GHERI (Ghieri, Gieri), Gregorio (Goro)
Nacque a Pistoia, da Baronto, intorno al 1470. Studiò all'Ateneo pisano dal novembre 1488 e dopo il conseguimento del dottorato in utroque iure ottenne nel 1495 la prima lettura "straordinaria di diritto canonico" presso lo stesso Studio pisano-fiorentino con lo stipendio di 25 fiorini annui. Assunto come docente, nel 1495 e nel 1496 il G. tenne la cattedra straordinaria di diritto canonico; fu quindi trasferito alla lettura straordinaria di diritto civile (ottobre 1497), che mantenne anche nel 1498, con sede a Prato e a Firenze a causa del trasferimento dello Studio dovuto alle discordie civili che laceravano Pisa.
Nei primi anni del Cinquecento, il G. fu impegnato nelle contese tra le principali fazioni cittadine: nel 1500 esortò i capi della parte panciatica, filomedicea, a resistere alle ultime sanguinose azioni dei Cancellieri. Le cronache lo descrivono come un animoso organizzatore degli scontri: "dandosi da fare quanto poteva" (Fabroni, p. 14). Intorno al 1505 fu tra i capi della parte panciatica citati a Firenze, ma rifiutò di obbedire e insieme con altri compagni "caduti in bardo di ribello, in diversi luoghi, dove havevano loro amici andarono ad habitare" (ibid., p. 57). Non è tuttavia possibile ricostruire in dettaglio gli anni precedenti il 1513, durante i quali fu con ogni probabilità a servizio dei Medici esuli, che lo avevano conosciuto e apprezzato dal tempo della sua presenza allo Studio pisano, dove nel 1489 studiava diritto anche Giovanni de' Medici. Restaurati i Medici a Firenze, il G. ottenne da Leone X (Giovanni de' Medici) la nunziatura in Svizzera nell'autunno del 1513.
Il papa, infatti, dopo la sconfitta francese a Novara (giugno 1513) lavorò, almeno formalmente, a una pacificazione generale, in palese rottura con la politica precedente, dichiaratamente antifrancese. Portavoce di questo mutato orientamento, il G. fu inviato in Svizzera per rinnovare l'alleanza con i Cantoni voluta da Giulio II nel 1510, nonché per caldeggiare la pace tra gli Svizzeri e la Francia. In queste trattative il G. affiancava Ennio Filonardi, nunzio in Svizzera dalla primavera precedente, esperto conoscitore del paese e degli aderenti alla Confederazione. Il 27 ott. 1513 il pontefice avvisava Filonardi dell'imminente arrivo del collega e il 6 novembre i nunzi si incontrarono a Milano, dove tennero i primi colloqui con i membri della Confederazione. Il 13 dicembre parteciparono all'Assemblea dei confederati a Zurigo e trattarono per includere Firenze nell'accordo concluso dal papa con gli Svizzeri: questo avrebbe comportato il versamento da parte medicea di contributi sui sussidi annui percepiti da ogni Cantone. Il papa, infatti, voleva che anche il nipote Lorenzo di Piero de' Medici, da pochi mesi al governo fiorentino, aderisse al rinnovo dell'alleanza del 1510 e a tal fine il G. si era fermato a Firenze, prima di recarsi in Svizzera, a conferire con Lorenzo. La missione del G. in Svizzera non ebbe però esiti positivi. In una lettera del 28 marzo 1514 Giulio e Giuliano de' Medici criticavano il suo operato, lamentando la scarsa prudenza con cui erano state condotte le trattative, durante le quali il G. era "uscito di commessione" per "havere dato in scriptis a cotesti s.ri molti particulari, che de directo sono contrari a quella Maestà [Luigi XII], come è lo offerire le 500 lance per la defensione del duca di Milano, del volere N. S.re concorrere con loro a la guerra…" (Wirz, p. 11).
Il tentativo di accordo tra Francia e Confederazione era dunque fallito e il G., redarguito da Roma per l'accaduto, si era mostrato irritato nel giustificare la propria condotta. Nella lettera del 18 apr. 1514 Giulio e Giuliano impartivano al nunzio istruzioni su come procedere nel rinnovo dell'alleanza con i Cantoni svizzeri per altri sei anni, ma anche in questo caso il G. mostrò scarsa abilità diplomatica: all'Assemblea del 24 aprile non riuscì a firmare la nuova alleanza con la Confederazione. Fu perciò criticato una seconda volta e convocato perentoriamente a Roma, con l'ordine di lasciare le trattative nelle mani di Filonardi.
Non sembra, tuttavia, che l'insuccesso della missione abbia pregiudicato i suoi rapporti con il papa e gli altri membri del casato mediceo. Il 12 maggio 1515 fu nominato governatore di Piacenza, succedendo a Lorenzo Campeggi. "Molto onoratamente incontrato e ricevuto" (Lettere di monsignor G. G.…, p. 15), entrò in città l'8 giugno 1515 per rimanervi fino al 25 ottobre, quando, dopo la battaglia di Marignano (13 sett. 1515), Piacenza passò sotto la dominazione francese. Il G. si propose innanzitutto di pacificare la città per poterla meglio sottomettere allo Stato della Chiesa. Occorreva "redurre" Piacenza attraverso un buon governo, "il quale consiste principalmente nella giustizia" (ibid., p. 44). Questo era, secondo il G., il mezzo più efficace per porre fine alle turbolenze civili di quella che riteneva la più importante tra le città (inoltre Modena, Reggio e Parma) affidate in governo perpetuo a Giuliano de' Medici, capitano generale della Chiesa dal 10 genn. 1515. Il G. - all'epoca protonotario apostolico - impedì con pubblici bandi "il portar dell'arme", rafforzò il bargello e fece restaurare le mura, rivendicò la custodia delle chiavi e la guardia delle porte della città, soprattutto amministrò rigorosamente la giustizia, infliggendo pene pesanti per ridurre la città all'obbedienza. Il 20 giugno 1515, a poco meno di due settimane dal suo arrivo, informava con compiaciuta soddisfazione Giuliano de' Medici di aver dato buon avvio al suo governo e di aver restituito quiete e sicurezza alla città, tenendo sotto stretto controllo i nobili piacentini - i "cappellacci" - responsabili di azioni vessatorie nei confronti del popolo. Se riuscì in breve volgere di tempo a ristabilire l'ordine, già nell'estate del 1515 il G. dovette difendere Piacenza dalle ingerenze di Francesco I re di Francia, desideroso di riacquistare lo Stato di Milano: "non si attende altro che a sollevare gli uomini a far garbuglio" scriveva il 28 luglio a Giuliano per informarlo dei collegamenti delle famiglie nobili locali con l'esercito francese, ma soprattutto per reclamare contingenti armati a difesa delle terre lombarde. Nella guerra che doveva condurre alla rotta di Marignano il G. ebbe un ruolo attivo nel coordinare le azioni militari che si svolsero nel Piacentino: il 12 luglio 1515 il cardinale Giulio de' Medici, nominato da Leone X legato presso l'armata papale, lo aveva creato suo vicelegato a Piacenza, conferendogli anche facoltà particolari riguardo a benefici ecclesiastici, visite e riforme di monasteri. Il 9 agosto il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, dalla Francia, chiedeva a Lorenzo de' Medici di incaricare il G. dell'invio di truppe in difesa di Alessandria. Il G. mise a disposizione 300 lance senza potere evitare, pochi giorni dopo, la capitolazione della città, avvenuta a suo parere, più "per la poca provvisione vi era che per forza dei nemici" (Lettere di monsignor G. G.…, p. 114). Sempre in agosto il G. ricevette da Roma, e con il consenso del duca di Milano, l'incarico di curare la costruzione di un ponte sul Po "per poter passare lo essercito del viceré" di Napoli Ramón de Cardona, collegato alle truppe pontificie (ibid., p. 111); la costruzione fu conclusa a fine agosto 1515.
Le lettere del G. dell'agosto 1515 a Giulio, Giuliano e Lorenzo de' Medici, oltre a fornire precise informazioni sulle varie fasi delle operazioni militari, evidenziano il suo grande impegno nel segnalare i bisogni più urgenti e nel dirigere forze spesso disgregate. Convinto che non fosse il momento di lesinare alcuno sforzo economico, egli riteneva che le due "gagliarde borse" a disposizione del papa - la propria e quella dei Fiorentini - dovessero essere impiegate non tanto per la conservazione dell'autorità pontificia, quanto per il prestigio che i Medici avrebbero conseguito con la vittoria delle truppe papali. I giudizi del G. sono tutt'altro che ambigui e precise sono le sue valutazioni sulle azioni militari: egli riteneva infatti necessario unire con la massima sollecitudine l'esercito papale con quello fiorentino di Lorenzo, che era stato nominato capitano delle truppe da condurre in Lombardia in sostituzione dello zio Giuliano, da poco ammalatosi. Infine anche l'esercito del viceré si sarebbe riunito alle truppe fiorentine e pontificie, in modo da formare una "grossa testa" da affiancare ai collegati svizzeri per assicurare la vittoria sui Francesi; diversamente sarebbero state messe in pericolo le sorti dell'intera penisola.
Tuttavia il G. doveva fare i conti in loco con i problemi relativi al controllo degli alloggiamenti militari, alle continue richieste di denaro da parte dei soldati e soprattutto alla lentezza e al carattere del tutto eterogeneo delle truppe in arrivo. A Giulio e a Lorenzo de' Medici chiedeva l'invio sollecito di contingenti uniti e fedeli, mentre constatava con rammarico che le genti d'arme "servono molto freddamente" (Lettere di monsignor G. G.…, p. 106). A fine agosto, ricordando a Giuliano gli sforzi fatti per infondere negli Anziani della città fede e devozione alla Sede apostolica, il G. comunicava che "da Milano in qua le cose sono a mal termine" (ibid., p. 107) senza nascondere il suo disappunto nel rilevare che tutto ciò accadeva non tanto per la forza dei nemici, quanto per "le tarde e poche provvisioni" da parte della Lega, conseguenza certo non secondaria dell'incerta politica papale. Il G. lasciò Piacenza, ormai francese, il 25 ott. 1515. L'ultima sua lettera, del 3 settembre, annunziava solo l'arrivo a Marignano del cardinale Matteo Schiner e il collegamento compiuto di tutte le truppe francesi, preludio dell'imminente vittoria dell'esercito di Francesco I.
Al termine della guerra rientrò a Firenze come segretario di Lorenzo de' Medici e dopo la morte di questo rimase al fianco del cardinale Giulio, aiutandolo nel governo della città prima che questa venisse affidato al cardinale Silvio Passerini.
Segretario devoto, qualificato e avveduto, il G. fu un fidato collaboratore di Lorenzo nel governo di Firenze soprattutto durante le sue ripetute assenze dalla città, per la campagna di Urbino o per il matrimonio con Madeleine de La Tour d'Auvergne, che costrinsero Lorenzo ad affidargli, non senza l'aiuto vigile della madre Alfonsina Orsini, la responsabilità della politica cittadina. Il sistema di governo privilegiava, entro una cornice formalmente repubblicana, una politica tendenzialmente autoritaria, frutto di accordi con gli ottimati, rappresentanti delle antiche famiglie patrizie cittadine e sostenitori dei Medici. Le lettere del G. degli anni 1515-19 indicano come al centro delle preoccupazioni di Lorenzo e dei suoi collaboratori fossero gli interessi personali e le ambizioni dei seguaci, piuttosto che i dibattiti sulle istituzioni e sulle riforme. Il G. manteneva i legami privati e le relazioni familiari tra gli "amici" politici e Lorenzo: informava costantemente il suo signore della loro condotta, esponeva le proprie valutazioni su come tenerli uniti oppure su come allargare la clientela dei fautori e, nello stesso tempo, badare agli avversari. Per accattivarsi la fedeltà dei sostenitori del governo occorreva elargire benefici, ma - sosteneva il G. - con grande cautela e seguendo l'esempio del Magnifico, il quale "quando voleva onorare una persona la faceva salire a scalone per scalone e non montare sul tetto con un passo" (Arch. di Stato di Firenze, Copialettere di G. Gheri, IV, c. 210). Il principe è dunque forte e stabile per le amicizie di cui può disporre, più che per la solidità delle istituzioni e quindi il G. consigliava di sorvegliare continuamente le aspirazioni delle famiglie patrizie, impedendo anche alleanze matrimoniali pericolose, e suggeriva diffidenza nei confronti di ognuno per cautelarsi dalla volubilità dell'animo umano. Il ruolo delle amicizie politiche era stato sottolineato da Leone X nell'Istruzione diretta a Lorenzo all'inizio del suo governo a Firenze: gli affari economici dei sostenitori vanno collegati alle sorti dei Medici in modo tale da farne dei difensori convinti e interessati; le magistrature più importanti devono essere ricoperte dagli amici più fidati e la giustizia deve essere imparzialmente amministrata tenendo in conto i poveri e i sudditi del dominio.
Il G. recepì prontamente queste indicazioni come basilari e anzi le aveva già fatte proprie durante il governo di Piacenza quando, in un Memoriale scritto nel luglio del 1515 per Giuliano de' Medici, sottolineò l'urgenza di beneficare il popolo e tutelare gli abitanti del contado dall'eccessiva giurisdizione dei feudatari. Nell'ottobre 1515 propose a Lorenzo di istituire due cittadini "amatori di giustizia" che controllassero l'attività dei rettori nelle terre del dominio fiorentino per fare "una dimostrazione universale e ai rettori e uffiziali desse rispetto e timore e ai popoli desse speranza e facesse benevolenza" (ibid., I, c. 130).
Durante la guerra per la conquista di Urbino, mentre Lorenzo combatteva contro le truppe di Francesco Maria Della Rovere in Romagna, il G., rimasto a Firenze per tutelare gli interessi di casa, fu in costante rapporto epistolare con quanti si trovarono più o meno direttamente coinvolti sul campo di battaglia. Fra questi era Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, che lo informava puntualmente dei progressi delle truppe assoldate da Francesco Maria e dei movimenti dell'esercito di Lorenzo, reclamando maggiori aiuti militari per arginare i devastanti passaggi dei nemici. Al G., portavoce dei Medici di Roma prima che di quelli di Firenze, Guicciardini chiese con una certa insistenza, dal dicembre 1516, di intercedere in suo favore in Curia per fargli ottenere anche il governo di Reggio: il 3 luglio 1517, inviandogli il breve di nomina a governatore di Reggio, il G. gli esternava la soddisfazione del papa, del cardinale Giulio e di Lorenzo per la prudenza e le virtù da lui dimostrate. Il segretario e il governatore non servivano "patroni" diversi; entrambi lavoravano, anche se in ambiti distinti - la Repubblica fiorentina e lo Stato pontificio - alla gloria dello stesso casato: è questa una convinzione irrefutabile che il G. palesa ripetutamente nelle sue lettere.
Nel maggio 1517 fu scoperta a Roma una congiura dei cardinali Alfonso Petrucci e Bandinello Sauli, che tentarono di avvelenare il papa: il G. fece catturare e poi giustiziare a Firenze "maestro Batista da Verzelli il quale è uno di quelli che aveva ad essere ministro di questa ribalderia" (Guicciardini, III, p. 535).
Il 10 nov. 1518 il G., da semplice clericus, ottenne da Leone X la diocesi di Fano, dopo che erano falliti un anno prima i tentativi di nomina al vescovato di Alessandria, cui Francesco I si oppose nonostante l'impegno del nunzio in Francia Giovanni Staffileo. Tenne il vescovato di Fano fino al 17 febbr. 1524, quando per sua rinuncia - previa riserva della metà dei frutti, della collazione dei benefici e del titolo - la diocesi fu affidata in amministrazione perpetua al cardinale Ercole Gonzaga, in quanto il nipote del G. da lui designato come successore, Cosimo, era ancora adolescente. L'episcopato era una sorta di ricompensa al devoto e antico servitore di casa Medici.
La morte di Lorenzo (duca di Urbino dal 1516) aprì a Firenze una crisi innestatasi sul malcontento, diffuso fra i suoi sostenitori, per le sue tendenze autoritarie manifestate almeno dall'epoca della nomina a capitano della Repubblica fiorentina. Jacopo Pitti descrive Lorenzo sul letto di morte mentre, febbricitante di mal francese, "volendo in tutto compiacere a se stesso, governare non si lasciava: niuno eccetto che messer Goro, gli ricordava il suo bene" (Storia fiorentina, pp. 118 s.). E anche il G., in una lettera al Bibbiena il giorno della morte di Lorenzo, confidava di essere fuori di sé per l'accaduto e di "desiderare più presto andare dietro a miei patroni che restare" (Arch. di Stato di Firenze, Copialettere di G. Gheri, IV, c. 330). Dopo la morte di Lorenzo, nella Istruzione per Roma a Leone X il G. illustrava il suo atteggiamento nei confronti del governo mediceo di Firenze, dichiarando di scrivere spinto dalla sua "fedelissima servitù et amore" (Albertini, p. 360).
Per dare una successione alla casa e perpetuarne l'autorità era opportuno richiamare la lezione di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Magnifico, i quali avevano governato "civilmente et honorevolmente questa repubblica" e avevano poi fatto "electione d'un numero di tanti ciptadini che bastino per il governo di quello stato e quali vorrebbero essere naturalmente amici boni et savi" (ibid., p. 361). Suggeriva, quindi, d'inviare a Firenze Ippolito, figlio naturale di Giuliano duca di Nemours, ancora minorenne ma rappresentante della famiglia, e quindi potenziale legame tra l'esperienza politica trascorsa e quella futura, segno comunque di continuità e di reputazione per la casa. A lui il G. avrebbe dato in moglie non una cittadina fiorentina ma Caterina, figlia di Lorenzo. Insisteva sul tema dell'amicizia politica come fondamento stesso dell'attività di governo, perché "in tutti e casi che sono accorsi a questa illustrissima casa, li amici soli et non li altri, sono quelli che la hanno preservata" (ibid., p. 362). Non vi sarebbe stato bisogno di riforme istituzionali, ma solo di una fine e sapiente opera per guadagnare gli amici con onori e remunerazioni. Il G. raccomandava infine di sorvegliare attentamente le ambizioni dei parenti e di non permettere che alcune famiglie potenti diventassero troppo forti. Se nell'Istruzione affiorano elementi che anticipano la situazione fiorentina dopo il 1530 - segnatamente il riconoscimento di un capo mediceo per dare stabilità al potere - il G., interpretando il malumore di un largo settore dell'aristocrazia per gli orientamenti autoritari degli ultimi anni di governo di Lorenzo, ribadiva che l'ordinamento istituzionale esistente doveva essere mantenuto perché i tempi non erano maturi per un mutamento in direzione del principato.
Dopo la stretta collaborazione con Lorenzo de' Medici, il G. tornò al servizio dell'amministrazione pontificia. Leone X lo nominò per la seconda volta governatore di Piacenza, riguadagnata insieme con Parma allo Stato della Chiesa dalle truppe svizzere nell'autunno 1521; vi restò dal 29 nov. 1521 al 28 maggio 1524. Creato da Clemente VII alla fine del 1524 governatore di Bologna e vicelegato al posto di Altobello Averoldi, il G. vi giunse ai primi di gennaio del 1525. Pietro Bembo, dopo aver trascorso la Pasqua nella città, osservava di lui: "governa così bene quella città, e nella giustizia e nelle altre parti del suo ufficio, che non si potrebbe lodarlo a bastanza" (Lettere, p. 245).
Rimase a Bologna fino alla morte, avvenuta nel 1528.
La fedeltà e la devozione con cui il G. aveva servito i Medici sia nell'amministrazione pontificia sia a Firenze sono forse le caratteristiche più ricorrenti nei giudizi sulla sua attività di accorto governatore ed efficiente segretario, piuttosto che di abile diplomatico. Non mancarono fra i contemporanei valutazioni negative, imputabili forse all'autoritarismo e all'arroganza con cui cercò di gestire l'intricata trama di relazioni personali e ambizioni familiari su cui poggiava il governo di Lorenzo: Benedetto Varchi lo definì "superbo e villano", altri aggiunsero che era anche d'aspetto sgradevole in quanto strabico e affetto da mal francese (nel 1520 Giovanni Martigegni gli dedicò la sua opera De morbo gallico). Alle competenze giuridiche che lo resero altamente qualificato come uomo politico unì una grande sagacia e capacità nel disbrigare i negozi e gli affari privati dei Medici, tanto da prefigurare - come sottolinea la storiografia che di lui si è occupata - i funzionari del principato, appartenenti al dominio e non cittadini fiorentini, per lo più esperti giuristi e soprattutto legati al signore da un rapporto di profonda e devota collaborazione. Il servizio alla Chiesa, infine, specie dopo aver ottenuto la dignità episcopale, risollevò a Pistoia la reputazione della famiglia, che poté godere della protezione papale e ricoprire anche più importanti cariche civiche. Non solo, la possibilità di disporre di benefici ecclesiastici, ricevuti come ricompensa di un fedele e ininterrotto servizio, unita alla ragguardevole posizione raggiunta nella corte papale, facilitarono la carriera ecclesiastica dei nipoti Cosimo e Filippo, figli del fratello Evangelista.
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