GORITZ (Küritz), Johann, detto Coricio
Originario della diocesi di Treviri, in una località dell'attuale Lussemburgo, nacque in data non nota nella seconda metà del XV secolo; studiò belle arti e diritto canonico e civile. Entrò in seguito, come familiare, al servizio di Jakob Wimpfeling, poeta ed erudito tedesco, mecenate di giovani di buon ingegno ma di scarse possibilità economiche. Il Wimpfeling lo esortò e aiutò a recarsi a Roma, dove giunse prima del 1497. Fece il suo ingresso nella Curia nel maggio di quell'anno, mese nel quale è citato come notaio della Rota; fu poi impiegato presso il registro delle suppliche, sotto Alessandro VI, e fu al servizio di sei papi, fino a Clemente VII. Negli anni successivi accumulò parecchie cariche, la maggiore delle quali fu quella di protonotario apostolico. Sotto Giulio II fu segretario dei Memoriali, carica che potrebbe portare a una sua identificazione nel personaggio vestito di nero che cammina a fianco della sedia gestatoria del papa nell'affresco delle Stanze di Raffaello rappresentante la Cacciata di Eliodoro dal tempio. Ebbe una citazione anche da Francesco Berni nelle sue Rime (ed. a cura di A. Virgili, Firenze 1885, p. 132), come uno dei quattro conterranei di Adriano VI che il poeta fiorentino taccia di barbarie persino nel nome: "Copis, Vincl, Corizio e Trincaforte".
Il G. fungeva poi da agente e procuratore per questioni legali per molti che glielo chiedevano: nel 1508 lo scrittore ed erudito belga Jérôme de Busleyden, in una lettera, lo definisce suo agente a Roma; nel 1517 negli atti della diocesi di Liegi è registrato un compenso a suo favore per la parte avuta in un processo intentato dalla diocesi contro il duca di Sassonia. Nel 1513 il G. si era assicurato il decanato di Bernkastel, nella diocesi di Treviri, e intorno al 1515 contribuì, come tutti i suoi connazionali in Roma, alla costruzione della chiesa di S. Maria dell'Anima, i cui lavori, iniziati nel 1511, si protrassero fino al 1527. Nel 1520 la sua prudenza ed esperienza furono al servizio dei domenicani di Colonia, che gli affidarono, insieme con Jakob Questenberg, la delicata mediazione, presso Leone X, fra il domenicano J. Pfefferkorn e Johannes Reuchlin, a proposito di una disputa che si trascinava da dieci anni. Il primo, ebreo convertito, sosteneva l'utilità della distruzione di gran parte dei libri ebraici per combattere il giudaismo; si era invece dichiarato di parere nettamente contrario il secondo, iniziatore dello studio dell'ebraico come sussidio agli studi biblici e membro di una commissione instaurata dall'imperatore per studiare la questione. Leone X aveva imposto il silenzio a Reuchlin, e il G. e Questenburg erano stati incaricati di agire diplomaticamente presso il papa per cercare una soluzione che soddisfacesse entrambe le parti: lo si deduce da una lettera dell'umanista e teologo tedesco Johannes Cochlaeus (Dobneck) a Willibald Pirckheimer, amico del Reuchlin, del 12 giugno 1520.
L'abitazione romana del G. era nel rione Parione, in piazza della Cancelleria. Con i proventi delle varie posizioni in Curia il G. acquistò una villa, presso il foro Traiano, dove ospitava riunioni poetiche e incoraggiava, anche economicamente, ambizioni artistiche e letterarie. Gran parte della fama del G., infatti, è dovuta alla sua generosità verso i letterati; tra questi, molti suoi concittadini che giungevano a Roma (Michael Hummelberger, Peter Aperbach o Eberbach, Kaspar Ursinus Velius) trovarono in lui un mecenate e furono ospitati nella sua casa. Il G. formò e divenne il fulcro, così come Angelo Colocci, di un gruppo di umanisti, le cui riunioni erano a un tempo sociali e private, formali e informali. Il nome latinizzato del G., Coricio, echeggiava il "Corycium antrum", una grotta del monte Parnaso che si credeva incantata e che Pausania aveva identificato come fonte di ispirazione poetica. I medesimi umanisti si riunivano sia intorno al Colocci sia intorno al G.: tra i più illustri, i due segretari domestici pontifici, i cardinali Iacopo Sadoleto e Pietro Bembo, Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, Egidio da Viterbo, che diverrà cardinale, il vescovo Mario Maffei, Raffaele Brandolini, Tommaso Fedra Inghirami, Biagio Pallai (Blosio Palladio), Baldassarre Castiglione, Filippo Beroaldo iunior, Scipione Forteguerri Carteromaco. Il Gaisser ipotizza una certa diversità di tendenza tra i due gruppi: quello animato dal Colocci avrebbe avuto piuttosto interessi patriottici e antiquari, mentre quello raccolto intorno al G. si rivolgeva soprattutto a interessi religiosi e letterari. Difficile affermare che i due gruppi si facessero concorrenza, ma certo i manoscritti di Colocci contengono numerosi versi polemici contro il Goritz.
Il patronato di arti e lettere del G. era incentrato sul culto di s. Anna, la sua santa patrona, particolarmente popolare nelle terre della Renania inferiore. A iniziare dal 1512 il G. finanziò le decorazioni di un altare dedicato alla santa nella chiesa di S. Agostino in Roma, commissionando a Raffaello un affresco avente come soggetto il profeta Isaia affiancato da due angeli, e ad Andrea Sansovino un gruppo scultoreo raffigurante s. Anna con la Vergine Maria e il Cristo Bambino. Nel contratto stilato per il gruppo scultoreo il 13 dic. 1510 era convenuto che il G., alla sua morte, sarebbe stato sepolto ai piedi dell'altare. Il concetto ispiratore dell'opera, che si fonda da una parte sul tema dell'Incarnazione e dall'altra su un profondo senso dell'antichità classica, nel tentativo di accostare spiritualismo cristiano e classicismo, sarebbe dovuto all'influsso sul G. di Egidio da Viterbo, al tempo generale dell'Ordine agostiniano. La sintesi di elementi classici e cristiani si esprimeva accostando il tema della ninfa a quello di s. Anna. Ogni anno, il 26 luglio, festa di s. Anna, il G. e i suoi amici umanisti si riunivano attorno all'altare, al quale, dopo la funzione liturgica, affiggevano i loro poemi in onore della santa, del G. e dei sodali dell'accademia, che venivano conservati nell'archivio della chiesa e dallo stesso Goritz. Come attesta Girolamo Aleandro, che nel giugno 1516 giunse a Roma e fu invitato a prendere parte ai festeggiamenti, questi proseguivano nella vigna del G. sul clivo capitolino orientale, dove gli umanisti leggevano poemi ad alta voce e li affiggevano agli alberi. Aleandro scrive che in quell'occasione si trovò a essere vicino di tavola di Colocci e di Beroaldo iunior. Il G. molto probabilmente teneva presso di sé i testi autografi e i poemi di una decade furono raccolti e pubblicati da Blosio Palladio in un volume intitolato Coryciana (Romae, apud Ludovicum Vicentinum et Leutitium Perusinum, 1524).
Le vicende dell'edizione sono piuttosto complesse. Una lettera di Michael Hummelberger a Heinrich Bebel del febbraio 1515 parla di un iniziale progetto di edizione dello stesso G. e conferma che alcuni poemi delle feste coriciane, ora perduti, erano in lingua greca. Come editore dell'edizione 1524 figura Blasio Palladio, il quale nella prefazione afferma che il G., poco convinto di dare i poemi alle stampe, consentì all'edizione su sua istanza. Da uno scambio epistolare tra il G. e C. Silvanus, uno dei poeti dei Coryciana, originario della Slesia, che era stato familiare dei Fugger, si capisce che fu il Silvanus a insistere perché venisse inserito nell'opera il De poetis urbanis di Francesco Arsilli, oltre a parecchi altri poemi. Inoltre, tra i poemi del Silvanus presenti nei Coryciana, oltre trenta, alcuni confermano il ruolo avuto dallo slesiano nell'edizione. Un'altra corrispondenza tra uno dei poeti, il novarese Giovanni Maria Cattaneo, e il G. conferma i dubbi di quest'ultimo riguardo all'edizione: egli temeva di prestare il fianco a critiche maligne.
I poemi dei Coryciana si trovano manoscritti nel codice Vat. lat. 2754, di mano di Giovanni Francesco Vitale, palermitano, con le correzioni di Fabio Vigili: entrambi costoro sono presenti nella raccolta come autori; anche la Biblioteca Corsiniana di Roma possiede un codice miscellaneo dell'inizio del secolo XVI dal titolo Epigrammata in statuas Coritianas (NiG., Rossi, 207 [45.D.4]), di mano del C. Silvanus sopracitato. Il Vitale e il Vigili avevano evidentemente preparato il testo per l'edizione.
L'opera è preceduta da una prefazione del Palladio al G., chiamato "Corycium senem" con allusione a un verso delle Georgicae (IV, 127); il Palladio vi sintetizza gli elementi essenziali della cultura romana contemporanea e offre l'immagine della società di eruditi e poeti, non solo romani, ma tutti comunque urbani, che danno vita al volume. L'opera è divisa in varie sezioni (epigrammata, icones, hymni, annales), cui segue in appendice il lungo poema sui poeti romani di Francesco Arsilli, De poetis urbanis, dedicato a Paolo Giovio. I componimenti, più di quattrocento, testimoniano la particolare concezione culturale dei membri del cenacolo, che prendeva spunto da ispirazione religiosa e al contempo dal classicismo. Essi esprimono la volontà di cimentarsi con gli antichi e l'orgoglio di una cultura umanistica che voleva riportare la civiltà alle glorie classiche e che paragonava la Roma di Leone X a quella di Augusto. Accanto all'esaltazione del tempo presente, visto come una vera e propria età dell'oro, si avverte però l'incombere quasi profetico di situazioni devastanti, con i frequenti auspici di un ritorno alla pace e l'evocazione del pericolo turco e di quello luterano. Mentre sono frequentissimi e dettagliati gli accenni al gruppo scultoreo del Sansovino, scarsi sono quelli all'affresco di Raffaello, che non viene quasi mai nominato. Un aneddoto riferisce di una contesa sorta tra il G. e Raffaello a proposito del compenso per il pittore, alla quale avrebbe fatto da giudice Michelangelo, che avrebbe detto al G. che il solo ginocchio dell'Isaia valeva il prezzo richiesto; forse gli autori dei poemi, a conoscenza del fatto, non volevano parlare dell'opera per non offendere il Goritz. Tra gli autori dei poemi, il primo che s'incontra è Mariangelo Accursio, che il G. ospitò quando giunse a Roma dall'Aquila, di dove era originario; nella composizione dell'Accursio, intitolata Protrepticon ad Corycium, il G. è visto come un inviato di Dio in soccorso della pericolante umanità. Poi sono presenti Pietro Bembo, Paolo Giovio, il Colocci, Marco Girolamo Vida, Paolo Bombasio, il Carteromaco, Iacopo Sadoleto, Ulrich von Hutten, Baldassarre Castiglione, Filippo Beroaldo iunior, Pierio Valeriano (G.P. Dalle Fosse), Fabio Vigili, Lilio Gregorio Giraldi, Andrea Fulvio.
La figura del G. emerge dai poemi a lui dedicati nelle sue varie componenti: uomo frugale, non ricco né potente, fu definito da Erasmo, che forse lo conobbe nel suo primo soggiorno a Roma, nel febbraio 1509 (ne dubita però Ijsewijn, Coryciana, p. 9, ritenendo più probabile uno spostamento di tale data agli anni Venti), e che lo enumera tra le sue conoscenze romane, "vir candidissimi pectoris". Blosio Palladio, nella prefazione, dopo averlo definito uomo lontano da qualsiasi ambizione, mette in evidenza le due componenti fondamentali della sua personalità: la pietas e la liberalitas, virtù quest'ultima che si estrinsecava nell'ospitalità offerta a uomini dotti e a giovani arrivati da poco a Roma, nonostante non disponesse di grandi mezzi. Gian Adelio Sassone riferisce della sua passione antiquaria. L'Aleandro, in una lettera indirizzata al G., lo definì "studiosorum unicum hoc tempore decus et confugium"; il Valeriano nel suo De litteratorum infelicitate lo dice "leporum omnium pater"; il Giovio nei suoi Elogia lo definisce "perhumanus poetarum hospes ac admirator".
La composizione dell'accademia, l'affollarsi di così tante menti su temi comuni finì per isterilire il messaggio del gruppo, anche prima che il sacco di Roma desse un colpo definitivo all'umanesimo romano. Già Paolo Giovio negli stessi Coryciana, pur lodando il G. e l'Arsilli, parla della molestia dei troppi poeti inetti e ridicoli che venivano a Roma e affiggevano i loro versi alle statue coriciane. Il sodalizio aveva poi le sue piccole e grandi inimicizie, e spesso i sodali si rivolgevano versi satirici o peggio. Nel Vat. lat. 2834, c. 36, si trovano versi contro il Goritz. Quando egli decise di cancellare i festeggiamenti per S. Anna, nel 1525, uno dei membri, Giovanni Battista Sanga lo riempì di ingiurie. Anche Colocci, un tempo amico del G., e Benedetto da Cingoli scrissero versi contro di lui: il primo propone un parallelo tra il G. e Lutero, e l'epiteto di luterano è usato anche dal Sanga; ciò è espressione di una certa acrimonia di ambienti curiali contro il G. dopo l'elezione di Adriano VI.
Durante il sacco, le truppe tedesche catturarono il G. e lo obbligarono a versare un enorme riscatto; quelle spagnole gli rubarono l'oro che aveva sepolto nel giardino, grazie al tradimento di un fabbro che lo aveva aiutato a nasconderlo. Il G. fuggì verso Nord, per tornare nelle terre natie e cercare di procurarsi del denaro per saldare i debiti contratti per pagare il riscatto, ma, a quanto riferisce Pierio Valeriano, si ammalò a Verona, dove morì, nel 1527 o nel 1528.
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