GREGORIO di Montesacro
Di lui sappiamo quasi esclusivamente ciò che egli stesso ci dice nell'epistola di dedica della sua opera più importante, il Peri ton anthropon theopysis, destinata al cardinale Tommaso di Capua. Era pugliese di origine; il suo vero nome - che compare in uno dei due manoscritti che riportano le sue opere - era Petrus Carus, che Udo Kindermann ha supposto essere la latinizzazione di un diminutivo volgare quale Petruccio o Petracca. Il nome Gregorio venne da lui assunto all'età di dieci anni in onore del suo protettore, il cardinale Gregorio di S. Maria in Portico, che lo adottò e lo introdusse nello stato monastico; poiché questo avvenne quando il cardinale era legato apostolico, fra il 1197 e il 1202, l'anno di nascita di G. andrà collocato fra il 1187 e il 1192. Dopo la morte del suo patrono G. fu al servizio di un altro cardinale, Ruggero, titolare dal 1205 della chiesa di S. Anastasia e maestro di teologia: in questi anni dovette ricevere da lui un'ottima formazione ecclesiastica e letteraria, che andò a completare gli studi che già il giovane monaco doveva avere intrapreso come autodidatta. Morto anche Ruggero nel 1213, G. compì un viaggio che lo portò prima in Inghilterra e poi a Parigi, dove ascoltò intorno al 1217 le lezioni del maestro Pietro Capuano, cardinale di S. Giorgio in Velabro. Al ritorno in Italia gli fu attribuito l'abbaziato del monastero della Trinità del monte Sacro, la più alta vetta del Gargano, che era direttamente soggetto a Roma; in questa carica lo attesta insediato un documento del 30 nov. 1220. Della sua attività di abate - il decimo della serie - sappiamo assai poco. Egli contribuì comunque al miglioramento architettonico dell'edificio, come è attestato da un'epigrafe del 1225, che non permette però di capire esattamente quali siano state le opere da lui fatte eseguire; svolse inoltre due missioni come fiduciario del papa, intervenendo in controversie che interessavano l'abbazia di S. Maria di Pulsano e l'arcivescovato di Bari. Durante il suo governo l'abbazia, che controllava una trentina di chiese e sei priorati in undici diocesi, sembra aver vissuto un momento di prosperità e splendore; ma in seguito alla distruzione dell'archivio del monastero, avvenuta nel 1620 durante l'incendio di Siponto, dove era stato trasportato, non possediamo in proposito dati precisi. G. viene menzionato per l'ultima volta da vivo in un documento del 30 dic. 1241; secondo un altro documento, egli risulta già morto, probabilmente da poco, alla data del 30 apr. 1248.
Il nome di G. è legato alla sua produzione letteraria, che gli valse già in vita fama di uomo di grande cultura: secondo il suo epitaffio, con ogni probabilità da lui stesso dettato, egli era "magnus sophista putatus". Le sue opere sono conservate in due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana: il Vat. lat. 5977 (indi Vat.) e il Barb. lat. 2089 (indi Barb.). Entrambi i manoscritti sono coevi all'autore e appaiono scritti sotto il suo controllo; se, come è probabile, la copiatura venne eseguita nell'abbazia di Monte Sacro, ciò dimostra che essa era dotata di uno scriptorium ben organizzato e aggiornato rispetto alle tendenze grafiche europee dell'epoca. Ciascuno dei due manoscritti costituisce una raccolta degli scritti di G.; essi, pur se strutturalmente simili, non sono però uguali. Il codice Barb. rappresenta certamente una fase più antica di elaborazione della raccolta; pur non potendosi considerare un manoscritto di lavoro, ma già una copia finita, in ragione della buona qualità della scrittura e del grado di elaborazione formale raggiunto dai testi, esso presenta numerosi interventi fatti eseguire dall'autore, come aggiunte di versi o di glosse o correzioni al testo preesistente. Il codice Vat. rappresenta invece una copia finale dell'opera, sulla quale gli interventi di integrazione o di correzione, per quanto non del tutto assenti, sono però in numero assai limitato; anche l'aspetto esteriore del codice e la maggiore cura dell'ornamentazione denunciano che esso venne redatto con intendimenti di rappresentanza. L'esame comparato dei due manoscritti permette perciò di apprezzare l'evoluzione della raccolta nel corso del tempo. Alcuni dei testi presenti in ambedue i codici compaiono nel Vat. in una forma più ampia, mentre i casi in cui il Barb. contenga testi che non figurano nel Vat. sono da imputare a un fatto accidentale, la caduta di alcuni fogli occorsa in quest'ultimo codice. Inoltre, il solo manoscritto Vat. è completato da un'introduzione che comprende alcune genealogie bibliche, una descrizione dei gradi dell'ascesa mistica e una lettera a Risando, vescovo di Molfetta (attestato fra il 1223 e il 1258), nella quale G. sottopone la sua opera alla censura del prelato, valendosi di uno stile ampolloso e ricco di simbolismi. Tali testi occupano un fascicolo di 4 fogli all'inizio del manoscritto, che è abnorme rispetto alla struttura abituale del codice, organizzato per lo più in quaternioni. È probabile che il fascicolo sia stato dunque aggiunto in seguito, a libro già ultimato; la presenza della lettera a Risando farebbe pensare che l'integrazione si debba ancora a Gregorio di Montesacro.
L'opera principale di G., il Peri ton anthropon theopysis (o De hominum deificatione), è un poema didascalico di notevole ampiezza e complessità. Il poema è in sette libri, e comprende circa 13.000 esametri, corredati da un ricchissimo commento perpetuo di annotazioni e glosse; tale commento è collocato nei vasti spazi appositamente lasciati in bianco nei margini dei manoscritti. L'ultimo libro dell'opera venne completato dopo la canonizzazione di Francesco d'Assisi (luglio 1228), che vi viene menzionata, ma prima della morte del cardinale Tommaso di Capua (1239), cui l'opera è dedicata; se l'inondazione del Tevere, cui pure nel settimo libro vi è accenno, è quella del 2 febbr. 1230, il terminus post quem va ulteriormente spostato in avanti. L'opera aveva avuto una lunghissima fase di elaborazione, perché G. dice di averla concepita già quando era "adulescentulus" e di averne scritto degli abbozzi su schede e tavolette cerate; modifiche progressive continuarono a essere fatte, come si è detto, anche dopo la preparazione di una prima copia ufficiale, quella dell'attuale codice Barberiniano. Il testo è, per la maggior parte, inedito; oltre alle sezioni introduttive, sono stati pubblicati finora - integralmente o parzialmente - soltanto il primo e il settimo libro, rispettivamente da Ronquist e da Tamburini. Il poema si presenta come un'enciclopedia universale, in cui il materiale è ordinato sulla base di associazioni logiche con i sette giorni della creazione, a ciascuno dei quali è riservato un libro dell'opera; ogni argomento viene trattato seguendo lo schema delle categorie tradizionali dell'esegesi biblica, ovvero illustrandone il significato letterale, allegorico, morale e anagogico, e mettendolo in relazione con la storia della salvezza. Il primo libro tratta della creazione, della misericordia divina, della storia del popolo di Dio fino all'esilio in Egitto, delle parti del giorno; il secondo del firmamento, degli angeli e dei demoni, dell'esodo dall'Egitto, del battesimo; il terzo dell'acqua, dei vegetali, delle tentazioni del Cristo; il quarto degli astri, dell'elezione degli apostoli, della legge evangelica; il quinto dei pesci, degli uccelli, della Passione e Resurrezione del Cristo; il sesto degli animali terrestri, della prima creazione dell'uomo e della sua nuova creazione operata dal Cristo; il settimo del paradiso terrestre, della caduta dell'uomo, del nuovo mondo inaugurato dalla Passione del Cristo, dei martiri e dei santi. L'architettura generale del poema, complessa ma ingegnosa, si ricollega al filone dell'enciclopedismo medievale a sfondo biblico, abbastanza praticato nell'Europa centrale, ma meno diffuso in Italia. G. dimostra buona tecnica di versificazione, notevole dimestichezza con le procedure di analisi scolastiche e ampia conoscenza delle opere patristiche, classiche e medievali; anche se gli auctores sono solo di rado esplicitamente citati, G. utilizza fra gli altri Platone, Aristotele, Calcidio, Cicerone, Virgilio, Lucano, Servio, Macrobio, Fulgenzio Planciades, Agostino, Giovanni Cassiano, Boezio, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia, Giovanni Damasceno, Remigio di Auxerre e Goffredo da Viterbo. Il poema è evidentemente destinato alla scuola, come indica anche la presenza di un accessus iniziale, che, presentando fra l'altro una sorta di elenco degli argomenti trattati, ne facilita la consultazione.
Il Peri ton anthropon theopysis occupa la maggior parte dei codici Barb. e Vat.; in entrambi esso è seguito da una serie di componimenti poetici minori, talvolta di discreta estensione, che sono stati pubblicati da Kindermann. Nel solo manoscritto Vat. si trovano il già citato epitaffio e un carme elogiativo del poema maggiore, opera dichiarata di un iudex Enrico di Villanova, non altrimenti conosciuto, probabilmente un amico o un corrispondente di G.; l'assenza dei due testi dal codice Barb. e gli argomenti trattati fanno ritenere che essi siano componimenti posteriori agli altri. In ambedue i manoscritti si trovano invece altre opere, e precisamente: 1) De ordine salutis (la denominazione è quella proposta da Kindermann, poiché il componimento è privo di titolo nei codici), un carme sulla storia della salvezza e sull'Incarnazione; in una prima stesura, attestata dal codice Barb., il componimento comprendeva 25 esametri, ma nello stesso codice ne sono stati poi aggiunti altri quattro (probabilmente per la ragione estetica di completare lo spazio a disposizione) da una mano che potrebbe essere quella di G. medesimo, e tutti e 29 i versi sono stati trascritti poi nel codice Vat.; 2) De microcosmo (anche in questo caso il titolo è quello attribuito da Kindermann), in 9 quartine rimate e acrostiche, è posto al termine della raccolta nel manoscritto Barb., mentre nel Vat. si trova poco dopo il poema maggiore, dove sarà stato probabilmente spostato per affinità di argomento; 3) una lunga Oratio in 253 esametri; 4) Flores psalmorum, una raccolta di 150 quartine di ottonari rimati, in ognuna delle quali è ripreso il tema di uno dei Salmi; ogni quartina è accompagnata dalla citazione di uno o più versetti del salmo corrispondente; 5) Cur Deus homo, una sorta di dialogo drammatico sulla storia della salvezza, con toni fortemente allegorici; esso è composto da 1098 versi ritmici, suddivisi in 362 strofe, di fattura notevolmente variata; 6) In assumptione gloriosae Virginis Dei Genitricis Mariae, una sequenza in 25 strofe ritmiche, anch'esse metricamente diversificate; 7) In sanctis quorum reliquias habemus, una sequenza in 26 strofe di ottonari e settenari, a ritmo regolare, in onore dei santi le cui reliquie erano conservate nel monastero di Monte Sacro; 8) Ymnus in festivitate sanctorum quorum reliquias habemus, in 19 strofe regolari di 3 endecasillabi e un quinario. Soltanto nel manoscritto Barb. si trovano poi alcune sequenze, formalmente analoghe a quella In sanctis, che celebrano singolarmente alcuni dei martiri venerati nel monastero, e precisamente Felice e Adautto, Nemesio e Sebastiano; e delle Antiphone e dei Responsoria, rispettivamente in 22 e in 11 strofe di esametri. L'assenza di questi componimenti dal manoscritto Vat. si spiega con la mutilazione che interessa la parte finale di tale codice. Tutte queste opere minori sono attribuibili a G., oltre che per la loro unione al poema maggiore, anche per affinità di stile, quantunque non tutte riportino esplicitamente il nome dell'autore.
Le opere di G., riscoperte da Angelo Silvagni all'inizio del Novecento, sono state negli ultimi anni oggetto di studi da parte di Filippo Tamburini, Udo Kindermann e Eyvind C. Ronquist. Grazie al contributo di questi studiosi sono stati pubblicati gli scritti minori di G., che occupano la parte finale dei due manoscritti, e parti del Peri ton anthropon theopysis; manca tuttora un'edizione completa dell'opera maggiore, la cui realizzazione appare di notevole complessità, soprattutto in considerazione dell'intreccio fra testo e glosse e della presenza di due redazioni d'autore.
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