SCOTTI (Scotto), Gottardo
SCOTTI (Scotto), Gottardo. – Nacque verosimilmente a Piacenza o a Milano intorno al 1430, da Balzarino «de Placentia» (pittore, attivo per il duomo di Milano tra il 1409 e il 1434). Non si hanno notizie sulla madre.
La prima menzione che lo riguarda, contenuta nei libri mastri della famiglia Borromeo, risale al 1454; la stessa fonte ce lo rivela attivo, nel biennio 1456-57, per piccoli lavori (salvo diversa indicazione, ci si riferisce sempre a Natale, 1982, con bibliografia precedente). Nello stesso 1457 il pittore fu impegnato in decorazioni per un arco trionfale in onore di Cicco Simonetta (da immaginare, stante la vicinanza di date, non troppo lontano nell’impostazione architettonica da quello che inquadra i Tre Crocifissi di Vincenzo Foppa, oggi alla Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo) e, nel duomo di Milano, lavorò a due opere effimere: le decorazioni apposte alla cantoria del coro e un capocielo posto sopra l’altar maggiore. L’anno successivo collaborò ancora a un arco trionfale, questa volta in onore di uno Zanetto, e dorò due angeli scolpiti fatti realizzare da Ambrogio Trivulzio per la parrocchiale di Locate. Il 17 dicembre 1459 collaudò, insieme a Cristoforo da Monza, una ‘Maestà’ dipinta da Ambrogio Zavattari per una cassetta delle offerte all’altar maggiore. Dopo la collaborazione a un nuovo arco di trionfo, questa volta in onore di Tristano Sforza, pagata il 22 gennaio 1460, Gottardo lavorò ancora per casa Borromeo: nel 1464 eseguì pitture per la facciata della confraternita dell’Umiltà e l’anno dopo provvide alla doratura di altri due angeli scolpiti per la chiesa di S. Maria Podone. Ancora in duomo si registrano la coloritura e doratura della cassa dell’organo e l’esecuzione di un paliotto raffigurante Cristo in pietà tra le ss. Tecla e Pelagia per l’altare di S. Tecla tra l’ottobre e il dicembre 1465; seguirono l’anno successivo altri quattro paliotti per altrettanti altari, tre analoghi al precedente (un Cristo in pietà tra santi) e un quarto con l’immagine della Madonna in adorazione del Bambino; la pittura di un rilievo con tre figure; e infine le ante dell’organo e la doratura di due angeli scolpiti per l’altar maggiore. Un’altra coppia di angeli per il duomo fu da lui intagliata e dipinta nel 1470, mentre l’anno dopo dipinse un gonfalone con l’immagine dei ss. Ambrogio, Gervasio e Protasio e una ‘idea’, cioè un’immagine per la processione annuale del 2 febbraio. La collaborazione organica con la fabbrica è attestata anche negli anni seguenti: si occupò della policromia di alcune chiavi di volta nel 1474-75 e dei medaglioni con i Padri della chiesa nei pennacchi del tiburio nel 1478. Più interessanti la ‘copertina’ per l’altar maggiore, collaudata da Zanetto Bugatto e Melchiorre Lampugnani il 9 agosto 1474, e la ‘Maestà’ nel 1475, destinata al retrocoro. I lavori per la cattedrale proseguirono nel 1482 (coloritura di altre chiavi di volta ed esecuzione di un ex voto e di un capocielo per il pulpito); un pagamento del 23 luglio 1485 lo designa esplicitamente quale «pictor fabrice» (Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, III, 1880, p. 26).
La prestigiosa qualifica non impedì a Scotti di lavorare anche per altri committenti: nel 1467 eseguì una serraglia per la chiesa di S. Giovanni al Ponte, nel 1472 collaudò insieme a Giovanni Vismara gli affreschi dipinti da Zanetto Bugatto in S. Maria delle Grazie a Vigevano e nel 1474 attese alla decorazione della cappella delle Reliquie nel castello di Pavia insieme a Giovan Pietro da Corte (capofila della squadra), Pietro Marchesi, Stefano de Fedeli, Melchiorre da Lampugnano e forse Raffaele da Vaprio (cordata di pittori che risultò vincitrice su quella formata da Vincenzo Foppa, Bonifacio Bembo, Giacomino Vismara, Costantino da Vaprio e Zanetto Bugatto: Albertario, 2003b, pp. 62-70, 96-98). Viceversa è stata smentita la notizia che Gottardo sarebbe stato coinvolto anche negli affreschi della cappella ducale nel castello di Milano, realizzati nel 1473 (Albertario, 2003a); mentre lo fu, l’anno dopo, negli affreschi a soggetto dinastico della «sala nova» (Albertario, 2003b, p. 63) nello stesso edificio, insieme a Giovan Pietro da Corte e Stefano de Fedeli.
Nel febbraio del 1474 i tre pittori vennero interpellati, evidentemente per la richiesta di un preventivo, ma ancora nell’agosto non si era decisa la squadra di artisti cui affidare l’incarico. Il fatto che prima del dicembre 1476 il battiloro Santino da Ello si rivolgesse al duca Galeazzo Maria Sforza per ottenere il saldo dei materiali forniti ad Antonio da Rho, Giacomino Vismara, Melchiorre da Lampugnano, Gottardo Scotti, Pietro Marchesi e Vincenzo Pestegala farebbe supporre che questi pittori si fossero aggiudicati l’incarico; non si può però escludere che la supplica si riferisse alla coeva decorazione della cappella delle Reliquie a Pavia (Albertario, 2003a, pp. 55-60).
Nel 1475 Gottardo eseguì la «dipintura de 5 tele de pertiche da sparvieri» per casa Borromeo, mentre nel 1480 inviò una ‘Maestà’, dotata anche di cortina protettiva, a Candoglia, la località da cui proveniva il marmo destinato alla cattedrale milanese, nei cui conti la notizia è registrata. In quell’anno acquistò da Ambrogio da Tradate uno stemmario, forse strumento di lavoro per apparati e decorazioni ufficiali (Santoro, 1969, p. 103). Nel 1481 fu eletto tra gli otto delegati dell’Università dei pittori di Milano, nei confronti del cui presidente, Gottardo da Corte, risultò debitore nel 1482. Pare probabilissima l’identificazione con lo Scotti del «Gottardo da Piacenza» incaricato il 18 maggio 1482 di dipingere una pala d’altare raffigurante la Madonna col Bambino e santi per la chiesa di S. Terenzo a Lerici (Alizeri, 1870, pp. 335 s.). Scotti era già morto il successivo 13 ottobre, forse vittima dell’epidemia di peste che colpì Milano in quell’anno.
L’unica opera certa di Scotti è il trittichetto ad ante mobili acquistato nel 1883 dal Museo Poldi Pezzoli di Milano presso l’antiquario Giuseppe Baslini, proveniente dalla chiesa di S. Maria di Mazzo, in Valtellina: esso è firmato «GOTARDV‹S› [de] ‹S›COTIS DE MELLO [Mediolano] PINSIT» (Natale, 1982; Romano, 1982b; Cavalieri, 2015).
Emerge da quest’opera un maestro assai ben inserito nel contesto della pittura milanese verso la fine degli anni Sessanta (benché le proposte cronologiche siano disparate, arrivando fino agli anni Ottanta), soprattutto sul versante che, partendo dallo stile cortese (anche per evidenti ragioni generazionali), si aggiorna su una linea latamente pierfrancescana, caratterizzata da una aperta luminosità e da un’attenzione costante ma non estremizzata per la prospettiva. Un indicatore assai utile per la cronologia e la cultura figurativa del trittico è fornito, sia pure a un livello qualitativo alquanto inferiore, dal bolognese Cristoforo di Benedetto, il cui polittico, parzialmente conservato alla Pinacoteca nazionale di Bologna e datato 1467, rappresenta un buon referente cronologico per l’anconetta Poldi Pezzoli. Stringenti affinità sono poi esibite dal frammento di ancona raffigurante Bona di Savoia presentata da una santa martire, oggi alla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano, proveniente dall’altare dedicato in duomo alla Resurrezione di Cristo, di patronato ducale (per la provenienza: Albertario, 2003a, p. 58; per l’attribuzione a Gottardo Scotti: Villata, 2004, pp. 20 s.; Buganza, 2008, p. 215; Villata, 2011).
Potrebbe essere un relitto dell’ancona ligure la Madonna col Bambino tuttora presente in S. Terenzo a Lerici, di difficile lettura a causa dei molti restauri (De Floriani, 1992, p. 470). Infine appare problematica la tavola con Storie mariane già in collezione Cologna a Milano (Wittgens, 1929; Salmi, 1929-1930) e oggi in una diversa raccolta privata (Villata, 2004, pp. 21 s.; Agosti, 2005). La cornice presenta una firma non originale, ma che potrebbe recare memoria di un’altra realmente presente ab antiquo. Malgrado il sospetto di un’operazione commerciale sulla scia dell’interesse suscitato dall’opera oggi a Milano, il fatto che buona parte (secondo Villata, 2004 e 2009) o tutto il dipinto (secondo Buganza, 2006, e Tanzi, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi, 2010) sia opera del comasco Andrea de Passeris, stilisticamente legato agli eredi della bottega familiare degli Scotti, sembra un indizio a favore della genuinità dell’indicazione. Se è così, la tavola ex Cologna può considerarsi testimonianza della fase ultima del percorso di Gottardo, ormai affiancato da una ben organizzata bottega.
Figli di Gottardo furono i pittori Giovanni Stefano (talvolta indicato solo come Stefano) e Giovanni Bernardino. Documentati la prima volta nel già citato documento del 1485, essi vennero designati «pictores fabrice» del duomo di Milano allorché, il 16 aprile 1487, ricevettero 16 lire, parte del compenso per la doratura della statua marmorea della Madonna del coazzone (Villata, 2004, con bibliografia precedente, anche per le notizie che seguono). Bernardino ricevette da casa Trivulzio 64 lire e 13 soldi per pitture realizzate nel 1488 e nel 1500. Il 31 marzo 1491 i due fratelli furono pagati dalla fabbriceria del duomo per la costruzione e la decorazione di un organo. Il 3 giugno dello stesso anno Stefano figura tra i membri della milanese Scuola di S. Luca. Nel novembre del 1499 i fratelli Scotti vantavano crediti verso gli eredi di Filippo Maria Sforza, fratello di Ludovico il Moro, forse legati al lascito testamentario da parte dello Sforza nel 1492 per l’erezione di una cappella in S. Angelo (Rossetti, 2011). Il 31 dicembre 1505 Stefano ricevette 44 lire imperiali dalla fabbrica del duomo per lavori compiuti l’anno precedente «in nonnullis mayestatibus et cartonis depinctis pro usu cantilenarum» (forse delle miniature?) e altre 243 lire e 10 soldi «occasione depinture [...] circa capcelum altaris magni et lectorinum magnum [...] et circa triumphum factum sub tuburio [...] et pro depinctura ab eo facta super ianua domus quondam magistri Dionisii de Nurimberga» (Shell, 1995, p. 270), e ancora per un altro «triumphum» eretto in occasione della solennità del Corpus Domini. Ulteriori lavori per il duomo risalenti al biennio 1504-05 furono saldati il 27 marzo 1506, l’8 ottobre (oltre 137 lire) e il 19 gennaio 1507 (19 lire). Stefano venne rimunerato per l’opera svolta negli apparati trionfali allestiti per l’ingresso del re Luigi XII in duomo il 13 giugno 1507: che in questo genere di lavori compaia il solo Stefano fa pensare che le decorazioni all’antica fossero una sua specifica specialità. Sempre lui firmò a nome del fratello, il 10 maggio 1510, l’atto con cui Giovan Pietro da Corte, priore della Scuola di S. Luca, richiedeva il pagamento delle quote arretrate, maggiorate da una multa, ad alcuni pittori dissidenti tra i quali Bernardo Zenale, Bramantino, Giovanni Antonio Boltraffio e Giovanni Agostino da Lodi. Ancora a Stefano la fabbrica del duomo corrispose pagamenti il 18 luglio 1508 e il 12 dicembre 1510; minori emolumenti vennero sborsati a Giovanni Bernardino il 21 novembre 1509. Il 29 dicembre 1516 Stefano ricevette ancora dalla fabbrica del duomo 212 lire e 3 soldi insieme al pittore Giovanni Francesco Niguarda, figliastro di Giovanni Antonio Amadeo e anche lui specializzato in apparati trionfali (ma qui si tratta di lavori di doratura, come quelli pagati ai due nel 1517, 1518 e 1519). Stefano venne saldato, insieme a un Agostino (Giovanni Agostino da Lodi?), per i lavori effettuati in occasione delle esequie del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio nel 1519. Il 18 giugno 1524 fece testamento Anna Turati, vedova di Giovanni Bernardino: quest’ultimo aveva un figlio illegittimo, Battista, che era cresciuto in casa; Anna, dopo la morte del marito, si era trasferita presso il cognato, tuttora vivo, che tuttavia non avrebbe dovuto avanzare alcun diritto sui beni di Turati.
«Ne i rebeschi ci sarebbe molto che dire, benché Stefano Scotto senza dubbio sia stato il principale, però Gaudenzio in quelli l’ha superato, il quale fu suo primo discepolo, ed insieme del Lovino»: così Giovanni Paolo Lomazzo (Trattato dell’arte de la pittura, in Lomazzo, 1974, p. 366) si espresse e a proposito di Stefano, designandolo come specialista di ‘rebeschi’, cioè di grottesche su fondo colorato, ispirate alla Domus Aurea neroniana (per la discussione su questo passo e sul concetto di ‘rebeschi’: Villata, 2004, pp. 15-18), e come maestro di Gaudenzio Ferrari e Bernardino Luini (malgrado qui il senso grammaticale faccia invece Gaudenzio allievo del più giovane Luini). La prima informazione pare confermata dal costante coinvolgimento del pittore in apparati trionfali in cui il repertorio all’antica era elemento essenziale, mentre la seconda ha portato – a partire da Giovanni Testori (1956, 1965) e Giovanni Romano (1982a) – a riferire a Scotti gli affreschi della cappella delle Grazie in S. Maria delle Grazie a Varallo e del sacello della Dormitio Virginis al Sacro Monte valsesiano, opere di un artista milanese della prima metà degli anni Novanta. Questi affreschi, nei quali Testori ha ipotizzato una partecipazione del giovanissimo Gaudenzio, si pongono su una linea coerente, anche se più aggiornata (ma non compaiono le vere novità milanesi, tra Bramantino e Leonardo), con la cultura espressa da Gottardo Scotti. Un ulteriore indizio, già sottolineato da Romano, è costituito dalla stretta vicinanza tra gli affreschi varallesi e quelli del tramezzo con Storie della Passione di S. Maria delle Grazie a Bellinzona. Si tratta in entrambi i casi di cantieri dell’osservanza francescana e i confronti dimostrano che davvero le due imprese furono realizzate dalla stessa bottega. A ciò si aggiunga che Varallo e Bellinzona sono legate anche da un giro di iconografie assai diffuse nel secondo Quattrocento lombardo, in ambito francescano osservante e non solo (da Milano a Bergamo a Cerete Alto a Balerna). Gli affreschi bellinzonesi (cui va aggiunto un S. Francesco affrescato su un pilastro, riemerso dopo il recente restauro) esibiscono però una cultura figurativa più aggiornata, in particolare sull’analogo tramezzo varallese di Gaudenzio – non a caso interlocutore privilegiato –, terminato nel 1513, e si caratterizzano per l’uso della grottesca su fondo colorato, cioè del lomazziano ‘rebesco’. Il tramezzo di Bellinzona era in corso d’opera o forse meglio in procinto di essere iniziato il 31 dicembre 1512 (Chiesi, in Santa Maria delle Grazie a Bellinzona, 2014, p. 44; Calderari, ibid., pp. 53-56), e sicuramente, date le desunzioni gaudenziane, venne terminato dopo il 1513.
Quasi sicuramente fratello di Gottardo fu il pittore Giorgio Scotti, documentato per una vetrata nel duomo di Milano nel 1440 e nel duomo di Como nel 1468; rimangono di lui un S. Pietro Martire nel duomo di Monza e una frammentaria Crocifissione datata 1473 in S. Pietro a Sorico, di linguaggio ancora tardogotico (Conti, 2002; Villata, 2004). Giorgio risulta già morto il 27 maggio 1480 (Longoni, 2005).
Felice Scotto, figlio di Giorgio, ancora minorenne e ormai orfano di padre, sottoscrisse il 27 maggio 1480 (insieme alla madre Caterina de Lalio) un contratto in cui prendeva a bottega per otto anni Bartolomeo de Benzi (Longoni, 2005): è probabile si tratti di un fittizio apprendistato, volto a nascondere un’associazione di fatto. Infatti, in un successivo documento del 1484, i due pittori risultano apertamente soci (Palazzi Trivelli, 1984; per le notizie che seguono: Villata, 2004, con bibliografia precedente). A Como Felice lavorò in duomo (dal 1482 al 1489 alla coloritura di alcune chiavi di volta e, tra il 1488 e il 1490, alla fornitura di cartoni per vetrate alle cappelle di S. Giorgio e di S. Ambrogio, dove già aveva lavorato il padre) e nel convento francescano osservante di S. Croce in Boscaglia a Como, demolito nel 1814. Grazie agli appunti manoscritti di Luigi Lanzi (1793), sappiamo che in questa chiesa eseguì affreschi con Storie di s. Bernardino nell’omonima cappella; la data 1495 riportata da Lanzi potrebbe riferirsi alla pala d’altare, un’«ancona in noce contenente un quadro rappresentante S. Bernardino e varii santi» (Villata, 2004, p. 24) inventariata nel 1805. Il 6 giugno 1498 Felice testimoniò all’atto stipulato tra i rettori della Scuola di S. Maria di Ponte in Valtellina e i fratelli Tomaso e Jacopo Rodari per la costruzione del presbiterio della chiesa di S. Maurizio, mentre l’anno dopo eseguì perduti affreschi in S. Tommaso a Civiglio. Il 3 febbraio 1503, è indicato in un documento come «habitator Caspani» (Leoni, 1997, p. 116), ma si trattò probabilmente di un soggiorno temporaneo, dato che era presente a Ponte in Valtellina il 15 settembre e il 14 ottobre dello stesso anno: nel primo caso partecipò al Consiglio generale di Ponte (nel documento è detto «de Mediolano») e, nel secondo, risulta in compagnia dei fratelli Giovan Angelo e Tiburzio del Maino e del maestro di vetrate Giovanni Stefano della Porta. Il 21 gennaio 1513 era presente a Sondrio, come testimone a un atto, e il 21 ottobre 1514 a Morbegno; l’ultima notizia risale al 1513: un maestro Ambrogio (forse Ghezzi: Rovetta, in Rossi - Rovetta, 1988) venne chiamato a stimare le insegne dipinte da Felice per il Comune di Como.
L’attuale villa Pecco di Como ingloba alcune murature del complesso di S. Croce in Boscaglia, in particolare un grande affresco mutilo raffigurante la Crocifissione con santi. Pur non essendo identificabile con la decorazione menzionata da Lanzi (si tratta verosimilmente di una parete dell’antico refettorio), si è proposto che l’autore possa esserne proprio Felice Scotti. Di sicuro allo stesso maestro sono attribuibili altre opere della medesima qualità e dello stesso linguaggio, una sorta di ‘pittura di luce’ in chiave foppesca e con rimandi alla cultura bolognese e ferrarese: una tavola raffigurante la Crocifissione nel Museo di belle arti di Budapest (Mravik, 1979; Romano, 1982b; Villata, 2004), e la grande pala proveniente da S. Angelo a Milano e oggi alla Pinacoteca di Brera, con la rappresentazione della Crocifissione tra santi. Non si può negare che, se tali opere reggono all’ammirazione di Lanzi («stile assolutamente bello. [...] È vario, espressivo, naturale, giudizioso in comporre. Pochi quattrocentisti in questi paesi ho veduto di tanto merito»), difficilmente si possono riconoscere in esse i caratteri individuati dal grande storiografo: «Ha del Pisanello nella lunghezza dei corpi e delle stature. [...] È vicinissimo al buon gusto del Ghirlandaio, con Pietro [Perugino] non ha nulla di simile» (Lanzi, 1809, 1970); e i rimandi così disparati rendono difficile capire cosa intendesse realmente Lanzi. Se si ritiene che le sue parole impediscano l’identificazione del Maestro di Villa Pecco in Felice Scotti (così Agosti - Stoppa - Tanzi, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi, 2010, pp. 30 s., 37), bisogna allora anche allontanare il nome del cugino di Felice, Giovanni Stefano, dai meno belli ma così prossimi affreschi di Varallo di cui si è parlato, pena l’aporia del ragionamento: che comunque trova definitiva smentita osservando non solo la parentela del linguaggio del Maestro di villa Pecco con quello della tavola già Cologna, ma soprattutto il fatto che identica è la cultura figurativa esibita, pur a un inferiore livello di qualità, da Bartolomeo de Benzi, il cui pluriennale legame con Felice rende assai probabile l’identificazione di quest’ultimo con il pittore di villa Pecco (si veda il polittico in S. Maria a Vico di Nesso, datato 1500; ma che la stessa figura di Dio Padre che incorona la Vergine si trovi negli affreschi di Bartolomeo in S. Maria delle Grazie a Gravedona, datati 1496, e nella cappella della Dormitio Virginis a Varallo, dove probabilmente lavorò anche il giovanissimo Gaudenzio, rappresenta la quadratura del cerchio: Pescarmona, in Rossi - Rovetta, 1988; Di Lorenzo, in Pittura a Como, 1994). Il percorso figurativo di Felice sembra svolgersi coerentemente dalle premesse della tavola di Budapest, quasi un parallelo al primo Butinone, fino alle forme più morbide e alla luce più scivolosa della pala braidense, i cui riferimenti a Zenale dopo gli affreschi della cappella Grifi in S. Pietro in Gessate a Milano (1493-94) valgono come datazione verso la fine degli anni Novanta. La presenza e l’attività di Stefano e Giovanni Bernardino in S. Angelo a Milano in un momento compreso tra il 1492 e il 1499 può rappresentare un indizio significativo, anche se pare da escludere che la pala di Brera vada tout court attribuita ai due fratelli, i quali, nella circostanza di una commissione di particolare prestigio, potrebbero essersi avvalsi della collaborazione del più dotato cugino. In ogni caso già Maria Teresa Binaghi Olivari (1988) aveva riscontrato dislivelli qualitativi nell’opera e la presenza di almeno due differenti pittori. Rimane quindi senza nome il notevole pittore che affresca la cappella della Vergine a Ponte in Valtellina e quella omonima in S. Giorgio a Grosio, per le quali si è pure proposto il nome di Felice (Rovetta, in Rossi - Rovetta, 1988; Agosti - Stoppa - Tanzi, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi, 2010, p. 31).
Un altro figlio di Giorgio, anche lui pittore e più anziano di Felice, fu Giovanni Antonio Scotti, registrato dal Giornale dati e recepti del duomo di Como nel 1473 (Monti, 1897, pp. 63, 169; Conti, 2002, p. 117; Cara, in Campini, 1773, 2011, p. 68).
Giovanni Paolo Scotti, pittore, figlio di Stefano, è documentato nel 1550 per lavori di doratura nel duomo di Milano e per apparati effimeri; fu in rapporti piuttosto stretti almeno dallo stesso anno con Giovanni Battista della Cerva, da cui venne nominato quale possibile tutore dei propri figli nel 1558, 1559 e 1560, a conferma di un legame preferenziale con il mondo di Gaudenzio Ferrari (Sacchi, 2015, pp. 53 s.).
Si conosce l’attività di Giovanni Scotto da Piacenza, figlio di Pietro e verosimilmente afferente al medesimo gruppo familiare (Villata, 2004, p. 28), autore di affreschi a Valperga e a Biella (scomparsi) datati rispettivamente 1462 e 1466.Viveva ancora il 28 ottobre 1484, quando risulta attivo a Levone (Villata, 2004, con bibliografia precedente).
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