Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con Ciro il Grande, una delle grandi figure di conquistatore del mondo antico, nasce l’Impero persiano. L’assoggettamento del regno di Lidia nel 546 a.c. rende inevitabile il contatto diretto dei Persiani con le poleis greche d’Asia Minore, che con i Lidi avevano intrattenuto un rapporto conflittuale, ma allo stesso tempo ricchissimo di scambi culturali. Per circa un cinquantennio, fino alla rivolta ionica (499-494 a.C.), che segna l’inizio degli scontri, il dominio persiano non fornisce apparenti motivi di attrito e quest’area conferma la sua fertile multiculturalità.
L’impero persiano Intorno alla metà del VI secolo a.C. ha inizio nel mondo orientale il processo che porterà rapidamente all’unificazione dei grandi regni di Media, Lidia, Babilonia ed Egitto sotto il dominio dei Persiani, una popolazione indoeuropea che abitava una regione montuosa dell’attuale Iran.
L’autore principale della costruzione dell’impero è Ciro II il Grande, della dinastia degli Achemenidi, che regna tra il 559 e il 530 a.C.: un personaggio da annoverare sicuramente tra le grandi figure di conquistatori del mondo antico, anche se sulla sua persona si sono addensate affabulazioni leggendarie – basti pensare alla Ciropedia di Senofonte – che rendono difficile definire con esattezza i contorni delle sue imprese.
Ciro si impadronisce inizialmente del regno di Media, retto a quel tempo da Astiage, chiarendo fin da subito la sua strategia di conquista, basata sull’assimilazione e l’accumulo, non sull’eliminazione degli avversari.
I Medi, contigui culturalmente ai Persiani, vengono infatti assimilati e mantengono posizioni di rilievo nella nascente galassia achemenide, tanto che verranno spesso confusi con gli stessi Persiani, per esempio dai Greci, che chiamavano correntemente i Persiani appunto Medoi.
Dopo la Media è la volta del grande regno di Lidia, il cui re Creso viene sconfitto, ma risparmiato e la capitale Sardi conquistata. Ciro rivolge quindi la sua attenzione alla Mesopotamia, unificata a quel tempo sotto il regno neobabilonese di Nabonedo. L’ingresso in Babilonia (539 a.C.), città-simbolo dell’Oriente, acclamato dalla folla, segna veramente l’inizio di una nuova epoca. La morte del conquistatore in un’impresa bellica minore contro i nomadi Massageti, nell’estate del 530 a.C., gli impedisce di completare l’opera: la conquista dell’Oriente è infatti portata a termine dal figlio Cambise, che nel 525 a.C. si impadronisce del millenario regno d’Egitto.
Nasce così un impero di oltre 3 milioni di kmq, destinato a essere superato in grandezza solo dall’impero romano, molti secoli dopo. Un impero non costruito semplicemente sulla superiorità militare, che nel corso dei due secoli di vita conosce infinite rivolte innescate da forze centrifughe, ma che nondimeno mantiene una ammirevole unità grazie a un sistema eccezionale di comunicazione tra il centro e la periferia, garantita dalle strade reali e, in genere, in virtù di un’organizzazione amministrativa e fiscale intelligente – creata in buona misura dal successore di Cambise, Dario, re dal 521 al 486 a.C. –, imperniata su una divisione dell’impero in 20 satrapie, rette da altrettanti satrapi, che conservano ampi margini di autonomia nei confronti del potere centrale.
Ciò che connota più fortemente i Persiani dal punto di vista culturale è la loro religione, sostanzialmente monoteista e dotata di una fortissima carica morale: il mazdeismo. Se la figura del fondatore Zoroastro ha una dimensione storica a dir poco imprecisa, i fondamenti della religione da lui diffusa sono invece chiari: la visione del mondo veicolata è dualistica, e in essa il dio Ahura Mazda impersona il bene, mentre i cosiddetti Magi rappresentano una potente casta sacerdotale, che interpreta i segni divini e cura il culto del dio. Una religione innovativa e dal forte impatto, per la quale però i Persiani non intesero mai fare opera di proselitismo, rispettando gli dèi e i culti che via via incontravano nel corso delle loro conquiste.
Il mondo greco, nell’età arcaica, ha già avuto modo, ben prima dell’arrivo dei Persiani, di incontrare l’Oriente. Da una parte, infatti, non sono mancate frequentazioni con l’Egitto, di cui il secondo libro delle Storie di Erodoto costituisce una meravigliosa summa. Dall’altra, le città greche della costa dell’Asia Minore, nel corso del VII secolo a.C. e della prima metà del VI secolo a.C., hanno contatti – si può dire quotidiani – con il grande regno di Lidia che si estende in Anatolia, a est della fascia costiera. Contatti non solo pacifici, certo: gli scontri sono tanto numerosi quanto mal conosciuti, e l’esito finale non può essere che una sudditanza politica delle poleis al potente e ingombrante vicino.
Ma molto più importanti sono gli scambi – commerciali, culturali, persino matrimoniali (tra i membri delle rispettive aristocrazie) – che fanno delle poleis come Mileto, Efeso, Colofone, Alicarnasso e tante altre dei veri e propri melting pot, tanto da creare, come ci ha insegnato il grande Santo Mazzarino, una vera e propria koinè culturale micrasiatica, vale a dire una cultura unica, ricca delle esperienze di entrambi i mondi; una cultura nella quale è l’elemento greco a trarre i maggiori giovamenti, ricevendo eccezionali contributi da una civiltà molto più antica e più sviluppata.
Lo straordinario progresso di Mileto in età arcaica, una città nella quale nell’arco di un paio di generazioni si redige l’indice della cultura occidentale (filosofia, storiografia, scienze ecc.), si spiega in larga misura con gli apporti orientali che una classe dirigente aristocratica seppe metabolizzare e sviluppare in modo mirabile.
Nell’Ottocento, e per buona parte del Novecento, questi apporti orientali, quando non venivano sostanzialmente dimenticati, venivano tradotti con il fuorviante termine di “prestito” (emprunt): si stilavano elenchi, a guardar bene stupefacenti (alfabeto, moneta, astronomia, cartografia, arte ecc.), che esaurivano il riconoscimento del “debito” (ma già la parola “prestito” sta a indicare che si tratta di un debito che non c’è alcun bisogno di ripagare).
La reazione a questa visione del mondo, eurocentrica e più o meno manifestamente razzista, c’è stata, ed è stata violenta, salutare, persino eccessiva. Oggi, in breve, non possiamo che ribadire che la civiltà greca, che nel VII e VI secolo a.C. aveva la sua punta di gran lunga più avanzata nell’Asia Minore, deve moltissimo del suo sviluppo e della sua maturità ai contatti secolari con il mondo orientale, del quale l’impero di Lidia costituiva il punto d’incontro privilegiato.
Erodoto
Antropologia persiana
Storie, Libro I, capp. 133-138
In questo passo delle Storie, i Persiani vengono osservati con occhio partecipe e divertito, sottolineando ora con sconcerto la distanza che li separa dai Greci, ora invece, con ammirazione, le qualità che li hanno resi grandi. Ovviamente, non tutte le informazioni che ci trasmette Erodoto, costretto a servirsi di interpreti, sono affidabili (per esempio, quelle sulle decisioni prese sotto l’effetto del vino); altre hanno un fondo di verità ma sono idealizzate (per esempio, i bambini istruiti solamente in tre cose), mentre altre ancora sono attendibili se riferite esclusivamente a una ristretta aristocrazia.
Tra tutti i giorni, sono soliti solennizzare soprattutto quello in cui ciascuno è nato: in quel giorno, ritengono lecito imbandirsi più cibo che non negli altri […] Sono molto dediti al vino; davanti a un altro non possono né vomitare né orinare. Queste dunque sono norme che osservano; e, quando sono ubriachi, sono soliti decidere le cose più serie. Ciò che a loro sembrò opportuno mentre decidevano, il padrone della casa, nella quale si sono riuniti a consiglio, lo ripropone il giorno dopo, quando sono sobri; se lo approvano anche da sobri, mettono in atto la decisione […] Tuttavia, se la prima volta hanno deliberato da sobri, tornano a decidere quando sono ubriachi.
Incontrandosi in strada l’un l’altro, si può capire se quelli che si incontrano sono di pari condizione: infatti, invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se uno dei due è inferiore di poco, si baciano sulle guance; se uno invece è inferiore di molto, si prosterna all’altro inchinandosi.
Dopo se stessi stimano più di tutti i loro vicini più prossimi, poi quelli che seguono, poi stimano procedendo in proporzione alla distanza. Stimano meno di tutti quelli che abitano più lontano da loro, ritenendo se stessi di molto e in tutto i migliori tra gli uomini […] e quelli che abitano più lontano i peggiori.
I Persiani accolgono usi stranieri più di tutti gli uomini. Hanno adottato infatti il vestiario dei Medi, avendolo ritenuto più bello del proprio, e in guerra corazze egiziane. Quando li imparano, praticano ogni tipo di piacere, e si congiungono ai ragazzi avendolo appreso dai Greci. Ciascuno di loro sposa molte mogli legittime e possiede ancor più concubine.
Questo per loro è segno di virilità: prima essere guerrieri valorosi, poi generare molti figli. Il re ogni anno manda doni a chi ne ha di più. Credono che il grande numero sia segno di forza. A partire dai cinque e fino ai vent’anni, educano i figli in tre sole cose: a cavalcare, a tirare con l’arco e a dire la verità. Prima dei cinque anni, il bambino non giunge alla vista del padre, ma vive presso le donne. Si fa così per questo motivo: perché, se muore mentre lo allevano, non dia al padre alcun dolore.
Dicono anche che nessuno ha ucciso il proprio padre o la madre; secondo loro, ogni volta che è accaduto qualcosa di simile, si scoprirebbe senz’altro che si trattava di figli sostituiti di nascosto o spuri; infatti, dicono non è possibile che un padre vero sia ucciso dal proprio figlio.
Quello che a loro non è permesso fare, non è permesso neppure dirlo. Dire menzogne ritengono sia la cosa più vergognosa; in secondo luogo fare debiti, per molte ragioni ma soprattutto, dicono, perché è inevitabile che chi ha debiti dica anche qualche menzogna.
Nei fiumi non orinano e non sputano, non vi si lavano le mani, né tollerano che alcun altro lo faccia: i fiumi sono venerati moltissimo.
La vittoria di Ciro contro Creso, re di Lidia, cui abbiamo accennato in precedenza, ha conseguenze di grande rilievo per i Greci d’Asia. Cantava Senofane: “Questi sono i discorsi da tenere presso il fuoco nell’inverno, stesi su di un morbido giaciglio, dopo aver mangiato in abbondanza, bevendo vino dolce e sgranocchiando dei ceci: Chi sei? Da dove vieni? Quanti anni hai, mio buon amico? Quanti anni avevi quando arrivò il Medo?” (fr. 22 DK).
L’arrivo dei Persiani, che si sostituiscono ai Lidi, è un evento epocale, da prendere come punto cronologico di riferimento, per gli abitanti delle poleis greche della costa asiatica. Lo è, in realtà, per tutti i Greci, anche se nessuno, al tempo, lo poteva immaginare. Inizia infatti, nel 546 a.C., un rapporto bisecolare, nel quale assisteremo a epici conflitti, alla creazione paziente della figura archetipica del nemico, ma anche alla continuazione di frequentazioni amichevoli e fruttuose, specie nell’ambito dell’aristocrazia. Non dobbiamo dimenticare che numerosi greci di spicco – Ippia, Temistocle, lo stesso Alcibiade – si recano in esilio proprio presso il Gran Re. I Persiani, insomma, fanno parte della storia greca, sulla quale esercitano una durevole influenza. Una storia persianocentrica, certo, non sottolineerebbe troppo tali rapporti, che il grande impero intratteneva con un paese lontano, marginale e di piccole dimensioni. Ma, si sa, la storia è una questione di prospettive.
Torniamo al 546 a.C. Il primo impatto tra Greci e Persiani non è particolarmente drammatico. I Persiani hanno scarso interesse per le turbolenze politiche delle piccole poleis e si limitano a favorire la presa del potere da parte di esponenti aristocratici disposti alla collaborazione, secondo uno schema a loro consueto e, tutto sommato, non diverso da quello che era stato praticato dal regno di Lidia. Dal punto di vista fiscale e amministrativo, i Persiani sembrano ragionevoli nelle loro pretese; dal punto di vista religioso, poi, la libertà concessa pare piena. Trascorrono così quasi 50 anni. Sulla base di queste premesse, appare in effetti un po’ sorprendente lo scoppio della cosiddetta rivolta ionica, la ribellione delle poleis greche d’Asia contro il dominio persiano. Lo stupore, a dire il vero, è anche dello storico che ce la racconta, Erodoto, per il quale gli uomini che hanno deciso di ribellarsi sono dei pazzi incoscienti.
Nel 499 a.C. una coalizione di poleis greche dell’Asia Minore, guidata da Aristagora, tiranno di Mileto, si ribella al dominio persiano. Grazie all’aiuto concesso da Atene ed Eretria (rispettivamente 20 e 5 navi), i rivoltosi ottengono notevoli successi e giungono a incendiare Sardi (498 a.C.). Da quel momento la macchina persiana si riorganizza, la coalizione greca si rivela poco compatta, gli Ateniesi e gli Eretriesi ritirano il loro contingente.
La sconfitta nella battaglia navale di Lade (494 a.C.), con la susseguente presa e distruzione di Mileto, non sono che l’atto finale e, forse, inevitabile di una vicenda sfortunata. Una vicenda che ha avuto un impatto negativo sulla tormentata storia delle poleis dell’Asia Minore e soprattutto sulla loro identità collettiva; non è estranea alla sconfitta, infatti, la costruzione dell’immagine degli Ioni deboli e imbelli, in facile opposizione ai Dori naturalmente portati per la guerra.
Della rivolta ionica ci resta unicamente il resoconto di Erodoto, che ne scrive almeno due generazioni dopo e mostra un atteggiamento fortemente ostile ai rivoltosi. Una presa di posizione, a dire il vero, sorprendente, che è stata spiegata con “la difficoltà di scrivere la storia di una sconfitta basandosi su una tradizione orale” (O. Murray). La scarsa coesione, la poca determinazione, l’esito terribile (la distruzione di Mileto suscita nel mondo greco una grandissima sensazione) hanno prodotto una serie di tradizioni staccate, incoerenti, reticenti o tendenti all’autogiustificazione per ciascuna delle comunità coinvolte: un insieme assai difficile da trasformare in narrazione storica.
In presenza di un’unica fonte molte domande sono destinate a rimanere senza risposta. La principale forse è: perché scoppia la rivolta? Erodoto non esita ad attribuirne la responsabilità ad Aristagora e alla sua ambizione. Egli infatti convince il satrapo Artaferne ad autorizzare una spedizione navale contro Nasso, per reinsediarvi degli esuli e, di fatto, consegnare l’isola ai Persiani. La spedizione fallisce miseramente dopo quattro mesi di assedio, anche per contrasti sorti tra Aristagora e l’ammiraglio persiano Megabate, cugino dello stesso Gran Re Dario: vistosi perduto, Aristagora tenta la carta della rivolta generale delle poleis greche, conducendole così alla rovina. La spiegazione sembra però un po’ debole, o quanto meno parziale: resterebbe pur sempre da spiegare l’adesione convinta di gran parte delle poleis a un’iniziativa individuale ed estemporanea.
Fornire spiegazioni di ordine economico, sottolineando una difficoltà delle poleis greche a sviluppare i propri commerci nell’ambito di un impero persiano divenuto più esigente in materia di tassazione e controllo delle attività economiche, appare invece anacronistico e non sembra cogliere nel segno delle dinamiche sociali e politiche dell’epoca; non resta che mettere l’accento sull’insofferenza politica delle poleis nei confronti delle tirannidi filopersiane dalle quali erano governate; peraltro anche questa spiegazione non appare, in ultima analisi, del tutto convincente. Un insieme di tutte queste motivazioni è plausibile, ma non siamo più in grado di individuarle con chiarezza. A essere abbastanza certe sono invece le conseguenze della rivolta: una decadenza delle poleis dell’Asia Minore, irrisolvibile elemento di crisi di lunghissima durata nei rapporti tra Grecia e Persia, tra Oriente e Occidente, tra Europa e Asia (un filo che arriva fino al nostro Novecento!); una tensione tra l’impero persiano e le poleis del continente che avevano dato il loro aiuto. Le navi di Atene e di Eretria, dice Erodoto, “Furono l’inizio delle sciagure per i Greci e per i barbari”: una sentenza che quanto meno dimostra la straordinaria indipendenza di giudizio dello storico di Alicarnasso, che, in nome di un ideale di amicizia tra Oriente e Occidente, si permette di considerare una sciagura la guerra che i Greci considerarono la loro maggiore gloria.