Toland, Gregg
Direttore della fotografia statunitense, nato a Charleston (Illinois) il 29 maggio 1904 e morto a Hollywood il 28 settembre 1948. Personaggio geniale dalla vita particolarmente irrequieta, responsabile della fotografia di film indimenticabili quali Wuthering heights (1939; La voce nella tempesta) di William Wyler, con cui ottenne il premio Oscar nel 1940, con il suo imprescindibile contributo a Citizen Kane (1941; Quarto potere) diretto da Orson Welles, si impose come il più rivoluzionario e stimato operatore del cinema hollywoodiano in bianco e nero grazie al suo enorme talento artistico e alle inesauribili doti di sperimentatore, che gli consentirono di portare al definitivo perfezionamento la tecnica del panfocus, in modo da estendere la profondità di campo e da mettere perfettamente a fuoco tutti gli elementi di un'inquadratura.
Dopo studi tecnici, frequentò giovanissimo gli ambienti della Fox Film Corporation, per poi iniziare la sua carriera a soli sedici anni in qualità di assistente alla fotografia, prima con le comiche di Al St. John, e successivamente negli studi di Samuel Goldwyn, dove nel corso degli anni Venti ebbe l'occasione di crescere alla scuola di operatori del calibro di George Barnes e Arthur Edeson ‒ con cui collaborò a The bat (1926) di Roland West, uno dei primi film a contenere esempi di profondità di campo ‒, e di venire influenzato dagli esperimenti architettonici dello scenografo William Cameron Menzies. A ventisette anni, con il musical Palmy days (1931; Il re dei chiromanti) di A. Edward Sutherland, divenne il più giovane operatore capo di Hollywood, e in poco tempo la sua innata capacità nel tradurre le innovazioni tecnologiche in nuove possibilità sul piano narrativo, gli procurò un'indipendenza d'intervento mai accordata in precedenza a nessun altro tecnico (T. lavorò sempre con gli stessi assistenti, e nonostante il contratto che lo legava a Goldwyn, ebbe la libertà di collaborare anche con altri studios, come la Metro Goldwyn Mayer, o la RKO Radio Pictures).
Già agli albori del sonoro, una speciale copertura di sua invenzione permise di ridurre il fruscio delle macchine da presa dell'epoca, concedendo ai registi la possibilità di riprese ravvicinate, senza che per questo le voci degli attori venissero coperte dal rumore. Gli sforzi di T. furono comunque sin dall'inizio orientati in funzione dell'arricchimento della visione prospettica, in senso sia spaziale sia cromatico. Durante gli anni Trenta, l'insofferenza nei confronti delle limitazioni imposte dallo shallow focus ‒ la messa a fuoco dell'elemento centrale dell'azione narrativa a scapito dello sfondo, resa obbligata dalla bassa sensibilità delle pellicole dell'epoca ‒ si evidenziò innanzi tutto in un incessante lavoro nella composizione della luce nel bianco e nero (T. non lavorò mai con il colore), che permise al giovane operatore di esibire il suo marchio inconfondibile passando attraverso vari registri espressivi: dall'impressionismo pittorico delle immagini di We live again (1934; Resurrezione) di Rouben Mamoulian e The wedding night (1935; Notte di nozze) di King Vidor, allo stile espressionistico di Les misérables (1935; Il sergente di ferro) di Richard Boleslawsky e del noir Dead end (1937; Strada sbarrata) di Wyler, fino ad arrivare al furore romantico di Wuthering heights o al realismo sociale di Grapes of wrath (1940; Furore) di John Ford. Alla fine del decennio, con l'uscita sul mercato di pellicole più sensibili come le Kodak Super XX, T. riuscì a portare alle estreme conseguenze il suo eclettismo, teso verso una crescente approssimazione della visione filmica a quella dell'occhio fisiologico. Il film della svolta fu The long voyage home (1940; Viaggio senza fine) di Ford, nel quale T. abolì la consuetudine di illuminare la scena dall'alto, spostando così le fonti di luce a livello del terreno; tale innovazione permise, nelle riprese in interni, l'inquadratura dei soffitti, prima di allora celati alla visione dello spettatore, e soprattutto un incremento della percezione prospettica, insieme a una migliore definizione dell'immagine nei contrasti tra il bianco e il nero. Fu però grazie all'incontro con Welles che T. poté lavorare al perfezionamento della resa della profondità di campo; sfruttando per il bianco e nero l'illuminazione prodotta dalle potentissime lampade usate per le riprese in Technicolor, riuscì a chiudere il diaframma della sua macchina da presa ‒ una Mitchell Bnc ‒ a livelli mai raggiunti. Ciò consentì in Citizen Kane, grazie anche alle lenti grandangolari 24 mm trattate con antiriflesso, l'estensione della messa a fuoco lungo tutto l'asse dell'inquadratura, e quindi la coesistenza nell'immagine di più centri di attenzione, fornendo così allo stile barocco wellesiano la base fondamentale per esprimere la sua fluidità di ripresa, e dare libero sfogo alla continuità drammatica dello spazio nel piano-sequenza. In questo senso, Welles fu il primo a riconoscere l'importanza assoluta del contributo del suo operatore, permettendo al nome di T., come già aveva fatto Ford, di apparire da solo nei titoli di testa, un onore mai concesso a nessun altro direttore della fotografia del cinema statunitense classico. Nonostante la diffidenza iniziale da parte degli studios nell'accogliere la rivoluzione introdotta dalla profondità di campo (tanto che alla fotografia di Citizen Kane non fu riconosciuto l'Oscar), T. continuò a raffinare la tecnica del panfocus per tutti gli anni Quaranta, in film come Balls of fire (1941; Colpo di fulmine) di Howard Hawks, The outlaw (1943; Il mio corpo ti scalderà) di Howard Hughes, nel documentario di guerra December 7th (1943) che T. diresse con Ford, e soprattutto in The little foxes (1941; Piccole volpi) e The best years of our lives (1946; I migliori anni della nostra vita), entrambi diretti da Wyler, forse il regista che più di ogni altro incoraggiò la tensione realistica e drammatica delle sue immagini, raggiunta grazie a un progetto espressivo teso verso un continuo approfondimento.
A. Bazin, L'évolution du langage cinématographique, in Qu'est-ce que le cinéma?, 1° vol., Paris 1958 (trad. it. parz. a cura di A. Aprà, Milano 1986², pp. 74-88); G. Turroni, Bianco e nero. La fotografia nel cinema americano dagli anni Trenta ai giorni nostri, Milano 1980; S. Masi, Gli operatori, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 5° vol., Teorie, strumenti, memorie, Torino 2001, pp. 597-599.