DA PONTE, Gottardo
Figlio di un "magister Iacobus" ancora vivente nel 1494,nacque molto probabilmente a Bruges nella seconda metà del sec. XV.
Il suo nome sarebbe la traduzione italiana di Gothard van der Bruggen e il cognome in particolare sarebbe un toponimo: Bruges, in fiammingo Brugge, significa infatti ponte. La presenza di varie famiglie Ponte o Ponzi in Italia, tra cui i Da Ponte, patrizi milanesi originari del Seprio, potrebbe avergli suggerito di adottare la traduzione del suo nome. In effetti il D. (o Pontano, o il Pontio), che esercitò l'attività di editore-libraio e in seguito di tipografo a Milano dal 1498 al 1548, sembra voler sottolineare, nella sottoscrizione del De architectura di Vitruvio del 1521, il fatto di aver scelto Milano come patria di adozione, dal momento che si autodefinisce "cittadino milanese". Sebbene negli atti notarili che lo riguardano non vi sia alcun accenno alle sue origini straniere, possiamo dedurre da alcuni colophon successivi a quello del 1521 che fosse nativo delle Fiandre. Infatti ne El cavaliero di Venturino Venturini del 1530 e nella Philosophia divina di Battista da Crema dell'anno successivo rivela di essere "fiammengo". Evidentemente le mutate condizioni politiche del ducato di Milano, divenuto ormai di fatto in quegli anni feudo imperiale, lo inducevano a sottolineare orgogliosamente l'appartenenza alla stessa patria dell'imperatore Carlo V.Il D. fu il capostipite di una famiglia di editori-tipografi-librai che diede vita ad un'azienda destinata a durare dalla fine del Quattrocento fino agli ultimi anni del sec. XVII. Non sappiamo con esattezza quando si trasferì dal paese d'origine a Milano. Possiamo solo affermare con certezza che nel 1495 prese in affitto una bottega nella parrocchia di S. Satiro e che dovette iniziare molto presto l'attività di editore-libraio e quella di commerciante di carta (lo troviamo infatti iscritto all'università dei cartari): nel 1498 fa stampare dal tipografo Guillaume Le Signerre di Rouen, un altro straniero trapiantato a Milano, un Aesopus moralisatus. Nei primi anni si avvale delle tipografie del Le Signerre, di Alessandro Pellizzoni e soprattutto di quella di Pietro Martire Mantegazza, col quale collabora più a lungo e più strettamente. Nel 1506 possiede già una sua stamperia, sempre nei pressi della chiesa di S. Satiro, alle Dogane, vicino a porta Romana. La prima opera che stampa per proprio conto è una raccolta di prose latine di Piattino Piatti (Milano, prima del 19 ag. 1506) uscita in una veste alquanto dimessa, senza sottoscrizione e con numerosi refusi. Questi provocarono la reazione del Piatti: una lettera dell'autore ai lettori, che manca nella copia della Trivulziana mentre è presente in quella dell'Ambrosiana e che fu probabilmente aggiunta in una seconda tiratura, datata 3 ag. 1506.
In essa il Piatti protesta nei confronti del tipografo che aveva riempito l'edizione di errori tipografici, per i quali il D. avrebbe dovuto pagare una penale. Ma l'autore dichiara di avervi rinunciato per non compromettere il compositore, sul quale il D. si sarebbe sicuramente rivalso. La pubblicazione della lettera rappresenta forse una sorta di penale non pecuniaria.
Circa a metà del 1519 il D. si trasferì a Como, chiamatovi da Guglielmo Cittadini, vicario generale di quella diocesi, per stampare un breviario ad uso della Chiesa comasca, che fu però terminato solo nel 1523 a Milano. A Como doveva avere l'occasione di stampare, oltre ad un nuovo Esopo, la sua edizione di maggior prestigio: una traduzione volgare del De architectura di Vitruvio fatta dall'architetto milanese Cesare Cesariano autore anche del commento e delle illustrazioni, su conimissione di Agostino Galli e Luigi Pirovano. L'opera, che vide la luce nel 1521, può essere considerata il libro più bello del Rinascimento milanese e lombardo, soprattutto per quanto riguarda le illustrazioni. L'anno successivo il D. fece ritorno a Milano, dove continuò la sua attività almeno fino al 1548. Morì quasi certamente nel 1552 (fece testamento il 2 settembre di quell'anno) e fu sepolto nella chiesa di S. Satiro.
Rispetto ad altri editori-tipografi della prima metà del Cinquecento la produzione del D. presenta una sua caratteristica ben definita. In mezzo secolo le edizioni da lui stampate, almeno centoventi, sono prevalentemente di autori contemporanei: scolastiche, liturgiche, giuridiche, molte delle quali in volgare, mentre non mancano quelle a destinazione popolare. In numero assai meno elevato sono le edizioni di classici, nonostante la sua formazione umanistica e la conoscenza del greco che gli avevano consentito di pubblicare nel 1508 insieme a Francesco Negri una sua traduzione di alcuni frammenti di Libanio Sofista, che ristampò poi nel 1514. Certamente il suo fiuto commerciale gli suggerì di occupare spazi editoriali trascurati da altri tipografi, rivolgendosi alle opere di autori contemporanei come Andrea Assaraco, Lorenzo Spirito, Antonio Mancinelli, Piattino Piatti, Giovanni Biffi, Andrea Mangiabotti (detto da Barberino), Isidoro Isolani, Girolamo Mandusio, Franchino Gaffurio e Giambattista Verini, che ebbe occasione di ospitare nella sua casa. Più attento all'aspetto imprenditoriale della sua attività che a quello culturale, il D. non si preoccupò troppo della correttezza dei testi, che sacrificò volentieri ai ritmi di produzione, magari limitandosi ad aggiungere degli errata-corrige, come nel caso del citato Vitruvio del 1521. Questa sua attitudine imprenditoriale si rivela anche nel progressivo ingrandimento dell'azienda. Pare infatti che rilevasse via via il materiale di altre officine: nel 1509 i caratteri dei Mantegazza, nel 1525 forse l'attrezzatura di Agostino da Vimercate e nel 1532 quella del Minuziano. Ciò spiega forse la stanchezza dei caratteri di alcune edizioni, dovuta all'usura.
La maggior parte delle edizioni del D. sono illustrate con belle silografie di scuola milanese, come quella raffigurante s. Francesco che adora il Cristo nel Liber conformitatum di Bartolomeo Albizzi (1510) e la cornice del frontespizio delle Historiae novae ac Veteres di Andrea Assaraco (1516), con una vignetta raffigurante la Fede in compagnia di Giunone e Minerva, che incorona Francesco I e il maresciallo Giangiacomo Trivulzio, legno attribuito allo stesso autore delle silografie che illustrano le Gesta beatae Veronicae di Isidoro Isolani (1518). Numerosi i bei frontespizi a fondo nero. Notevole quello finale delle Croniche che tractano de la origine dei Veneti di Marcantonio Sabellico, col titolo intagliato in caratteri gotici stampati in rosso e inquadrato in una elegante cornice. Tra le altre edizioni di maggior interesse ricorderemo le tre del Libro della ventura di Lorenzo Spirito, l'anonima Leggenda di s. Margherita, destinata ad essere ristampata molte volte fino alla fine del Seicento, gli Acta et decreta dei concili di Costanza e Basilea, lo Sfortias di Andrea Assaraco, le opere volgari del Venturini. Interessanti i quattro pronostici per l'anno 1535 rispettivamente di Ludovico Vitali, Ascanio da Ferrara, Girolamo Cardano e Costanzo da Bologna.
Il D. usò diverse marche tipografiche, talvolta due nella stessa edizione. Ricorderemo quella con la croce a sei braccia e le sue iniziali iscritte in un cerchio e quella con un cigno dalle ali spiegate entro una cornice rotonda nella quale è iscritta la ragione sociale.
Alla sua morte divenne erede universale il nipote PietroPaolo, figlio di Battista. Questi continuò l'attività tipografica nella stamperia di S. Satiro per pochi anni. Morì infatti quasi subito (fece testamento il 12 febbr. 1554). Furono i suoi quattro figli, che aveva avuto dalla moglie Caterina Ferrari, a dare un nuovo impulso all'azienda: Giovan Battista, attivo dal 1554 al 1581, Paolo Gottardo, Pacifico e Giacomo Paolo, che lavorarono in società tra loro e separatamente. Nel 1559 i quattro si divisero i beni paterni. Giovan Battista, nato all'incirca nel 1532, fu l'artefice di una svolta nella storia dell'impresa, mettendola al servizio del potere: di quello secolare, prima, come stampatore camerale, con il quale privilegio si impegnava a stampare tutti gli editti, i decreti e le grida dei governatori del ducato di Milano e del Senato "senza alcuna spesa della Camera", ricevendo in cambio l'esclusiva della vendita di detto materiale in tutto il territorio dello Stato, con la possibilità di realizzare notevoli profitti; di quello ecclesiastico poi, ricevendo dall'arcivescovo Carlo Borromeo nel 1565 la nomina a tipografo arcivescovile. Di conseguenza, oltre ad opere di carattere letterario e cronachistico e a quelle relative al ducato di Milano, una considerevole parte della sua produzione fu costituita da opere di argomento religioso: a lui si deve, ad esempio, la prima edizione milanese dell'Indexlibrorum prohibitorum (1554). Tra le numerose marche tipografiche da lui usate ricorderemo quella raffigurante la Fortuna su un delfino con una vela in un ovale, accompagnata dal motto: "Nihil sine me" e quella con una figura femminile appoggiata ad una colonna in un ovale col motto: "Dominus fortitudo, mea", usata anche da Paolo Gottardo.
Paolo Gottardo aveva ricevuto, nella divisione dei beni paterni del 1559, la bottega e il magazzino dei libri. Ma non abbiamo notizia della sua attività prima del 1568. Lavorò in società col fratello Pacifico, insieme al quale stampò alcune edizioni, e poi per proprio conto fino al 1592. Alla morte di Giovan Battista (1581) ereditò il privilegio della stampa degli ordini camerali, fino a quando Leonardo, unico figlio di Giovan Battista, molto giovane, non fosse stato in grado di esercitare la professione in proprio. Anche Paolo Gottardo stampò opere di carattere religioso. Tra i suoi primi impegni va ricordato l'incarico, avuto nel 1568, di stampare duecento salteri per le monache del monastero Maggiore di Milano. Inoltre ottenne vari privilegi regi per stampare breviari ed offici della Vergine secondo il rito ambrosiano (1571). Della sua vasta produzione comprendente anche opere letterarie, storiche, scientifiche, orazioni ed epistole, stampate in veste tipografica più che dignitosa, in caratteri nitidi ed eleganti sia tondi sia corsivi, fornite spesso di registro, indice ed errata-corrige, ricorderemo il Trattato di pittura di Giovanni Paolo Lomazzo (1582) e il Trattato concluso fra il ducato di Milano e Anversa (1585), per i quali ottenne speciali privilegi.
Pacifico, che lavorò dal 1566 fino alla morte avvenuta il 15 luglio 1594, ebbe come socio a partire dal 1582 Giovan Battista Piccaglia. Con lui la svolta "tridentina" dell'azienda è ormai completamente consumata: la sua produzione quantitativamente considerevole (almeno centodieci edizioni) è composta per più del 50% da opere di argomento religioso, mentre le rimanenti sono di carattere storico, giuridico, letterario, scolastico e musicale. Numerose le relazioni sul Giappone composte da gesuiti, testimonianze del crescente interesse della Compagnia per quel paese lontano. Anche Pacifico ricevette il titolo di impressore arcivescovile. Egli stampò per conto dei librai Pietro Tini e Matteo Besozzi, usando le marche tipografiche dei fratelli. Dopo la sua morte l'officina continuò l'attività con le diciture "Nella stampa del quondam Pacifico Pontio" o "apud Pontianos". Nel 1602 l'erede di Pacifico fece società con Giovan Battista Piccaglia, ricevendo la conferma del privilegio arcivescovile. La nuova società usò come marca tipografica una fenice che risorge dalle fiamme con il motto: "Della mia morte eterna vivo". La stamperia proseguì la produzione per molti anni, finché, nel 1685, divenne proprietà di Beniamino e Giovan Battista Sirtori. Leonardo, figlio di Giovan Battista, svolse un'attività più limitata, prima insieme a Paolo Gottardo, poi da solo, ereditando la carica di stampatore regio camerale, che gli venne confermata nel 1593 per dieci anni. Nel 1585 era socio di Francesco Bonato; nel 1596-97 sottoscrisse alcune edizioni stampate a Vercelli.
Biogr.: Oltre all'opera di E. Sandal, Editori e tipografi a Milano nel Cinquecento, II, Annali tipogr. di Alessandro Minunziano, Leonardo Vegio e G. D., Baden Baden 1978, che contiene la bibliografia fondamentale, ricorderemo i tre lavori di C. Santoro: Libri illustrati milanesi del Rinascimento. Saggio bibliografico, Milano 1956, pp. 122-240; Tipografi milanesi nel sec. XVI, in Amor librorum, Amsterdam-Zürich 1958, pp. 46 ss., 50-53 e L'arte della stampa a Milano, Milano 1960, pp. 12-15. Cfr. inoltre M. Donà, La stampa musicale a Milano fino all'anno 1700, Firenze 1961, pp. 49-55 e T. Rogledi Manni, La tipografia a Milano nel XV secolo, Firenze 1980, p. 57; G. Borsa, Clavis typographorum librariorumque Italiae 1465-1600, Aureliae Aquensis 1980, I, p. 264.