la durata del soggiorno gli permise di conoscere entrambi gli imperatori, Tiberio (|_ 582) e Maurizio (582-602), con il quale ultimo fu in relazione stretta, tanto da essere padrino del suo primo figlio, nonché numerosi altri personaggi, con cui rimase in rapporti di familiarità anche dopo l'elezione. L'ambiente era caratterizzato tradizionalmente da appassionati dibattiti teologici e anche G. fu coinvolto nell'impegnativa discussione sulla resurrezione dei corpi con un avversario agguerrito come Eutichio, patriarca di Costantinopoli: questi aveva sostenuto in un libro la tesi del corpo resuscitato come corpo impalpabile, sottile come il vento e l'aria, in linea con una tradizione cui si erano già opposti Girolamo e Agostino; proprio Girolamo è la fonte principale di G., sostenitore fermo, anche se privo di sottigliezze argomentative, della reale resurrezione del corpo del defunto, così di Cristo come di tutti i cristiani (Moralia, XIV, 72-74). Il dibattito si concluse dinanzi all'imperatore, che finì per accettare la tesi di G., condannando il libro di Eutichio, che si sarebbe pentito in punto di morte (Duval).
G. lasciò Costantinopoli prima del dicembre 587, probabilmente richiamato dal pontefice Pelagio II, che intendeva avvalersi della sua collaborazione, divenuta particolarmente preziosa dopo il lungo soggiorno presso la corte imperiale.
Una collaborazione molto impegnativa per quanto concerne la questione dei Tre Capitoli, nella quale si sommavano problemi di natura prettamente teologica con altri di natura ecclesiastica e politica: la condanna, voluta da Giustiniano per riconciliarsi il favore dei monofisiti, e confermata dal V concilio di Costantinopoli, delle dottrine (riassunte in tre capitoli) dei vescovi Teodoro, Teodoreto e Ibas di netta antitesi al monofisismo, era apparsa come una sconfessione dei decreti del concilio di Calcedonia, che aveva sì condannato il monofisismo, ma non le tesi filonestoriane dei tre teologi. L'iniziale opposizione del papa Vigilio e poi di Pelagio I era rientrata, mentre era rimasta vivissima la reazione contro la condanna nelle diocesi dell'Italia settentrionale: i vescovi di Milano e Aquileia avevano rotto la comunione con Roma, creando una situazione che si era ulteriormente complicata per la divisione politico-territoriale determinatasi a seguito dell'invasione longobarda. Intorno al 585, in un momento di tregua con i Longobardi, Pelagio II aveva ripreso l'iniziativa per la soluzione dello scisma, indirizzando tre lettere a Elia, patriarca di Aquileia, che al momento dell'invasione aveva trasferito la sede da Aquileia a Grado, e ai vescovi dell'Istria. La terza fu scritta per conto di Pelagio II proprio da G. ancora diacono (Registrum, ed. Ewald - Hartmann, II, 3, app. 3), come già aveva detto Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, III, 20) - forse sulla base della tradizione aquileiese o della conoscenza delle questioni connesse con l'epistolario di G., di cui Paolo curò una scelta per l'amico Adalardo di Corbie - e come ha confermato la critica più recente (Bognetti; Schieffer; Meyvaert, A letter). La lettera è molto più lunga ed elaborata delle altre, un vero e proprio trattato, con la confutazione puntuale degli argomenti degli scismatici, ma con una novità di rilievo non sul piano teologico, ma su quello diplomatico: l'accettazione di uno degli argomenti più forti degli scismatici - quello che la Sede pontificia si fosse opposta inizialmente alla condanna dei Tre Capitoli -, accompagnata dall'affermazione del diritto di cambiare parere nella ricerca della verità. Pur senza rivendicarne la paternità, G. fa riferimento a questa lettera come a un testo da lui completamente condiviso, tale da non volere più tornarvi sopra (Registrum, II, n. 43). Il precoce coinvolgimento di G. nella questione tricapitolina è anche testimoniato dalla sua sottoscrizione in qualità di "praefectus urbi" all'abiura del vescovo di Milano Lorenzo (ibid., IV, n. 2), già ricordata.
La partecipazione di G. all'attività politico-ecclesiastica del vescovo di Roma fornisce una chiave per interpretare la rapidità della sua elezione, al di là dei caratteri di eccezionalità, quando non di soprannaturalità, di cui è stata rivestita dalle fonti e dalla storiografia. Il 7 febbr. 590 Pelagio II morì di peste. La situazione di Roma tra la minaccia longobarda e le calamità naturali - l'inondazione del Tevere seguita dall'epidemia - era quanto mai difficile: la figura di G. doveva imporsi nella società romana per la cultura, la spiritualità, l'esperienza politica maturata proprio come collaboratore del pontefice prematuramente defunto. La sola testimonianza dettagliata delle vicende che precedettero e seguirono l'elezione di G. la dobbiamo a Gregorio di Tours (X, 1): un suo diacono di ritorno da Roma gli aveva riferito come nel novembre del 589 un'inondazione del Tevere avesse provocato danni gravissimi. Poiché la Chiesa non poteva rimanere senza una guida, "Gregorium diaconem plebs omnis elegit": carica cui l'eletto aveva tentato di sfuggire per umiltà; conoscendo la necessità del consenso imperiale all'elezione - disattesa solo nel caso del suo predecessore per le difficili condizioni militari dell'Italia e l'incombente minaccia longobarda su Roma -, G. avrebbe allora scritto una lettera all'imperatore Maurizio, pregandolo di non accordarlo. Il prefetto della città, con ogni probabilità, come si è detto, fratello di G., sarebbe riuscito a fermare il nunzio, a distruggere la lettera, a sostituirla con l'annuncio del consenso già dato dal popolo. L'elezione sembra avere raccolto un'approvazione generalizzata, mentre la lunga attesa della decisione imperiale - tanto che la consacrazione ebbe luogo il 3 settembre - farebbe ipotizzare qualche difficoltà politica, superata certamente anche per i legami con l'entourage dell'imperatore, come lascia intendere la lettera di G. dell'ottobre 590 a Giovanni, patriarca di Costantinopoli (Registrum, I, n. 4).
La statura religiosa e politica di G. trovò conferma nella predica e nella processione indetta a una settimana dalla morte del predecessore per implorare da Dio la fine dell'epidemia di peste, sempre narrata da Gregorio di Tours: un atto di forte valore simbolico, capace di coinvolgere l'intera comunità cittadina in una grande azione di rendimento di grazie. I cortei, distinti non su base territoriale bensì secondo quello "grosso modo tipicamente ecclesiale dei diversi gradi di perfezione", partendo da sette diverse chiese, dovevano convergere verso S. Maria Maggiore: essi disegnavano i percorsi della Roma cristiana, distinta ormai nelle sette regioni ecclesiastiche, che avevano sostituito dopo la fine della guerra greco-gotica le quattordici regioni augustee (Arnaldi, 1987). Non si hanno altre notizie dell'attività di G. fino alla consacrazione del 3 sett. 590.
Da questa data cominciano a essere registrate le sue prime lettere nel Registrum: la raccolta conservata in un apposito codice nello "scrinium sedis apostolicae", l'archivio del Laterano, struttura ormai consolidata dalla fine del V secolo con compiti di produzione, archiviazione e conservazione di lettere, privilegi, decreti conciliari dotata di un proprio personale, i "notarii", riuniti in una "schola notariorum", cui vennero attribuite da G. I anche funzioni di fiducia e di responsabilità, come quelle di rettori dei Patrimoni della Chiesa e di "defensores". Se l'uso di raccogliere le lettere dei pontefici è attestato già con Liberio e con Damaso, ciò che appare nuovo è la forma della conservazione in una vera e propria raccolta, di cui G. I stesso avrebbe fissato l'ordine dando il titolo di Registrum epistolarum, secondo quanto asserisce Ildefonso di Toledo (per le questioni relative al Registrum, v. Enc. dei papi, I, p. 552). Il Registrum permette di seguire le vicende del pontificato di G. I e i problemi che furono oggetto delle sue preoccupazioni, mostrando l'intreccio costante fra impegni amministrativi, cure ecclesiastiche e pastorali, interventi missionari, impegno politico e militare, senza dimenticare l'attività di scrittore. Il Registrum rivela una straordinaria progettualità organizzativa, volta a garantire un'amministrazione gerarchicamente disposta sotto il controllo diretto del papa, costituita da personale selezionato, incardinato nell'istituzione ecclesiastica, preparato sul piano culturale e controllato sul piano morale (Arnaldi, 1987).
La prima preoccupazione di G. I fu di assicurare un'amministrazione efficiente dei Patrimoni della Chiesa: "per procuratores ecclesiasticorum patrimoniorum, velut Argus quidam luminosissimus, per totius mundi latitudinem suae pastoralis sollicitudinis oculos circumtulerit", sintetizza efficacemente Giovanni Diacono (S. Gregorii Magni vita, II, 55).
Le pur scarse testimonianze relative alla storia dei beni ecclesiastici a partire da Costantino hanno permesso di giungere alla conclusione che i Patrimoni della Chiesa romana fossero i "patrimonia" della chiesa cattedrale della diocesi di Roma, cioè del Laterano (Marazzi). Si trattava di un patrimonio ingente, ma territorialmente non omogeneo, data l'origine da lasciti e donazioni di varia provenienza, anche se la denominazione geografica con cui i singoli Patrimoni vengono indicati permette di cogliere lo sviluppo di complessi territorialmente più omogenei rispetto "alla semplice somma dei dispersi beni preesistenti" (Arnaldi, 1986). A causa delle invasioni erano andati perduti i "patrimonia" della Dalmazia e dell'Illiria, il "patrimonium Alpium Cottiarum", il "patrimonium Liguriae" fra le Alpi, l'Adda e il Po, il "patrimonium Sanniticum", ormai nel territorio del Ducato longobardo di Benevento. Ma ne rimanevano molti altri di diversissima consistenza e redditività: piccoli ("patrimoniola"), come quello in Africa, i due nella penisola balcanica, quello della Gallia; in Italia fortemente diminuiti quelli di frontiera fra dominio bizantino e longobardo, come il "patrimonium Tusciae", quello sabino e carseolano, il "patrimonium Apulum"; ancora integri il "patrimonium" ravennate, il "patrimonium Piceni", il "patrimonium Appiae", e il "patrimonium urbanum", costituito dalle proprietà interne a Roma stessa; meno intaccati dalla conquista longobarda quello "Calabritanum" nella penisola salentina, quello della Campania, il "patrimonium Lucaniae et Bruttiorum"; infine i Patrimoni delle isole: "Corsicanum", "Sardiniae" e "Siciliae", quest'ultimo il più esteso, con circa 137.600 ettari, corrispondenti a circa un diciannovesimo della superficie dell'isola (Ruggini), tanto da essere da G. I diviso in due ("Panormitanum" e "Syracusanum"), e fonte principale per l'approvvigionamento di Roma.
Ogni Patrimonio era affidato a un amministratore nominato dal papa, il "rector", scelto tra il personale delle "scholae": suddiaconi, per i patrimoni più importanti, oppure notai o "defensores", operanti anche in funzione subordinata al "rector", come coadiutori insieme con gli "actionarii" per la sorveglianza della raccolta dei censi e dei canoni. Il rettore era nominato con un "praeceptum", prestava giuramento davanti al "sacratissimo" corpo di S. Pietro (Registrum, I, n. 70), riceveva un "pactum" o "capitulare" con le istruzioni, e aveva l'obbligo di un rendiconto finanziario annuale, riceveva l'estratto dal "polyptychum", conservato nello "scrinium" in Laterano, contenente l'elenco di tutti i redditi e pensioni relativamente al Patrimonio di sua competenza (Giovanni Diacono, S. Gregorii Magni vita, II, 24). Aveva una molteplicità di funzioni (valga come esempio per tutte Registrum, I, n. 42), tra cui quella di scegliere i "conductores", percettori dell'affitto ("pensio"), dell'imposta dovuta al fisco ("burdatio") e di altri contributi a beneficio proprio e del rettore, dovuti dai "coloni". I coloni coltivavano gli appezzamenti di terreno in cui era divisa la massa, i "fundi", con prestazioni scritte nei "libelli securitatis" (Vera), volti non solo a garantire il funzionamento della macchina burocratica ai suoi diversi livelli, ma anche ad assicurare la regolarità delle entrate in denaro e in natura evitando nel contempo abusi e soprusi. Gli interventi di G. I mostrano come l'organizzazione amministrativa fosse costantemente turbata da varie forme di scorrettezza e di ingiustizia a danno dei coloni (come l'esazione del solido di peso superiore a quello legale e l'uso della misura del moggio maggiorato di più del doppio rispetto alla misura legale), contro le quali il pontefice interveniva con puntigliosa meticolosità, introducendo anche l'uso di strumenti scritti (Arnaldi, 1987).
Una gestione attenta ai diritti e pronta ad atti di carità, considerata modello di amministrazione improntata a principî cristiani (Recchia, 1978), non impedisce di vedere le reali condizioni economiche e sociali dei "rustici", sottoposti giuridicamente a condizioni durissime, ulteriormente oppressi da pratiche economiche scorrette e ancora vittime della "comparatio" o "coemptio": la fornitura di derrate alimentari a prezzo di calmiere per soddisfare le esigenze dell'Annona. E neppure impedisce di cogliere le reali finalità della correttezza amministrativa: G. I si preoccupa di "assicurare un minimo di benessere ai coloni ecclesiastici, tanto per buona coscienza cristiana quanto per esigenze di avveduta amministrazione, dal momento che proprio questi "rustici" costituivano la sorgente prima di tutto il frumento fiscale e no, annualmente convogliato agli "horrea" provinciali e urbani della Chiesa. Il papa doveva vedere con inquietudine il fatto che i rustici […] si impegnassero in mutui ad alto interesse con i magistrati del fisco ["actionarii publici"] oppure che vendessero precipitosamente ad estranei il loro frumento a prezzo vile pur di procurarsi il denaro necessario" (Ruggini). A quei contadini, pur protetti dai soprusi, il pontefice poteva rivolgersi con toni molto duri per indurli a obbedire al "defensor", autorizzato a punire chi disobbediva o chi era contumace, ad applicare la legge in merito agli schiavi che si fossero nascosti e a eventuali appropriazioni indebite di terre confinanti. Così come con grande durezza interveniva per stroncare pratiche religiose tradizionali, bollate come insopportabili persistenze dell'antico paganesimo, da estirpare imponendo l'aumento del canone; o per indurre alla definitiva conversione quei "coloni" ebrei che si erano mostrati tenacemente legati alla loro religione, nei confronti dei quali il pontefice, dopo inutili tentativi di convinzione, invocava forme coercitive di natura economica (S. Boesch Gajano, Per una storia).
La cura nell'amministrazione dei Patrimoni appare strettamente legata alle preoccupazioni per l'approvvigionamento di Roma.
All'indomani della sua elezione (Registrum, I, n. 2) G. I faceva presente a Giustino, pretore della Sicilia, che Citonato, probabilmente il funzionario dell'amministrazione romana addetto alla sorveglianza dei pubblici granai, asseriva, diversamente dal pretore, che a Roma era stato inviato solo il grano relativo all'anno precedente, quel grano che, proveniente dai Patrimoni ecclesiastici in Sicilia, andava a riempire i granai pubblici di Roma e serviva per il sostentamento della popolazione. Nell'agosto 591 (ibid., n. 70) chiedeva al rettore Pietro di comprare - al di fuori del Patrimonio e in aggiunta all'invio regolare da farsi come ogni anno in settembre e ottobre - 50 libbre d'oro di frumento e di conservarlo in Sicilia in luoghi idonei, pronto per essere imbarcato per Roma nel mese di febbraio, o con le navi mandate dal papa, o con altre procurate in loco, perché il raccolto dei possedimenti vicini a Roma era così scarso che senza il grano di Sicilia si rischiava una tremenda carestia. Tutto il grano che arrivava a Roma, fosse esso destinato all'Annona civica o a quella militare oppure provenisse da acquisti effettuati per conto del papa, andava a finire nei granai della Chiesa: "il papa aveva assunto in proprio la responsabilità complessiva del vettovagliamento di Roma che andava ben aldilà dell'esigenza di provvedere alle erogazioni mensili di generi alimentari riservate ai poveri". Malgrado la presenza formale di funzionari imperiali e di strutture pubbliche, la Chiesa sembra ormai "subentrata all'amministrazione imperiale nella gestione dei servizi annonari dell'Urbe", cosa importante perché "l'organizzazione annonaria era stata da sempre uno dei tratti basilari (insieme alla presenza del Senato) dello statuto eccezionale del "caput orbis" rimasto in vigore anche molto dopo che Roma aveva cessato di essere la sede dell'imperatore" (Arnaldi, 1987).
L'approvvigionamento non era la sola necessità legata alla vita della Chiesa romana; oltre alle elargizioni al clero, ai monasteri, ai poveri, ma anche ai maggiorenti della città, vi era la manutenzione degli edifici.
La manutenzione sembra prevalere largamente sulle nuove costruzioni, come segnalano il Liber pontificalis e Giovanni Diacono (S. Gregorii Magni vita, IV, 68): oltre ai restauri annuali dei tetti delle chiese, furono compiuti lavori nelle aree presbiterali delle basiliche di S. Pietro e S. Paolo e nella basilica vaticana. Per quanto riguarda S. Paolo va ricordata - per la visibilità conferita alla munificenza del pontefice - la donazione, incisa su una grande lastra marmorea, affissa nell'atrio (Inscriptiones christianae urbis Romae.Nova series, II, n. 4790, p. 137). La ristrutturazione più rilevante sul piano simbolico - anche se riguardante solo una nuova decorazione musiva e pittorica - riguarda la chiesa ariana fatta costruire dal goto Ricimero nella Suburra tra 459 e 470, restituita al culto ortodosso, con la dedica a S. Agata (Dialogi, III, 30) e la deposizione delle reliquie della santa e di s. Sebastiano. Nel 593 un intervento analogo fu operato da G. I nella chiesa di culto ariano presso via Merulana, da lui dedicata a S. Severino, disponendo che fossero portate a Roma alcune delle reliquie del santo del Norico, sepolto a Napoli (Registrum, III, n. 19). Notevole fu l'impegno di G. I nella fondazione di monasteri, in conformità con la religiosità propria e del suo ambiente: oltre quello nella sua dimora familiare, il monastero femminile "ad Gallinas albas" non lontano da S. Agata; quello "iuxta thermas agrippinianas" non lontano dalla via Lata; il monastero di Renatus probabilmente sull'Esquilino (Dialogi, IV, 13), uno verosimilmente intitolato a S. Stefano presso S. Pietro (ibid., 14); un altro, dedicato a S. Vittore, presso la basilica cimiteriale di S. Pancrazio per garantire la custodia e l'officiatura regolare del santuario (Registrum, IV, n. 18). Declassata rispetto a Costantinopoli, ridotta a circa 90.000 abitanti, con ampie zone vuote, con l'aumento dei cimiteri urbani e il degrado dei monumenti antichi, cui G. I non sembra avere dedicato attenzione, Roma, con le sue basiliche, le chiese legate ai "tituli", i vari "xenodochia" od ospizi, e i monasteri assumeva perciò sempre più la fisionomia di "Roma christiana" (Pietri, 1991): una città di cui G. I può essere considerato l'"artefice" (Krautheimer, 1980).
Le cure rivolte all'approvvigionamento e ad altre necessità di Roma non fecero trascurare a G. I la vita religiosa della Chiesa a lui affidata. A essa rivolgeva il suo messaggio relativo alla decadenza del mondo e alla necessità del distacco dalla vita terrena e della preparazione alla morte con una vita conforme al Vangelo. G. I iniziò subito l'attività di predicazione: la parola posta al servizio della pastorale, una parola destinata a fissarsi nello scritto e a divenire, come già abbiamo visto per i Moralia, un'opera, le Homiliae XL in Evangelia, cui egli volle conferire il sigillo della sua autorità di vescovo e di scrittore.
Alcune omelie erano state esposte da un notaio sulla base di un testo già dettato da G. I, altre pronunciate direttamente da lui, con la concomitante trascrizione stenografica, e la conseguente riscrittura, priva ancora della sua approvazione. A questa fase di interferenza fra scritto e orale seguì la selezione di quaranta testi - un numero probabilmente simbolico - e la composizione di un'opera in due libri, ognuno di venti omelie, collocate in un ordine diverso rispetto a quello dei passi evangelici e a quello in cui erano stati "stenografati": a tale ordine il pontefice annetteva grande importanza se proibiva di modificarlo e anzi chiedeva di reintegrarlo, nel caso che si trovassero copie con un ordine diverso, secondo l'esemplare "d'autore" conservato nello "scrinium" lateranense, dal quale erano tratte le sole copie riconosciute come autentiche dall'autore. Che l'opera avesse assunto per G. I un valore che andava molto al di là dell'occasione e del primo pubblico romano lo mostrano sia la cura letteraria a essa dedicata, sia l'uso fattone di strumento di comunicazione spirituale (Registrum, IX, n. 148). Come per i Moralia l'imponente e complessa tradizione manoscritta dell'opera (427 manoscritti con l'intera opera, manoscritti con omelie isolate o frammenti; florilegi, a partire da quello di Paterio, notaio della Chiesa romana, composto vivente G. I) ha fatto ipotizzare (Étaix) due recensioni dell'opera, una trasmessa dalla gran massa dei manoscritti (circa 400), l'altra dai rimanenti 27, le cui varianti non sembrano frutto di correzioni di scribi, ma piuttosto varianti originarie, risalenti a fasi diverse dell'intervento dell'autore, in analogia con quanto avvenne, come si vedrà, per il Liber Regulae pastoralis e per le Homiliae in Hiezechielem prophetam.
Le omelie furono pronunciate tra il 12 nov. 590 e la fine di settembre 592, con precisi riferimenti ai luoghi - le principali basiliche e anche chiese più piccole e periferiche - e a eventi reali, di fronte a un pubblico indicato in alcuni casi come tanto numeroso da affollare la chiesa, in occasione di feste del temporale o del santorale (Judic, Grégoire le Grand). È dunque questa l'opera che per prima permette di cogliere il valore attribuito da G. I ai santi e al loro culto nella vita liturgica e nell'esperienza spirituale e devozionale dei fedeli, precorrendo i Dialogi, nei quali si ritroveranno molti riferimenti a personaggi o episodi citati in quest'opera. La riflessione teorica sulla funzione dei santi come strumento che rende visibile Dio, che abita nelle loro anime, si sostanzia di "exempla" relativi a martiri e santi e ai miracoli compiuti da loro e dalle loro reliquie. L'opera pone, in misura maggiore dei Moralia, il problema del rapporto fra oralità e scrittura e fra destinatari dell'una e dell'altra forma di comunicazione: se i contenuti furono sostanzialmente gli stessi e se l'uso sistematico di "exempla" poteva rendere più facilmente comprensibile il messaggio morale e spirituale, trasmesso certamente nella lingua ancora comprensibile a Roma, l'accuratezza retorica e stilistica non può che essere attribuita al testo scritto, destinato a un pubblico di fedeli colti e avvertiti, chierici e monaci in primo luogo o quei pii e aristocratici laici presenti nell'entourage di Gregorio I. Nell'opera si delinea la funzione del predicatore - oggetto di specifica attenzione nel Liber Regulae pastoralis - con la sua identità spirituale e morale e le indispensabili competenze tecniche; si combina l'esegesi con l'esortazione morale sostenuta dall'"exemplum"; si annuncia quella tensione escatologica che diverrà più esplicita in altre opere. Per il genere omiletico i modelli potevano essere tanti: il più vicino è Agostino, ma l'assenza di citazioni testuali e la contaminazione di passi diversi appaiono frutto di una "familiarità acquisita con la lettura assidua", e di una "libertà di uso" di un autore pur conosciuto e meditato "in un circuito di pensiero e di eloquio che sono strettamente personali" (Recchia, La memoria di Agostino). Il successo dell'opera (Dekkers), che crebbe particolarmente in età carolingia sia presso il clero, sia presso i monaci si spiega proprio in virtù della sua stessa identità espositiva semplice, lontana dalla complessità dell'esegesi e della teologia (Deleeuw).
I primi mesi del pontificato furono anche dedicati all'impegnativa stesura della lettera sinodica, che il vescovo di una delle cinque sedi patriarcali era solito inviare agli altri quattro al momento della sua elezione, per confermare l'unità nella fede. La lettera, in preparazione già nell'ottobre 590 (Registrum, I, n. 4), fu inviata solo nel febbraio 591 (ibid., n. 24) in copia conforme a Giovanni di Costantinopoli, Eulogio di Alessandria, Giovanni di Gerusalemme e Gregorio di Antiochia e a un quinto destinatario, l'ex patriarca di quest'ultima sede, Anastasio, deposto per volontà dell'imperatore, cui G. I, pur senza sconfessare formalmente la sua deposizione, offriva un sostegno anche personale (ibid., n. 7). Dopo avere espresso la propria inadeguatezza, G. I assumeva i toni di un vero e proprio manifesto programmatico. Sul piano teologico la lettera non riserva sorprese o novità: G. I dichiarava di "accettare e venerare i quattro concili come i quattro libri del Vangelo […] perché su di essi come su una pietra quadrata si erge tutta la struttura della santa fede", aggiungendo di venerare anche il V concilio con la relativa condanna delle opere di Ibas, Teodoro e Teodoreto, mentre nuova è la lunga trattazione relativa alla carica di vescovo, che ne tratteggia i lineamenti dal punto di vista delle qualità personali e dell'esercizio del suo incarico: conoscenza della natura umana, finezza psicologica, prudente equilibrio pastorale, rapporto fra silenzio e parola, uso della predicazione, attenta dialettica fra compassione per gli altri e contemplazione, fra umiltà e autorità.
Tutte queste considerazioni sono svolte in un costante confronto con la Scrittura e con la sua esegesi allegorica e morale. La lettera mostra una stringente affinità, confermata dalle numerose coincidenze testuali (Judic, Introduction all'ediz. della Regula pastoralis), con il Liber Regulae pastoralis scritto, dice G. I, agli inizi del suo episcopato (Registrum, V, n. 53), tanto che per le prime due parti si potrebbe pensare proprio ai mesi fra il settembre 590 e il febbraio 591. L'opera, dedicata a Giovanni, vescovo di Ravenna - non a Giovanni patriarca di Costantinopoli, come vuole Isidoro di Siviglia, seguito da Ildefonso di Toledo, dedica contraddetta dalle prime biografie -, fu inviata a molti "referenti", Colombano, Liciniano di Cartagine, Leandro di Siviglia, e fu probabilmente utilizzata dallo stesso G. I come manuale da donare in occasione delle consacrazioni vescovili. Tracce della sua fortuna nei secoli successivi si colgono per l'Inghilterra, dove, tramite il vescovo missionario Agostino, giunge fino a Beda, per l'Irlanda nel VII e VIII secolo, per la Francia con Alcuino, che gioca un ruolo considerevole nella sua diffusione, fino a Gregorio VII e a Graziano; parallelamente influenza i trattati morali e le Summae de arte praedicatoria.
Il Liber Regulae pastoralis è conservato in un codice coevo (Troyes, Bibliothèque municipale, ms. 504): si tratta di un prodotto di lusso, scritto in ambiente di Curia fra VI e VII secolo, con una grafia che riprende forme dell'epigrafia cristiana, rivelando un'attenta ricerca stilistica, un testimone d'eccezione della produzione libraria romana tra VI e VII secolo (Petrucci). Il manoscritto presenta molte correzioni, con un lavoro di revisione compiuto dall'autore stesso o da scribi a lui vicini, non in una sola volta (Dekkers): si conferma anche per quest'opera l'esistenza di diverse versioni, ognuna delle quali poteva essere copiata e avere una sua propria tradizione manoscritta, non senza frequenti "contaminazioni". La Regula, frequentemente ricordata nelle lettere, arrivò anche in Oriente su richiesta dell'imperatore e venne tradotta in greco dal diacono Anatolio (Registrum, XII, n. 6). Si tratta anche in questo caso di un'opera curata nello stile, influenzato dalle immagini bibliche, e segnata dalla lunga tradizione sia sul versante greco (Origene, con le omelie sull'esodo tradotte da Rufino, pur mai citato, Gregorio di Nazianzio, con i suoi Discorsi, tradotti da Rufino, forse Giovanni Crisostomo), sia su quello latino (Cicerone e Seneca sulle virtù, mediati con ogni probabilità attraverso Ambrogio, Ambrogio stesso, Cassiano, Martino di Braga e soprattutto Agostino [Paronetto, 1986], Leone Magno, Cesario di Arles e ancora le regole monastiche). L'opera è solidamente strutturata in quattro parti, con frequenti rinvii dall'una all'altra: la prima riguarda le caratteristiche morali e spirituali che deve avere chi accede alla carica; la seconda la vita che deve condurre il vescovo, dedita alla contemplazione e all'introspezione; la quarta sottolinea la necessità dell'esperienza interiore strettamente connessa al compito della predicazione; la terza esamina i modi con cui il pastore deve rivolgersi al suo gregge, considerato nelle sue diverse componenti di genere, di età, di stato sociale, di carattere, espressione di singolare finezza psicologica e di competenza "sociologica". Proprio la profondità morale e la sensibilità qui testimoniate rendono per contrasto più evidente la concezione del tutto conservatrice della società: un ordine sociale immutabile, la coincidenza fra ceto elevato e cariche ecclesiastiche per le caratteristiche culturali e le competenze richieste dalla funzione vescovile e predicatoria, la sanzione dei dislivelli economico-sociali e la loro rilevanza sul piano etico e spirituale.
L'impegno nel governo della Chiesa si sviluppò in concomitanza e a seguito della riflessione teorica, morale e pastorale attraverso una serie di interventi specifici di natura propriamente ecclesiastica (per esempio regolarità delle elezioni dei vescovi), dottrinale (principalmente lotta contro il donatismo in Africa e interventi per il recupero delle sedi legate allo scisma tricapitolino) e, infine, politica. La tradizionale divisione amministrativa fra Italia annonaria, gravitante sulle sedi metropolitiche di Milano e Aquileia, e Italia suburbicaria, posta sotto la giurisdizione metropolitica del vescovo di Roma, se non scompare del tutto, appare profondamente turbata a seguito dell'invasione longobarda, dello scisma tricapitolino, della nuova dislocazione del potere: il Registrum rivela che G. I scrive solo a vescovi situati in territori bizantini, con l'eccezione di Spoleto, evidenzia il peso politico assunto da Ravenna, sede dell'esarca (Registrum, II, n. 25), e prova più in generale come il suo raggio d'azione si estenda ben oltre l'ambito di stretta competenza del vescovo di Roma, indipendentemente da diritti giurisdizionali.
Per quanto riguarda il diritto ecclesiastico, il Registrum testimonia una varietà di casi, nei quali non è facile individuare una regola costante, anche se sembra di poter dire che G. I avochi a Roma le "causae maiores" (per es.: Registrum, VI, n. 24; IX, n. 27) e riconosca i poteri dei vescovi metropoliti (per es.: ibid., IX, n. 203) e dei tribunali sinodali, abilitati a giudicare nei confronti dei vescovi (per es.: ibid., I, n. 32; III, n. 8; V, n. 59). L'esercizio del suo potere sui vescovi si intrecciò subito con il problema del potere concretamente esercitato dai vescovi stessi nel campo della giurisdizione civile. Per ciò che concerne "l'opportunità, espressa nella Regula pastoralis e presente anche nei Moralia, che il vescovo deleghi ad altri la potestà di giudicare riconosciutagli dalla legge, è da ritenere che G., nel manifestarla con tanta insistenza, avesse presente non tanto la giurisdizione esercitata dai vescovi in materie di loro specifica competenza, come le devianze dottrinali e disciplinari di membri del clero e di semplici fedeli, quanto la giurisdizione speciale che le leggi imperiali avevano assegnato alla Chiesa nelle liti di natura privatistica, come le controversie in tema di atti volontari fra privati o in genere di affari" (Arnaldi, 1995). La giustizia era divenuta un terreno di confine e di possibile scontro con il potere politico, terreno saldamente difeso dal papa, reclamando i diritti del foro ecclesiastico - per es. nei confronti del duca Teodoro (Registrum, I, n. 59) - e ricordando ai vescovi l'obbligo dell'amministrazione della giustizia (ibid., VI, n. 11). La rivendicazione dei diritti giurisdizionali della gerarchia ecclesiastica si accompagnò tuttavia sempre in G. I con il pieno riconoscimento delle leggi romane, perfino nel caso in cui egli le giudicasse ingiuste, le criticasse violentemente, ne chiedesse all'imperatore l'abrogazione perché lesive della libertà di scelta religiosa (ibid., III, n. 61). Assai frequente è il richiamo puntuale alla legislazione romana e la sollecitazione alla sua utilizzazione: estratti dalle Novellae di Giustiniano, dal Codex e dal Digestum vengono inviati al "defensor" Giovanni, impegnato in una delicata missione nella porzione della Spagna riconquistata dall'Impero (ibid., XIII, n. 49). Ma non essendo G. I, come giustamente è stato detto, un teorico, conviene seguire il concreto esplicarsi della sua azione.
Due furono i fronti di particolare rilievo: l'Africa settentrionale e l'Italia settentrionale, divisa dallo scisma tricapitolino. Numerosi sono i suoi interventi negli anni 591-596, che attestano rapporti stretti tra vescovi africani e pontefice (ibid., II, n. 40; VIII, n. 31; X, n. 20). Per quanto riguarda il donatismo, è probabile che non si tratti di un reale revival dell'eresia (Markus) e che G. sia stato sollecitato a intervenire da informazioni allarmistiche - relative soprattutto alla pratica del doppio battesimo - avute dal vescovo numida Paolo, la cui mediazione fu fonte di molti problemi sia con le gerarchie ecclesiastiche locali, sia con il governo civile. (ibid., I, nn. 72, 73; IV, nn. 32, 35; VI, n. 62). La situazione si fece più complicata per i dissensi fra vescovi ed esarca, e G. I si rese conto dell'impotenza del suo intervento (ibid., n. 64). Questa sorta di resa coincise con l'affievolimento di interesse per il problema donatista.
Nella questione tricapitolina G. I era stato coinvolto, come si è visto, già prima della sua elezione. Dopo pochi mesi da questa, nel gennaio 591, convocava a Roma, perché si sottoponesse al giudizio di un sinodo, il vescovo Severo di Aquileia con i suoi seguaci: eletto nel 587 vescovo di Aquileia a Grado, dove la comunità cristiana, che aderiva allo scisma tricapitolino, si era rifugiata per sfuggire ai Longobardi, egli era stato portato dall'esarca Smaragdo a Ravenna insieme con tre vescovi suffraganei e qui era stato indotto ad allinearsi alle posizioni imperiali, ma una volta rientrato in sede era tornato in consonanza con la sua comunità, rimanendo poi sempre capo indiscusso dello scisma (ibid., XIII, n. 34). G. I aveva dato alla sua ambasceria un carattere che potremmo definire coercitivo, tale comunque da travalicare l'ambito puramente religioso ed essere sentita come "intimidatoria" dai vescovi istriani, che se ne lamentarono con l'imperatore (Registrum, ed. Ewald - Hartmann, I, 1, nn. 16 a, b). I pericoli della situazione politico-militare dell'Italia avevano indotto l'imperatore a richiamare il troppo interventista Smaragdo, sostituito da Romano, e a frenare gli interventi del papa (ibid., nn. 17-23).
G. I fece fronte comune con il vescovo di Ravenna, del cui impegno e ardore si rallegrava, assicurandogli che non avrebbe mancato di scrivere all'imperatore con sommo zelo e libertà e invitandolo a non agitarsi per la collera del patrizio Romano (Registrum, II, n. 38, del luglio 592); usò anche toni molto duri con gli scismatici che gli avevano scritto lamentando le persecuzioni cui erano sottoposti (ibid., n. 43), ricordando che la persecuzione quando non è sopportata razionalmente non giova alla salvezza, secondo l'insegnamento di Cipriano. Dopo il primo intervento deciso e forse troppo duro nei confronti di questa provincia ecclesiastica, il Registrum testimonia per gli anni successivi interventi sporadici, volti a favorire occasioni di dialogo: l'invito del luglio 595 a due vescovi istriani a venire a Roma con tutte le garanzie (ibid., V, n. 56), l'impegno per la protezione di coloro che tornavano all'ortodossia (ibid., IV, n. 14; VI, n. 38; IX, n. 151; VII, nn. 34, 117-118, 155, 161-162; XIII, n. 34), rimproveri a chi, come l'esarca Callinico, non favoriva le conversioni, sulla base dell'ordine imperiale a difesa degli scismatici (ibid., IX, nn. 142, 149). Lo scisma tricapitolino continuò in queste diocesi a essere ben radicato non solo nelle élites ecclesiastiche, ma in tutta la comunità cristiana.
Più mossa la situazione sul versante della provincia ecclesiastica di Milano, che poteva vantare un'antica opposizione alla condanna imperiale dei Tre Capitoli nella persona del vescovo Dazio e che aveva poi vissuto il trauma del trasferimento della sede a Genova a opera del vescovo Onorato, al momento dell'invasione longobarda. Il nuovo vescovo Lorenzo, sempre residente a Genova, si era trovato di fatto sotto il duplice controllo dell'imperatore e del papa, ma difficilmente il formale atto di adesione all'ortodossia di Lorenzo rispondeva a una sua convinzione e ancor più difficilmente poteva trovare il consenso dei suffraganei e dei fedeli, cosa di cui G. I sembra essere stato consapevole (ibid., IV, n. 37). Una conferma del dissidio con Roma verrebbe dall'assoluzione del presbitero Magno, già scomunicato da Lorenzo, e ancor più nella sua completa "riabilitazione", provata dall'incarico affidatogli dal pontefice di portare un messaggio sulle qualità necessarie alla carica vescovile al clero e al popolo milanese che in Genova doveva eleggere il successore di Lorenzo (ibid., III, n. 26). L'elezione di Costanzo, in rapporti con G. I dai tempi di Costantinopoli, è questione complessa, come rivela la lettera di G. I dell'aprile 593 (ibid., n. 29) ai presbiteri, ai diaconi e al clero della Chiesa di Milano, che risulta "senza sottoscrizione", ma portata da persone degne di fede come Magno e Ippolito, quest'ultimo intermediario con Teodolinda e residente a Milano (ibid., IV, nn. 2, 4), in una città da identificare più probabilmente con Genova. L'elezione fu certamente sostenuta dal pontefice, che nel settembre 593 otteneva da Costanzo non la semplice adesione alla condanna dei Tre Capitoli, ma anche la sua sottomissione a Roma. Egli diveniva da quel momento un intermediario politico con i Longobardi, in particolare con la regina Teodolinda, con i Franchi, con i Bizantini (ibid., n. 1; XI, n. 6), intervenendo anche di propria iniziativa (ibid., IV, n. 2). Quando tre vescovi si erano staccati dalla comunione con il metropolita e pure Teodolinda si era astenuta dalla comunione con la Chiesa, G. I aveva scritto alla regina nel settembre 593 (ibid., n. 4), ma Costanzo aveva evitato di far recapitare la lettera poiché, facendo essa riferimento al V concilio ecumenico, poteva essere controproducente; G. I non aveva esitato ad approvare l'operato del vescovo di Milano (ibid., n. 37), riscrivendo a Teodolinda nel luglio 594 in forma epurata (ibid., nn. 33, 52).
La dimensione politica dello scisma si colloca all'interno della complessiva politica italiana di G. I e soprattutto dei problemi posti dall'attività espansionistica del Regno longobardo e dei Ducati di Spoleto e di Benevento, che impegnarono il pontefice fra l'autunno del 591 e l'inizio del 594.
Il 5 sett. 590 (due giorni dopo la consacrazione di G. I) era morto il re Autari. La vedova Teodolinda sviluppava una politica di accordo con i Franchi e con i duchi di Spoleto e Benevento, recuperati al fronte antibizantino. A questo punto si assiste a un cambiamento della strategia imperiale: invece di una guerra offensiva volta alla riconquista dell'Italia settentrionale, si passa a una strategia soprattutto difensiva, volta ad assicurare le comunicazioni fra Ravenna e Roma e a organizzare secondo questo asse i territori ancora bizantini. È questo il contesto in cui si trova G. I subito dopo la sua elezione. Il suo primo intervento nei confronti dei Longobardi attiene alla sfera religiosa: interpretando la morte di Autari come punizione divina per avere proibito il battesimo dei figli dei Longobardi nella fede cattolica, invita tutti i vescovi d'Italia a impegnarsi per la conversione dalla fede ariana di quel popolo (ibid., I, n. 17). Che il problema longobardo fosse prioritario nelle sue preoccupazioni è testimoniato dall'espressione che usa nella lettera del febbraio 591 (ibid., n. 30), quando dice di sentirsi "vescovo dei Longobardi, per i quali i patti sono spade e la grazia una pena". Di qui l'urgenza di un impegno che dal piano religioso investe quello militare e politico-diplomatico, aprendo nuovi scenari alle responsabilità inerenti alla carica di vescovo di Roma.
Nel maggio 591 Agilulfo fu eletto re nell'assemblea dei duchi a Milano (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 35). Per la prima volta attraverso le nozze con Teodolinda l'accesso alla regalità avvenne in modo indipendente dall'elezione dei guerrieri, ridotta a semplice acclamazione. Anche nei due Ducati di Spoleto e di Benevento vi furono nello stesso anno cambiamenti al vertice: nel primo il pagano Ariulfo era succeduto a Faroaldo, nel secondo Arichi a Zotto. Questo determinò una ripresa delle attività di conquista, che minacciavano da tutti i lati quello che si suole definire già ora come Ducato romano, i cui confini si stabilizzarono solo dopo il 595, non tanto come definizione di un ambito politico quanto come esito delle conquiste longobarde (Bavant); per un esame dei rapporti di G. I con i Longobardi nell'Italia centromeridionale, v. Enc. dei papi, I, p. 561.
Non è il Ducato romano in quanto entità politico-territoriale, della cui difesa G. I si preoccupa, quanto l'insieme dei territori bizantini collocati intorno a Roma, la cui caduta nelle mani dei Longobardi avrebbe significato un pericolo per la città. Il Ducato romano non rappresenta dunque un riferimento politico-territoriale per G. I, il cui orizzonte dal punto di vista politico è, oltre Roma, l'Italia. La dimensione romana e italiana della politica di G. I risulta evidente nel momento di maggiore drammaticità, fra l'autunno del 591 e i primi mesi del 594, per la ripresa dell'offensiva longobarda. Inserito saldamente nell'ambito dell'Impero, cui non manca di riaffermare costantemente la propria fedeltà, G. I assume tuttavia un ruolo di protagonista, con un impegno diretto nel controllo della situazione militare e perfino nella dislocazione delle truppe, constatando le deficienze dell'apparato militare bizantino, e la scarsa incisività della sua complessiva azione sul campo, in particolare per il problema vitale della difesa di Roma.
Tra il 591 e il 592 il pericolo maggiore venne dalle milizie del Ducato di Spoleto: il 27 sett. 591 (Registrum, II, n. 4) G. I inviava soldati al "magister militum" Velox - non senza esitazione a causa della marcia di Ariulfo verso Roma -, chiedendogli di "incalzarlo alle spalle", ed esortandolo a mettersi in contatto con gli altri "magistri militum" Mauricio e Vitaliano; nel gennaio 592 (ibid., n. 10) si fece carico della difesa di Nepi, inviando Leonzio, cui il clero e il popolo dovevano prestare obbedienza, proprio come fece pochi mesi dopo per Napoli. L'imminenza del pericolo è testimoniata anche dalla lettera del febbraio 592 a Giovanni vescovo di Velletri, in cui ordinò di trasferire la sua sede in altro luogo - S. Andrea, forse S. Andrea in Silice sulla via Appia - per "essere più al riparo dalle incursioni nemiche e ivi compiere le consuete celebrazioni liturgiche" (ibid., n. 13); e anche nella lettera dell'aprile 592 si fa riferimento "ai vescovi di nostra competenza che non possono venire a Roma per l'interporsi dei nemici" (ibid., n. 25). Nel giugno 592 la situazione sembra ancora aggravarsi: scrivendo ai "magistri militum" Mauricio e Vitaliano, oltre a fare presente il timore che i loro uomini cadessero nelle mani di Ariulfo, li incoraggiava a prendere alle spalle il duca, mentre il riferimento al "magister militum" Casto sembra indicare che a lui fosse affidata la difesa di Roma; in un'altra lettera riferisce della missiva ricevuta da Ariulfo, della situazione critica della città di Soana, della cui fedeltà il papa tendeva a dubitare; della conquista di Narni e dell'incombente ulteriore minaccia di avanzamento, di fronte alla quale il papa invitava a saccheggiare le terre di Ariulfo e a provvedere a far concentrare l'attacco sulle avanguardie (ibid., nn. 27 s.). Tragico è ancora il panorama delineato da G. I nella lettera del luglio 592 (ibid., n. 38) a Giovanni vescovo di Ravenna, che gli aveva scritto di non sapere a chi rivolgersi per impetrare aiuto, convenendo sulla passività dell'esarca Romano, che "da una parte trascura di combattere contro i nemici, dall'altra ci impedisce di fare la pace", pace che peraltro Ariulfo vincolava alla condizione che gli venissero versate le paghe spettanti alle truppe di Autari e Nordulfo, due capi militari longobardi, esattamente come quando erano al soldo dei Bizantini (presso i quali avevano prestato servizio, passando poi a quello dei Longobardi); Roma era sguarnita di milizie dopo l'invio di quelle mandate nell'Italia centrale di rinforzo al "magister militum" Velox nel settembre dell'anno precedente, e i soldati della "legio Theodosiacorum", così chiamata da Teodosio figlio di Maurizio, "a stento si dedicano alla custodia delle mura"; infine anche Napoli era minacciata da Arechi (I) duca di Benevento, che non aveva tenuto fede ai patti con l'Impero e, priva di un comandante, rischiava di cadere in mani longobarde. Per provvedere a questo vuoto di potere il papa intervenne direttamente attribuendo al tribuno Costanzo il compito di presiedere alla difesa della città e invitando tutti a prestargli obbedienza (ibid., n. 47: datata fra il settembre 591 e l'agosto 592).
In questo drammatico frangente G. I decise alla fine dell'estate 592 di rompere gli indugi e di prendere l'iniziativa di una tregua. La gravità della crisi, e forse l'impegno autonomo di G. I, indussero l'esarca Romano a riprendere tra la fine del 592 e l'inizio del 593 la campagna militare (Liber pontificalis; Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 8, 9), che portò alla riconquista di Sutri, Bomarzo, Orte, Todi, Amelia, Perugia, Luceoli. Intervenne allora Agilulfo, che occupò Perugia, uccidendo Maurizio, duca longobardo passato dalla parte dei Bizantini, e pose l'assedio a Roma. La drammaticità del momento è testimoniata dall'assenza nel Registrum di lettere per i mesi di gennaio, febbraio e marzo dell'indizione XII, cioè i mesi iniziali del 594. Sopraffatto dall'angoscia per le distruzioni e le violenze, alla fine del 593 G. I interrompeva il ciclo di omelie sul libro di Ezechiele (Homiliae in Hiezechielem prophetam, II, 10, 24).
Le omelie furono pronunciate probabilmente a ritmo rapido, forse addirittura nello spazio di un solo mese, alla fine del 593, anche se un commento così ricco a un testo così complesso presuppone una lunga preparazione e - questo è sicuro - richiese un'accurata revisione, culminata otto anni dopo, nel 601, in un'opera in due libri: il primo, di dodici omelie, dedicato a Mariniano, vescovo di Ravenna, con una prefazione che, secondo il metodo consueto, fa riferimento alle note prese dai notai al momento in cui furono pronunciate e alla loro revisione tardiva, che non esclude un uso della primitiva stesura notarile (Paterio, nell'opera già ricordata, riporta diciannove passi non presenti nel testo attuale, probabilmente estratti dalle schede prima della revisione di G. I); il secondo, di dieci omelie, dedicato ai confratelli del monastero di S. Andrea, che avevano sollecitato la revisione. In questa seconda dedica sono presenti riferimenti non solo al drammatico momento in cui le omelie furono pronunciate, ma anche ai problemi posti dalla difficoltà del testo da commentare. Diverso è anche il pubblico rispetto a quello dei Moralia e delle Homiliae XL in Evangelia: non il largo pubblico delle festività religiose, ma neppure la sola ristrettissima comunità dei monaci di S. Andrea, che rimane tuttavia il gruppo più sicuramente identificabile come "committente" e come destinatario, quanto piuttosto un pubblico misto, fatto anche di membri del clero (cui probabilmente si riferiscono i consigli sulla predicazione), e forse anche di laici colti e religiosi, che non mancavano nell'entourage del pontefice. Il testo, conservato in otto manoscritti databili fra VII e VIII secolo e in numerosissimi altri dei secoli successivi, è scritto in una bella lingua, anche se con uno stile meno curato delle altre opere - a eccezione delle prefazioni -, più legato all'oralità, ma ben strutturato secondo la retorica antica (Recchia, 1992). I temi più importanti possono essere così riassunti: la contemplazione, con il confronto fra vita contemplativa e vita attiva, la profondità del male e la funzione di Cristo salvatore e dello Spirito Santo, e infine la centralità della predicazione e della funzione del "praedicator", che dalla contemplazione attinge la sua legittimazione e la sua capacità di essere strumento per guidare le anime al vertice della visione cristiana. La sua figura si salda nel commento di G. I con quella dello "speculator", che "semper in altitudine stat, ut quodquid venturum est longe prospiciat", e dunque sulla funzione profetica, proiettata quest'ultima nella prospettiva escatologica. Componente centrale nella sua visione religiosa, l'escatologia di G. I non va tuttavia intesa come prospettiva di breve termine, di reale imminenza della fine del mondo, ma come orizzonte spirituale e culturale, sempre presente e sempre rievocato di fronte ai drammi della storia, che ben può comporsi, nella fisionomia complessiva del pontefice, con il suo impegno nel fronteggiare la realtà e nel trasformarla.
Tra luglio 593 e novembre 594 si colloca anche la composizione dei Dialogi, la cui preparazione era tuttavia certamente cominciata molto prima (A. de Vogüé, introd. ai Dialogues), con la raccolta dei casi di esemplarità religiosa, alcuni già narrati nelle omelie sui Vangeli, e qui ripresi.
Se una lettera, con la richiesta di informazioni a Massimiano di Siracusa (Registrum, III, n. 50), fa riferimento alle sollecitazioni dei "fratres qui mecum familiater vivunt", il prologo dell'opera stessa parla di una richiesta rivolta dal diacono Pietro, già incontrato come persona intima del pontefice: in tutti i casi anche nella composizione di quest'opera si coglie l'importanza del gruppo di religiosi che circonda G. I e interagisce con la sua attività di governo, con la sua meditazione spirituale, con la sua produzione letteraria. La definizione dell'opera data da Beda (Historia ecclesiastica, II, 1) come raccolta di miracoli ha dato l'avvio a una sua interpretazione - prevalsa fino a tempi recenti - come opera "minore", popolare per i suoi contenuti e per il suo pubblico, e dunque diversa e inferiore rispetto alla qualità letteraria, alla competenza esegetica, alla profondità morale e dottrinale delle altre opere di G. I, e che ha finito addirittura per intaccare la certezza della sua paternità (Clark, 1987 e 1991). Confutata questa tesi estrema (de Vogüé, 1991), l'opera deve essere inserita a pieno titolo nella produzione gregoriana, e anzi considerata nei suoi caratteri di estrema originalità, che ne fanno forse il capolavoro di G. I: certo un'opera destinata a immenso successo (da segnalare la traduzione greca fatta da papa Zaccaria nel sec. VIII), come prova l'imponente tradizione manoscritta. L'opera, divisa in quattro libri, è strutturata in forma di dialogo fra G. I e il diacono Pietro. Il dialogo è strumento essenziale dell'alternanza tra racconti di virtù e di miracoli e riflessioni morali e dottrinali, e costituisce la struttura portante e distintiva dell'opera. I racconti si rivelano allora non concessioni a una presunta e mal individuabile "mentalità popolare", ma come momenti di una realtà religiosa vissuta in ambienti diversi sul piano sociale e culturale, che, narrati da testimoni degni di fede, vengono legittimati nella loro veridicità attraverso la mediazione religiosa e culturale del pontefice-scrittore, per divenire strumento della sua pastorale. L'originalità riguarda anche il contenuto in senso cronologico e geografico. Oggetto dell'attenzione di G. I non sono i martiri antichi, la cui esemplarità non era funzionale per il suo tempo, e le cui passioni, scritte in epoca ormai tanto lontana dalle vicende narrate, erano considerate del tutto fantasiose e addirittura atte a provocare il riso più che l'edificazione, ma i santi contemporanei, uguali e perfino superiori ai grandi esempi del passato (come prova il caso di Benedetto), con una vasta tipologia che va dai monaci e dagli abati alle tante figure di uomini e donne, eremiti o vissuti in piccole comunità, in campagna o in città, come le sante zie di G. I, già presenti nelle omelie sui Vangeli, e ancora i nuovi martiri, vittime dei Longobardi feroci e pagani, anzi veri e propri adoratori del demonio. Quanto alla dimensione geografica, sono i santi italiani quelli di cui G. I vuole conservare la memoria, in un'Italia che si identifica con le sue regioni centrali, Toscana, Umbria, Lazio, ma anche Campania e Sicilia, arricchendosi di qualche raro caso esterno, e ha il suo centro religioso in Roma, che assume un ruolo decisivo nel quarto e ultimo libro, come il luogo in cui si concentrano tanti casi di santità e teatro di tanti episodi, atti a provare con la forza della loro esemplarità la sopravvivenza dell'anima alla morte del corpo, il punto dottrinalmente più impegnativo tra quelli affrontati nell'opera. La storicità dei personaggi contribuisce a fare dei Dialogi una testimonianza affidabile per la storia della penisola tra V e VI secolo, per le sedi vescovili, le nascenti comunità monastiche, il paesaggio rurale e urbano, l'impatto delle popolazioni germaniche, Goti e Longobardi soprattutto, i primi ormai lontani e non più pericolosi, i secondi aggressivi e ancora irrecuperabili nella visione religiosa complessiva di G. I, che pure doveva con loro venire a patti e avviare una convivenza il più possibile pacifica. Anche per quest'opera si può parlare di grande originalità rispetto alla tradizione agiografica, pur certamente ben conosciuta, dalla Vita Antonii di Atanasio, alla Vita Martini e ai Dialogi di Sulpicio Severo, alle scritture agiografiche di Girolamo. All'originalità della struttura e del contenuto va aggiunta l'efficacia dello stile e della lingua (Bruzzone), in un perfetto equilibrio fra l'oralità dei suoi testimoni, la raffinatezza della sua cultura, la comprensibilità del messaggio. L'opera meditata e organicamente strutturata diveniva un prezioso strumento della pastorale, destinata in primo luogo al clero, non necessariamente di alta cultura, e attraverso la sua mediazione a un pubblico più vasto e socialmente differenziato.
Racconta Paolo Diacono che l'assedio a Roma fu tolto da Agilulfo, forse dietro pagamento di un tributo da parte di G. I, su suggerimento della regina Teodolinda che era stata spesso esortata in tal senso dal papa. L'iniziativa di quest'ultimo determinò una grave crisi nei rapporti con l'esarca Romano e con l'imperatore fra l'autunno 594 e l'estate 595.
L'atteggiamento dell'esarca non fu solo di rifiuto dell'accordo, ma anche di condanna del "praefectus urbi" e del "magister militum", di accusa del papa presso l'imperatore per avere provocato la morte di Malco, già rettore del Patrimonio in Dalmazia, quando era in prigione a Roma per l'inchiesta amministrativa; infine di appoggio al decreto imperiale relativo all'elezione del vescovo di Salona, cui G. I aveva posto il veto per indegnità: tutto questo rivela una lettera diretta al diacono Sabiniano, apocrisario a Costantinopoli, del settembre-ottobre 594 (Registrum, V, n. 6), nella quale il pontefice si difendeva con fermezza. Il confronto con l'imperatore assumeva toni particolarmente duri, anche se ammorbiditi da un linguaggio tra l'ironico e il deferente, nella lettera del giugno 595 (ibid., n. 36), nella quale G. I risponde alle accuse rivoltegli di "simplicitas", che, egli osservava, volevano in realtà significare che egli si era comportato da sciocco o addirittura da mentitore. La lettera si concludeva con un esplicito richiamo al rispetto dovuto ai sacerdoti, mostrato perfino dagli imperatori pagani.
Il confronto con l'imperatore gioca su un duplice registro: fedeltà costante e indiscussa all'Impero e all'autorità imperiale, fermezza nella condanna di posizioni non condivise o di leggi considerate lesive dei diritti della Chiesa e dei cristiani, con la richiesta perentoria di modifica o di abrogazione; difesa dalle critiche, non priva di pungente ironia, che gli consente di passare dalla formale obbedienza alla ferma rivendicazione della propria superiorità spirituale.
Com'è stato più volte sottolineato, G. I non è un teorico e la sua ideologia politica va ricostruita attraverso riflessioni, giudizi o comportamenti su questioni specifiche, anche se si possono individuare alcune linee portanti. L'autorità dell'imperatore si sostanzia di alcuni doveri, tra i quali la difesa dell'ortodossia cattolica, come ripete anche alla futura coppia imperiale (ibid., XIII, n. 40), secondo il modello di Costantino e di sua madre Elena, proposto anche ai nuovi sovrani che abbracciano la fede cristiana, e il controllo sulla moralità del clero (ibid., V, n. 37; VII, nn. 5 s.; IX, n. 136). Il potere politico si nutre alla greppia del Vangelo come un grosso animale addomesticato dall'enorme forza fisica, ma dal poco acume: il rinoceronte, che è messo all'aratro, finalmente fa buone leggi e garantisce la pace nella Chiesa (Moralia, XXXI, 4, 4-7). Anche in questo caso, oltre agli influssi, tra cui è stato valorizzato soprattutto quello dello Pseudo Dionigi (Straw, 1991), va colta la peculiarità del pensiero e dell'azione di G. I, sempre pronto a interagire con le situazioni concrete e a coniugare la consapevolezza della propria superiorità spirituale e la rivendicazione dei propri diritti con più realistiche valutazioni dei rapporti di potere.
Contemporaneamente al confronto legato alla sfera politica, si era avviato il confronto-scontro sulla questione del titolo ecumenico di cui si fregiava il patriarca di Costantinopoli (Registrum, V, n. 37). Il problema, cui si riferisce un gruppo di lettere tutte datate giugno 595 (ibid., nn. 39, indirizzata all'imperatrice Costantina; 41, ai vescovi Eulogio di Alessandria e Anastasio di Antiochia; 44, allo stesso Giovanni, patriarca di Costantinopoli, principale protagonista del conflitto; 45, al diacono Sabiniano), non era nuovo - si era infatti presentato già quando Giovanni il Digiunatore si era attribuito il titolo al sinodo di Costantinopoli del 587, trovando l'opposizione di Pelagio II -, ma G. I aveva deciso di intervenire al momento in cui aveva ricevuto gli atti di un giudizio sinodale, dove questo titolo compariva in tutta la sua ufficialità. Insieme con la condanna, esprimeva la propria concezione della Chiesa, della "distribuzione dei poteri" al suo interno, infine della posizione particolare rivestita dalla Chiesa di Roma, in quanto sede di Pietro e dei suoi successori. Pur senza risultati, G. I non rinunciò a sostenere la sua tesi anche col nuovo patriarca Ciriaco (ibid., VII, n. 24, giugno 597; VII, n. 30, giugno 597; VIII, nn. 28, luglio 598; 29, luglio 598), senza però giungere alla rottura dei rapporti, limitandosi ad ammonire i metropoliti dipendenti da Roma, convocati per il sinodo a Costantinopoli, a non accettare che il patriarca si fregiasse del titolo (ibid., IX, n. 157, maggio 599).
Per quanto riguarda la situazione politica in Italia, era cominciata una nuova stagione, caratterizzata da più articolati rapporti politici con i Longobardi.
Nel maggio 595 G. I cercava di indurre l'esarca a concludere la pace con i Longobardi, facendosi carico di garantire in certo modo le buone intenzioni di Agilulfo e insinuando la sua disponibilità a fare "una tregua speciale con noi" (ibid., V, n. 35). All'inizio del 596 la morte dell'esarca Romano lasciava un vuoto politico-militare, che fu colmato solo nella primavera del 597 con l'elezione del suo successore Callinico, con il quale si ebbe l'avvio delle trattative per la tregua, sempre fortemente voluta da G. I, in costante apprensione per gli attacchi longobardi, questa volta soprattutto a opera del duca di Benevento Arechi contro i territori bizantini dell'Italia meridionale. Nel 598 giunse l'annuncio dell'accordo raggiunto, non privo di nubi per il dubbio che i duchi di Spoleto e di Benevento non volessero accettarlo e per la persistente minaccia longobarda nei confronti di Terracina e di Cagliari, tanto che G. I ritenne più prudente non impegnarsi direttamente con la sua personale sottoscrizione, proponendo, come si è detto, il fratello Palatino (ibid., XI, n. 4). La tregua durò fino al 601, con la ripresa nei due anni successivi della guerra, che ebbe come teatro l'Italia settentrionale (Monselice, Cremona, Mantova, Brescello, l'Istria), fra i Bizantini e Agilulfo, alleato con Avari e Slavi: per questo probabilmente G. I non ritenne opportuno intervenire (Bertolini).
Il ringraziamento rivolto sia a Teodolinda, sia a Agilulfo alla fine del 598 (Registrum, IX, nn. 66, 68) pone il sigillo alla nuova stagione, nella quale la diplomazia gioca ormai un ruolo fondamentale. Anche per quanto concerne la questione tricapitolina, se essa rimane tra i problemi di G. I, i suoi interventi sono improntati a un'estrema prudenza, volta a non scoraggiare il possibile ritorno degli scismatici all'unità della fede. Una rete di mediatori favorisce i rapporti. Oltre al vescovo di Milano, Costanzo, Secondo di Non, sostenitore dei Tre Capitoli e padrino di Adaloaldo, figlio di Teodolinda e di Agilulfo, alla fine degli anni Novanta appare come corrispondente di G. I (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 27; Registrum, IX, n. 148), insieme con molti altri (ibid., V, nn. 6, 36; IX, nn. 66 s., 126). A Teodolinda scrisse per rallegrarsi del battesimo del figlio (ibid., XIV, n. 12). G. I manifestò dunque una larga tolleranza nei confronti della corte longobarda, che dava prova di grande capacità politico-religiosa. Se ancora nel 599 esprimeva preoccupazioni (ibid., IX, n. 240), per "il pericolo che sovrasta queste nostre regioni" e in particolare la città di Roma "afflitta da varie condizioni di debolezza al punto che i suoi abitanti non sono in condizione di custodire neppure le mura"; e se ancora nel luglio 603 (ibid., XIII, n. 39) faceva presente all'imperatore Foca "l'oppressione subita dalle spade longobarde", è anche vero che ormai egli si era convinto a cercare forme di convivenza pacifica: una evoluzione non tanto del suo giudizio profondo nei confronti dei Longobardi, che rimase sempre durissimo, quanto del suo atteggiamento politico.
A partire dal 595 il Registrum mostra un'attenzione crescente e continuativa del pontefice nei confronti dei Regni d'Occidente, resa possibile dalla situazione italiana e forse sollecitata dalle tensioni con l'Impero: una spia potrebbe essere l'ambasceria ad Arles del diacono Sabiniano, già apocrisario a Costantinopoli (Registrum, V, n. 58). Questa attenzione non va interpretata come frutto di una strategia strettamente politica, ma quale risultato di un progetto religioso ed ecclesiastico a largo raggio, che non può essere collocato nella tradizionale prospettiva romana e imperiale (Markus). Quel progetto si articola però in maniera diversa nei vari Regni, con distinte finalità, che vanno evidenziate proprio per non cadere in generalizzazioni fuorvianti.
Con la Spagna la conoscenza più antica: l'incontro a Costantinopoli con il vescovo Leandro di Siviglia permette di supporre che G. I fosse assai bene informato delle vicende di quel Regno, unificato con il Regno svevo e consapevole del proprio potere tanto da adottare simboli imperiali, ma ancora diviso etnicamente e religiosamente fra Goti ariani e Romani cattolici. L'avvio del processo di conversione risaliva a Ermenegildo, celebrato nei Dialogi (III, 31) come martire della fede - anche se la sua uccisione per ordine del padre fu dovuta piuttosto alla ribellione da lui guidata nella Betica -, e si era in sostanza compiuto con Reccaredo. G. I aveva espresso il suo compiacimento a Leandro nell'aprile 591 (Registrum, I, n. 41), intervenendo su sua richiesta sulla questione dell'unica immersione battesimale praticata nella Spagna visigotica, e la triplice, praticata a Roma e in genere altrove, con una posizione tollerante della diversità delle consuetudini. Si deve aspettare il luglio 595 per l'invio, già ricordato, delle sue opere a Leandro (ibid., V, n. 53), ma anche in seguito i contatti non furono frequenti, quasi che G. I si volesse astenere "dall'assumere posizioni che potessero essere percepite dall'interlocutore come un'indebita ingerenza nelle questioni della chiesa spagnola" (Azzara). Il Registrum non testimonia altri rapporti fino all'estate del 599 (ibid., IX, nn. 228 s.): la prima lettera in risposta a Leandro testimonia il riconoscimento della fama del pontefice da parte dell'"episcopus Spaniarum", cui invia il pallio a sanzione del suo ruolo; la seconda a Reccaredo univa alle lodi per la conversione del Regno, giudicata un grande miracolo, gli ammonimenti relativi alle virtù proprie del principe cristiano, e sanciva il rapporto con l'invio di una piccola chiave contenente il ferro delle catene di s. Pietro, perché "ciò che legò il suo collo andando al martirio liberi il vostro da tutti i peccati". La lettera a Reccaredo è corredata da un "postscriptum" - quasi a distinguere nettamente la sfera politica da quella religiosa - che testimonia le difficoltà fra il Regno e l'Impero e soprattutto il ruolo di possibile intermediario attribuito al pontefice e quello di "consigliere di parte" di fatto da lui assunto: alla richiesta di Reccaredo di scrivere all'imperatore "perché ricercasse nell'archivio i patti che una volta furono stipulati fra l'imperatore Giustiniano di pia memoria e le leggi del vostro regno" aveva infatti risposto negativamente non solo per l'impossibilità tecnica dovuta all'incendio dell'archivio, ma anche perché "non è il caso di dire a qualcuno: cercami, per favore, i documenti contro di te, che conservi nel tuo archivio e mettili a mia disposizione".
Anche la Gallia non è del tutto assente dall'orizzonte di G. I nei primi anni di pontificato, con particolare riferimento alla Provenza: si tratta di problemi religiosi, come il battesimo degli ebrei (Registrum, I, n. 45), e politico-diplomatici nel tentativo di avere informazioni sui contatti fra Agilulfo e i Franchi (ibid., IV, n. 2). Ma solo dal 595 l'interesse si accentua: nell'agosto 595 concede il pallio e la funzione vicaria a Virgilio, vescovo di Arles, su richiesta di Childeberto II, figlio di Brunilde, re di Austrasia, Burgundia e Aquitania, esprimendo nel contempo preoccupazione per la simonia e lamentando l'elezione vescovile di laici divenuti repentinamente sacerdoti (ibid., V, n. 58); questi contenuti si ripetono nella lettera indirizzata a tutti i vescovi (ibid., n. 59) e in quella a Childeberto (ibid., n. 60), mentre alla regina madre raccomanda il presbitero Candido, inviato per sovrintendere al Patrimonio della Gallia (ibid., VI, n. 5), ma, secondo la consuetudine già messa in evidenza, investito di ampi poteri in campo ecclesiastico e politico (ibid., VIII, n. 4). Dopo la morte di Childeberto nel 596 G. I rimase in contatto con i suoi due figli Teodoberto e Teodorico, con il re di Neustria Clotario II e soprattutto con Brunilde, reggente in Burgundia e Austrasia per i nipoti: a quest'ultima in numerose lettere chiese fedeltà a Calcedonia, lotta contro il paganesimo, impegno moralizzatore, interventi per irregolarità ecclesiastiche e nei confronti degli ebrei, e soprattutto impegno contro la simonia e per la riforma complessiva della Chiesa con la convocazione di un concilio, presieduto da Siagrio, cui dedicò ancora molti sforzi fino al novembre 602 (ibid., XIII, nn. 5, 7), quando dovette prendere atto che il "Regnum francorum" non rappresentava più una forza politica tale da offrire la possibilità di convocare un concilio generale a lungo auspicato (Pietri, 1991).
Dalle lettere emerge gradualmente la funzione per così dire "strumentale" della Gallia in vista della missione in Inghilterra. Un indizio si trova già nella lettera a Candido, in procinto di recarsi in Gallia come rettore del Patrimonio, con il riferimento ai "pueri angli", ancora pagani, che rischiano di morire per via (verso Roma?) senza battesimo (Registrum, VI, n. 10), riferimento che potrebbe essere all'origine della leggenda dell'ispirazione avuta da G. I alla vista degli schiavi "angelici" (Anonimo di Whitby e Beda). Un anno dopo il monaco Agostino del monastero di S. Andrea con un gruppo di compagni veniva inviato in missione, arrivando nel Kent, nell'isola di Thanet, nella primavera del 597. Il re Etelberto aveva sposato la principessa franca e dunque cattolica Berta, che aveva portato con sé il vescovo Liutrado; dopo un primo momento di sospetto i missionari furono autorizzati a utilizzare una chiesa dentro Canterbury come chiesa episcopale e a costruire non lontano dalla città un monastero (Beda). G. I descrive invece le popolazioni come pagane, "immerse nel culto di idoli di legno e di pietra", così da assimilare l'opera dei nuovi missionari a quella degli apostoli, entrambe circondate dallo splendore dei miracoli - ma Agostino era poi invitato a non insuperbirsi per la capacità di fare miracoli (Registrum, XI, n. 36, giugno 601) -, come scrive nel luglio 598 (ibid., VIII, n. 29) a Eulogio di Alessandria esaltando i successi della missione (più di 10.000 battesimi!) e dando notizia dell'elezione episcopale di Agostino a opera dei vescovi di Germania con il suo consenso, senza che sia possibile specificare dove e quando l'elezione sia avvenuta. Un folto gruppo di lettere permette di seguire lo sviluppo di una Chiesa organizzata su base territoriale diocesana (ibid., XI, n. 39) - Beda ne rivela il contrasto con l'organizzazione di tipo monastico propria del cristianesimo irlandese - il consolidarsi dei rapporti con la regina, paragonata a Elena madre di Costantino e invitata a esortare il marito alla fede e a preoccuparsi della conversione dei sudditi (ibid., n. 35), e infine le difficoltà incontrate e la contraddittorietà dei suggerimenti relativi ai metodi della pratica missionaria. Se il 22 giugno 601 (ibid., n. 37) G. I faceva presente al re Etelberto la necessità di ricorrere a tutti i mezzi per convertire il suo popolo, intendendo la distruzione di luoghi e oggetti di culto, forse indice nello stesso tempo di scarso impegno del re e di resistenze pagane, a pochi giorni di distanza (ibid., n. 56, 18 luglio 601), dopo lunga riflessione, raccomandava all'abate Mellito in partenza per l'Inghilterra con un secondo gruppo "di rinforzo", una serie di azioni esaugurali: i templi, dedicati al culto dei demoni, dovevano essere consacrati al culto cristiano con l'aspersione di acqua benedetta e la costruzione di altari dotati di reliquie, così che le popolazioni accorressero più facilmente a quei luoghi insieme antichi e nuovi; e ancora le feste liturgiche della dedicazione di una chiesa o delle ricorrenze del santorale dovevano essere celebrate con usi simili a quelli tradizionali delle popolazioni: tabernacoli ornati di rami, convivi religiosi, perfino sacrifici di animali, proprio come Dio aveva consentito al popolo d'Israele. Il radicale cambiamento rispetto alla lettera a Etelberto non consente di parlare di mutamento delle strategie missionarie papali, ma di vedere piuttosto nella contraddittorietà un segno di quella "flessibilità pastorale" (Markus) che permetteva a G. I di aderire alle diverse realtà; erano i diversi destinatari a fare la differenza: invitati ognuno a usare nel modo più efficace i poteri che erano loro propri, l'uno la violenza, l'altro la persuasione e tutti i suoi stratagemmi. In pochi anni la Chiesa inglese si era dotata di istituzioni funzionanti ed era pronta a ricevere, peraltro su richiesta dello stesso Agostino, una sorta di "decalogo", il Libellus responsionum trasmesso da Beda, relativo a una serie di questioni morali, dagli impedimenti matrimoniali derivanti dalla parentela ai comportamenti sessuali, ed ecclesiastiche, dal rapporto tra vita monastica e attività pastorale, alle norme per la consacrazione dei vescovi e ai rapporti fra Agostino e i vescovi della Gallia.
Tra il 595 e il 600, sullo sfondo dei rapporti con l'imperatore Maurizio e con il patriarca per il titolo di "ecumenico" e della costruzione di nuove relazioni con i Regni in Occidente, va collocata l'ultima produzione di G. I, elaborata sulla base delle note prese a Roma fra il 595 e il 598 da Claudio, abate di un monastero presso Classe, in contatto con G. I dal 592, di nuovo a Roma con probabilità dalla fine del 594 e sicuramente nel gennaio 596, dove fece parte del gruppo ristretto del "pubblico" dei suoi commentari esegetici, sulla cui fedeltà nella stesura dei testi G. esprimeva molte riserve (Registrum, XII, n. 6). L'Expositio in Canticum canticorum appare infatti come un testo "ripreso sub oculis, che riflette la parola orale" (Meyvaert, 1968).
Ildefonso di Toledo cita il commento al cantico come "omne opus", per cui è probabile che l'incompletezza del testo pervenuto sia dovuta a un incidente della tradizione manoscritta: gli esemplari più antichi portano nel titolo la divisione in due libri, applicata anche in seguito, quando dell'opera non rimaneva che il commento ai primi otto versetti. Il commento conferma l'interpretazione allegorica dell'amore come simbolo delle nozze di Cristo con l'anima o di Cristo con la Chiesa. Se la paternità di quest'opera non è più in discussione, il problema si complica per l'Expositio in Librum I Regum, testo che con la storia degli inizi della monarchia in Israele, con l'avvento di Saul e l'unzione di David, doveva attirare G. I, non solo in relazione ai problemi politici che stava vivendo, ma anche per la questione della funzione sacerdotale in rapporto alla contemplazione e al nesso predicazione-profezia. L'Expositio sembrava definitivamente recuperata con argomenti inoppugnabili tra le opere del pontefice (v. i saggi di Verbraken e di Meyvaert): oggetto come altre di un complesso processo di elaborazione e revisione in diverse fasi, testimoniato da una lettera di Colombano, degli stessi anni, nella quale, dopo aver letto la Regula pastoralis, richiedeva le Homiliae in Hiezechielem prophetam e la Expositio in Librum I Regum, precisandone le parti, come se di altre avesse già il testo, e sarebbe stata l'ultima opera di G. I, per questo priva di ampia diffusione e coinvolta nella crisi succeduta alla sua morte. Lo stesso de Vogüé (1996), che nel I vol. dell'edizione dell'opera l'aveva giudicata il testamento politico di G., è stato indotto a una rivisitazione del problema, dopo la scoperta di un manoscritto dell'abbazia di Cava che attribuisce l'opera a Pietro di Cava poi abate di Venosa (Houben). L'opera si presenta comunque come un insieme di passi gregoriani.
Una lunga tradizione ha attribuito a G. I la paternità di un sacramentario, cioè un messale contenente solo la parte destinata al prete officiante, conservato in tre manoscritti esemplati fra VII e VIII secolo, di cui uno inviato da Adriano I tra il 784 e il 791 a Carlo Magno. Non è certo che l'opera sia stata scritta da lui, anche se non è escluso che siano state da lui composte alcune preghiere, mentre una parte del materiale è molto più antica (Deshusses). Ma l'impegno nei confronti della liturgia, sottolineato da Giovanni Diacono, addirittura attraverso dettagli sugli interventi operati da G. I nei confronti del Gelasianum, contenente l'antica prassi liturgica romana (S. Gregorii Magni vita, II, 17), e con certezza comprovato dal potenziamento della schola cantorum all'interno della strutturazione dell'"episcopium" lateranense, rimase nel corso dei secoli uno dei primi meriti del papa.
Negli ultimi anni del suo pontificato G. I continuò a essere impegnato nelle questioni religiose, ecclesiastiche e politiche di cui si è già riferito. Per quanto riguarda Roma, un rilievo particolare assume la lettera del settembre 602 ai cittadini romani (Registrum, XIII, n. 1), non solo come conferma di un'attenzione specifica alla sua comunità, ma anche per l'emergere di un problema, finora inedito, relativo ai rapporti fra cristiani ed ebrei: la commistione di pratiche religiose, in questo caso il rispetto "cumulato" delle festività religiose proprie alle due religioni, il sabato e la domenica, che G. I vedeva come il segno più pericoloso dell'opera del demonio, preludio addirittura della venuta dell'Anticristo. L'atteggiamento di G. I nei confronti degli ebrei si caratterizza per quella dialettica fra teoria e pratica e per quella duttilità di comportamenti concreti, già vista operante anche in altri settori.
Dal punto di vista teologico la posizione rimane immutata rispetto ad Agostino: "testes veritatis", gli ebrei si convertiranno alla fine dei tempi, mentre la loro sopravvivenza deve essere sempre segnata dall'inferiorità derivante dalla loro colpevolezza religiosa. Sul piano della prassi, se duri furono gli interventi per completare l'omogeneizzazione religiosa nelle campagne, in particolare nelle proprietà della Chiesa, nella stessa linea seguita nei confronti di tradizioni cultuali considerate insopportabili persistenze pagane e spesso assimilate a culti diabolici (si pensi alla Sardegna e alla Gallia), larga tolleranza mostrò fin dall'inizio G. I nei confronti delle comunità urbane, forti e attive sul piano economico, compreso il commercio degli schiavi, protette contro le conversioni forzate, come ad Arles, e nei loro interessi, come a Napoli, con l'elaborazione di una accurata casistica volta a impedire eventuali abusi derivanti dalla conversione al cristianesimo sia degli schiavi sia dei padroni. La lettera relativa alla proibizione dell'osservanza del sabato apre uno squarcio sulla storia religiosa e sociale di Roma, mostrando le molte varianti possibili della convivenza religiosa, capace nel concreto di forme sincretiche, che ora da G. I e poi da tutta la tradizione cristiana furono viste come le più pericolose, perché mettevano in discussione quell'identità cristiana costruitasi proprio nella sua differenziazione dall'identità ebraica.
Un rinnovato interesse si manifesta negli ultimi anni nei confronti dei territori bizantini della penisola iberica. Un importante ruolo gioca qui il "defensor" Giovanni, investito, secondo quanto già constatato, di ampi poteri giurisdizionali - interventi in questioni ecclesiastiche come quelle relative al vescovo di Malaga, deposto da un rivale (Registrum, XIII, nn. 46-49), e di moralizzazione nei monasteri con conseguente comminazione di pene (ibid., n. 47) -, che doveva rendersi attento esecutore delle leggi, estratti delle quali (Novellae, Codex e Digestum) gli venivano inviate proprio da G. I (Registrum, XIII, n. 49). Ma oltre a questi interessi, presenti nel corso di tutto il pontificato, l'attenzione di G. I sembra potersi ricollegare anche all'iniziativa imperiale delle "recuperationes imperii": le lettere del 603 indicano che G. I poteva finalmente "mostrare l'esercizio della primazia romana in territorio imperiale e insieme far contenti i nemici di Maurizio" (Vilella Masana), tra cui il nuovo imperatore Foca.
I rinnovati rapporti con l'Impero bizantino concludono in un certo senso l'attività politica di G. I, mostrandone ancora l'aspetto prudente e diplomatico. L'elezione di Foca era avvenuta all'inizio del 603 a seguito dell'uccisione di Maurizio: se la cerimonia del 25 apr. 603 di acclamazione da parte del clero e dei membri del Senato nei confronti dei ritratti dell'imperatore e dell'imperatrice, accolti a Roma e collocati nell'oratorio di S. Cesario al Palatino, nell'antico palazzo imperiale, testimonia l'atteggiamento di riconoscimento della sovranità, sempre presente peraltro nel corso di tutto il pontificato, le lettere alla coppia imperiale rivelano, oltre al rispetto, alla fedeltà e alla speranza di migliori rapporti, anche una linea programmatica di governo ispirata ai principî cristiani, secondo i modelli di Costantino ed Elena. L'assenza dell'apocrisario veniva giustificata con le difficoltà incontrate negli ultimi anni per accedere al palazzo, e l'invio sollecito di un diacono "fresco di nomina" era il segno chiaro di una nuova stagione iniziata nella corte, che G. I sperava disposta a prestare ascolto alle vicende italiane (Registrum, XIII, n. 32).
Nell'agosto del 603 l'attenzione era di nuovo rivolta a Roma colpita dalla peste, con una cerimonia simile a quella seguita alla sua elezione. Il 12 marzo 604 G. I morì a Roma dopo un pontificato intensissimo destinato a segnare la storia della Chiesa e dell'Occidente. È stata questa per molti secoli, salvo eccezioni locali, la data della festività liturgica - il tradizionale diesnatalis -, spostata dal concilio Vaticano II, in quanto coincidente con il periodo quaresimale, al 3 settembre, data della consacrazione episcopale.
G. I venne sepolto, come dice il Liber pontificalis, nella basilica di S. Pietro "ante secretarium", cioè di fronte all'antica sacrestia; Giovanni Diacono (S. Gregorii Magni vita, IV, 68) precisa ulteriormente: "all'estremità del portico della basilica stessa" (da intendersi all'estremità della galleria occidentale del grande atrio davanti alla basilica), là dove erano già sepolti i pontefici Leone, Simplicio, Gelasio. Per quanto riguarda l'epigrafe funeraria, le reliquie, le successive ubicazioni del sepolcro e i luoghi romani legati alla memoria e al culto di G. I, v. Enc. dei papi, I, pp. 570 s.
La santità del pontefice veniva sancita già poco dopo la sua morte da numerosi testi non romani. Da ricordare in primo luogo la Storia dei Franchi di Gregorio di Tours; poi nella Spagna nel sec. VII i brevi medaglioni nelle opere De viris illustribus di Isidoro di Siviglia e di Ildefonso di Toledo; poi dagli inizi del sec. VIII le prime Vitae, scritte in Inghilterra, indipendentemente l'una dall'altra, con l'intento di celebrare il papa che aveva promosso la conversione di quella terra: a un anonimo monaco del monastero di Whitby si deve un'agiografia, che conosce le opere di G. I e il Liber pontificalis, e che si mostra interessata alla spiritualità e alla scelta monastica di G. I, e ancor più alle manifestazioni soprannaturali; quanto a Beda, si deve parlare di fonte storica importantissima, dato che la sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum conserva il testo di lettere assenti dal Registrum. Alla fine del sec. VIII Paolo Diacono, monaco a Montecassino, oltre a ricordare il papa nella sua opera maggiore, la Storia dei Longobardi, ne scrive una Vita, una cui versione interpolata ebbe larga circolazione (Limone). Solo fra l'873 e l'876 fu scritta a Roma una vera e propria biografia di G. I a opera di Giovanni Diacono, esponente dell'élite culturale legata al pontefice Giovanni VIII: strutturata in quattro libri e costruita, come l'autore rivendica con orgoglio, a partire dalle informazioni fornite dalle opere dello stesso G. I, risulta di grande interesse storico, pur nella sua finalità politico-ideologica, volta a costruire un modello funzionale al Papato del suo tempo (Arnaldi, 1956).
Quanto alla liturgia, numerosi martirologi ne ricordano la festività, talvolta legata alla traslazione di reliquie. Per la storia del culto e dell'iconografia di G. si rimanda ancora a Enc. dei papi, I, p. 571
Le opere di G. I sono edite in J.-P. Migne, Patr. Lat., LXXV-LXXIX; Suppl., IV, a cura di A. Hamman, Paris 1967, coll. 1525-1585. Edizioni delle singole opere, con eventuali traduzioni: Dialogi libri IV, a cura di U. Moricca, Roma 1924; I dialoghi, a cura di E. Logi, Siena 1934; Dialogues, a cura di A. de Vogüé, I-III, Paris 1978-80. Expositiones in Canticum canticorum et in Librum primum Regum, a cura di P.P. Verbraken, Turnholti 1963; Commentaire sur le Cantique, a cura di R. Bélanger, Paris 1984. Commentaire sur le Premier Livre des Rois, I, a cura di A. de Vogüé, Paris 1989; II, a cura di Ch. Vuillaume, ibid. 1993; III (che indica nel frontespizio l'ipotizzata attribuzione a Pietro di Cava), a cura di A. de Vogüé, ibid. 1998. Homeliarum in Evangelia libri duo, a cura di H. Hurter, Oeniponte 1892; quest'edizione è stata ripresa con traduzione in Omelie sui Vangeli e Regola pastorale, a cura di G. Cremascoli, Torino 1968; altre traduzioni: Omelie sui Vangeli, a cura di O. Lari, Alba 1975; Omelie sui Vangeli, a cura di G. Cremascoli, Roma 1994 (Opere di Gregorio Magno, II). Homiliae in Ezechielem prophetam, a cura di M. Adriaen, Turnholti 1971; Homélies sur Ézéchiel, a cura di C. Morel, I-II, Paris 1986-90; Omelie su Ezechiele, a cura di V. Recchia, I-II, Roma 1992-93 (Opere di Gregorio Magno, III, 2). Moralia in Job, a cura di M. Adriaen, I-III, Turnholti 1979-85; Morales sur Job, Livres I-II, a cura di R. Gillet - A. de Gaudemaris, Paris 1952; Livres XI-XVI, a cura di A. Bocognano, ibid. 1974-75; Commento Morale a Giobbe, a cura di P. Siniscalco, I-III, Roma 1992-97 (Opere di Gregorio Magno, I, 1-3). La collezione delle lettere di G. I è stata pubblicata in: Registrum epistolarum, a cura di P. Ewald - L. Hartmann, in Mon. Germ. Hist., Epistolae, I-II, Berolini 1891-99; Registrum epistolarum, a cura di D. Norberg, Turnholti 1982; Registre des lettres, a cura di P. Minard, I-II (Livres I et II), Paris 1991; trad. italiana dell'ed. Norberg: Lettere, a cura di V. Recchia, I-IV, Roma 1996-99 (Opere di Gregorio Magno, V, 1-4); Regula pastoralis, a cura di B. Judic, I-II, Paris 1992. Repertori delle opere: Repert. fontium hist. Medii Aevi, V, pp. 227-230; E. Dekkers, Clavis patrum Latinorum, Steenburgis 1995, pp. 552-562. Strumenti: Thesaurus s. Gregorii Magni. Series A, Enumeratio formarum e Concordantia formarum, a cura del Centre de traitement électronique des documents de l'Université catholique de Louvain, Turnhout 1986.
Fonti e Bibl.: Si rinvia a S. Boesch Gajano, G. I, in Enciclopedia dei papi, I, Roma 2000, pp. 571-574. Si aggiungano: C. Leyser, Authority and ascetism from Augustin to Gregory the Great, Oxford 2000; R.A. Markus, G. Magno e il suo tempo, Milano 2000. Per ulteriori indicazioni v. Archivum historiae pontificiae, I (1963) e successivi e Medioevo latino, I (1979) e successivi.