GRAZIA
Il primo documento riguardante G., qualificato con il titolo di "magister", è del 13 dic. 1206, quando il cardinale Guala Bicchieri lo delegò a conoscere una controversia tra prete Alberto di S. Maria in Porto a Ravenna da una parte e, dall'altra, "magister Guido senensis" e Benencasa (Sarti - Fattorini, II, p. 167 n. XII). Da quell'anno in poi - con la sola eccezione del 1209 - la sua presenza è attestata a Bologna fino al 24 apr. 1213. Mentre ancora era impegnato a decidere una lite tra il vescovo di Forlì Alberto e Benigno abate di Vallombrosa, G. partì per l'Inghilterra. Qui si trovava, sicuramente, nel novembre 1213, come attestato da una lettera di Innocenzo III ad Azzone, abate di S. Stefano, giudice delegato in quest'ultima causa.
Restano ancora ignoti i motivi di questa missione e le funzioni effettivamente svolte da G. oltre Manica; pare comunque verosimile che fosse associato alla comitiva del legato Niccolò, vescovo di Tuscolo, cui Innocenzo III aveva affidato il complesso compito di ricevere la sottomissione di Giovanni Senzaterra re d'Inghilterra, tentare una riconciliazione tra Filippo II Augusto re di Francia, risollevare le sorti della Chiesa inglese, scossa dall'interdetto papale e da molteplici traversie. Se G. non era a Tuscolo il 14 luglio, al momento in cui Niccolò si congedò dal pontefice, quasi certamente era con lui il 20 settembre, quando pose piede in Inghilterra. Com'è noto, la missione del legato si risolse in un insuccesso: incapace di soddisfare il papa e l'episcopato inglese, il vescovo di Tuscolo fu richiamato a Roma nel giugno 1214.
G. tornò a occuparsi del processo tra il vescovo di Forlì e l'abate di Vallombrosa: ma per poco, se già il 22 sett. 1215 Innocenzo III dichiarava di averlo scelto proprio cappellano. Il fallimento di Niccolò di Tuscolo in Inghilterra non lo aveva, dunque, coinvolto; né le accuse di parzialità mosse al vescovo tolsero credito a G., cui il papa conferì l'incarico di assisterlo nella decisione sulle cause portate alla sua diretta cognizione. Chiamato a Roma, G. - morto Innocenzo III - seppe meritarsi anche la fiducia del successore Onorio III. Investito di delega papale, G. decise alcune controversie nel 1217 e nel 1218. Il 28 marzo 1219, superate le resistenze dell'ordinario locale, Onorio III lo nominò arcidiacono di Bologna conferendogli larghi poteri. Di lì a poco, il 27 e il 28 giugno, il pontefice concesse a G., in virtù della carica appena conseguita, il potere di liberare dalla scomunica i dottori e gli scolari "qui ad invicem in se aut in alias personas ecclesiasticas manus iniecerint violentas" (Sarti - Fattorini, II, p. 14) nonché quello di conferire la licentia docendi "examinatione prehabita diligenti" (ibid., p. 260). Su tale evento, ben noto agli storici dell'università per le ripercussioni nell'organizzazione degli studi, non occorre insistere. Desta, piuttosto, non poca sorpresa constatare che - dopo aver lanciato più volte severi moniti al vescovo bolognese Enrico Della Fratta e al capitolo, avversi a un allargamento dei poteri attribuiti all'arcidiacono - Onorio III decidesse, il 29 ottobre dello stesso anno, di destinare G. alla Chiesa di Antiochia. Lo stesso pontefice provvide però, il 19 novembre, a consacrare il tudertino Ranieri de Castro patriarca della città siriana in sostituzione dell'eletto Pietro capuano, creato, nel frattempo, cardinale.
L'esito della vicenda lascia aperti interrogativi di difficile soluzione. Anche se lusinghiera, la promozione alla Chiesa di Antiochia avrebbe comunque comportato l'allontanamento di G. da Bologna in un momento estremamente delicato, pochi mesi dopo un'elezione senz'altro contrastata e ancora male tollerata. Parrebbe impossibile che Onorio III, dopo avere lottato così tenacemente con la curia bolognese, decidesse di lasciare il campo a quanti avversavano il suo disegno di rafforzare il ruolo istituzionale dell'arcidiacono. Non è il solo aspetto oscuro di questa vicenda. Fino all'aprile del 1221, infatti, la documentazione bolognese non fa più menzione alcuna di Grazia. Le lettere spedite dal pontefice dopo quattordici mesi di silenzio, tutte orientate a un incremento dei redditi riservati all'arcidiacono di Bologna, fanno pensare a una missione, appena conclusa, che aveva comportato spese elevate. Non a caso il vescovo Enrico e il capitolo lamentavano, in una supplica rivolta al papa, il godimento degli "archidiaconatus proventus" da parte del titolare, anche se assente da Bologna. Onorio III non solo stabilì che i proventi garantiti all'arcidiacono fossero, in tal caso, goduti dalla Chiesa bolognese "nisi absens pro negotiis et evidenti eiusdem Ecclesie utilitate [archidiaconus] fuerit" (ibid., p. 261 n. XIX), ma assicurò che, da quel momento, l'elezione dell'arcidiacono sarebbe spettata al vescovo e al capitolo. Se - come pare - G. si allontanò per qualche tempo dalla città, è lecito supporre che ciò avvenisse in esecuzione di un piano preordinato al ristabilimento di rapporti meno tesi tra la Sede romana e la Chiesa locale. Sebbene rischiosa, la mossa si rivelò vincente e inaugurò un clima di apparente collaborazione tra lo stesso arcidiacono e i confratelli.
Le notizie su G. si perdono ancora per il biennio 1222-23; solo il 26 ag. 1224 egli riappare, per l'ultima volta, in carte bolognesi. Passato alla cattedra vescovile di Parma, resa vacante dalla morte di Obizzo Fieschi, G. ricevette, il 3 sett. 1224, l'obbedienza del clero di città e delle zone limitrofe.
Le vicende del suo episcopato parmense appaiono, complessivamente, abbastanza anonime, in certo modo inferiori alle attese. L'uomo che si era in precedenza distinto per dottrina, per gli incarichi prestigiosi, per la fiducia accordatagli dai pontefici pare dissolversi in una figura impalpabile o - al più - di spessore ordinario. Ognibene de Adam, che pur poteva annoverarlo tra gli amici di famiglia, lo ricorda come un buon vescovo ("a Parmensibus bonus episcopus habebatur", p. 97), preoccupato dell'edilizia sacra ("in pluribus locis episcopatus fecit edificari palatia", ibid.) e della conservazione della mensa episcopale ("non fuit rerum episcopalium dissipator, sed potius agregator et conservator", ibid.). L'atteggiamento tenuto nei confronti di Guido de Adam, fratello del cronista, a seguito della sua entrata nell'Ordine minoritico, sembrerebbe denotare una certa diffidenza verso forme di religiosità che si distaccavano dalla tradizione ("fratrem meum Guidonem dilexit, sed, postquam ordinem fratrum minorum intravit, non curavit de ipso", ibid.). Per Davidsohn egli sorvegliò "le pratiche religiose con una certa negligenza"; certo, non può non destare sorpresa l'ingenuità - o, a dir peggio, la trascuratezza - di cui G. dette prova almeno in una occasione: motivo per il quale Gregorio IX il 12 genn. 1233 sottopose il suo operato al giudizio del vescovo di Brescia e dell'abate di Cerreto. Paradossalmente, il canonista subì allora un acerbo rimprovero proprio per l'inosservanza del diritto che doveva ben conoscere. Nel giro di sei mesi, tuttavia, G. fu incaricato dal pontefice dell'assolvimento di nuove e delicate mansioni: lo strappo con Gregorio IX, apparentemente lacerante, era stato ricucito.
Secondo tradizione, G. si spense a Parma il 26 sett. 1236.
Una biografia di G., seppur sintetica, non può tacere intorno alla discussa paternità dell'Ordo iudiciarius, edito da F. Bergmann (Pillio - Tancredi - Grazia, Libri de ordine iudiciorum, Gottingae 1842). Com'è noto, già Guglielmo Durante e Giovanni d'Andrea furono a conoscenza di quest'opera, da loro ascritta a un "Gratia aretinus". Mauro Sarti lo identificò invece con Grazia arcidiacono, mentre Fattorini negò la conclusione cui era pervenuto Sarti e ipotizzò l'esistenza di due Grazia: uno aretino e autore dell'opera di procedura, l'altro fiorentino arcidiacono di Bologna e poi vescovo di Parma. Affermazione, quest'ultima, ritenuta plausibile da Savigny. Sebbene già Schulte e Bethmann-Hollweg ritenessero inverosimile la supposizione di Sarti, qualche studioso moderno ha continuato a chiamare "Grazia aretino" il personaggio ricordato dalla documentazione bolognese tra il 1206 e il 1224, quantunque nessun atto, fra quelli editi, ne indichi il luogo di provenienza. Ognibene lo dice, senz'altro, fiorentino: e non si vede perché - come ipotizzato da Sarti - egli non meriti fiducia, posto che il vescovo di Parma ne frequentava la casa.
Altri indizi concorrono ad avvalorare l'ipotesi avanzata da Fattorini. Tutti i manoscritti (compresi quelli utilizzati da Bergmann e perciò noti da tempo agli studiosi) citano la glossa alle decretali di Gregorio IX, che fu ultimata, almeno nella sua prima redazione, anteriormente al 1241. Se si considera che G., divenuto vescovo di Parma, morì nel settembre del 1236, i margini di tempo risultano, in ogni direzione, eccessivamente brevi. Con sufficiente approssimazione, d'altronde, la più recente storiografia data l'Ordo di cui ci occupiamo tra il 1237 e il 1241. Non basta: anche ammettendo che l'arcidiacono fosse originario di Arezzo, risulta assai difficile comprendere il motivo per il quale costui richiami di continuo, nel corso dell'opera, la prassi giudiziaria della patria ("ut in civitate aretina"; "de consuetudine ideo dixi, quia in multis locis, sicut in aretina civitate, tales articuli non dantur"; "in terra mea, scilicet in civitate aretina") e non quella emiliana, che aveva conosciuto direttamente e per lungo tempo nel corso della sua attività professionale. Si potrebbe aggiungere, inoltre, che i caratteri complessivi dell'Ordo sono assai distanti da quelli che è lecito attendersi da un maestro dello Studio bolognese educato a canoni scientifici estremamente raffinati. Non si capisce, dunque, per quale motivo L. Fowler-Magerl affermi che G. "in his updating of Tancred after 1237 described this kind of justice in Bologna".
Con tutta verosimiglianza questo testo, di larga diffusione (almeno in area toscana) e frequentemente riadattato a varie esigenze di tempo e di luogo (come dimostrano altri manoscritti trascurati da Bergmann) non è prodotto né bolognese né dello Studio aretino ma di una scuola ecclesiastica di alto livello. Il carattere accentuatamente pratico dell'Ordo, l'assoluta prevalenza delle fonti canonistiche su quelle civilistiche, i personaggi e i luoghi citati negli exempla sembrano adattarsi bene ai programmi di un maestro chiamato a istruire prelati e funzionari di una curia episcopale. Il ricordo di un "Gratia scolaris Aretini episcopatus" (cfr. Nicolaj Petronio) in una carta inedita del 1237 potrebbe costituire, allora, una testimonianza di importanza decisiva per future, auspicabili, ricerche. È obiettivamente incerto se questo personaggio sia da identificare con quel "dominus Gratia de Foiano" che appare come testimone in "camera archipresbiteri [aretini]" il 4 febbr. 1251 e tre anni dopo, con la qualifica di "iudex", promette, insieme con altri sindaci di parte guelfa, l'alleanza tra Arezzo e Firenze. Un "dominus Gratia iudex" compare infine, dal 1256 al 1258, tra gli anziani e i consiglieri cittadini che ratificarono i laboriosi capitoli di pace con Firenze (cfr. Pasqui).
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