GRAZIADIO da Ascoli
Visse nella prima metà del sec. XIV; il suo luogo di provenienza è concordemente individuato in Ascoli Piceno, con l'unica eccezione del Pignon, che lo dice "lombardus". Fu filosofo e docente e appartenne all'Ordine domenicano.
Potrebbe identificarsi con G. il teste dell'atto testamentario d'un tal Filippo Sciolfi, rogato il 15 marzo 1323 nella chiesa di S. Domenico in Ascoli "in presentia […] fratris Gratiadei de ordinis praedicatorum" (Ascoli Piceno, Biblioteca comunale, Pergamene di S. Angelo), ma non ci giunge, a vaglio di questo documento, una tradizione univoca in merito alla cronologia della vita del frate: il complesso delle indicazioni, in maggioranza quattro-cinquecentesche, concorda su pochi punti.
Si sa che il magistero di G. si svolse a Padova e Bologna. In merito al soggiorno bolognese, l'inedita Cronica magistrorum generalium Ordinis fratrum praedicatorum di Girolamo Albertucci de' Borselli dice che G. risiedette nel convento di S. Pietro, senza specificare forme e sedi del suo insegnamento. Per Padova disponiamo del Catalogus eorum qui in Patavino coenobio S. Augustini Ordinis praedicatorum in primaria theologiae cathedra docuerunt compilato su fonti archivistiche a noi ignote dall'erudito settecentesco Domenico Maria Federici, da cui risulta che nel 1310 G. sarebbe succeduto, nella cattedra di teologia, a Francesco Pipino da Bologna, riprodotto in appendice ad A. Gloria, Quot annos et in quibus urbibus Italiae Albertus Magnus moratus sit. Epistula, Venezia 1880: cfr. Gargan, 1971, p. 9). I manuali e i repertori novecenteschi (Prantl, De Wulf, Cosenza) forniscono di G., senza denunciarne il fondamento, come data di morte il 1341; il biografo cinquecentesco Leandro Alberti aveva invece tratto da non meglio specificati "annales" la notizia, ripetuta in Quétif - Échard, che G. "fiorì" - non morì - nel 1341 ("Gratiadeus Asculanus […] floruisse annales produnt 1341"). Questi "annales" sono probabilmente da identificare con la citata Cronica dell'Albertucci de' Borselli, ove sotto l'anno 1341 si legge che "Frater Gratiadeus asculanus, vir in philosophicis eruditissimus de conventu Sancti Petri eiusdem civitatis, hiis temporibus clarus habetur". Questa locuzione dice solo la notorietà di cui G. godé a Bologna in quell'epoca, senza specificare in quale momento della sua vita ciò avvenisse. Perché l'Alberti l'ha intesa come riferita all'epoca in cui G. "floruit"? Sappiamo da Quétif - Échard che un codice fiorentino reca, a conclusione del commento sull'Ars vetus composto da G., una brevissima nota biografica, degna di particolare attenzione in quanto grosso modo a lui contemporanea (il codice, che a c. 1r si dice acquistato dal convento fiorentino di S. Marco nel 1488, è ascrivibile alla metà del XIV secolo). La nota informa che G. compose il commento a 27 anni e che morì a 30: "Nota quod quando iste Gratiadeus fecit has sententias fratri Guidoni de Prestano, erat 27 annorum: et in disputationibus semper obtinebat [non obsistebat, come trascritto in Quétif - Échard] Aegidio ordinis Eremitarum: qui Aegidius per totum orbem disputando ibat, ut augeret suum ordinem. Vixit autem iste Gratiadeus per annos 30 et mortuus est" (Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. soppr., J.V.28, c. 109v). La notizia che G. morì a trent'anni, solo tre anni dopo la composizione della sua opera più nota, indica che fioritura e morte furono davvero quasi contemporanee: la contraddizione tra le parole dell'Alberti e quella della sua fonte, dunque, sarebbe solo apparente. Tuttavia, se collochiamo la nascita di G. trent'anni prima del 1341 - cioè nel 1311 - divengono inaccettabili tutti gli altri elementi cronologici in nostro possesso: l'incerto atto testamentario del 1323 e la docenza padovana nel 1310; la pur debole ipotesi d'anteriorità al 1335 per la diffusione dell'opera logica di G. contrasta poi con la notizia, data dallo stesso codice, che essa sarebbe stata composta essendo l'autore ventisettenne. In queste condizioni si può a ugual diritto ipotizzare che, pur salva la coincidenza tra fioritura e morte di G., le cifre indicate nella nota del codice fiorentino siano errate (magari diminuite di qualche decina per errore di copia), oppure, all'opposto, che all'origine del 1341 vi sia un errore meccanico, visto che Ambrogio da Altamura menziona G. non sotto l'anno 1341, ma 1314. Ulteriori complicazioni vengono dalla seconda notizia data nella nota del codice fiorentino: la menzione di un Egidio appartenente agli agostiniani, su cui G. avrebbe trionfato nelle dispute, sembra alludere a Egidio Romano, morto nel 1316: si tratta forse solo del tentativo di dare a G. un avversario prestigioso, ma un paziente vaglio dell'opera dei due autori potrebbe anche portare al rinvenimento di citazioni che confermino la notizia. Su tutto, in conclusione, mancano informazioni dirimenti, talché il groviglio cronologico non è razionalizzabile se non nel senso d'una generica collocazione della vita di G. nell'arco della prima metà del sec. XIV.
La tradizione manoscritta degli scritti di G. e la consistenza della sua diffusione costituiscono per noi la fonte principale della rilevanza storica e culturale del personaggio. Le fonti relative alla sua produzione danno specifico risalto all'opera logica: la fortuna di G. si legò in effetti soprattutto al suo commento Super totam artem veterem (cioè un'esposizione dei Predicamenta di Aristotele preceduti dall'introduzione di Porfirio, del De interpretatione e dell'apocrifo Liber de sex principiis); lo svolgimento in senso realista della logica tomasiana ivi elaborato è stato piuttosto dettagliatamente descritto dal Prantl. Il testo, di cui si conserva un buon numero di manoscritti, ebbe notevole fortuna a stampa: prima della fine del XV secolo conobbe quattro edizioni (Venezia, B. Locatello, 1491 e ibid., Manfredo da Monteferrato, 1496: cfr. Hain, nn. 7874-7876), cui va aggiunto un quinto incunabolo, quello del commento al De interpretatione di Tommaso d'Aquino, rimasto incompiuto con quello di G., evidentemente giudicato autorevolissimo continuatore della lezione tomasiana (Venezia, B. Locatello, 1495 [Hain - Copinger, n. 1494], c. 15v: "Hic finiunt commentaria Thome […] in librum secundum Perihermeneias… que ob ipsius supervenientem mortem incompleta remasuerunt. Que vero sequuntur ex commentariis Gratiadei esculani […] in librum secundum […] extracta fuerunt"). Un esiguo elemento di datazione ante 1335, per questo che sembra essere stato l'opus maius di G., verrebbe dal commento Super dialecticam Petri Hispani del domenicano Filippo da Ferrara (probabilmente morto nel decennio 1350-60 e dunque grosso modo contemporaneo di G.), ove l'opera logica di G. è più volte citata. La composizione di questo commento, secondo Creytens, dovette cadere prima del 1335, poiché in quell'anno Vincenzo da Urbino, che nel manuale è annoverato tra i discepoli dell'autore, divenne lector nel convento bolognese. Il ragionamento appare però debole, nel caso specifico, in quanto Filippo si riferisce al discepolato di Vincenzo come a un fatto passato ("quicumque scire vult […] petat a discipulis meis quos docui, scilicet a fratre Vincentio de Urbino", cit. in Creytens, 1946, p. 111 n. 18), e forse in generale, visto che da sempre, per invalso costume accademico, i maestri denominano inesorabilmente "discepoli" i loro antichi allievi anche quando questi abbiano a loro volta acquisito il ruolo di docenti. L'anteriorità al 1335 ha dunque rango di ipotesi anche per la diffusione dell'esposizione sull'Ars vetus di G., il quale dedicò inoltre un commento a ognuna delle restanti opere logiche di Aristotele (Analitici primi, Analitici secondi, Elenchi sofistici, Topici).
Alla psicologia G. dedicò invece le Questiones disputatae in III libros De anima tradite da tre codici. Di particolare interesse è il fatto che le prime righe del prologo che le introduce coincidono letteralmente con buona parte del primo paragrafo del Convivio dantesco. Quest'ultimo fu composto nel 1304-07, mentre ignoriamo la cronologia dell'opera di G., che pure non deve essere molto più tarda (uno dei testimoni, il ms. Zanetti lat. 261 conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, è dell'inizio del XIV secolo). In qualunque modo si voglia leggere il rapporto cronologico tra le Questiones e il trattato dantesco, è improbabile che una così precisa coincidenza di dettato sia frutto di due rielaborazioni tra loro indipendenti della medesima fonte tomasiana. In merito a un'eventuale, anche esile, circolazione dei trattati danteschi nell'ambiente scientifico di G., va considerato il fatto che presso lo Studium bolognese, nel decennio 1310-20, insegnò e operò quel Guido Vernani autore d'una notissima Reprobatio della Monarchia dantesca, dedicata a denunciare il fondamento averroistico della necessità dell'impero universale formulata nel trattato politico dell'Alighieri.
Alla filosofia naturale G. si dedicò nella consueta chiave espositiva della Physica aristotelica, condotta nella doppia forma dell'expositio litterae (Quaestiones litterales super omnes libros Physicorum) e della questio disputata (Questiones in libros Physicorum in Studio patavino disputatae); di entrambe le opere è noto un numero di codici relativamente esiguo. Le Litterales, elaborazione più compiuta degli stessi temi trattati nelle Disputatae, vengono perciò considerate posteriori a queste ultime. Se è esatta la data del 1310 fornita dal Federici per l'insegnamento padovano di G., a tale data si possono riferire con qualche probabilità anche le dispute sulla Physica, che il titolo ci dice avvenute nel medesimo Studio (ed. Venezia 1517: Incipiunt questiones fratris Gratiadei de Esculo excellentissimi sacre pagine doctoris predicatorum ordinis per ipsum in florentissimo Studio Patavino disputate feliciter). La variante "in Florentino Studio disputatae" recata dal ms. quattrocentesco e.II.8, c. 151r, della Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial, ha tutta l'aria d'una corruzione della formula "in florentissimo studio Patavino", con caduta dell'aggettivo finale; l'inautenticità di questa forma del titolo, e l'esclusione della conseguente ipotesi che la disputa sia avvenuta in Firenze - magari presso lo Studio domenicano di S. Maria Novella - attendono tuttavia più solida prova. Di entrambi i gruppi di questioni si volle sottolineare nella tradizione a stampa la stretta osservanza tomistica (Incipiunt preclarissime Questiones letterales edite a fratre Gratiadeo Esculano… secundum ordinem lectionum divi Thomae, Venezia 1517; Quaestiones Patavini disputatae et iuxta Thomisticum dogma resolutae a r.p. Gratiadeo Asculano, Ascoli 1596). La lezione tomasiana, indubbiamente pervasiva, talvolta approfondita e precisata (la dottrina dei loci naturales e il luogo della sfera suprema nelle Questiones litterales, liber IV, lectio VI, qq. II-VI), vi appare tuttavia anche contaminata, in parecchie occasioni, da motivi di scuola scotista, o abbandonata a favore della fisica di Bacone.
Il problema - lasciato sostanzialmente aperto da Tommaso - di conciliare una grandezza attualmente infinita con la realtà sublunare, a norma aristotelica sempre specificata in senso qualitativo e quantitativo, è risolto da G. attraverso la tesi per cui l'infinito non nega i concetti che costituiscono i modi d'essere della realtà (per esempio il concetto di estensione, cui vanno riportate tutte le cose in quanto grandezze), ma solo il loro darsi in forma limitata (Questiones litterales, liber III, lectio IX, q. 8: "infinitas autem a magnitudine non aufert extensionem, sed solum extensionis terminum. Igitur ipsa non tollit ratione magnitudinis"). Tali sviluppi del pensiero tomasiano si dimostrano inclini a un impiego in senso "realistico" dei modi di essere aristotelici; è forse questo genere di sensibilità a rendere naturale in G. l'assunzione della teoria scotista del movimento, concepito non come serie di stati unificata dal soggetto che li vive, ma come realtà in sé, essenzialmente successiva e continua. G. tuttavia distingue un'accezione ampia di res, che comprende tanto i modi d'essere (habitudines) quanto i soggetti che li assumono (naturae habitudinis subiectae), e una ristretta, che indica solo questi ultimi. Su tale base, egli sembra recedere dall'estrema conseguenza realistica della dottrina: mentre gli scotisti considerano il movimento mezzo di acquisizione d'una forma, e della forma per suo mezzo acquisita come due distinte realtà formali, G. parla di due res distinte in quanto dotate di differenti modi di essere (quello del movimento è la continuità successiva, mentre quello della forma è la simultaneità), e non perché siano due distinte nature (Questiones litterales, liber III, lectio III, q. V). Sintetizzando posizioni tra loro in qualche misura divergenti, ma tutte di estrazione scotista, G. (Questiones litterales, liber IV, lectio XXII, q. I; Questiones disputatae, XII) risponde pure al quesito, vivo in quegli anni (Francesco di Meyronnes, Francesco Bleth, Pierre Aureoli, Giovanni il Canonico), sulla realtà, oggettiva o soggettiva, del tempo: per G. il tempo è oggettivo in quanto continuum, soggettivo in quanto discretum (dottrina di Giovanni il Canonico); la continuità è materia del tempo, la discontinuità gli è forma (dottrina di Francesco Bleth avversata da Giovanni il Canonico). Questi spunti di realismo convivono tuttavia in G. con la dottrina di estrazione occamistica portata a compimento da Nicola Bonet, detta "dell'orologio assoluto", secondo cui il termine di misurazione di ogni realtà temporale - ivi compresi i fenomeni del movimento - ha consistenza esclusivamente psichica, in quanto è pura astrazione matematica (Questiones disputatae, XII; Quaestiones litterales, liber IV, lectio XXII, q. III). Su tale base G. confuta la pretesa inconciliabilità, secondo le regole aristoteliche, del vuoto con la realtà, già negata in nome della "potentia Dei absoluta" - dunque della libera facoltà divina di creare, nel mondo, uno spazio vuoto - dalla condanna parigina del 1277: per G. il vuoto, ente matematico di consistenza esclusivamente concettuale, sopporta accidenti ugualmente concettuali, e non reali (Questiones litteralesliber IV, lectio XII, qq. III-IV). In merito al movimento nel vuoto (Questiones disputatae, XI; Questiones litterales, liber IV, lectio XI, qq. I-X) G., come altri contemporanei, è sedotto dalla soluzione di Bacone (che imputava la non istantaneità del moto alla divisibilità geometrica dello spazio) e la contamina con quella di Tommaso (che spiegava il tempo necessario al moto col corpus quantum, cioè la resistenza che il mobile oppone in quanto corpo) in modo da depotenziare la geniale intuizione tomasiana del concetto fisico di massa. Di Bacone G. adotta anche la teoria per cui l'inclinatio dei corpi causata dalla sfera celeste produce la gravità (Questiones disputatae, XIII; Questiones litterales, liber VIII, lectio VII, q. III); a suo parere essa contribuisce anche a causare il moto dei proiettili che, in armonia con la detta svalutazione del corpus quantum, egli rifiuta di spiegare col principio dell'impetus. Il motivo baconiano d'una determinazione, da parte della sfera, delle nature particolari, si salda in effetti con un tema caro a G., giuntogli secondo il Duhem per tramite albertino: quello della natura universale e della sua opera di subordinazione delle nature particolari alla realizzazione dell'ordine cosmologico (per esempio nel caso della reciproca posizione dei mari e delle terre emerse, Questiones disputatae, IX).
G. resiste invece alla pressione dei novatores in merito alla dottrina tomasiana della forma: la possibilità che le forme ricevano aumento e diminuzione, a suo tempo ferocemente negata da Tommaso, viene su tale autorità da lui respinta (Questiones litterales, liber V, lectio III, q. III). Forse per difendere più approfonditamente questa posizione G. compose un trattato sul problema della pluralità delle forme (De pluralitate et unitate formarum, tradito secondo il Pattin da un unico codice), polarizzatosi alla fine del secolo precedente pro o contro le soluzioni tomasiane - il monosostanzialismo d'ogni realtà individuale e la concezione quasi monadologica della forma -. Il Pattin sottolinea che le articolazioni principali del problema sono pure nelle Questiones disputatae sulla Physica (V, Utrum necessario sit ponere in materia incohationes formarum, sull'ammissione o rifiuto delle ragioni seminali agostiniane; VI, Utrum forma substantialis immediate coniungatur primae materiae, sull'ammissione o rifiuto della dottrina pluralista per cui la forma si congiungerebbe alla materia mediante le forme ontologicamente inferiori; 16, Utrum in aliquo individuo substantiae sint plures formae substantiales, sull'ammissione o rifiuto, in un individuo, di più sostanze). Incerta è poi l'attribuzione a G. di esposizioni dei Parva naturalia, menzionate dai soli Ambrogio da Altamura e Quétif - Échard, non tramandate dalla tradizione manoscritta finora nota. Sicuramente erronea fu invece l'attribuzione a G., in passato, del Liber de confutatione Hebraicae sectae (cfr. Hain, nn. 7878-7879), opera in realtà di un "magister Gratiadei artium medicine doctoris", cioè di Giovambattista Graziadio Veracroce, medico e filosofo romano vissuto un secolo più tardi.
Per un periodo che si estende più o meno dal quarto decennio del Trecento alla metà del Quattrocento antiche liste di libri compilate a vario titolo, tutte di ambiente domenicano, testimoniano una consistente diffusione dell'opera logica di Graziadio. Nell'elenco dei codici donati il 13 ag. 1347 da Francesco da Belluno, maestro di teologia, ai domenicani di S. Niccolò in Treviso, si trovano i volumi delle questioni disputate sulla Fisica, sul De anima e del commento agli Elenchi sophistici, mentre Niccolò Galgani, frate di S. Domenico in Camporegio, annovera nel suo diario personale i libri appartenenti alla biblioteca del suo convento e dati in prestito a singoli: tra questi compare, prestato a "magistro Bandino medico" nel 1412, il commento di G. Super totam artem veterem. Il Koudelka, editore del diario, non identifica il maestro cui è dato in uso il volume, ma è facile riconoscervi Bartalo Bandini (meglio noto come Bartolo di Tura), docente presso lo Studium senese di filosofia naturale (1428-31) e fisica (1431-60), poi medico cui il governo di Siena affidò missioni sanitarie di notevole rilevanza politica. Il prestito, concesso a un Bandini ventunenne, suggerisce che l'esposizione dell'Ars vetus di G. venne impiegata nelle facoltà delle arti come manuale di logica per la formazione degli studenti. Lo Studio di Padova registra tra i volumi della sua biblioteca nel 1390 le Questiones de anima, una copia membranacea del commento all'Ars vetus nel 1459 e una cartacea nel 1498. A provare l'autorevolezza degli scritti di G. stanno poi le citazioni che di essi offrono gli autori successivi, in maggioranza domenicani: varie parti dell'esposizione Super totam artem veterem sono inserite da Domenico di Fiandra, magister morto di peste, nel 1479, presso il convento fiorentino di S. Maria Novella nel suo commento alla Metaphysica intitolato Summae divinae philosophiae. All'unica, già vista presenza delle questioni sulla Physica possiamo aggiungere quella documentata dai due inventari della biblioteca di Pico della Mirandola, ma la diffusione degli scritti di fisica appare, rispetto a quella dell'opera logica, indubbiamente minore. Sebbene le Disputatae avessero già avuto due edizioni quattrocentesche (Venezia, Antonio da Reggio, 1484 e 1487: cfr. Hain, n. 7877), in quella che sembrerebbe la prima edizione delle Litterales (Venezia 1503, Duhem, VII, p. 13) il colophon dice le questioni "nuper […] reperte ac ex archetipo impresse". Se non imputabile al curatore, la notizia che la circolazione degli scritti di fisica - almeno nella versione più completa delle Litterales - abbia sofferto interruzioni contribuisce a spiegare la quasi esclusiva valorizzazione dell'opera logica nel medaglione storiografico che di G. ereditiamo.
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