Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Scienziato e filosofo, Leibniz ha esercitato (e continua a esercitare) un’influenza profonda sulla cultura occidentale. Scopritore, con Newton, del calcolo infinitesimale, ha cercato di ricondurre la logica tradizionale a un calcolo di tipo algebrico, avviando un progetto più generale per la costruzione di modelli matematici del ragionamento umano, che soltanto nel secolo XIX ha cominciato a diventare realtà. Ha sviluppato raffinate analisi nell’ambito della teoria della conoscenza e ha gettato le basi di una metafisica fondata sul concetto di “mondo possibile” per spiegare il significato delle nostre intuizioni modali (concernenti cioè il significato di espressioni come “necessario”, “possibile”, “contingente”). Nell’ambito della filosofia pratica, ha teorizzato l’esistenza di percezioni e impulsi che, pur situati al di sotto della sfera cosciente, orientano le nostre scelte.
Vita e opere
Leibniz nasce a Lipsia nel 1646 e all’età di sei anni rimane orfano del padre, insegnante di filosofia morale all’università. Circa due anni dopo ottiene il permesso di consultare i volumi custoditi nella biblioteca paterna e appena dodicenne è in grado di comprendere gli autori latini e di decifrare il greco antico. Giunto all’università, studia diritto e filosofia e, nel 1664, ottiene il grado di magister in filosofia presso l’università di Lipsia che, tuttavia, poco dopo gli rifiuta il titolo di dottore. Si iscrive così a legge presso l’università di Altdorf, dove riesce ad addottorarsi. Nel 1666 pubblica la Dissertazione sull’arte combinatoria , un testo fondamentale per gli sviluppi futuri del suo pensiero. Pur avendo davanti a sé la prospettiva di una brillante carriera accademica, vi rinuncia. Diventa amico del barone Johann Christian Boineburg, che lo presenta all’elettore di Mainz, Johann Philip von Schoenborn, il quale gli dà un incarico di giudice presso la corte d’appello. Nel 1672 Leibniz parte per Parigi, per svolgere una missione diplomatica per conto di Boineburg. Nella capitale francese entra in contatto con alcuni dei principali protagonisti del rinnovamento scientifico e filosofico promosso da Galileo e Descartes. Incontra Christiaan Huygens, che lo inizia a uno studio sistematico della matematica.
Nonostante la morte improvvisa di Boineburg, Leibniz si trattiene ancora a Parigi e nel 1973 compie un primo viaggio a Londra, per conto dell’elettore di Mainz. Quando anche questi muore, cerca un nuovo protettore e lo trova nel duca Johann Friedrich di Hannover, che gli propone di diventare suo consigliere. Leibniz accetta, ma lascia Parigi soltanto nell’ottobre de 1676, dopo una seconda visita a Londra, dove presenta alla Royal Society un modello di macchina calcolatrice. Durante il viaggio di ritorno sul continente, incontra Spinoza a L’Aia.
Nel 1679 avvia un progetto per la costruzione di mulini a vento orizzontali per il drenaggio dell’acqua, nelle miniere dello Harz. Continua a occuparsi della realizzazione dei mulini, anche dopo la morte del duca di Hannover, sotto il successore Ernst August, finché questi, nel 1685, porrà una fine all’impresa. Nel 1684, sulla rivista “Acta Eruditorum ”, Leibniz rende pubblica la scoperta del calcolo infinitesimale, del quale era in possesso già da qualche anno (Nuovo metodo per i massimi e i minimi e per le tangenti). Gli anni che vanno dal 1680 al 1686 sono anni d’intensa attività, soprattutto per quello che riguarda la filosofia. In questo periodo scrive il Discorso di metafisica (che rimarrà inedito, ma che contiene il nucleo centrale del suo pensiero); inizia la corrispondenza con Antoine Arnauld e compone un ampio saggio, nel quale s’ingegna di ridurre la logica a un calcolo (Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità). Intanto sviluppa un’intensa attività diplomatica, continuando a prodigarsi per la riunione delle Chiese cristiane e riceve da Ernst August l’incarico di ricostruire la storia del casato di Braunschweig-Lueneburg, che lo porterà a viaggiare per quasi due anni consecutivi nel sud della Germania e in Italia.
Nel 1690 torna a Hannover e continua a lavorare simultaneamente a un’incredibile quantità di progetti: avvia la storia del casato di Braunschweig, scrive un saggio di dinamica e pubblica una memoria di geologia sulla storia della terra, intrattiene una fitta corrispondenza sulla riunificazione delle chiese e pubblica il Nuovo sistema della natura e della grazia, nel quale espone la propria teoria dell’armonia prestabilita. Allo stesso tempo, continua a darsi da fare per la costituzione di un’Accademia delle scienze, concepita sul modello della Royal Society e dell’accademia francese. Intensifica l’attività diplomatica per fare insediare gli Hannover sul trono d’Inghilterra.
Alla morte di Ernst August, a questi succede il primogenito Georg Ludwig, che nutre scarso interesse per le lettere e le attività culturali in genere e che desidera soltanto veder compiuta la storia del casato di Braunschweig, per la quale Leibniz percepisce uno stipendio fisso.
Tra il 1703 e il 1704 Leibniz scrive i Nuovi saggi sull’intelletto umano , che concepisce come un commento critico al Saggio di John Locke; ma quando l’opera sta per esser data alle stampe, rinuncia alla pubblicazione per via della morte di Locke, parendogli inopportuno pubblicare una critica a un autore che non può più difendersi. I Nuovi saggi vedranno la luce soltanto nel 1765. Del 1710 è la pubblicazione (anonima) dei Saggi di teodicea , nei quali si propone di giustificare Dio dall’accusa di aver creato un mondo imperfetto e di aver permesso il male.
Gli ultimi anni della vita sono funestati da vari eventi negativi. Muoiono Sofia Carlotta (1705), regina di Prussia, e Sofia di Hannover (1714), moglie di Ernst August e madre di Carlotta: le due donne avevano mantenuto per anni con Leibniz un intenso rapporto intellettuale e di affettuosa amicizia. Divampa, inoltre, la disputa con Newton sulla priorità della scoperta del calcolo infinitesimale, che vede coinvolti gran parte dei matematici e degli scienziati del tempo e che, pur durando a lungo dopo la scomparsa dei due protagonisti, si rivelerà priva di fondamento. Paradossalmente, anche il successo delle attività diplomatiche di Leibniz sarà fonte di ulteriore amarezza: l’elettore Georg Ludwig di Hannover, una volta salito sul trono d’Inghilterra come Giorgio I, trasferirà a Londra la corte, lasciando Leibniz a Hannover, dove muore il 14 novembre 1716.
La caratteristica universale e il calcolo logico
Nella Dissertazione sull’arte combinatoria, Leibniz osserva che qualsiasi concetto complesso è scomponibile in parti mediante analisi (il concetto di uomo, per esempio, si compone dei concetti di animale e di razionale). Se si procede sistematicamente a scomporre le parti e poi, di nuovo, le parti delle parti del concetto dato, si raggiungeranno, infine, un certo numero di concetti semplici, non ulteriormente analizzabili. Ripetendo il procedimento per ciascun concetto complesso, si otterranno tutti i concetti semplici, dalla combinazione dei quali scaturiscono tutti i complessi. Ora, se a ciascun concetto semplice viene associato un segno semplice di un opportuno alfabeto (fatto di lettere, di figure o di un qualunque insieme di segni), una volta che sia avviato il procedimento di ricombinazione dei semplici, ciascun concetto complesso sarà espresso in maniera univoca da un particolare insieme di simboli dell’alfabeto. I vantaggi di tale meccanismo, qualora fosse realizzato, sono evidenti: a) dalla sola ispezione di un aggregato di simboli si otterrebbe una descrizione esaustiva e, soprattutto, non equivoca, del concetto corrispondente a quell’aggregato; b) mentre i semplici verrebbero raggiunti analizzando concetti noti, la ricombinazione dei semplici potrebbe condurci a scoprire nuovi concetti complessi; c) dal momento che una proposizione elementare è costituita dalla giustapposizione di due concetti (il concetto corrispondente al soggetto e quello corrispondente al predicato), si potrebbero ottenere non solo tutte le proposizioni vere note, ma anche verità finora sconosciute; d) verrebbe così costruito un linguaggio capace di esprimere direttamente i rapporti tra concetti, e quindi di natura universale, intelligibile a tutti gli uomini.
Col passare degli anni, Leibniz complicherà ulteriormente il progetto appena delineato, integrandolo con altri progetti “satellite”, finalizzati alla realizzazione di quella che chiamerà caratteristica universale (characteristica universalis). “Caratteri” sono i segni di un qualsiasi linguaggio e la “caratteristica universale” allude in primo luogo a un linguaggio sul tipo di quello prefigurato nella Dissertazione sull’arte combinatoria. Leibniz, tuttavia, si rende conto che per procedere a un’analisi compiuta dei concetti è necessario, prima di tutto, disporre di un inventario generale di tutte le conoscenze in possesso del genere umano. Per questo motivo elabora vari piani per la costruzione di un’enciclopedia generale di tutto il sapere del tempo. Una volta costruita l’enciclopedia, sarebbero rimasti ancora aperti, tuttavia, due compiti: a) definire le regole per condurre a termine l’analisi e quindi la ricombinazione dei concetti; b) trovare l’alfabeto adatto per costruire la caratteristica in senso proprio. Per trovare una soluzione ad a), Leibniz pensa alla costituzione di una scienza generale formata, di due parti: l’analisi e la sintesi; per risolvere il secondo problema, pensa alla costituzione di un’accademia di scienziati che abbia, tra i vari compiti, quello di trovare l’insieme di caratteri più adatto. Provvisoriamente, in attesa di trovare i caratteri giusti, egli suggerirà d’impiegare numeri primi per designare i concetti semplici.
Un momento fondamentale del progetto per la costruzione dell’arte caratteristica resta tuttavia, per Leibniz, la riduzione del ragionamento umano a un calcolo. Per questo scopo si applica alla stesura di saggi, nei quali usa le lettere dell’alfabeto latino come variabili per concetti o proposizioni e gli usuali simboli di somma e prodotto per rappresentare operazioni logiche. Arriva quindi a ottenere risultati che saranno riscoperti in maniera autonoma da George Boole quasi due secoli dopo (la maggior parte dei lavori di Leibniz dedicati al calcolo logico rimarrà inedita fino ai primi del Novecento).
Concetto completo e Discorso di metafisica
Nel Discorso di metafisica (1686), Leibniz mette a fuoco una nozione centrale della sua filosofia, quella di concetto completo. Il “concetto completo” viene strettamente connesso a quello che egli chiama “il criterio di verità” di ogni proposizione: una qualsiasi proposizione in forma elementare soggetto-predicato, sia essa necessaria, contingente, universale, particolare o singolare, è vera se il concetto del predicato è contenuto nel concetto del soggetto. Così, per esempio, “ogni uomo è mortale” è una proposizione vera, poiché il concetto corrispondente a “mortale” è contenuto tra le note costitutive del concetto corrispondente a “uomo”. Analogamente, “Socrate è un filosofo” è vera, in quanto essere un filosofo è una proprietà inerente al concetto completo corrispondente a “Socrate”. Un concetto completo è una sorta di descrizione esaustiva di tutto ciò che si può asserire con verità di un determinato individuo.
Leibniz ritiene che il mondo che ci circonda sia composto da una pluralità di sostanze individuali, ciascuna delle quali è subordinata a un concetto completo. Secondo una concezione radicata nella tradizione cristiana, alla quale Leibniz si uniforma, Dio, alla stregua di un architetto che costruisce una casa, quando si accinge a creare il mondo attuale, se ne forma un modello nella propria mente. Leibniz ritiene che siffatto modello si componga dei concetti completi di tutti gli individui (sostanze individuali) che potrebbero farne parte e che Dio, al fine di poter scegliere liberamente il mondo da creare, costruisca una pluralità infinita di mondi possibili. Ciascun mondo possibile non è che un insieme di concetti completi tra loro compatibili, tali cioè che la loro compresenza nel modello del mondo non genera alcuna contraddizione logica.
Leibniz illustra compiutamente la sua visione dei mondi possibili nelle pagine finali della Teodicea (1710). I mondi sono disposti in una struttura piramidale: al vertice è situato il mondo che risulta il migliore di tutti e poi giù, verso il basso, e senza che si raggiunga mai una fine, seguono mondi sempre meno perfetti. Il mondo perfetto è unico, perché se ce ne fosse più d’uno, Dio dovrebbe scegliere in base a un puro atto di volontà, senza poter giustificare la sua scelta sulla base delle proprietà intrinseche del mondo. D’altra parte, i mondi possibili devono essere più di uno poiché, se vi fosse un solo mondo, qualora Dio decidesse di crearlo, sarebbe costretto a creare quel mondo (la sua scelta cadrebbe soltanto tra crearlo oppure no). Riguardo ai criteri in base ai quali il mondo creato è il migliore, Leibniz menziona soprattutto la semplicità delle leggi naturali che lo governano, associata alla varietà dei fenomeni e alla quantità di esseri che lo popolano. Il mondo attuale, quello scelto da Dio, contiene il massimo possibile di sostanze individuali e ha le leggi più semplici: ovvero, a parità di complessità, alle leggi del nostro mondo si subordina un maggior numero di fenomeni, rispetto a quanto accade negli altri mondi.
Come Leibniz precisa, il nostro mondo è il solo a esistere: tutti gli altri hanno una natura puramente ideale e sono semplicemente pensati da Dio. Che il mondo attuale esiste significa che Dio ha deciso di creare gli esseri corrispondenti a quel particolare insieme coerente di concetti completi che egli giudica il migliore. Dal momento che in ciascun concetto completo di ciascun mondo possibile sono incluse (come possibili) le leggi che lo governerebbero, qualora l’individuo corrispondente esistesse, l’atto creativo di Dio si limita a far passare un determinato insieme di individui possibili dalla mera possibilità alla realtà, senza niente aggiungere o togliere all’intero meccanismo, una volta messo in moto. Così, se nel concetto completo di Cesare è inclusa la proprietà corrispondente a “passare il Rubicone”, una volta che Cesare è stato creato, risulterà vero che passerà il Rubicone. Il passaggio del Rubicone da parte di Cesare non potrà essere modificato neppure da Dio; e lo stesso discorso si applica a tutte le sostanze individuali che popolano il mondo in cui esiste Cesare. Così, però, il mondo sembra governato da una ferrea necessità e uno dei problemi che Leibniz dovrà affrontare è come rendere compatibili la teoria della verità e del concetto completo con la convinzione che nel mondo esiste la contingenza. La questione può essere vista anche in modo più diretto, semplicemente considerando la nozione leibniziana di verità. Secondo tale nozione, una qualsiasi proposizione è vera se è analitica (se cioè il predicato esplicita una proprietà contenuta nel soggetto): è problematico, tuttavia, assumere che una proposizione sia analiticamente vera e non sia necessaria.
Le difficoltà connesse al criterio analitico della verità appaiono evidenti già ad Antoine Arnauld (1616-1698), al quale Leibniz illustra in varie lettere la propria concezione; e, in effetti, si può dire che il problema di giustificare la contingenza (e, di conseguenza, la libertà dell’agire umano) abbia tormentato Leibniz fino alla fine dei suoi giorni. Di tale problema egli offre due soluzioni, che non è agevole conciliare e che forse lo stesso Leibniz si limita a giustapporre, destinandone ciascuna a un pubblico differente.
Secondo la prima soluzione, nel concetto completo di ogni individuo creato sarebbero compresi, oltre alle leggi di natura che governano il mondo, anche certi decreti ultimi, che hanno guidato Dio nella costruzione del mondo stesso. Se pensiamo alle azioni degli individui come a conseguenze dell’avere un determinato concetto completo, allora, per esempio, il passare il Rubicone da parte di Cesare segue dal concetto completo di Cesare; e perciò segue anche dai particolari decreti divini che in quel concetto sono inclusi. Come osserva Leibniz, assunti i decreti di Dio e l’intera natura del concetto completo di Cesare, il passare il Rubicone segue di necessità dal concetto di Cesare: si tratta, tuttavia, di una necessità condizionata. Sotto l’ipotesi di altri decreti divini, il passaggio del Rubicone potrebbe non verificarsi, e in questo senso è una proprietà contingente. Naturalmente, la soluzione appena prospettata solleva un ulteriore problema: se al variare dei decreti divini il concetto completo di Cesare, o comunque l’individuo che vi corrisponde, non rimane il medesimo, non è chiaro in che senso per il Cesare che passa il Rubicone sia possibile non passarlo, rendendo il passaggio un fatto contingente.
L’altra soluzione, per esplicita ammissione di Leibniz, è destinata a un pubblico di persone che abbiano almeno “un’infarinatura di matematica”. Leibniz ritiene che una dimostrazione in senso proprio consista nel passaggio da premesse, o assunzioni, a una determinata conclusione in un numero finito di passi. Ora, tra i concetti che compongono un determinato concetto completo, alcuni seguono da altri, e quindi sono dimostrabili logicamente a partire da questi ultimi, mentre altri non sono deducibili in un numero finito di passi. Per esempio: se Socrate è uomo, si può dimostrare che è razionale, in quanto l’esser razionale può esser dedotto, mediante definizioni e opportune sostituzioni, dal concetto di uomo. Dal concetto di uomo, però, non è deducibile l’esser saggio o filosofo; e per poter dimostrare, dal concetto completo di Socrate, che questi è filosofo occorre far riferimento a nozioni che concernono il mondo e che sono di una complessità infinita. Leibniz afferma, quindi, che contingenti sono tutte quelle proprietà che non si possono dedurre dimostrativamente da un determinato concetto completo: in questo senso, “passare il Rubicone” è una proprietà contingente di Cesare. È importante osservare, a questo proposito, che neppure Dio, che pur domina l’infinito, può dimostrareche “passare il Rubicone” inerisce al concetto completo di Cesare: egli, cogliendo l’infinito con un solo sguardo, vede l’inerenza, e quindi ne ha certezza, ma non è in grado di dimostrarla. Questa soluzione, per ammissione dello stesso Leibniz, è concepita sulla base di un’analogia col calcolo infinitesimale e forse, proprio per questo è, in certo senso, “estrinseca”: non spiega quale sia la relazione che lega tra loro dimostrabilità e contingenza. Non chiarisce, cioè, in che senso, se la proprietà di passare il Rubicone non è dimostrabile a partire dal concetto completo di Cesare, ciò implichi che Cesare avrebbe potuto non passarlo.
Leibniz, tuttavia, divulga tra un numero relativamente piccolo di corrispondenti la soluzione che fa appello all’analisi infinita: di solito preferisce far riferimento alla soluzione che si richiama alla necessità condizionata e, come accade nella Teodicea, ne accetta le conseguenze per quel che riguarda l’identità individuale. Nella Teodicea, discutendo il caso del romano Sesto che uccide una donna nel nostro mondo, afferma infatti che avrebbe potuto non ucciderla, in quanto un Sesto del tutto simile a lui, in un altro mondo, non la uccide. In altri contesti, tuttavia, soprattutto in scritti non destinati alla pubblicazione, manifesta insoddisfazione per questa posizione, che probabilmente gli sembra entrare in conflitto con la nozione di responsabilità individuale.
La scelta razionale
Se la teoria del concetto completo, associata alla nozione di verità come inerenza del predicato nel soggetto, pone Leibniz nella condizione di ammettere che una qualche sorta di necessità lega le proprietà contingenti di un individuo alla sua essenza individuale, avvicinandolo pericolosamente a Spinoza, le cose non vanno meglio per la teoria dell’azione. Secondo Leibniz, infatti, tutto ciò che accade è regolato da un principio metafisico fondamentale: il cosiddetto principio di ragion sufficiente. Tale principio afferma che niente avviene senza una ragione che ne determini il verificarsi. “Ragione”, in questo caso, è assunto da Leibniz come sinonimo di “causa”, sebbene in qualche occasione egli cerchi di differenziare i due concetti, senza dare mai, tuttavia, un carattere sistematico alla distinzione.
Leibniz ritiene che gli esseri umani, quando scelgono, non agiscono mai in base a un puro atto di volontà, ma che la volontà segue sempre a un giudizio relativo a ciò che ritengono sia il loro bene. Leibniz concepisce l’anima umana come una specie di campo di forze, o impulsi, che, in ogni momento, puntano in diverse direzioni; e sostiene che ogni scelta che facciamo corrisponde alla composizione di tali forze in una direzione prevalente. Egli nega, cioè, che si diano situazioni nelle quali la nostra anima si trova in uno stato d’indifferenza nei confronti di una qualsiasi scelta. Il caso dell’asino di Buridano che, posto a eguale distanza da due secchi d’acqua, identici per formato e per il liquido contenuto, morirebbe di sete se non si decidesse a un atto arbitrario della volontà, è reputato da Leibniz una “mera finzione dei filosofi”. Nella vita reale non si dà mai una situazione del genere: l’asino, per continuare nell’esempio, troverebbe comunque, nei due secchi, nel modo in cui sono situati, oppure nel susseguirsi o nel disporsi delle proprie percezioni, un motivo per preferire l’uno all’altro. In tutte le scelte che compiamo nella vita quotidiana, anche nelle più banali, c’è sempre un fascio di percezioni, situato al di sotto della soglia della coscienza, che contribuisce, spesso in maniera decisiva, a determinare il prevalere di un impulso su un altro e quindi a orientarci nella scelta. Leibniz sostiene esplicitamente che non è possibile sottrarsi all’impulso prevalente: anche in questo caso, egli cerca di difendere la libertà della scelta, appellandosi alla possibilità puramente logica di una scelta differente da parte dell’agente. In altri termini, il fatto che esista un mondo possibile in cui un determinato agente non compie la scelta che fa in questo mondo, rende quest’ultima contingente, e non necessaria. Leibniz compie ogni sforzo per difendere la tesi che l’agire umano è determinato e libero, ma i presupposti della sua metafisica rendono difficilmente conciliabili queste due proprietà.
Le monadi
Per la maggior parte di coloro che al liceo, oppure con lo studio personale, si sono fatti un’idea della storia della filosofia, Leibniz è “il filosofo delle monadi’. Inoltre, sebbene ai più non sia ben chiaro cosa sia una monade, è probabile che, nel ricordo liceale, al nome “monade” rimanga associata l’affermazione imperscrutabile secondo la quale “le monadi non hanno porte né finestre”. In realtà, al di là della semplificazione indotta dai manuali, è corretto attribuire a Leibniz sia la teoria delle monadi sia l’affermazione appena menzionata.
La parola “monade” deriva dal greco e significa un’unità indivisibile, un elemento isolato, chiuso in se stesso. Leibniz dà il nome di “monadi” a certi atomi immateriali, che ipotizza siano a fondamento della realtà esistente, e che concepisce come concentrati di energia, attraversati ciascuno da un flusso continuo di rappresentazioni. Le monadi sono atomi poiché, essendo immateriali, non sono divisibili. Leibniz è spinto a ipotizzare l’esistenza delle monadi (parlerà sempre, infatti, di “ipotesi delle monadi”) dallo studio della dinamica (= studio delle forze; una disciplina per la quale conierà il nome). Si rende conto, infatti, che la prospettiva cartesiana che cercava di spiegare la fisica con i soli concetti di materia in movimento secondo certe leggi è inadeguata, in quanto non riesce a dar conto del concetto fondamentale di forza. A questo scopo, immagina che il mondo dei fenomeni, il mondo come appare a noi, sia il prodotto dell’attività incessante di un’infinità di centri di energia, le monadi, appunto, in tutto simili ad anime. Ciascuna di queste anime si rappresenta il mondo secondo la propria prospettiva, senza agire direttamente sulle altre anime e senza subire la loro azione: in questo senso, oltre che indivisibile, ciascuna monade è un mondo a parte.
Ogni monade, eccetto Dio, può esistere soltanto associata a un corpo. Leibniz immagina, pertanto, che ciascuna monade domini su una “colonia” di monadi che le è subordinata e che funge da “corpo”. La “colonia” è composta a sua volta da un aggregato di monadi, ciascuna delle quali domina su una colonia, e così via, all’infinito. In questa costruzione, uno dei principali problemi è come sia da intendere l’aggregazione, dal momento che le monadi non sono parti della realtà (allo stesso modo che il punto geometrico compone la linea, senza esserne parte). Un secondo problema (in ultima analisi una variante del precedente) è come si generi da un aggregato di enti immateriali un corpo materiale. Leibniz, per risolvere questo problema, cerca di differenziare vari concetti di materia, ma le soluzioni a cui perviene rimangono oscure.
Gottfried Wilhelm Leibniz
Filalete e Teofilo discutono sui termini
Nuovi saggi sull’intelletto umano
I termini generali
§ I. FILALETE: Benché esistano solo cose particolari, la maggior parte delle parole è costituita da termini generali, § 2, perché è impossibile che ogni cosa particolare possa avere un nome particolare e separato: si aggiunga che bisognerebbe avere una memoria prodigiosa, in confronto alla quale quella di certi generali che conoscevano i nomi di tutti i loro soldati sarebbe nulla. La cosa andrebbe all’infinito, se ogni animale, ogni pianta, e perfino ogni foglia della pianta, ogni seme, ogni granello di sabbia che si potrebbe aver bisogno di nominare, dovesse avere il suo nome. Come chiamare poi le parti delle cose che ai nostri sensi risultano uniformi, come l’acqua, il ferro? § 3. Questi nomi particolari riuscirebbero, d’altronde, inutili, dato che il fine principale del linguaggio è quello di richiamare nello spirito di chi mi ascolta un’idea simile alla mia: ed è per ciò che basta la somiglianza suggerita dai termini generali. § 4. Le parole particolari da sole non servirebbero ad estendere le nostre conoscenze, né a far giudicare l’avvenire dal passato o in individuo da un altro. § 5. Nondimeno, poiché spesso occorre nominare determinati individui, specialmente della nostra specie, ci si serve di nomi propri, che si danno ai paesi, alle città, alle montagne, e ad altre distinzioni di luoghi. I cavalieri mettono i nomi propri perfino ai loro cavalli, come Alessandro al suo Bucefalo, in modo da poterli distinguere l’uno dall’altro, quando sono lontani dalla loro vista.
TEOFILO: Queste osservazioni sono buone e fra esse ve ne sono alcune che convengono a quanto io dicevo poco fa. Ma aggiungerei, come ho già osservato, che i nomi propri erano, ordinariamente, appellativi, cioè generici nella loro stessa origine, come Brutus, Caesar, Augustus, Capito, Lentulus, Piso, Cicero, Elbe, Rhin, Rur, Seine, Oker, Bucefalo, Alpi, Brenner, Pirenei. È noto che il primo Bruto ebbe quel nome dalla sua apparente stupidità, che Cesare fu il nome di un fanciullo tratto mediante taglio del ventre materno, che Augusto fu un nome di venerazione, che Capitone significa testa grossa e così pure Bucefalo, che Lentulo, Pisone e Cicerone furono nomi dati in principio ad alcuni che coltivavano certe specie di legumi. Sul significato dei nomi dei fiumi, come Rhin, Rur, Seine, Oker, ho già parlato: in Scandinavia tutti i fiumi si chiamano Elba. Alpi, infine, sono dette tutte le montagne coperte di neve (album, bianco), e Brenner o Pirenei significano una grande altezza, giacché bren vuol dire alto, o capo (come Brennus) in celtico, e come, ancora, brinck nella bassa Sassonia significa altezza; e fra la Germania e l’Italia vi è un Brenner, come fra le Gallie e la Spagna, i Pirenei. Perciò io oserei dire che quasi tutte le parole furono originariamente termini generici, giacché molto raramente accade che occorra inventare, senza ragione, un nome particolare per indicare un certo individuo. Si può, dunque, affermare che i nomi individuali furono nomi di specie che, per eccellenza o altro, si attribuivano a qualche individuo; come, ad esempio, il nome di grossa-testa fu attribuito a colui che aveva la testa più grossa della città o che era considerato tale fra quanti si conoscevano. Per la stessa ragione si attribuiscono i nomi dei generi alle specie; accontentandosi, per così dire, di un termine più generale o più indeterminato per indicare specie più particolari, non tenendo conto delle differenze. Così, ad esempio, ci si accontenta del termine generale di assenzio, benché ve ne siano di tante specie, che il Bauhins ne ha riempito tutto un volume.
G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Torino, UTET, 2000