GOTTA (XVII, p. 588)
L'impiego sperimentale degli isotopi radioattivi e un vasto complesso di altre ricerche di ordine biochimico e farmacologico hanno permesso di fare nuova luce sul meccanismo di produzione dell'acido urico, di intravedere nuove possibilità di interpretazione patogenetica della g. e di ampliare le possibilità terapeutiche della malattia. Di fondamentale importanza sono risultati gli studî condotti con l'uso di sostanze marcate, che hanno consentito di accertare l'attitudine dell'organismo dei mammiferi a sintetizzare - soprattutto a livello del fegato, ma anche di altri organi - l'anello purinico, e quindi anche l'acido urico, partendo da composti a basso peso molecolare sempre disponibili. Tra questi ultimi sono la glicina, che fornisce gli atomi di carbonio contrassegnati con i numeri 4 e 5 e l'atomo di azoto n. 7 (vedi fig. 1); l'anidride carbonica (atomo di carbonio 6); il formiato (atomi di carbonio 2 e 8); il gruppo aminico (−NH2) di corpi provenienti dal metabolismo di sostanze azotate (atomi di azoto 3 e 9); l'acido aspartico (atomo di azoto 1).
Le reazioni chimiche che partono dalla glicina, utilizzando altre sostanze semplici per giungere a formare acido urico, portano alla formazione di varî composti intermedî, tra i quali la 4-ammino-5-imidazolcarbossamide (AIC). Esse possono essere riassunte - allo stato attuale delle conoscenze - con lo schema della fig. 2, peraltro suscettibile di ulteriori modifiche.
L'acido urico, dunque, rappresenta non soltanto, come si credeva in passato, un prodotto catabolico, ma anche una sostanza sintetizzabile da parte dell'organismo; e quindi anche le purine, prima ritenute di provenienza esogena (alimentare) o liberate dalla degradazione dei nucleoproteidi corporei (parte endogena), debbono oggi essere considerate anche come prodotti di sintesi organismica: le basi azotate, libere o combinate con pentosî a formare nucleosidi o addirittura nucleotidi, possono essere utilizzate per la sintesi dei nucleoproteidi.
Altre importanti acquisizioni meritano di essere segnalate: l'anello purinico proveniente dagli alimenti può essere utilizzato "in toto" dall'organismo per la sintesi degli acidi nucleinici (si è visto, infatti, che sommmistrando adenina marcata, questa si ritrova incorporata nella molecola degli acidi nucleinici); oltre all'anello purinico, anche l'anello pirimidinico può essere sintetizzato dall'organismo utilizzando atomi di carbonio e di azoto di sostanze più semplici (glicina, formiato, serina, ecc.); per la sintesi degli acidi nucleinici possono essere utilizzati anche nucleosidi o nucleotidi pirimidinici; nel fegato l'acido orotico viene utilizzato per la sintesi della citidina e della uridina.
Nel quadro delle molteplici reazioni che portano alla sintesi endogena dell'acido urico svolgono azione catalizzatrice fattori enzimatici (tra cui la xantinossidasi) e vitaminici (citrovorum factor, o acido 5-formil-5-6-7-8-tetrafolico, acidi folico e folinico, forse la vitamina B12). Più dubbio è l'intervento di ormoni (ACTH, steroidi corticosurrenalici), perché nulla si è potuto finora stabilire circa influenze ipofiso-surrenaliche sul metabolismo purinico in generale e sulla patogenesi della g. in particolare.
Meglio note sono le reazioni di degradazione dei nucleoproteidi, che portano alla formazione di acido urico: si tratta di processi di depolimerizzazione, defosforilazione, desaminazione e fosforilazione che sono catalizzate da enzimi particolari (depolimerasi, fosfatasi, desaminasi, fosforilasi, rispettivamente). Tra l'altro è stato accertato che la liberazione della base purinica dal pentosio dei nucleotidi non si compie attraverso una reazione idrolitica catalizzata da una nucleotidase, bensì attraverso reazioni fosforilitiche, con formazione finale di ribosio e desossiribosio-1-fosfato (analogamente a quanto si verifica, nell'ambito del metabolismo glicidico, per la depolimerizzazione del glicogeno a glucosio).
Dalle nuove acquisizioni sulla sintesi organica delle purine sono emerse nuove possibilità di interpretazione patogenetica della g. e una più complessa visione del significato metabolico dell'acido urico e dell'iperuricoemia. La causa di quest'ultima può oggi essere ravvisabile non soltanto in eccessivi e protratti apporti alimentari di purine, ma anche in un'eccedente disponibilità, da parte dell'organismo, di numerose altre sostanze che possono partecipare alla sintesi purinica e indurre, quindi, un'eccessiva produzione di acido urico. Viene altresì ammessa e valutata la possibilità di errori biochimici: concezione, questa, del tutto estranea alle vecchie dottrine patogenetiche, che tendevano soprattutto a valorizzare l'ipotesi di un deficitario smaltimento dell'acido urico (per insufficiente eliminazione renale, secondo alcuni, per inadeguata uricolisi, secondo altri: questa seconda teoria appare ormai definitivamente abbandonata). Ciò, tuttavia, non toglie valore alla teoria della patogenesi renale della iperuricoemia gottosa, che, in un certo modo, si riallaccia a vedute di classici Autori (A. B. Garrod) e che dalle moderne concezioni sulla fisiopatologia renale è stata valorizzata, variamente influenzata e, comunque, portata su un piano di più differenziata e sottile impostazione (studî sull'escrezione tubulare di acido urico, sui processi di filtrazione e riassorbimento del nefrone, sulla clearance dell'acido urico). Tale teoria, peraltro, non è in sostanziale contrasto con quelle che si basano sull'ammissione di errori metabolici e in particolare con quella, sostenuta da non pochi Autori, che riconduce l'iperuricoemia gottosa a un'abnorme sintesi di purine, le quali verrebbero direttamente ossidate ad acido urico, senza partecipare alla formazione di acidi nucleinici (cosiddetto shunt metabolico). Altri Autori, inoltre, prospettano l'ipotesi della coesistenza, accanto a turbe del metabolismo dei nucleoproteidi, di disordini enzimatici.
Terapia. - I recenti, sostanziali progressi farmacoterapici (v. oltre) non hanno menomato l'importanza delle norme igieniche in generale e di quelle dietetiche in particolare: queste ultime rappresentano ancora la fondamentale misura curativa della g., sia sotto l'aspetto patogenetico, sia sotto quello clinico. Il gottoso, infatti, è, di regola, un soggetto in inveterato eccesso alimentare (per eccedenza calorica totale e per squilibrio fra i varî componenti calorigeni: protidi, glicidi e lipidi) e che con una certa frequenza presenta peso corporeo superiore alla norma, alterazioni epatiche e cardiocircolatorie, ipercolesterolemia. Talvolta risultano elevate anche la glicemia e l'azotemia (quest'ultima, assai spesso, espressione non già di lesioni renali, bensì di semplici alterazioni funzionali, reversibili con un adatto trattamento dietetico). Durante l'attacco acuto deve essere instaurato, per un breve periodo (5-7 giorni) un regime ipocalorico, ipoprotidico, fortemente ipolipidico e, in talune circostanze, iperpotassico e iposodico (v. dietetica, in questa App.). La scelta del regime alimentare da adottare al di fuori degli attacchi acuti deve tener conto dell'età, dell'attività lavorativa e delle caratteristiche costituzionali, metaboliche e cliniche del singolo soggetto preso in esame. In linea di massima la razione alimentare del gottoso dovrà corrispondere a un grammo di protidi per chilogrammo di peso corporeo fisiologico e le residue calorie extraprotidiche dovranno essere ripartite in modo che il 60-75% di esse sia fornito dai glicidi e il 25-40% dai lipidi. Il regime dietetico va protratto fino alla normalizzazione del peso corporeo e dell'equilibrio metabolico, ossia della uricoemia, della colesterolemia, dell'azotemia, e della glicemia. È indispensabile non soltanto la proscrizione degli alimenti ricchi in purine, ma anche di qualsiasi eccesso alimentare, giacché sì è visto che l'aumento della quota protidica (A. de Witt Stetten 1952) e perfino di quella glicidica e lipidica (D. Shemin, 1950) possono provocare una eccessiva produzione endogena di acido urico.
La terapia medicamentosa della g. è radicalmente mutata. Molti dei farmaci che in passato riscuotevano un certo credito sono praticamente caduti in disuso, alcuni per la scarsa o discutibile efficacia (piperazina, salicilato di sodio, sali di litio, ecc.), altri per la elevata tossicità (acido fenil-chinolin-carbonico). Dei rimedî preesistenti al 1949 soltanto la colchicina mantiene buona parte della sua utilità di impiego: prevalentemente indicata nelle manifestazioni accessionali, essa è attiva così specificamente da poter essere perfino utilizzata con criterio "ab juvantibus". La cura della g. ha però trovato altri validi presidî terapeutici:1) il fenilbutazone (3,5-diossi-1,2-difenil-4-n-butil-pirazolidina), che può essere usato -per via orale e parenterale - sia durante l'accesso acuto, sia al di fuori di esso, a scopo preventivo; 2) l'ACTH e i cortisonici (v. cortisone, in questa App.), indicati essenzialmente contro l'attacco acuto: essi possono risultare efficaci nei rari casi refrattarî alla colchicina e al fenilbutazone; 3) la benemide, o acido p- (di-N-propilsolfamil) benzoico, che è dotato di tipica azione uricosurica: è capace, cioè, di inibire il riassorbimento tubulare dell'acido urico (si sa, infatti, che l'acido urico del plasma filtrato attraverso i glomeruli renali viene poi riassorbito per il 90% dai tubuli) e quindi di aumentare la sua eliminazione urinaria, diminuendo l'uricoemia. Il suo impiego (cicli di parecchi mesi; dosi di g 0,5-2 al giorno) può talvolta scatenare, all'inizio, crisi dolorose, per lo più prevenibili facendo precedere, o associando, una somministrazione di colchicina.
Bibl.: G. Izar, F. Lenzi, La gotta, in Atti dei Congressi della Società italiana di medicina interna - 55° Congresso (Roma, 10-12 ottobre 1954), Roma 1954; J. H. Talbott, Gout, New York 1957; L. Travia, Il trattamento dietetico della gotta, in Dietologia e dietoterapia, 1958, fasc. 2; J. B. Wyngaarden, J. E. Seegmiller, L. Laster, A. E. Blair, Utilization of Hypoxanthine, Adenine and 4-Amino-5-Imidazolecarboxamide for Uric Acid Synthesis in Man, in Metabolism, VIII (1959, n. 4), pp. 455-464; G. Pasero, Fisiopatologia dell'uricuria, in Recenti Progressi in medicina, vol. XXVIII (1960), n. 5, pp. 468-486.