GOVI, Amerigo Armando Gilberto, detto Gilberto Govi
Nacque a Genova il 22 ott. 1885 da Anselmo e da Francesca Gardini.
La famiglia era di ceppo emiliano: il padre, ispettore delle ferrovie, era modenese, la madre di Bologna; secondogenito, dopo Amleto, il G. era nato in una casa di via S. Ugo e, nella città nativa, frequentò l'Accademia di belle arti, dove ebbe modo di coltivare la sua passione per il disegno.
Fu come disegnatore che, nel 1902, si impiegò presso le Officine elettriche genovesi, dove lavorò per alcuni anni mentre già si esibiva, da dilettante, come attore.
Sembra sia stato lo zio Torquato, fratello della madre, che era burattinaio, a suscitare nel G., ancora bambino, la passione per il teatro: a soli dodici anni aveva cominciato a recitare nel teatrino parrocchiale del curato di S. Rocco e, dopo un paio di anni, si unì alla filodrammatica che operava nel teatro Andrea Podestà.
Il suo primo ruolo fu quello di un portiere muto nel vaudeville Santarellina; in questo periodo cominciarono anche le prime tournée in giro per la Liguria. In seguito, insieme con la direttrice del Podestà, tale Colombazzi, e con D. Castelli, fondò il Circolo filodrammatico genovese che operava presso il teatro Eldorado, nel cui ambito ottenne finalmente parti da attore brillante. Quando questo primo gruppo si sciolse, i tempi erano maturi per un passaggio del G. a una compagnia di altro livello, quella dell'Accademia filodrammatica italiana del teatro Nazionale, sito in stradone S. Agostino. In qualità di attor giovane il G. riscosse i primi successi nelle commedie di G. Giacosa, di G. Feydeau e di altri, ma fu con il passaggio al teatro dialettale che ebbe modo di mettersi veramente in luce, aggiudicandosi ruoli da protagonista.
Fece le sue prime prove principalmente nei lavori di N. Bacigalupo, considerato il padre della commedia vernacolare genovese; e con questo repertorio, già nel 1912, il G. si recò a Milano per presentarsi a V. Talli, allora una delle personalità di maggior spicco del teatro italiano. Il celebre attore lo degnò inizialmente di scarsa attenzione, ma l'anno successivo il G. riuscì a farsi ascoltare mettendo in scena al teatro Paganini Piggiase ö mâ do Rosso ö cartâ (Prendersi grattacapi che non ci spettano) di Bacigalupo, con cui ottenne, oltre a un grande successo di pubblico, anche la piena approvazione di Talli; d'altronde, il signor Manezzi, protagonista della commedia, fu una delle sue più riuscite macchiette, cavallo di battaglia di tutta la carriera.
Sotto la direzione di Castelli il nuovo repertorio ebbe esiti di pubblico talmente positivi che, dal 1914, il G., con alcuni colleghi del Nazionale, mise in piedi una nuova compagnia, la Dialettale genovese, con sede in via Corsica, per portare in tournée, in provincia, le commedie in vernacolo; inoltre, negli anni della Grande Guerra, la Dialettale aderì a molte iniziative a scopo benefico. La direzione del Nazionale, tuttavia, non vedeva di buon occhio il teatro in vernacolo, preferendo una programmazione più classica, e tantomeno poteva tollerare la "concorrenza" del G. il quale, infine, messo di fronte a un aut aut, nel 1916 decise di lasciare l'Accademia.
Il 25 sett. 1917 sposò l'attrice milanese Rina (Caterina) Franchi Gaioni, anche lei proveniente dalle fila del Nazionale, e passata alla Dialettale, creatrice della macchietta popolare della Luiginna.
Sempre nel 1917, la compagnia allargò ulteriormente il suo campo di azione esibendosi con buon esito a Torino, al teatro Carignano, con Piggiase ö mâ do Rosso ö cartâ e I manezzi pe' maiâ na figgia (I maneggi per maritare una figlia), sempre di Bacigalupo; intanto, sulla scia di questo successo che ebbe echi anche a livello nazionale, vennero formandosi in Liguria altre compagnie dialettali.
Alla fine del 1919 il G. e P. Berri, poeta e appassionato di teatro, decisero di dare finalmente una sede stabile al teatro dialettale e la trovarono al Lido d'Albaro, con il progetto di creare in seguito un teatro del Popolo. Nel 1922, a quasi dieci anni dalla prima prova, il G. e la sua compagnia ritornarono infine a Milano, andando in scena, il 22 dicembre, al teatro Filodrammatici.
Benché il nome del G. fosse già piuttosto conosciuto, questo passo gli valse il riconoscimento entusiastico dei più importanti critici del tempo come R. Simoni del Corriere della sera ed E. Romagnoli dell'Ambrosiano.
Continuò a raccogliere consensi, passando da Milano a Torino, dove il 24 dicembre inaugurò al teatro Alfieri il nuovo repertorio messo a punto da E. Canesi; inoltre, grazie alla riuscita di L'ægua de Sozeia di A. Novelli e di Si chiude di S. Lopez, ottenne la legittimazione anche da parte del critico de La Stampa, G. Michelotti. Convinto, oramai, di potersi dedicare esclusivamente al teatro, il 31 dicembre diede le dimissioni dalle Officine elettriche genovesi.
Il G., a questo punto, si era reso conto della necessità di ampliare il repertorio, fino allora costituito principalmente dalle opere di Bacigalupo e da poco altro di più; in questo gli fu di grande aiuto il già ricordato Canesi, sia come traduttore di commedie originariamente in lingua, sia come autore di opere originali, oltre a numerosi altri autori, anche non genovesi, che si offrirono di scrivere per lui, fra cui C. Bocca, E. Valentinetti, A. Acquarone, G. Orengo, E. La Rosa, A. Moroni, A. Varaldo, U. Palmarini, U. Morucchio: nel corso della sua lunga carriera, tra un centinaio di lavori propostigli il G. arrivò a metterne in scena circa settanta.
Nel 1926 per la prima volta la compagnia del G. espatriò, chiamata in Sudamerica dai rappresentanti delle folte comunità di immigrati genovesi; in aprile giunse a Buenos Aires, dove rimase tre mesi al teatro Marconi. La trasferta, oltre a regalargli l'oramai consueto successo, fu anche positiva sul piano economico, procurando al G. il denaro sufficiente a comprarsi un appartamento. Contemporaneamente, si crearono dissapori e gelosie nella compagnia, da cui alcuni elementi si dissociarono; ciò non preoccupò più di tanto il G., il quale si limitò a provvedere alle necessarie sostituzioni, continuando tranquillamente la propria attività.
Alla fine del 1928 il G., che disponeva a questo punto di un repertorio basilare di circa trenta commedie, affrontò il pubblico della capitale al teatro Valle, riportando un grande successo, soprattutto di critica; dopo una serie di rappresentazioni nel Canton Ticino, nel 1930 decise di debuttare anche a Parigi, dove si esibì, per tre serate a inviti, nell'esclusiva salle du Journal, con un successo conclamato come I manezzi, e con due pezzi del nuovo repertorio: Pignasecca e Pignaverde di Valentinetti e Parodi e C. di Lopez. Nell'ottobre dello stesso anno, a conferma della sua notorietà, il G. venne invitato a recitare a San Rossore davanti ai reali d'Italia.
Nel novembre 1931, dopo una trionfale replica del Pignasecca e Pignaverde presso il teatro Nazionale di Genova, il G. fu proclamato socio onorario dell'Accademia filodrammatica italiana, la stessa che alcuni anni prima, avendone sottovalutato il talento, lo aveva costretto ad allontanarsi dallo stradone S. Agostino. Nonostante la diffidenza del regime nei confronti del teatro dialettale, il G. era apprezzato da B. Mussolini e da molte personalità del fascismo, al punto che fu organizzata per lui una tournée a Tripoli.
Dopo un così lungo periodo di intensa attività il G., nel 1934, per la prima volta, si fermò un intero anno, in seguito a problemi insorti nell'ambito della compagnia, di cui venne nuovamente modificata la formazione, dando vita, l'anno successivo, a una nuova compagine, caratterizzata da un ritmo di produzione meno frenetico e da un repertorio più ponderato.
Queste scelte vennero in seguito rimproverate al G. in quanto si disse che gli avevano impedito di uscire dal proprio ambito ristretto e caratteristico; e, in effetti, rarissime furono le sue incursioni nel teatro non dialettale (tra queste si ricorda il notevole insuccesso a Torino con La patente di L. Pirandello).
In realtà, l'universo teatrale del G. fu totalmente scevro da velleità sperimentali o da ricerche introspettive; la sua concezione del teatro era quella mattatoriale ottocentesca, ormai abbastanza anacronistica seppure efficace, basata sulla figura del primo attore protagonista assoluto. E sembra che effettivamente il G. incarnasse anche gli aspetti meno apprezzabili di questo ruolo: egoista e narciso, geloso degli altri attori tanto da allontanarli se prendevano applausi a scena aperta. Nell'alveo di questa tradizione - che risentiva anche di quella, più antica, della commedia dell'arte - l'intero repertorio era plasmato su di lui, al punto che, spesso, erano favoriti copioni insignificanti allo scopo di dare maggior risalto all'estro interpretativo del protagonista, che diventava, in tal modo, il cardine di tutta la messa in scena; in alcuni casi il G., senza esserne l'autore, deteneva addirittura i diritti d'autore delle commedie che rappresentava.
D'altra parte egli, senza l'ausilio di scuole o maestri, era riuscito a creare un suo genere personale, autonomo e autosufficiente: la sua concezione tradizionalista del teatro lo portava a essere un meticolosissimo artigiano che curava, in prima persona e in ogni dettaglio, il trucco, la scena e la regia. Proprio sul trucco, sempre stilizzato e grottesco, caricaturale, si basava, per molta parte, la caratterizzazione della lunga galleria di personaggi da lui interpretati, e il trucco accompagnava la spiccata mimica facciale dell'attore, in cui gli occhi erano sempre mobili. Anche la mimica corporea nella recitazione del G. era molto accentuata e i toni della voce continuamente modulati, con una predilezione per il falsetto che bene accompagnava la tipica cadenza genovese; il risultato era una serie di gesti e intonazioni mirati a creare un effetto comico, immediato e dirompente. L'umanità, osservata e poi rappresentata dal G. con sguardo parodistico, era quella comune e quotidiana e i caratteri quelli tipici della commedia popolare: avari in primo luogo, padri severi generalmente ingannati, mariti vessati dalle mogli.
"Con tanti personaggi che ha affrontato, non sembrava mai che portasse un vestito, sembrava avere dei costumi tagliati e impostati su di lui. I suoi compagni di palcoscenico vestivano abiti borghesi, lui no; lui sembra che porti un costume continuamente cangiante nella foggia ma sempre tipico, rispondente ad un carattere e non ad un'epoca. […] Govi fa nascere i suoi tipi deformandosi il volto. La sua stilizzazione è quella di un iperrealismo grondante umori e umanità. Ma il suo essere riesce ad andare ugualmente al di là di una realtà banalmente oggettiva, documentaria; riesce ad "inventarsi"" (Manciotti-Molinari, p. 52).
La grande macchina del cinema non poteva non accorgersi di questo talento. Lo corteggiò una prima volta nel 1936, quando a Roma, dopo uno spettacolo al teatro Argentina, il regista americano R. Mamoulian ne ricavò un ottimo giudizio e affermò che l'attore era pronto a fare un film senza provino. Ma il G. era diffidente e non si lasciò convincere da un ambiente così diverso e da un mezzo che non poteva controllare in prima persona.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, l'attività della compagnia dovette rallentare; la città di Genova subì forti bombardamenti in cui rimasero distrutti, oltre ai teatri più importanti, anche gli stessi materiali della compagnia. Il G. e i suoi si dedicarono, fin quando fu possibile, a rappresentazioni di beneficenza per la Croce rossa e, in Emilia, con il Carro di Tespi, esibendosi davanti alle truppe. Egli stesso, seppur per un breve periodo, venne richiamato alle armi, e servì nella contraerea.
Proprio l'allontanamento forzato dalle scene lo spinse, nel 1942, ad avvicinarsi al cinema, sebbene con qualche residua diffidenza; l'esordio fu con Colpi di timone di G. Righelli, tratto dall'omonima commedia di La Rosa che l'attore aveva già portato in teatro con successo; sul film la critica si divise, e non furono poi molte le successive esperienze cinematografiche.
Del 1950 è Che tempi! di G. Bianchi, pellicola costruita appositamente per l'attore e basata su uno dei suoi maggiori successi teatrali, Pignasecca e Pignaverde di Valentinetti; nel cast del film appaiono anche i giovani A. Sordi e W. Chiari. Seguì, a distanza di circa tre anni, il ruolo di frate Angelo in Il diavolo in convento di N. Malasomma un soggetto originale, ispirato alla novella Il miracolo, sempre di ambientazione ligure; opera di scarso rilievo, "salvata" proprio dall'abilità del G., che collaborò anche alla sceneggiatura. La quarta e ultima pellicola risale al 1960, anno di Lui, lei, e il nonno di A.G. Majano, in cui il G. è nuovamente affiancato da W. Chiari; il mediocre esito confermò, ancora una volta, che il mezzo cinematografico poco corrispondeva alla creatività e all'istrionismo del Govi.
Frattanto, finita la guerra, nel 1948 egli aveva ricostituito la compagnia. Riprese l'attività interrotta, destinata a durare fino al 1955, e rinnovò puntualmente l'abituale successo ricorrendo ad attori sperimentati e al suo repertorio tradizionale. Nel 1957, quindi, il G. dette inizio alla sua fortunata esperienza televisiva, quasi una sorta di "risarcimento" della meno soddisfacente carriera cinematografica.
Con il nuovo mezzo egli si trovò decisamente più a suo agio, anche perché gli veniva garantito il contatto diretto con il pubblico: gli spettacoli erano infatti ripresi in diretta; i primi furono I manezzi e Pignasecca rappresentati rispettivamente a Genova e a Milano. Il successo fu enorme e permise all'attore di conquistare una fascia di pubblico nuova e più ampia. L'anno seguente fu chiamato di nuovo a esibirsi per la RAI, e particolari riconoscimenti ottenne con Impresa trasporti di Morucchio.
Nel 1960 il G., ormai settantacinquenne, riunì la compagnia per un'ultima stagione, la tournée di addio al teatro. Per l'occasione decise di mettere in scena un'opera mai rappresentata, ma alla quale pensava da tempo, Il porto di casa mia di E. Bassano, nella quale si presentò al pubblico senza trucco, come non aveva mai fatto prima.
Si ritirò quindi a vita privata e, fino alla morte, poche furono le sue apparizioni in pubblico, soprattutto in occasione di consegne di premi e riconoscimenti di vario genere; e pochi furono ancora i suoi impegni di lavoro.
Nel 1961 ritornò in televisione, per la pubblicità del Tè Ati, con una serie di "Carosello" dal titolo Baccere Baciccia, da lui scritta. Nella successiva estate del 1962 fece una nuova esperienza televisiva con gli atti unici di Lopez: Si chiude, Si riapre, Si lavora e In pretura, girati non in teatro ma in uno studio televisivo.
Il G. morì a Genova il 28 apr. 1966.
Fonti e Bibl.: C.G. Romana - A. Schmuckner, Il mito di G., Genova 1967; E. Bassano, G. G. e il teatro genovese, Genova 1967; V.E. Petrucci - C. Viazzi - F. Leoni, Lui G., Genova 1981; M. Manciotti - V. Molinari, Tutto G., Genova 1990; Enc. dello spettacolo, V, coll. 1527 s.; Filmlexicon degli autori e delle opere, II, coll. 1148 s.; Diz. del cinema italiano, Gli attori, Roma 1998, pp. 251 s.; M. Ternavasio, G. G.: vita d'attore, Torino 2001.