GOMMA ELASTICA (fr. caoutchouc; sp. caucho; ted. Kautschuk; ingl. India-Rubber)
Sostanza ottenibile dal lattice di numerose specie di piante delle regioni tropicali.
Per quanto da taluni sia stata supposta la conoscenza della gomma da parte degli Etiopi e dei Cinesi, nessuna documentazione lo attesta in modo sicuro. In Europa il nuovo prodotto cominciò a essere conosciuto subito dopo la scoperta dell'America. Nel De orbe novo di Pietro Martire d'Anghiera (1516) già si parla di certe palle ricavate dal succo di una pianta che rimbalzano toccando il suolo. Altre notizie si trovano nella Historia de las cosas de Nueva España, di Fray Bernardino di Sahagún (pubblicata soltanto nel 1829-1830), nel Sumario de la natural historia de las Indias, di Gonzalo Hernández de Oviedo y Valdés (1526), nella Historia general de los hechos de los castellanos en las islas y tierra firme del mar Océano, di Antonio de Herrera (pubblicata fra il 1601 e il 1615) e nel Los veinte d'un libros rituales y Monarchia indiana di Juan de Torquemada (1613). In quest'ultima è descritto il sistema di raccolta del lattice e la formazione delle palle nella provincia d' Santo Evangelo del Messico; gl'Indiani sprovvisti di recipienti per la raccolta, raccoglievano ed essiccavano il lattice sul corpo, e con la pellicola ottenuta confezionavano le palle che chiamavano ulli. Il latte sarebbe anche servito, mescolato con cacao, per combattere le dissenterie acute. È interessante notare che gli Spagnoli trattavano con questo latte i loro mantelli di canapa per difendersi dalla pioggia. Ottenevano così degl'impermeabiii che avevano però il difetto di essere danneggiati dal calore solare.
Se attraverso queste fonti qualche conoscenza sulla gomma greggia fu acquisita già nel 1500 e nel 1600, lo studio scientifico si ebbe più tardi, in seguito al viaggio che C. M. de la Condamine fece in America (1735-45) per incarico dell'Accademia delle scienze di Francia, allo scopo di misurare un arco di meridiano e dedurne conclusioni in merito alla forma della terra. Nel 1736 da Quito, il Condamine inviò all'Accademia (Histoire de l'Accademie, 1751) dei campioni di gomma, avvertendo che questa era ottenuta dal liquido bianco come latte che cola dalle incisioni fatte su una pianta dai nativi della provincia di Esmeralda chiamata hhévé: il liquido era fatto indurire lentamente all'aria. La stessa pianta cresceva lungo le rive del Rio delle Amazzoni, e il prodotto ottenibile per indurimento del suo lattice era chiamato cahuchu, da cui la parola francese. Lo studioso francese informava altresì che gl'Indiani si servivano della gomma per varî usi: alcuni ne facevano torce, altri bottiglie (servendosi di forme di terra); altri pere per siringhe da riempire con acqua calda e utilizzare prima di mangiare (da cui il nome indigeno di seringa dato anche alla gomma). Lo stesso Condamine si servì del lattice per impermeabilizzare le tele con cui copriva qualcuno dei suoi strumenti astronomici. Successivamente il Condamine discese lungo il Rio delle Amazzoni raccogliendo varie osservazioni e si fermò alcuni anni a Caienna; e qui trasmise il suo amore per la raccolta di notizie e di campioni di lattice e di gomma a F. Fresneau. Questi percorse le foreste della Guiana, trovando alberi con il cui succo poté preparare varî oggetti (da ricordare fra questi delle cinghie, simili a quelle di cuoio), insolubili in acqua, flessibili, ma non elastici. Egli insistette nelle sue ricerche, e su indicazioni di Indiani fece numerosi viaggi finché non trovò l'albero che generava la sostanza elastica che gli stava a cuore. Sono interessanti le lettere che egli scriveva a Condamine e che questi trasmetteva all'Accademia delle scienze di Francia. Vi si rileva come egli conoscesse il processo di affumicamento del lattice e sapesse che per evitare che più oggetti di gomma aderissero fra loro bastasse sporcarli superficialmente con sostanze polverulenti (egli consigliava bianco di spagna o cenere); riferiva il Fresneau che la gomma greggia è estremamente sensibile alle variazioni di temperatura; e che si scioglie in olio di noce se la si tiene a lungo in esso, su "cenere calda o sul fuoco di sabbia dolce". Anche il Condamine si preoccupò della soluzione della gomma: egli notò che, come le resine, la gomma è insolubile in acqua; però, a differenza di quelle, non è solubile in alcool. Notò pure che dopo sciolta la gomma in olio di oliva o di noce, non si riesce a farle riprendere le iniziali solidità ed elasticità. Questi studî risvegliarono l'attenzione degli scienziati. Ne derivò un viaggio del botanico J. B. Aublet alla Guiana (1762) e un soggiorno di due anni per studiare, dal punto di vista botanico, questa pianta, ch'egli chiamò Hevea guyanensis (Histoire des plantes de la Guiane Française, Parigi 1775). Nel 1765 M. Coffigny scopriva alberi analoghi al Madagascar; e in seguito J. Howison scopriva a Penang la Urceola elastica, e W. Roxburg ad Assan il Ficus elastica; sicché divenne chiaro che la gomma non era una particolarità della Guiana, come il nome dato dell'Aublet faceva ritenere.
Intanto il problema della soluzione della gomma in appropriati solventi, da cui fosse possibile ricuperarla con le primitive caratteristiche - problema essenziale ai fini degl'impieghi industriali in tempi in cui non esistevano mescolatori e non era quindi possibile portare la gomma in uno stato di plasticità sufficiente per poterne formare oggetti - era risolto indipendentmente da Hérissant e P. J. Macquer (1763). Questi autori indicavano come solventi l'olio di Dippel, l'olio chiaro di terebentina ben rettificato sulla calce (i vapori di quest'olio fanno già da solvente), i vapori di canfora, l'etere ben rettificato. Verso il 1780, poi, un farmacista di Londra, Winch, era riuscito a sciogliere la gomma in etere solforico purificato a mezzo di successivi lavaggi con acqua e separazione da questa per decantazione. All'italiano Fabroni si dovette, infine, la scoperta del solvente economico della gomma: il petrolio (comunicazione del chimico italiano G. A. Giobert a C. L. Berthollet, 1791).
Due applicazioni risultarono da questa possibilità di preparare soluzioni di gomma: la sostituzione, proposta da Hérissant e realizzata da Bernard (1797), delle sonde e delle candele medicinali in metallo con analoghi oggetti in gomma; e la preparazione di tubi su anima di cera proposta dal Macquer o di argilla proposta dall'italiano T. Cavallo (residente a Londra), anime eliminabili per immersione in acqua bollente. Ma la prima applicazione di largo interesse industriale fu la fabbricazione della gomma da cancellare, attribuita da alcuni al chimico inglese G. Priestley (1770), da altri al portoghese Magellano (1772), nipote del grande viaggiatore. Comunque è a questa applicazione che si deve il nome inglese della gomma: india rubber. Moltî altri progressi si realizzarono durante il Settecento, e alcune applicazioni particolari furono iniziate; ma quello che doveva dare una spinta definitiva alle conoscenze tecnico-industriali della gomma, fu il desiderio, che portò a molti insuccessi, di fabbricare impermeabili; problema di cui come dicemmo avanti si erano occupati anche gl'Indiani sin dal 1500. I primi tentativi furono fatti da Besson in Francia (1791), da S. Peal (1791) e da H. Johnson in Inghilterra (1797); poi da Behon e da Champion (1811). Ma solo T. Hancock e C. Macintosh in Inghilterra riuscirono a produrre oltre alle gomme da cancellare, abiti formati da una tela addoppiata con interposta una foglia di gomma, il tutto cucito (la foglia era ottenuta per evaporazione su piastra di marmo di una soluzione di gomma in essenza di terebentina). Successivamente T. Hancock, che incomincia ad avere una posizione dominante nella storia dell'industria della gomma, riuscì a preparare blocchi di gomma fortemente pressati da cui tagliare le sue foglie per mezzo di seghe circolari; e quindi, per ricuperare i ritagli di questa lavorazione, egli era portato a costruire il primo masticatore (fig. 1) che chiamava pickle e il primo mescolatore (1820-1821). Avendo osservato che la ruggine dei cilindri era assorbita dalla gomma, il Hancock fece le prime mescole introducendo nella gomma al mescolatore ocra e altre polveri colorate, e più tardi (1838), nella gomma da cancellare, smeriglio e pietra pomice. Inoltre egli produsse in quell'epoca il primo filo elastico, che pensò potesse essere adoperato nelle bretelle e nelle giarrettiere al posto delle spirali di ottone allora in uso. Il Macintosh (1823) raggiungeva notevoli risultati nel campo dell'impermeabilizzazione dei tessuti e di altre sostanze (cuoio, carta, ecc.), adoperando il benzolo come solvente della gomma, nella sua fabbrica di Glasgow.
Tutti questi procedimenti però urtavano in una grave difficoltà che impediva all'industria di svilupparsi: gli abiti impermeabili divenivano molto rigidi d'inverno mentre d'estate acquistavano un fastidioso potere adesivo. Contro la stessa difficoltà cozzò con tenace intraprendenza, insensibile agl'insuccessi che più d'una volta lo portarono in carcere per non poter pagare i debiti, il chimico americano C. Goodyear, il quale cominciò a occuparsi attivamente della questione nel 1835. Per rendere insensibile al calore la gomma, egli incorporò in questa, servendosi di un laminatoio, magnesia e calce, il che in realtà non gli recò altro vantaggio che quello di ridurre il potere adesivo della gomma. Successivamente introdusse del bronzo in polvere, ma l'aspetto della gomma risultò brutto. Per estrarre il bronzo almeno in superficie, egli trattò le miscele con acido nitrico; l'aspetto esterno della gomma migliorò, si notò una contrazione e uno sviluppo di vapori, che il Goodyear attribuì a un'azione dell'acido sulla gomma. Ne derivò un procedimento di trattamenti della gomma con gas acido, e un'industria, che però in meno d'un anno dovette essere abbandonata. Pensò allora il Goodyear che l'uso diretto di lattice o la sua coagulazione in modo diverso da come la praticavano gl'Indiani potesse fornirgli la materia insensibile alle variazioni di temperatura e priva di proprietà adesive, ma l'esperienza, tentata da un suo collaboratore che voleva precorrerlo, fallì. Intanto Goodyear aveva occasione d'incontrarsi con un altro fabbricante americano di gomma, N. Hayward, il quale per togliere alla gomma le proprietà adesive vi aveva introdotto del fiore di zolfo (in realtà già molto prima, nel 1832 il chimico tedesco F. Lüdersdoff aveva osservato che sciogliendo in opportuni solventi gomma e zolfo, e poi evaporando il solvente, si aveva una gomma che aveva perso il suo potere adesivo e acquistato una notevole resistenza).
Entrato in società con Hayward, Goodyear aggiunse allo zolfo dell'ocra rossa perché la gomma acquistasse l'aspetto del cuoio e fabbricò un certo numero di sacchi per l'amministrazione delle poste americane, sacchi che si comportarono bene in inverno, ma manifestarono i soliti difetti in estate. Nell'inverno del 1839, finalmente, un caso fornì al Goodyear la soluzione del problema. Un pezzo di quei tessuti impermeabili che gli erano stati tornati dall'amministrazione delle poste, per caso andò a cadere su una stufa di ghisa in riscaldamento. Lo zolfo si infiammò, spandendo un odore sgradevole; il Goodyear raccolse il campione e lo buttò per la finestra, ma il caso volle che restasse sul davanzale. Al mattino, ritrovandolo, il Goodyear constatò con sorpresa che in prossimità della zona bruciata la gomma non si era irrigidita affatto. Ripeté la prova con identico risultato, mentre, usando impermeabili senza zolfo, non riuscì a ottenere un prodotto analogo; sicché comprese la necessità della coesistenza dello zolfo e del calore per ottenere la gomma con la desiderata proprietà.
Poco dopo il Goodyear trovava anche il modo di preparare l'ebanite per immersione di gomma in zolfo fuso; operazione ch'egli provava per cercare di metallizzare la gomma con un procedimento corrispondente alla tempera nei metalli.
Il Goodyear invece di coprire con brevetti la sua invenzione cercò d'intavolare trattative con i fabbricanti europei (1842). Campioni di gomma vulcanizzata andarono così nelle mani di Hancock, il quale osservò che erano efflorescenti; grattò con temperino la polvere, e vide che essa bruciava con odore di zolfo. Dopo lunghi tentativi, il Hancock, che aveva chiesto subito un brevetto senza essere ancora capace di preparare un campione, ebbe anche egli il suo momento di fortuna. Sfogliando un libro di chimica trovò segnata, come temperatura di fusione dello zolfo, 1180, temperatura ch'egli sapeva non atta a danneggiare la gomma. Pensò allora d'immergere foglie di gomma in zolfo fuso e poté così constatare che, a seconda della durata d'immersione, otteneva un prodotto analogo a quello americano o addirittura un prodotto rigido (ebanite). Il 21 novembre 1843 gli era concesso il brevetto inglese. Il Goodyear si affrettò a coprire la sua invenzione con brevetti (1844), ma la loro validità in Europa doveva poi essere infirmata dalla preesistenza di quelli di Hancock.
Il nome di "gomma vulcanizzata" fu dato da Hancock a cui era stato suggerito dal dottor Brockedon.
Intanto il chimico scozzese A. Parkes scopriva e brevettava (27 giugno 1843) un nuovo solvente della gomma, il solfuro di carbonio, e in seguito (25 marzo 1846) tre procedimenti di vulcanizzazione a freddo: uno consistente nella modificazione della gomma per immersione in liquidi (di cui il più raccomandato, e quello anche attualmente usato, è formato da una soluzione di cloruro di zolfo in solfuro di carbonio o in altri solventi) con successivo lavaggio con soda caustica; un secondo che presupponeva la mescolazione per via meccanica di gomma e di cloruro di zolfo con successiva stampatura (metodo che non si usa più); il terzo che vulcanizza per azione dei vapori di cloruro di zolfo (va bene anche oggi per oggetti sottili).
Per esaurire la storia delle varie specie di vulcanizzazione, citeremo il recente trovato dell'inglese S. J. Peachey (1921), il quale vulcanizza a freddo, sfruttando la reazione fra l'idrogeno solforato e l'anidride solforosa allo stato gassoso o in soluzione, per ottenere una deposizione di zolfo colloidale nella gomma.
Sommo interesse per l'industria ha avuto anche la scoperta di sostanze (acceleranti) che rendono più rapida la vulcanizzazione a caldo, o permettono di produrla a temperatura relativamente bassa. Lo scopritore degli acceleranti inorganici può essere ritenuto il Goodyear che, come abbiamo visto, introdusse nella gomma la magnesia calcinata di cui ha poi compresa la funzione di accelerante di vulcanizzazione (brevetto americano 3633 del 1844). È notevole poi un brevetto inglese di Th. Rowley (1881) in cui s'indica che la vulcanizzazione in atmosfera di ammoniaca permette di ridurre la durata di vulcanizzazione o il tenore in zolfo della mescolanza.
In quanto agli acceleranti organici, i primi brevetti europei furono presi dalla Bayer Farbenfabrik di Elberfeld (1912); tuttavia, secondo rivendicazioni di D. Spence e di W. C. Geer, gli Americani usavano già, per opera di G. Oenslager e Marks (1906) varî acceleranti organici (anilina prima, poi tiocarbanilide); Oenslager conosceva anche l'azione stimolante dell'ossido di zinco sulle tiocarbanilide.
Botanica.
Le piante che contengono la gomma elastica o caucciù sono numerose: oltre 300 specie appartenenti a famiglie vegetali diverse. Però solo un piccolo numero di esse ha importanza dal punto di vista industriale, agrario e commerciale: di esse diamo l'elenco sistematico con l'indicazione dei paesi d'origine e la descrizione delle specie principalissime.
Euforbiacee: Hevea brasiliensis Muell. Arg., Pará; H. guyanensis Aubl., Guiana; H. pauciflora Muell. Arg., Río Negro e Río Uaupés; altre specie di Hevea vivono nel Perù orientale e nella Bolivia; Manihot Glaziowii Muell. Arg., Ceará.
L'Hevea (dal nome indigeno hhevè) è un genere di piante della famiglia Euforbiacee (Aubler, 1775), tribù Jatropheae, rappresentato da 17 specie arboree di grandi dimensioni, ricche di lattice, con foglie alterne trifoliolate, lungamente picciolate, fiori disposti in racemi ascellari o in cime ramificate terminali. Vivono nell'America tropicale specialmente nell'Amazzonia e nella Guiana.
La specie più importante, che ormai è l'unica estesamente coltivata come produttrice di caucciù, è l'Hevea brasiliensis Muell. Arg. (seringueira dei Brasiliani; fig. 2), albero nel paese d'origine alto da 20 a 30 m. con tronco dritto colonnare di color grigio chiaro, sormontato da una chioma di foglie verdi cupe; vive presso i fiumi in ambiente caldo umido; le foglie sono caduche ma vengono sostituite prestissimo dai nuovi germogli. I fiori sono monoici e quelli pistilliferi producono delle capsule tricocche che, a maturità, si aprono con una leggiera detonazione, lanciando i semi della grossezza di un pistacchio. Questa pianta si utilizza spontaneamente nei paesi d'origine, ma viene specialmente coltivata in Asia: Giava, Sumatra, Singapore, Malacca, ecc., per ricavarne dal lattice dell'ottimo caucciù.
Altre specie che pure forniscono gomma elastica sono: H. Benthamiana Muell. Arg. del Río Negro, H. Duckei Hub. del Río Yapurá, H. lutea Muell. Arg. del basso Uaupés, H. apiculata Baill. dell'alto Río Negro, H. guyanensis Aubl. della Guiana francese e della regione del basso Rio delle Amazzoni, ecc.
La Manihot Glaziowii Muell. Arg. è un albero di notevoli dimensioni, chiamato dai brasiliani Ceará, dal nome dello stato ove è più diffuso: è alto 12-15 m. con tronco dritto, liscio, grigiastro, ha foglie sparse palmatolobate, lungamente picciolate, caduche. Per quanto sia pianta di regioni intertropicali, abbisognante di una media di temperatura da 26 a 28°, vive nelle regioni secche e sopporta volentieri lunghi periodì di siccità e prospera nei terreni sabbiosi, aridi, rocciosi fino all'altezza di 200-300 m. s. m. In coltura è di accrescimento molto rapido, tanto che si può cominciare a incidere al sesto anno e dura da 15 a 20 anni: però è pianta che non resiste ai venti forti e per questo la sua coltivazione è stata trascurata e sostituita con la specie affine M. dichoma.
Moracee: Castilloa elastica Cerv., Messico, America Meridionale e Settentrionale; Ficus elastica Roxb., India, Penisola Malese; F. prolixa Forst., Nuova Caledonia, Tahiti; F. Vogeli Miq., Africa occidentale.
La Castilloa elastica Cerv. dal punto di vista storico è la prima pianta da caucciù che sia stata conosciuta, e mentre si credeva che fosse localizzata nell'America Centrale, si osservò di recente che abbonda nel Brasile presso le sorgenti dei grandi fiumi e i Brasiliani chiamano questa pianta col nome di caucho o di hulè. È un grande albero, alto da 15 a 20 m., col tronco fino a 90 cm. di diametro; le foglie sono caduche, composte, multifoliolate a foglioline reflesse, i fiori sono monoici. Tutte le parti giovani della pianta sono rivestite da un feltro di peli bianchi e rudi. L'accrescimento è rapido e la pianta vive nei terreni bassi, umidi e pingui delle regioni molto calde. Poiché il lattice, oltre che dalla corteccia è fornito dall'alburno, le popolazioni dei luoghi d'origine per la raccolta del prodotto sono ricorse ai metodi distruttivi abbattendo gli alberi.
Il Ficus elastica Roxb. è la specie da gomma elastica più importante del genere Ficus: è pianta originaria della regione indomalese dove vive nelle foreste umide, nei terreni freschi non paludosi, spingendosi fino a 800 m. sulle montagne. È un albero alto fino a 20 m. con foglie coriacee, intere, ovali, lucenti, di grandi dimensioni, col picciolo e le nervature colorate in rosso come pure le gemme. Non deve essere inciso ogni anno, altrimenti dopo tre anni la pianta comincia a deperire: bisogna praticare l'incisione ogni tre anni in modo da lasciar riposare la pianta per due anni consecutivi.
Apocinacee: Hancornia speciosa Muell. Arg., Brasile meridionale; Landolphia tomentosa Desw., Senegal, Sūdān; L. owariensis P. Beauv., Guinea; L. Foreti Jum., Gabon, Congo; L. Petersiana Dryer, costa occidentale e orientale dell'Africa; L. madagascariensis K. Schum., L. Perrieri Jum., L. sphaerocarpa Jum., Madagascar; Funtumia (Kichsia) elastica Stapf., Africa occid.; Mascarenhasia elastica K. Schum., Africa orientale (Zanzibar); M. lisianthiflora DC., M. anceps Boiv., Madagascar.
L'Hancornia speciosa Muell. Arg., è una pianta arbustiva alta al massimo m. 3-3,50, ha rami tortuosi e scarso fogliame; il frutto è una bacca detta mangaba (donde il nome di mangabeira dato alla pianta), edule, di sapore zuccherino-aromatico, vinoso. Vive nei terreni rocciosi e aridi; ama una certa altitudine e resiste bene alla siccità spingendosi nel Paraguay fino a 25° di lat. sud.
La Funtumia elastica Stapf o Kichsia elastica Preuss. è pianta della flora forestale dell'Africa occidentale: è un albero alto da 25 a 30 m. con foglie oblunghe, di color verde scuro e fiori gialli; il frutto è una capsula secca. Questo albero produce la maggior parte del caucciù esportato dall'Africa occidentale.
Le Landolphia sono liane e alcune specie abbondano nell'Africa tropicale dove forniscono il cosiddetto caucciù d'erbe.
Composte. - Anche alcune specie di questa famiglia vanno acquistando una certa importanza come produttrici di gomma elastica.
La prima è il Parthenium argentatum A. Gray, detto guayule, frutice degli altipiani del Messico, nel quale il lattice non è contenuto in tubi latticiferi, ma nelle cellule del parenchima fondamentale, in quelle dei raggi midollari secondarî, ecc.: in questo lattice la gomma è contenuta in proporzione circa del 10%. del peso della pianta secca. Questa gomma è molto resinosa e può servire per determinati scopi: si estrae per macinazione e levigazione da tutta la pianta che viene recisa. Attualmente se ne sta tentando la coltivazione su vasta scala negli Stati Uniti (Nuovo Messico, Arizona) e se ne esperimenta l'acclimazione sull'altipiano eritreo.
Negli Stati Uniti si fanno tentativi per estrarre gomma dalla golden rod" che è la Solidago virga aurea L., pianta comune anche in Italia: è un'erba perenne che porta le sue calatidi di color giallo riunite in racemo terminale composto.
Nel Turkestan russo si fanno, per lo stesso scopo, coltivazioni su vasta scala del Tau Sagys che sarebbe la Scorzonera Tau Sagys, della quale non si hanno ancora precise notizie botaniche.
Però il prodotto fornito da queste piante non è identico, varia quantitativamente e qualitativamente e prende nomi commerciali diversi, il cui uso genera confusione perché varia spesso da regione a regione. Così le varie specie di Hevea forniscono la gomma del Para, la Manihot Glaziowii quella di Ceará, l'Hancornia il caucciù di Mangabeira, il Ficus elastica quello di Assam e parte di quello di Singapore, Sumatra, Giava, Penang, ecc.
Produzione e commercio della gomma greggia.
La gomma greggia necessaria al consumo mondiale è ottenuta da estrazioni praticate in alberi di selva e in alberi di piantagione. La gomma di selva che un tempo fu la sola disponibile sul mercato mondiale ha perduto quasi interamente la sua importanza; è estratta dall'Hevea brasiliensis che si trova naturalmente nelle foreste del Rio delle Amazzoni nel territorio dello stato di Pará (Brasile), dal Manihot Glaziowii nello stato di Ceará (Brasile), dalla Castilloa elastica nel Messico, da diverse piante, specie liane del genere Landolphia in regioni dell'Africa (Congo, Angola, Madagascar, ecc.), dal Ficus elastica nella Malesia. La gomma di piantagione, che rappresenta la produzione di gran lunga più importante, è ottenuta dall'Hevea brasiliensis diffusamente coltivata in territorî della Malesia britannica, delle Indie Olandesi, dell'Indocina Francese, del Siam, di Ceylon e di altri possedimenti inglesi. Si cerca di ottenerla anche da piante della famiglia Composte, come s'è già detto, ma si tratta ancora di tentativi. Pochi episodî nello sviluppo delle industrie sono molto interessanti e quasi drammatici come quello della concorrenza fra la produzione di selva e quella di piantagione ai fini dell'approvvigionamento del mercato mondiale.
Nel 1900 la produzione mondiale di gomma era data esclusivamente da alberi di selva e saliva a circa 54 mila tonnellate di cui metà provenienti dal Brasile e metà dalle altre regioni, principalmente dall'Africa. Questa situazione non cambiò molto fino al 1905. Lo sviluppo dell'automobilismo con la relativa richiesta di gomma per i pneumatici fece salire enormemente il prezzo della materia prima che nel boom del 1909 arrivò a una punta di 12 scellini per libbra. Ma la situazione stava per mutare per lo svilupparsi delle piantagioni di Hevea nel medio Estremo Oriente.
Il governo brasiliano aveva posto il veto all'esportazione di semi di Hevea. Ma nel 1876 l'inglese H. Wickham, incaricato dal governo indiano, riuscì con uno strattagemma a esportare circa 70 mila semi sotto il nome di "campioni botanici". Con la piccola parte di essi (circa 3000) che rimasero in vita si tentò l'acclimazione prima nel giardino botanico di Kew presso Londra e poi, con esito naturalmente più favorevole, in quello di Henaratgoda nell'isola di Ceylon. I primi sviluppi furono lenti e stentati. Nel 1893 si ebbero 93 mila semi che furono distribuiti in Ceylon e nella Malesia britannica (penisola di Malacca) da cui ebbero origine le attuali piantagioni che si estesero alle colonie olandesi, anzitutto nelle isole di Giava e di Sumatra e poi in minor scala in Borneo inglese e olandese, India Britannica meridionale, Birmania, Siam, Indocina Francese.
La prima produzione sensibile delle piantagioni giunse sul mercato nel 1905 (145 tonn.). Ma nel 1913 la produzione delle piantagioni superava già quella di selva del Brasile, e nel 1920 era il decuplo di questa. Oggi la produzione di gomma di Hevea di piantagione rappresenta il 98%, del totale.
Contemporaneamente crebbe a dismisura il consumo, specie nell'America Settentrionale, dato l'enorme sviluppo preso in quel paese dall'automobilismo; tale consumo ebbe un massimo nel 1929 e diminuì solo negli ultimi due anni per effetto della crisi economica mondiale.
Le tabelle seguenti dànno un'idea sufficiente del movimento della produzione e del consumo nei varî paesi d'origine e in quelli industriali, nonché delle fluttuazioni dei prezzi d'origine. Per brevità riportiamo solo i dati di alcuni anni più caratteristici:
La produzione delle piantagioni è così divisa per paesi (1931): Malesia brit., tonn. ingl. 422.000; Ceylon, 62.296; altri possedimenti inglesi, 25.172; Indie Olandesi, 257.354; Indocina Francese, 11.713; Siam, ecc., 4535.
Le cifre esposte mostrano andamenti forse più movimentati di quelli riferentisi a qualsiasi altra materia prima. Il prezzo della gomma ha subito certo le più violente fluttuazioni; e nel 1932 è disceso a poco più di un ventesimo di quello oro di anteguerra, aggirandosi al disotto di 2 denari per libbra, nonostante la svalutazione della sterlina.
Per comprendere questo fenomeno è necessario esaminare la struttura economica dell'industria delle piantagioni. Esistono oggi circa 4 milioni di ettari di piantagioni, con circa un miliardo di piante di Hevea, tutte originate dai semi di sir Henry Wickham. Di esse circa un quarto è in mano di piccoli produttori indigeni, specie nelle Indie Olandesi e in Malesia; gli altri tre quarti appartengono a società anonime in grande maggioranza inglesi. Esse hanno in generale azioni di piccolo taglio (1 sterlina o addirittura 2 scellini) che, quotate alla borsa di Londra, sono diffusissime fra i piccoli risparmiatori. Un numero molto minore di piantagioni appartiene a gruppi finanziarî olandesi, belgi, francesi.
Alcuni grandi industriali della gomma, americani (United States Rubber Company, Godyear) e inglesi (Dunlop) possiedono estese piantagioni. La società italiana Pirelli possiede pure una piantagione in Giava. Le piantagioni appartenenti direttamente a industriali non arrivano però al 4 per cento dell'area piantata. Il capitale europeo investito si può valutare all'incirca a 300 milioni di sterline.
Dopo inizî difficili, si ebbe un periodo di straordinaria floridezza, e nel 1916 dodici compagnie inglesi distribuivano un dividendo medio del 140 per 100. Ciò diede un eccessivo impulso alle nuove piantagioni, determinò una forte sovraproduzione e, nonostante l'aumento del consumo, portò alla costituzione di enormi stocks a Londra e a New York. Ne derivò una diminuzione fortissima del prezzo che nel giugno 1922 scese a denari 63/4 e cioè appena ai due terzi del costo di produzione.
L'agitazione degli azionisti inglesi, dopo i vani tentativi di limitazione volontaria e d'accordo coi produttori olandesi, indusse il governo inglese a emanare (ottobre 1922) un provvedimento, il cosiddetto Piano Stevenson dal nome del relatore della commissione incaricata di studiare il problema. Esso rappresentò certo uno dei più originali tentativi di intervento forzoso nella determinazione dei prezzi delle materie prime e merita che se ne faccia cenno. La legge disponeva che si assegnasse a ogni piantagione una "capacità di produzione standard" fissata secondo l'estensione e l'età della piantagione stessa. Ogni trimestre veniva stabilito quale percentuale della produzione limite fissata la piantagione potesse esportare pagando un dazio di uscita minimo; al disopra di questa percentuale l'esportazione non era vietata: soltanto, il dazio diveniva proibitivo. Era fissato un prezzo , "perno", stabilito dapprima in 15 denari per libbra, e secondo che il prezzo di mercato saliva più o meno al disopra o scendeva al disotto di questo, nel trimestre successivo la percentuale esportabile (in origine del 60%) veniva aumentata o diminuita gradualmente del 5 0 del 10%.
Il governo e i produttori olandesi non vollero aderire a questo piano, questi forse per l'avidità di approfittare dei conseguenti aumenti di prezzo senza diminuire la propria produzione, quello per la difficoltà e il pericolo di obbligare la popolazione indigena a diminuire il proprio raccolto in un periodo in cui non mancarono a Giava agitazioni nazionalistico-comunistiche di origine russo-cinese. E questa astensione fu alla lunga fatale al successo del provvedimento.
Tuttavia all'inizio il successo vi fu; i prezzi crebbero e nel novembre 1925 si toccò una punta di 56 denari per libbra; le piantagioni ebbero due o tre anni di grossi profitti e nel 1926 si ebbero dividendi medî del 50 per cento. Tutto ciò stimolò lo sviluppo di nuove piantagioni soprattutto nelle libere Indie Olandesi e sotto l'illusione degli alti prezzi si portò, con grave errore, il prezzo "perno" a 21 denari. Dopo di ciò le produzioni presero rapidamente ad aumentare e i prezzi a scendere; nel settembre 1928 si era di nuovo scesi sotto a 9 denari, quando il governo inglese, dopo una inchiesta rapida e quasi segreta, d'improvviso abolì dal 10 novembre 1928 la legge di restrizione, dando luogo a violente polemiche.
Da allora si ebbe una continua discesa dei prezzi e nel febbraio 1932, dopo un nuovo vano tentativo di accordo con gli Olandesi per introdurre nuovamente la restrizione, si ebbe un ultimo crollo fino sotto 2 denari. Le piantagioni riuscirono bensì, introducendo le più drastiche economie, a ridurre i costi di produzione, ma questi restano oggi in media superiori al doppio del prezzo di mercato. I dividendi, alti fino al 1927, si ridussero a cifre bassissime nel 1928 e 1929 e si tramutarono generalmente in forti perdite nel 1930 e 1931.
È curioso che il primo effetto del crollo dei prezzi fu non una diminuzione, ma un aumento della produzione. Solo verso la fine del 1931 incominciò una notevole riduzione, perché molte società sospesero la produzione il cui valore non raggiunge spesso nemmeno le spese vive di raccolta: quale possa essere lo sviluppo di questa disastrosa situazione è ben difficile prevedere. Numerose piantagioni, specie nelle Indie Olandesi, stanno introducendo l'uso degl'innesti di gemme di alberi capostipiti selezionati ad altissimo rendimento; da esperienze ormai larghe pare che si possa sperare di elevare i rendimenti dalla media attuale di 400libbre per acre (circa 450 chilogrammi per ettaro) al triplo o anche più, diminuendo così di molto il costo di produzione. È opinione di molti competenti, che se non si riesce a raggiungere coi mezzi scientifici moderni questi altissimi rendimenti (col necessario sacrificio di parte dell'area piantata), l'industria delle piantagioni dovrà passare agl'indigeni.
La crisi delle piantagioni fu naturalmente aggravata dalla diminuzione del consumo, sensibile negli Stati Uniti, mentre in complesso i paesi europei mantennero, e in qualche caso anche aumentarono, i loro consumi. (Si può calcolare che l'80 per cento della gomma va consumata nella produzione di pneumatici per automobili).
Risulta che il costo per portare una piantagione in produzione fu nell'ultimo decennio in media di 45 sterline per acro. I valori di borsa delle azioni salirono nel 1927 a cifre che corrispondono a capitalizzazioni di 100 e perfino 130 sterline; ora sono scesi a 15 sterline per acro e sono destinati a nuove discese.
Nei momenti degli alti prezzi determinati dalla restrizione, industriali americani pensarono di estendere le piantagioni in regioni non sottoposte all'autorità inglese. Tentativi nelle Filippine non riuscirono. La grande ditta Firestone iniziò coltivazioni in Liberia con un colossale programma, ma il piantamento, giunto a 30.000 acri, fu arrestato dalla crisi dei prezzi. I tentativi di Ford di estendere le piantagioni razionali nell'Amazzonia, di cui pure molto si discusse nella stampa, possono ritenersi condannati all'insuccesso, oltre che per la crisi attuale, per il clima e per la mancanza di mano d'opera economica.
Produzione di gomma di selva. - Come si è visto, l'America Meridionale è stata a lungo il principale produttore di gomma, grazie all'esistenza di piante che nascono spontaneamente. La produzione attuale non è molto ahbondante, ma ha pur sempre interesse, anche perché dà qualità molto pregiata. La raccolta è fatta dagl'indigeni (seringiueiros), i quali incidono la corteccia con un'accetta. L'operazione è condotta però senza alcuna sistematica e mette spesso in pericolo la vita della pianta. Nel caso dell'Hevea, i tagli sono fatti almeno quotidianamente a partire dall'alto a distanza sino a 5 cm. l'uno dall'altro; la produzione è tanto più abbondante e, sembra, la gomma tanto più nervosa, quanto più vecchio è l'albero. Nel caso della Castilloa, i tagli si conducono dalle radici fino a un'altezza media d'uomo e si raccoglie il lattice che scola; questo si esaurisce dopo una mezz'ora e allora si abbatte l'albero e si praticano rapidamente incisioni nella parte più alta del fusto: con questo procedimento, si possono ricavare fino a 25 o 40 e più litri di lattice.
La coagulazione del lattice di Hevea è ottenuta in modo particolare. Precisamente si preparano dei focolari di terra o di ferro bianco, si coprono con un camino tronco-conico di lamiera e si produce del fumo, facendo uso di piante che diano fumi ricchi di fenoli (principalmente noce della palma Urukuru). All'azione dei fumi si espongono dei bastoni, ricoperti in genere di terra, che sono stati in precedenza immersi nel lattice; quando si è formata una pellicola di gomma si rimettono i bastoni nel lattice e si riespongono all'azione dei fumi e così si continua fino a produrre delle palle. Queste vengono tagliate a metà per estrarre i bastoni, e poi spedite. È probabile che l'azione dei fumi caldi sia contemporaneamente un'azione essiccante, coagulante e disinfettante.
La gomma estratta dall'Hevea del Rio delle Amazzoni si chiama para, dalla città di Pará (Belem) che ne è il mercato principale: si distingue in para dura (para hard) che si produce nei distretti a monte di questa città (up river) e in para molle (para soft), che si prepara nei distretti a valle e nelle isole dell'estuario. Questa gomma deve essere depurata in fabbrica prima dell'uso (v. più oltre) e perde in media l'8% d'impurità; costituisce la migliore qualità disponibile sul metcato. La gomma estratta dalla Castilloa elastica, dalla Manihot Glaziowii, nell'America Meridionale, dalle Landolphia nell'Africa, ecc., sono più impure, e più ricche di resine e di peggiori qualità meccaniche di quella di Hevea.
Produzione di gomma di piantagione. - Mentre in origine le piantagioni di Hevea si facevano in genere su terreni già utilizzati per altre coltivazioni (tè, caffe, tabacco), più tardi, col loro svilupparsi, si dovette ricorrere ad aree occupate da giungla, che specie nella penisola malese era giungla primeva. Per utilizzare queste aree, le piante vengono abbattute e quindi bruciate; si libera il terreno dalle radici e dagli sterpi; si scavano buche a intervalli e in esse s'introducono piantine cresciute da semi in appositi vivai. Si è molto discusso sulla distanza più conveniente a cui collocare le singole piante; generalmente si lasciano intervalli di m. 6 × 6. Oggi però si fanno piantagioni più rade. Viceversa nelle piantagioni di indigeni si trovano piantagioni molto più fitte.
Molta cura deve essere data alla pulizia del terreno dalle male erbe e soprattutto occorre liberarlo da una gramigna detta alangalang (Imperata arundinacea) che cresce con enorme vivacità ed è assai dannosa alla crescita delle piantine. Molto vantaggioso riesce coprire il terreno con certe leguminose le quali servono a impedire le erosioni che si producono nel terreno per effetto delle piogge, e servono anche alla fertilizzazione azotata. La concimazione artificiale è molto discussa: sembra che essa possa essere utile, ma non è generalmente adottata.
Forti danni sono portati dalle formiche bianche che divorano il fittone della radice e si annidano nei residui dei tronchi degli alberi originarî della giungla. Numerose malattie danneggiano la Hevea dovute principalmente a funghi e ad altri parassiti, la cui ricerca e distruzione deve essere attentamente curata.
Quanto al modo di estrarre il lattice dalle piante (tapping), in un primo tempo sembra si sia seguito il sistema in uso nell'America Meridionale, consistente nella pratica d'incisioni a mezzo di una leggiera accetta (vi sarebbe ancora qualche importante piantagione che fa uso di questo sistema); successivamente si è introdotto il sistema, oggi generalmente usato, dell'asportazione di sottili strati di corteccia (excision method), sistema che va praticato con ogni cura, per evitare di danneggiare la vita e il rendimento lattifero della pianta. Non è nota la storia del passaggio dall'uno all'altro sistema. Si è usato qualche volta, combinato al secondo dei sistemi nominati, l'asportazione del lattice per puntura (pricking) della pianta.
In pratica si usano più sistemi di asportazione della corteccia. Il sistema più usato per il passato, consistente nel praticare cinque o sei incisioni su mezza circonferenza, si è dimostrato dannoso alla vita delle piante. Oggi si pratica un'incisione giornaliera interessante un terzo (fig. 7 b) o un quarto della circonferenza esterna dell'albero e si fa riposare la pianta periodicamente (ad esempio per due settimane il mese); oppure si praticano incisioni della corteccia a forma di V (fig. 7 a) o lunghe mezza circonferenza, a giorni alterni; o, finalmente, come si fa spesso a Ceylon, s'incide per mezza circonferenza ogni tre giorni. .Si praticano anche incisioni alternate per un mese con riposo di un altro mese, o simili. In sostanza occorre permettere alla pianta di ricostituire la sua corteccia, tenendo però presente che incisioni ben fatte arrecano un danno locale che non influenza la nutrizione generale delle piante. Occorre aver cura dell'altezza della incisione sul suolo, delle distanze fra le varie incisioni e così via. Ad esempio, si può iniziare l'intaglio su mezza circonferenza a 18 pollici da terra; s'interessa prima una zona di albero alta circa 18 pollici; poi si passa all'altra mezza circonferenza incidendola su 36 pollici; indi si torna alla prima mezza circonferenza incidendola sui 18 restanti. In tutto, così operando, s'impiegano cinque anni e mezzo, in modo da ritrovare la corteccia formata nelle zone di prima incisione. Naturalmente questi numeri non hanno valore assoluto, ma servono a dare un'idea quantitativa del modo di procedere.
La pianta può cominciare a essere incisa quando ha quattro anni; si preferisce però cominciare, nelle buone piantagioni, a sei anni e in qualche caso a otto anni. La produzione giornaliera di lattice varia a seconda dell'età; si passa da una media di circa un grammo per giorno a 4 - 5 anni, a una di circa 7 grammi per giorno a 10 ÷ 11 anni. Ciò non impedisce ad alberi eccezionali di raggiungere produzioni dell'ordine di 90 grammi per giorno.
Il lattice è raccolto in recipienti di vetro o di porcellana o raramente di alluminio, ed è portato in grandi recipienti di raccolta. Solo in minime quantità il lattice è trasportato sui mercati di vendita così come viene raccolto. Più spesso, invece, esso è coagulato per mezzo di piccole aggiunte, in genere, di acido acetico, a volte di acido formico o di silico-fosfato sodico. Anche altri acidi organici deboli, come il citrico, il tartarico, l'ossalico e altri sali - come ad esempio gli allumi - sono utilizzabili; ma sono poco usati. Il coagulo è in genere separato dal siero e sottoposto a trattamenti che ne consentono la trasformazione nelle forme più comuni commerciali: crepe e foglie (sheet), affumicate.
Per la preparazione del crêpe si prende il coagulo bagnato dal siero (in cui lo si è lasciato in genere per circa una notte) e lo si lavora col masticatore; macchina costituita da cilindri metallici che girano in senso opposto con velocità differenti, mentre un flusso continuo di acqua investe la gomma. Si ottiene così un'estrazione completa del siero e delle impurezze.
Dal masticatore si ricavano spessi pani i quali vengono passati poi fra cilindri muniti di sporgenze e pur essi mobili a velocità diverse che li riducono in foglie più sottili, e da questi, per le buone qualità di crêpe (fine pale crêpe) si passa a macchine con cilindri lisci girevoli in senso inverso con velocità eguali, macchine chiamate finitori. Il crêpe così ottenuto contiene discrete quantità d'acqua (10 ÷ 20%) che occorre eliminare. Si fa uso perciò di camere di essiccamento, in cui la gomma, fuori dal contatto della luce, è esposta all'azione di una corrente d'aria calda (a circa 50°) o all'azione del vuoto.
Sono in commercio varî tipi di crêpe. Per i crêpe chiari fini, la decolorazione è ottenuta mediante opportune aggiunte di bisolfito di sodio al lattice, prima della coagulazione. Il bisolfito agisce come inibitore dell'azione dell'ossidasi del lattice. Le peggiori qualità di crêpe sono il crêpe bruno e il crêpe dei residui (scrap crepe). Quest'ultimo è ottenuto dal lattice che, colando lungo l'albero, si essicca su esso e contiene, quando è raccolto, molte impurezze. Quanto alle dimensioni commerciali del crêpe, diremo che lo si vende in foglie sottili, oppure in piastre aventi spessori di 4 ÷ 6 mm. (spesso, per risparmio di spazio negli essiccatoi, queste piastre si preparano pressando più foglie di crêpe), o in forma di blocchi di circa 5 cm. di spessore ottenuti per pressatura a caldo delle foglie dopo essiccamento.
Il lattice da cui si parte per preparare il crepe contiene in genere 15% di gomma; tuttavia non si è qui in presenza di una rigida standardizzazione; si può anche partire da lattice naturale o diluito fino al 20 ÷ 25% di gomma. La standardizzazione è invece netta e generalmente accettata per la preparazione delle foglie (sheet), per la quale si usa lattice contenente il 15% di gomma, vale a dire lattice che dà circa 1,5 libbre di gomma per gallone di lattice (circa 70 gr. per litri 4,54). Per determinare rapidamente questo tenore si fa uso spesso di densimetri (p. es., del Metrolac); però questo sistema, secondo O. De Vries, andrebbe abbandonato, perché inesatto, e sostituito dalla pesata di coaguli ottenuti da piccoli campioni di lattice.
Per preparare queste foglie si fa uso di macchine costituite sostanzialmente da due cilindri che girano in senso opposto con eguale velocità. Però, passando fra essi, la gomma non è liberata dal siero così totalmente come è nei masticatori; la superficie delle foglie tende perciò a divenire umida per fuoruscita di siero. Per favorire l'uscita di questo si lascia per un giorno la gomma su acqua, possibilmente rinnovandola spesso. (Alcuni consigliano l'immersione in acqua calda a 80° - 100°; ma sembra che ciò danneggi la gomma). Dopo aver fatto sgocciolare per qualche ora l'acqua, si procede all'essiccamento e all'affumicamento (donde il nome commerciale di smoked sheet) in apposite camere, in genere divise in due parti, di cui l'inferiore serve per la produzione del fumo (si brucia della legna) e la superiore per contenere gli scaffali aperti in cui sono sospese le foglie di gomma. Naturalmente occorre provvedere a separare le due parti in modo da evitare che la gomma prenda fuoco. La temperatura deve essere controllata attentamente, avendo presente che per ottenere un buon prodotto occorre tenerla fra 40° e 50°.
Accanto a questi principali tipi di gomma se ne producono altri, fra cui particolare menzione merita la gomma maturata, cui corrispondono speciali proprietà (soprattutto la capacità di vulcanizzare in tempo relativamente breve). Per prepararla, dopo ottenuto il coagulo, non lo si separa dal siero, ma si lascia con questo per una settimana o più. Le proteine vanno in putrefazione e la gomma acquista un odore particolarmente sgradevole. A maturazione avvenuta la gomma può essere trasformata in crêpe (nome commerciale di slab crêpe), o tirata in foglie e affumicata, o semplicemente essiccata conservandole la forma di pani. Per la utilizzazione diretta del lattice, v. oltre.
Le piantagioni di società europee sono affidate alla direzione e sorveglianza di personale europeo in proporzione di circa 1 assistente ogni 1000 acri (circa 400 ettari). Le piantagioni di Ceylon e di Giava utilizzano mano d'opera locale. Nella penisola malese e in Sumatra ciò non è possibile per la scarsità della popolazione indigena e la sua poca tendenza ai lavori manuali, e si ricorre quindi a mano d'opera immigrata. In Sumatra si hanno quasi esclusivamente Giavanesi; nella penisola malese, principalmente Tamil del sud dell'India per la raccolta e Cinesi per i lavori di dissodamento. Si può calcolare a circa due milioni e mezzo il numero dei lavoratori asiatici impiegati.
Il raccolto medio annuo si può per ora calcolare in 400 libbre per acro (450 kg. per ettaro); si è detto come possa aumentare con piantagioni innestate razionalmente.
Mercati della gomma greggia. - Fino a poco tempo fa il solo mercato importante era quello di Londra, dove veniva portata, anche materialmente, la quasi totalità della materia prima, per essere poi rispedita nei paesi consumatori. Nell'ultimo decennio ha acquistato importanza il mercato di Singapore, centro principalissimo dei paesi produttori, e anche il mercato di New York. Il mercato principale della para brasiliana è a Liverpool. Molto minore importanza hanno i mercati continentali di Amsterdam, Anversa, Amburgo. Le gomme africane avevano i loro sbocchi prevalememente ad Anversa e a Bordeaux, ma essi hanno ora perso quasi ogni importanza.
La gomma di piantagione viene messa in vendita in casse di circa 100 kg. Le piantagioni non vendono direttamente agl'industriali consumatori, ma quasi senza eccezione vendono con l'intermedio di brokers (sensali) e di dealers (mercanti).
Chimica e fisica del lattice.
Chimica. - Lattice di Hevea brasiliensis. - Il lattice di Hevea brasiliensis, al pari di quello delle altre piante da gomma, è una soluzione colloidale (v. colloidi) di gomma dispersa in mezzo acquoso: l'aspetto è simile al latte, da cui il nome, e il colore, ordinariamente bianco, può essere anche giallastro sino a grigio. Non è stata data una spiegazione sicura sulla funzione del lattice nell'economia fisiologica della pianta. Non è certo che esso sia da considerare come un liquido nutritizio per la pianta (D. Spence, R. Ditmar, G. Harries), specie per le proteine e i carboidrati presenti, perché in questo caso rimarrebbe da vedere con quali possibili reazioni l'idrocarburo caucciù potrebbe passare a prodotti solubili capaci di essere utilizzati dalla pianta. È ammesso da alcuni che esso faccia parte del sistema di escrezione della pianta, o che esso costituisca una protezione contro le punture degl'insetti (O. De Vries, ecc.), ma quest'ultima supposizione è stata abbandonata. È stata anche avanzata l'ipotesi che il sistema latticifero sia un serbatoio d'acqua per la pianta (A. Zimmermann, 1927).
Nella tabella che segue è data la composizione chimica del lattice (C. Beadle e H. P. Stevens).
Le proteine sono presenti come strato assorbito sulle particelle di gomma e impartiscono alla dispersione le caratteristiche di un colloide idrofilo; secondo le ultime ricerche queste proteine hanno la massima importanza per la stabilità del lattice; in esse sono stati isolati diversi corpi azotati ma a nessuno si è potuto finora assegnare una costituzione ben definita (R. O. Bishop, 1923). Le ceneri sono costituite principalmente da sali potassici, di manganese, di calcio, degli acidi solforico e fosforico. L'estratto acquoso poi del solido complessivo contiene, oltre ai sali solubili, circa l'1,5% di quebracite (levometilinosite) (A. Contardi, 1924), sostanza che quantunque non appartenga al gruppo degli zuccheri non è senza qualche relazione con essi. Oltre alla quebracite sono presenti nel lattice, per circa 0,4%, degli zuccheri (R. H. Biffen, 1897; R. Van Dillen, 1922) non identificati e probabilmente anche acidi grassi, dato che essi sono stati trovati (G. S. Whitby, 1926) nella gomma coagulata. Diversi ricercatori hanno trovato anche presenti nel lattice numerosi enzimi, ma il loro isolamento e la loro identificazione non è completa. Mentre non è certa la coagulasi di De Vries e di Whitby, sembra essere certa la presenza di un'ossidasi e di una perossidasi (D. Spence, 1908; W. Bobilioff, 1924). In quanto alle resine, v. appresso. Il lattice come cola dall'albero ha generalmente reazione alcalina; reazioni neutra o acida sono generalmente dovute al tempo trascorso sino all'arrivo del lattice alla località in cui si fanno i saggi chimici. Il lattice lasciato a sé qualche tempo, specie quello preservato, può formare uno strato superiore di crema (creaming) che è dovuto all'aggregarsi di globuli di gomma. Con la centrifugazione (G. Loomis, 1923; W. L. Utermark, 1924) si può esaltare questa separazione con formazione di una crema superiore e di siero sottostante contenente solo poche unità di gomma. La crema può però venire nuovamente dispersa nello strato sottostante sieroso per semplice agitazione. Nella flocculazione che si raggiunge per azione di coagulanti deboli, specie su lattice preservato, si formano aggregati più estesi di globuli che rassomigliano a fiocchi e che permangono per agitazione. La coagulazione infine che è la separazione completa dei globuli di gomma dal siero può aver luogo naturalmente o col calore o per aggiunta di particolari reagenti. Nel primo caso l'azione dovrebbe esser data da batterî tanto più che è stato dimostrato che il lattice raccolto sotto condizioni sterili (M. Barrow-Cliff, 1918) e chiuso in un vaso sterile si conserva per mesi (la coagulazione in questo caso è accompagnata da putrefazione). Nel secondo caso la coagulazione può essere ottenuta per riscaldamento vero e proprio (per affumicazione, per ebollizione del lattice), per evaporazione spontanea o a contatto di essudati umani. Nel terzo caso, di gran lunga più comune, si fa uso di acidi minerali, di acidi organici, di estratti di piante, di sali minerali: quanto alla capacità di coagulare dei sali metallici è il catione che ha la più grande influenza sulla coagulazione: gli ioni alluminio e calcio hanno il più grande effetto e successivamente il bario, lo stronzio, il magnesio. mentre gli ioni degli alcali producono coagulazione solo se sono presenti in grandi quantità. In piantagione si usa quasi esclusivamente acido acetico per la coagulazione (R. H. Biffen, 1898): 3 cmc. di acido acetico magulano prontamente 1 litro di lattice, ma in pratica se ne usano quantità assai minori. D'altro canto a differenza di quanto accade col lattice di Heven, in quelli di Funtumia e di Castilloa non si ha coagulazione con acidi e ancora a dimostrazione della diversità di comportamento dei varî agenti chimici coi diversi lattici può servire il fatto che la formaldeide che produce coagulazione nel lattice di Funtumia, è uno stabilizzante del lattice di Hevea.
Si considera che il lattice sia un'emulsione resa stabile dalla presenza di colloidi protettori, le proteine in esso contenute, e che l'aggiunta di un adatto precipitante dei colloidi stessi ne causerebbe la coagulazione. A riprova di ciò starebbe il fatto che filtrando ripetutamente lattice fresco attraverso filtri di argilla è possibile ottenere (Stevens, 1925) una dispersione di gomma praticamente libera da proteine, la quale non coagula che in parte per aggiunta di acidi (H. Freüdlich e E. A. Hauser, 1925). Se tuttavia si aggiunge a tale lattice un po' di siero filtrato o la soluzione di un'altra proteina vegetale o animale e poi si tratta con la solita quantità di acido, si ha coagulazione. Sarebbero dunque i costituenti non gomma che provocherebbero la coagulazione e più particolarmente le proteine che secondo Weber si insolubilizzerebbero.
Un' ipotesi probabile è quella che attribuisce la coagulazione naturale del lattice all'azione d'un enzima presente nel lattice (G. S. Whitby, M. Barrow-Cliff) e la cui attività è stimolata dalla presenza di acidi (a dimostrazione di ciò starebbe il fatto che il lattice sterilizzato non è più coagulabile nel modo usuale con una piccola percentuale di acido acetico, ma diventa tale se è trattato con poche gocce di lattice non sterilizzato); inversamente l'aggiunta di alcali dovrebbe impedire quest'azione dell'enzima e difatti gli alcali sono degli anticoagulanti ossia degli stabilizzatori del lattice. È stata suggerita come possibile spiegazione dell'azione dei coagulanti la neutralizzazione delle cariche elettriche negative delle particelle di gomma; contro questa ipotesi sta però il fatto che per quanto nel lattice di Funtumia e di Hevea le particelle siano in entrambi cariche negativamente, gli acidi fanno coagulare il lattice di Hevea e non quello di Funtumia. Circa la coagulazione spontanea E. A. Hauser osserva che il lattice fresco ha pH da 6 a 7 che poi si abbassa sino al momento in cui coagula, ma la diminuizione è così piccola da non poter spiegare i marcati cambiamenti a cui va soggetto il lattice in questo frattempo. Per questo piccolo cambiamento del valore di pH gli autori ammettono che nel lattice fresco si abbia un certo equilibrio fra ioni idrogeno e ioni OH del mezzo disperso. Se aumenta la concentrazione in ioni H un certo numero di ioni OH assorbiti sulle particelle sono spinti nel liquido per stabilire l'equilibrio. Al momento in cui gli ioni OH sono rilasciati, l'acido formato nel siero non può più a lungo essere neutralizzato ed è proprio in questo momento che il valore di pH diminuisce provocando così la coagulazione del lattice fresco.
Fra i preservanti del lattice (A. F. Fourcroy, 1791) che ne permettono il trasporto e la lavorazione a grande distanza dal luogo di raccolta, vanno ricordati, oltre l'ammoniaca (W. Johnson, 1853) che nella proporzione del 3 a 4 per mille (concentr. riferita al tenore in NH3 gasosa) è un ottimo stabilizzante, la formaldeide (C. Beadle e H. P. Stevens 1912) e l'idrato sodico (O. De Vries e N. Beumée Nieuwland). È opportuno però ricordare che il lattice così preservato dall'azione dei batterî è per parecchi rispetti diverso dal lattice fresco; specie quando il lattice è stato preservato con formaldeide, meno quando è stato preservato con ammoniaca. Nel primo caso l'azione preservante è più apparente che reale e in realtà in un tale lattice i globuli di gomma formano agglomerati a movimento browniano ridottissimo (v. più oltre).
Lattici di altre piante da gomma. - Il lattice di Ficus elastica contiene il 9,57% di gomma, l'1,58% di resina solubile in alcool e 0,36% di sali di magnesio di acidi organici e solo tracce di proteine. La gomma si ottiene per riscaldamento o per scrematura. Il lattice di Castilloa elastica somiglia a quello di Hevea e contiene proteine. La gomma si ottiene per scrematura o per precipitazione con saponi, succhi vegetali, ecc. Il lattice di Manihot glaziowii è assai vischioso e la coagulazione viene fatta sulla corteccia stessa con apposito coagulante. Il lattice di Funtumia elastica non coagula con gli ordinarî coagulanti; la gomma può essere separata per semplice evaporazione dell'acqua o per ebollizione dopo diluizione.
Lattici artificiali. - Si è spesso tentato di produrre artificialmente dispersioni acquose di gomma o di rigenerato.
Fino dal 1906-07 P. Alexander propose di sciogliere la gomma in benzolo e di emulsionare la soluzione benzolica con acqua in presenza di alcali cacciando poi con vapore il solvente. Nel 1922 H. Plauson tentò di preparare una dispersione di gomma rigenerata trattando nel suo mulino colloidale il rigenerato in presenza di alcali, saponi e di un solvente come benzolo o anilina. Questi tentativi ebbero scarso successo.
Migliore risultato dànno i procedimenti di W. B. Pratt, il quale evita la presenza del solvente (benzolo) masticando a lungo la gomma cruda plastificata con 5 a 15% di acqua e aggiungendo poi un disperdente come saponina. Risultati anche più favorevoli si ottengono impastando la gomma o il rigenerato con sapone e incorporandovi un alcool superiore (p. es. cicloesanolo) che di per sé non è un solvente della gomma, ma in queste condizioni dà un'emulsione assai spinta (Pirelli, Faldini).
Questi lattici artificiali servono, soli o misti a lattice naturale, preferibilmente per usare gomma rigenerata nei processi di produzione di oggetti di gomma direttamente dal lattice (v. più oltre) e possono avere interesse, specie per impregnare o rivestire tessuti, carta e per la fabbricazione di articoli economici.
Fisica. - La natura colloidale del lattice è dimostrata dalle piccole dimensioni delle particelle disperse, dall'esistenza di moti browniani e dalla possibilità di determinare trasporti cataforetici.
Non si è d'accordo se il lattice è un colloide liofobo (vale a dire se vi è assenza di affinità fra mezzo disperdente: acqua, e sostanza dispersa: gomma, il che si connette anche con la facilità di coagulazioni per aggiunta di elettroliti) o un colloide liofilo. Gli autori non sono neppure d'accordo sulla natura della dispersione; alcuni parlano di emulsione, altri di sospensione.
Il primo a occuparsi scientificamente di questi argomenti fu V. Henry (dal 1906 al 1908). Egli eseguì ricerche ultramicroscopiche e microcinematografiche. Indicò come dimensione delle particelle 0,5÷2 μ; come forma la sferica per molte particelle e l'ovale per alcune; osservò e studiò il loro moto browniano; operando su lattice molto diluito (residuo all'essiccamento: 8,7%), poté contare 50 milioni di particelle per centimetro cubo di lattice. Egli inoltre osservò che le particelle di gomma nel lattice sono cariche negativamente e quindi vanno all'anodo se si fa passare la corrente fra due elettrodi immersi nel lattice (fenomeno di cataforesi). P. Beadle e C. Stevens (1913) hanno affermato che nel lattice le particelle disperse sono sferiche; W. Bobilioff (1919) invece vi distingue delle particelle sferiche di diam. inferiore a 0,5 μ; delle particelle sferiche di diametro compreso fra 1 e 2 μ; delle particelle a forma di pera di spessore eguale a 1,5÷2 μ; delle particelle a forma di pera munite di coda aventi un diametro massimo di 1,5÷3 μ (l'esistenza della forma a pera era stata notata da T. Petch nel 1908). Le particelle a fomma di pera mancherebbero nel lattice di alcune piante; mentre nelle foglie, nei rami, nei germogli, nelle radici recenti non sarebbero presenti granuli rotondi.
Lo spostamento delle particelle avrebbe luogo in media con la velocità di 0,0124 mm. per secondo, e sarebbe riducibile per aggiunta di alcool o di sali. Aggiunte opportune di questi (ad es. cloruro di sodio) permetterebbero di arrestare il moto browniano senza che si determinino coagulazioni o fenomeni a esso somiglianti (Beadle e Stevens). H. Belgrave (1923) ha dimostrato che l'aggiunta di una certa quantità di acidi, vale a dire la presenza in soluzione di una certa quantità di ioni idrogeno, può determinare un'inversione nel moto delle particelle sospese nel fenomeno cataforetico, vale a dire può determinare il loro moto verso il catodo (polo negativo). Secondo lo stesso autore il lattice di Hevea appena estratto avrebbe pH di 5,8÷6,3, cioè sarebbe lievemente acido. Dopo un po' di tempo si avrebbe un piccolo accrescimento di questo valore, accompagnato da sviluppo di anidride carbonica.
Secondo E. A. Hauser e P. Scholz (1927) il lattice appena estratto avrebbe un pH eguale a 7,2; cioè sarebbe lievemente alcalino, come d'altronde, prima di loro, aveva indicato Whitby; però in poche ore questo valore si ridurrebbe in modo da far accusare una lieve acidità. Van Harpen ha ottenuto su lattice fresco un pH di 6,87 ÷ 7,07. Si suole ammettere che la coagulazione si produca necessariamente quando il pH, con opportune aggiunte di acidi, è portato intorno a 4,8. Si può però riuscire a portare, operando opportunamente, il pH al valore 3 e a tenerlo senza che si determini la coagulazione; se si acidifica ancora (pH 〈 3) si ha coagulazione. Quanto allo stato fisico delle particelle, un po' di luce è stata portata, dopo i lavori di C. O. Weber (1903), H. Schidrowitz, O. De Vries e H. Belgrave, molto diversi nei loro risultati, dalle esperienze di E. Hauser (dal 1924 in poi).
Quest'autore, che ha operato su lattice fresco di Hevea, ha associato all'esame ultramicroscopico l'impiego di un micromanipolatore che gli permetteva di cacciare uno spillo di vetro (avente la punta con diametro di 0,5 μ) entro le particelle disperse, rompendo gl'involucri e vedendo la consistenza dei varî stadî. Naturalmente per far ciò egli doveva arrestare il moto browniano; e ciò era ottenuto essiccando il lattice fino a formazione di una specie di gelo bagnato, con particelle ferme benché non ancora coagulate. Egli ha osservato così che le particelle più piccole appaiono come aventi forma sferica, mentre le più grandi hanno forma di pere, con coda. Egli (e il Freundlich) però, basandosi anche su osservazioni di Szegvari, emise l'opinione che anche le più piccole particelle non abbiano forma sferica e che appaiano tali solo per la loro estrema piccolezza. Inoltre ha potuto constatare che ogni particella consta: di uno strato di assorbimento esterno, costituito da sostanze albuminoidi solubili e probabilmente anche di resine solubili che agirebbero come emulsionanti; di un sottile involucro solido ed elastico, e di un fluido di riempimento avente all'incirca la consistenza del miele (fig. 11). Degli altri lattici, quello di Manihot Glaziowmi conterrebbe bastoni omogenei, tenaci; quello di Ficus elastica e quello di Castilloa conterrebbero goccioline sferiche, liquide, senza involucro nel primo, con involucro nel secondo.
È chiara quindi l'esistenza di una connessione tra forma delle particelle e grado di vischiosità della sostanza dispersa. Dalle conclusioni di Hauser si ricava, per il lattice di Hevea, una chiara spiegazione della difficoltà di precisare se esso è emulsione o sospensione; se è liofilo o liofobo (la pellicola di albumina solubile dovrebbe, per il lattice di Hevea, far propendere per la prima soluzione; la sua eliminazione trasformerebbe il lattice in un colloide liofobo). Si rileva anche l'importanza, ai fini della coagulazione, di un valore di pH che è quello stesso che coagula l'albumina; e si ha la possibilità di rendersi ragione di numerosi altri fenomeni. Osservazioni ultramicrocinematografiche di E. P. Wightmann e P. H. Trivelli (1925) tendono a mostrare l'interesse che presenta l'esame delle particelle sospese mentre sono in moto piuttosto che quando il moto è stato soppresso. Secondo questi autori le particelle grandi, in seguito agli urti fra loro e col liquido circostante, tenderebbero a spezzarsi, mentre si avrebbe, in corrispondenza, congiunzione di particelle piccole.
Una caratteristica del lattice da tener presente, è il peso specifico. Esso varia con il tenore in gomma, tanto che lo Stevens ha costruito un apparecchio chiamato "Metrolac" che è un idrometro, che dà il tenore in gomma con errori non superiori all'1%. (Un metodo colorimetrico è stato indicato da G. Van Iterson per la determinazione di questo tenore. Altri ha proposto, per lo stesso scopo, un metodo basato su misure di vischiosità; altri ancora un altro metodo basato su misure microscopiche di torbidità).
Il peso specífico del siero oscilla fra 1,017 e 1,0226; quello del lattice di Hevea brasiliensis fra 0,973 e o,979. Nel lattice di Ficus elastica la densità varia fra 0,979 e 0,988 a 25°. In quello di Castilloa è di circa 1 (col 40% di gomma).
Chimica e fisica della gomma greggia.
Chimica. - Come si è detto, nel lattice il caucciù è accompagnato da resine, proteine, carboidrati e sostanze minerali. Le stesse sostanze si ritrovano nella gomma coagulata, nella quale, però, il contenuto in carboidrati e in materia minerale è minore perché buona parte di questi rimane disciolta nel siero durante la coagulazione; nelle gomme integrali invece la percentuale dei componenti non gomma è naturalmente identica a quella degli stessi presenti nel lattice originale. Mentre delle proteine, dei carboidrati e della materia minerale abbiamo accennato a proposito del lattice facciamo cenno ora delle resine. Si chiamano con questo nome, nel campo della gomma greggia, le materie estraibili con acetone caldo in soxhlet della gomma stessa: la loro percentuale varia da un minimo del 2% per le gomme di migliore qualità sino a percentuali assai notevoli per le gomme più scadenti. Sulla composizione delle resine, che peraltro assumono un'importanza notevole nel processo di vulcanizzazione, poco si sa. Si tratta di sostanze ossigenate che contengono solo poco azoto (D. Spence) e da cui G. S. Whitby ha isolato notevoli quantità (40%) di acido oleico e linoleico e acido stearico. Uno studio completo dei costituenti non gomma dello slab (gomma maturata) è stato fatto recentemente (G. Bruni e T. G. Levi, 1925) e sono stati isolati i principali acceleranti naturali di questa gomma. Circa il significato fisiologico delle resine nella gomma, parecchi autori, basandosi sul fatto che l'ossidazione della gomma porta a un aumento del contenuto in resine, le considerano come un prodotto d'ossidazione dell'idrocarburo caucciù.
Analisi della gomma greggia. - Sulla gomma greggia si possono eseguire diversi saggi chimici e precisamente il dosaggio della perdita al lavaggio, dell'umidità, delle resine, delle proteine, della carica minerale, dell'estratto acquoso, dell'idrocarburo caucciù. Per scopi di ordinario controllo, ci si riduce tuttavia ai dosaggi delle resine e della carica minerale.
La perdita al lavaggio si dosa lavorando la gomma al depuratore sotto una corrente continua di acqua e poi essiccando. L'umidità si può dosare o in un essiccatoio a vuoto o per riscaldamento in stufa a temperatura non troppo elevata e preferibilmente in corrente di gas inerte. La determinazione delle resine si fa per estrazione in soxhlet con acetone o meglio in estrattore knöfler ed evaporando poi a secco l'estratto acetonico. Quella delle proteine si fa dosando l'azoto contenuto nella gomma greggia col metodo Kjeldahl e moltiplicando il valore trovato per un fattore che dà il rapporto azoto-proteine. Per una determinazione diretta delle proteine ossia della cosiddetta materia insolubile, dato che i due termini sono sinonimi, H. P. Beadle e C. Stevens hanno suggerito di trattare la gomma con fenetolo a 140° e determinare il residuo dopo diluizione con benzene filtrando attraverso carta tarata o centrifugando. La carica minerale si dosa bruciando la gomma in crogiuolo tarato e l'estratto acquoso trattando la gomma ripetutamente con acqua bollente ed evaporamlo quindi il liquido. L'idrocarburo caucciù si determina nella pratica usualmente per differenza, dato anche che i metodi proposti per un dosaggio diretto sono piuttosto complessi e in ogni caso imprecisi. Essi, comunque, sono: di precipitazione diretta; al tetrabromuro; al nitrosito. Il primo metodo consiste nello sciogliere in benzolo la gomma già estratta con acetone e precipitarla poi con alcool; la difficoltà in questo metodo sta nell'avere una soluzione esente da componenti non gomma. Il metodo al tetrabromuro (v. appresso) proposto da T. Budde consiste nello sciogliere la gomma in tetracloruro di carbonio e aggiungervi una soluzione di bromo e iodio in tetracloruro di carbonio. Dopo 24 ore si diluisce con alcool e il precipitato lavato viene seccato e pesato. Col fattore 0,298 si passa dal tetrabromuro C10H16Br4 all'idrocarburo caucciù. Il metodo al nitrosito, suggerito da C. Harries, consiste nel trattare la gomma già estratta con acetone e disciolta in benzolo con N2O3, che si ottiene riscaldando il triossido di arsenico con acido nitrico di densità 1 ,30. Il precipitato che è un nitrosito di caucciù (v. appresso) C10H15N3O3 viene lavato seccato e pesato.
Purificazione della gomma greggia a idrocarburo caucciù. - Per ottenere dalla gomma l'idrocarburo caucciù esente da ceneri, sostanze azotate e ossigenate sono stati studiati quattro procedimenti.
Il primo proposto da C. Harries (1905) consiste nello sciogliere il caucciù in molto benzolo decantando dalla piccola porzione insolubile e precipitarlo con egual volume di alcool: si estrae in soxhlet la gomma separata e si ripete il trattamento benzolo-alcool seccando poi in essiccatore a vuoto. Il secondo, proposto da R. Pummerer (1924) consta di una estrazione acetonica e una successiva soluzione in benzolo da cui si precipita frazionatamente il caucciù puro scartando la prima e l'ultima frazione di precipitazione con alcool: la porzione di mezzo risulta la più pura. È dalle acque madri di questa precipitazione frazionata che R. Pummerer e A. Koch hanno isolato un caucciù cristallizzato a p. f. 90° circa cristallizzabile dall'etere, e che, esaminato al microscopio in luce polarizzata, mostra una forte doppia rifrangenza. Il terzo procedimento è quello di purificazione all'alcali che R. Pummerer e A. Koch hanno applicato generalmente al caucciù già purificato coi due procedimenti precedenti per togliergli le ultime tracce di proteine. Si esegue un prolungato trattamento a caldo della soluzione di gomma in etere di petrolio con potassa metilalcoolica; siccome peraltro è difficile eliminare poi completamente l'alcali presente, Pummerer e Pahl hanno proposto un procedimento all'alcali modificato a partire dal lattice di caucciù preservato all'ammoniaca per trattamento con soda acquosa concentrata; successivamente si dializza e si coagula. Un quarto procedimento di purificazione è quello per soluzione frazionata (H. Feuchter; R. Pummerer e collaboratori): mentre taluni solventi, come benzolo, solfuro di carbonio, tetracloruro di carbonio, sciolgono quasi completameme le diverse gomme gregge non lavorate al mescolatore, altri solventi come etere etilico e etere di petrolio sciolgono solo una parte della gomma (soluzione frazionata) dando così luoeo alla separazione di una forma solubile da una forma insolubile. Questo fatto già rilevato da W. A. Caspari, C. Harries, ecc., è stato riesaminato dal Feuchter il quale ha confermato che con l'azione dei diversi solventi e particolarmente dell'etere rimane indietro una parte difficilmente solubile. La parte solubile (caucciù di diffusione di Feuchter; sol caucciù di Pummerer) costituisce circa il 70% del caucciù originale mentre la rimanenza è la parte insolubile (scheletro gel di Feuchter; gel caucciù di Pummerer). Basta fare un'estrazione eterea frazionata, arrestandosi cioè a tempo opportuno (40 ore), di gomma estratta in precedenza con acetone, per avere nelle prime frazioni di estrazione del caucciù puro praticamente esente da proteine. Dopo 100 ore di estrazione l'estratto non aumenta praticamente più e quel che rimane è gel caucciù a contenuto in azoto di oltre il 2% e che si può anch'esso purificare lasciandolo a lungo in benzolo ed evaporando nel vuoto la parte limpida della soluzione benzolica.
Costituzione e derivati dell'idrocarburo caucciù. - Come abbiamo già visto, la gomma greggia è costituita prevalentemente da un idrocarburo di formula (C5H8), ossia un polimero dell'isoprene
L'isoprene è stato trovato nei prodotti di distillazione del caucciù e ciò è della più grande importanza per il controllo della costituzione del caucciù anche perché esso (G. Bouchardat, 1879) con soluzione acquosa di acido cloridrico si polimerizza dando un prodotto che, per solubilità e prodotti di distillazione, si comporta come la gomma naturale. Per distillazione a secco e a pressione ordinaria della gomma, riscaldata a 300°, Bouchardat (1875) ha ottenuto un buon numero di prodotti di decomposizione che bollono fra 18° e 300°, precisamente: il 5% di isoprene a p. eb. 38°, il 40% di dipentene C10H16 che bolle fra 100° e 200° e che si può considerare derivato da 2 molecole di isoprene e il 12% di heveene che bolle sopra 200°. Secondo C. Harries (1906) si otterrebbe solo il 3% di isoprene e il dipentene sarebbe soltanto una miscela di idrocarburi e precisamente di un idrocarburo a p. eb. 150° e a catena aperta, di un idrocarburo a p. eb. 168° da considerarsi un nuovo terpene e infine di vero dipentene. Recentemente T. Midgley e A. L. Henne (1929) per distillazione a pressione atmosferica della gomma naturale hanno ottenuto con particolari metodi di purificazione diversi metilbutileni, isoprene, diversi metilamileni, benzolo, diversi tetraidrotoluoli, ece. Per distillazione nel vuoto il caucciù mostra un comportamento diverso. M. H. Fischer e C. Harries e poi H. Staudinger e il Fritschi hanno trovato, operando ad alto vuoto, il 3% di isoprene greggio, del dipentene, un idrocarburo C18H24 contenente due doppî legami, un diterpene con 3 doppî legami, e poi, col salire della temperatura, idrocarburi C25H40, C30H48, C35H56. La distillazione a seceo del caucciù dà quindi, oltre all'isoprene, diversi idrocarburi che sono tutti polimeri di questo corpo ed è lo studio di questa reazione che ha permesso di riconoscere con sicurezza che l'idrocarburo caucciù è un polimero elevato dall'isoprene.
All'esame della costituzione del caucciù ha molto contribuito anche lo studio dei suoi derivati e principalmente dell'ozonuro di caucciù, e dell'idrocaucciù. Con ampie ricerche C. Harries (1906) ha spiegato il meccnnismo d'azione dell'ozono sugl'idrocarburi non saturi. Egli ha mostrato che ogni doppio legame di una olefina fissa una molecola di ozono e si formano i corrispondenti ozonuri. Per riscaldamento con acqua questi ozonuri si scompongono in aldeide e acqua ossigenata o chetone e acqua ossigenata secondo che il gruppo etilenico porta ancora idrogeno o è impegnato con un gruppo alchile. L'ozonuro di caucciù ha la formula (C5H8O3)N e la sua più importante caratteristica è la sua decomposizione con acqua bollente. Esso si scompone quasi quantitatnamente in prodotti di scissione dell'idrocarburo C5H8 e cioè in aldeide levulinica, acido levulinico e perossido di aldeide levulinica; come sottoprodotto si forma acqua ossigenata. A seguito di questi risultati Harries pose come idrocarburo fondamentale del caucciù un anello a 8 che sarebbe l'1,5-dimetilciclo ottadiene:
Harries stesso però più tardi, con le sue ricerche sull'alfa-isocaucciù e sulla scissione del suo ozonuro, ha contribuito a scartare l'anzidetta formula. Harries, da una soluzione di gomma in cloroformio in cui si faccia gorgogliare acido cloridrico gassoso sino a saturazione, ha ottenuto per aggiunta di alcool il cloridrato di caucciù che scaldato a lungo con piridina in tubo chiuso a 140°, lavato con acqua e poi fatto bollire a ricadere con acido cloridrico, dà il cosiddetto alfa-isocaucciù di formula sempre (C5H8), ma con un parziale spostamento dei doppî legami rispetto alla posizione degli stessi nel caucciù normale il cui ozonuro, che si prepara analogamente a quello di caucciù, dà con acqua bollente prodotti di scissione affatto diversi da quelli dell'ozonuro di caucciù e precisamente diacetilpropano C7H12O2, metilcicloesanone, un trichetone C7H12O2, ecc., che non si lasciano spiegare con la formula a dimetilcicloottadiene. Harries per spiegare la formazione del chetone ammise un anello più largo in cui le linee punteggiate rappresentano un certo numero non stabilito di resti di isoprene:
Pummerer ha ripreso l'interpretazione di Harries. Sulla base di determinazioni di peso molecolare egli ritiene che la molecola dell'idrocarburo caucciù abbia la composizione (C5H8)8. Le particelle colloidali si formerebbero per associazione di queste molecole fondamentali. Le differenze in viscosità e nelle altre proprietà fisiche che si hanno nella gomma sottoposta a riscaldamento non dipendono da modificazione delle molecole ma da grado di associazione delle particelle colloidali.
A differenza di Harries, C. O. Weber (1900) considera il caucciù come il termine finale di una serie di prodotti di polimerizzazione dell'isoprene, interpretazione (1927) recentemente corroborata dalle ricerche di H. Staudinger e collaboratori. Staudinger ammette che le molecole del caucciù siano straordinariamente grandi e che queste macromolecole siano costituite da 100 sino a 1000 molecole di isoprene; si avrebbe quindi una serie di molecole diversamente grandi con pesi molecolari da 6800 sino a 68.000 e il caucciù sarebbe un colloide macromolecolare o eucolloide. Si tratterebbe di catene a diverse lunghezze, del tipo
Staudinger ha studiato per semplificare il problema composti sintetici che sono polimeri elevati (polisticoli) e li ha considerati come modelli delle sostanze naturali più complicate. Con queste sostanze egli ha stabilito che le più importanti proprietà fisiche cambiano col crescere della grandezza molecolare ossia le più importanti proprietà dipendono dalla lunghezza delle catene.
Una terza interpretazione è quella tli K. H. Meyer e H. Mark i quali (1928) ritengono che il caucciù non sia costituito da macro-molecole ma da micelle (colloide di associazione) e che per il caucciù sia caratteristica un edificio micellare come per altri polimeri. Queste micelle derivano da un legarsi a più grandi aggruppamenti per forze intramolecolari delle catene a valenze principali, e sarebbero costituite da 100 resti di isoprene. Qui si avrebbero dunque 100 molecole di isoprene contro 1000 di Staudinger.
Il caucciù può subire per azione del calore una trasformazione affatto diversa da quella segnalata a proposito della distillazione a seeco quando il riscaldamento sia fatto sopra 250° in presenza di solventi indifferenti come etere. Si ha in tal caso (Staudinger e Geier) una riduzione del numero dei doppî legami a uno per ogni 5 resti di isoprene. Per questo policiclocaucciù che si presenta come polvere gialla e che non ha più le proprietà del caucciù si ammette una struttura ad anelli:
Staudinger e Widmer hanno trovato che ha luogo una ciclizzazione scaldando il cloridrato di caucciù con polvere di zinco in una soluzione bollente in toluolo. Ora il prodotto che essi chiamano monociclocaucciù ha perduto la metà dei doppî legami originarî.
L'idrocaucciù composto saturo a formula (C5H10)N, è stato ottenuto nel 1922 e indipendentemente da Staudinger e Fritschi e da Pummerer e Burkard. I primi autori, che hanno operato a 100 atmosfere senza solvente e a circa 270° con spugna di platino, rappresentano l'idrocaucciù come una catena di metiletiletilene
e cioè
Così come il caucciù si può rappresentare con una catena di isopreni e precisamente
Pummerer e Burkard hanno operato a freddo con soluzioni diluitissime di caucciù in esaidrotoluolo e spugna di platino in grande eccesso; idrocaucciù omologhi sono stati preparati da Staudinger e Widmer da bromidrato di caucciù e zinco dialchili.
Molti altri derivati del caucciù sono stati isolati oltre l'ozonuro e l'idrocaucciù; Cladstone e Hibbert (1913) da cloro e soluzione di gomma in cloroformio hanno isolato un composto C10H14Cl8, mentre F. W. Hinrichsen e E. Kindscher (1913) hanno ottenuto C10H14Cl6. Con bromo Gladstone e Hibbert (1888) hani ottenuto il tetrabromuro C10H16Br4 o meglio (C5H8Br2)N da cui con acetato sodico Weber (1900) ha ottenuto il composto C10H16(OC2H5)4 e con fenolo il composto C10H16(OC6H5)4 cui più tardi è stata riconosciuta (Fisher 1926) la struttura idrossi C10H16 (C6H4OH)4. Successivamente H. Thron (1926) ha mostrato che la reazione del bromuro di caucciù col fenolo è più complicata; non si ha solo una condensazione ma anche una ciclizzazione e per ogni gruppo C5H8 si condensa un solo gruppo fenolico e non due come era stato sino ad allora stabilito. Per azione dello iodio sul caucciù C. O. Weber ha ottenuto C2OH31J6. Con acido cloridrico Harries ha isolato il cloridrato C10H16•2HCl che si può indicare meglio con (C5H8•HCl)x, il bromidrato (C5H8•HBr)x e l'iodidrato (C5H8•HJ)x.
L'azione degli ossidi d'azoto sul caucciù è stata studiata da Harries: facendo passare triossidi di azoto N2O3 su una soluzione di caucciù in benzene secco Harries ottenne un nitrosito a di composizione C10H16•N2O3 insolubile nei solventi; facendo continuare il passaggio del gas egli ottenne il nitrosito b: C20H30N6O4 solubile nei solventi; operando con benzene umido ottenne un nitrosito c: C20H30N6O14. Weber operando con biossido di azoto ottenne un nitrosato (C10H16N2O4)x. Con nitrosobenzolo Bruni e Geiger hanno ottenuto il nitrone di isoeaucciù (C11H11ON)x.
Quanto al comportamento del caucciù verso gli ossidanti si è già detto del comportamento con ozono. Con aria, Herbst (1906) da soluzione di caucciù e aria ha isolato C10H16O e C10H16O3. Il Peachey (1913) ha trovato che il caucciù fissa l'ossigeno in modo quantitativo perché ogni gruppo C5H8 fissa un atomo di ossigeno, risultato questo confermato poi da Harries e da Pummerer e Burkard. Con permanganato isolato il prodotto C25H40O, con acido perbenzoico un corpo insolubile in tutti i solventi (C5H8O)x, con acqua ossigenata i prodotti di ossidazione C30H48O, C25H40O e C15H24O. Dei prodotti di reazione con zolfo e cloruro di zolfo S2Cl8 del caucciù diremo a proposito della vulcanizzazione della gomma.
Struttura interna del caucciù (diverse fasi dell'idrocarburo caucciù). - I tentativi fatti per rappresentare la struttura della gomma si possono dividere in quattro classi: ipotesi sferoide; ipotesi isocolloidale; ipotesi cellulare; ipotesi della soluzione solida.
Secondo l'ipotesi di Fessenden (1893) ci sono nella gomma due sostanze, l'una dura elastica e l'altra molle e peciosa come cera. Per rendere questa teoria più comprensibile Fessenden immagina una palla cava di rame ripiena di acqua e ne esamina il comportamento nel caso di allungamento. W. Ostwald e M. H. Fischer considerano la gomma come un isocolloide ossia come un gel in cui gli elementi strutturali consistono di molecole polimerizzate in associazione con molecole più semplici e della stessa composizione chimica: p. es., molecole polimere disperse in una fase monomera.
Secondo la teoria cellulare la gomma avrebbe una costituzione analoga a quella del legno, del cotone e in generale delle sostanze vegetali e animali. Il Duclaux (1923) è riuscito a separare da una soluzione di gomma lasciata per alcuni anni in riposo due costituenti distinti: uno solido insolubile negli ordinarî solventi della gomma, l'altro liquido o semiliquido in quantità molto più grande del primo. Queste ipotesi quindi che ammettono tutte 2 fasi sono qualcosa più che ipotesi; i lavori del Duclaux, di G. Loomis e H. E. Stump e di H. Hauser sul lattice col micromanipolatore, quelli di Feuchter e poi di Pummerer hanno condotto a separare nella gomma due frazioni a solubilità affatto diverse (sol caucciù-α) e (gel caucciù-β) la cui separazione riesce assai bene per soluzione frazionata in etere etilico (vedi appresso).
L'ipotesi della soluzione solida di P. Bary ammette che nell'idrocarburo caucciù a elevato grado di polimerizzazione sia disciolto un idrocarburo simile ma a più basso grado di polimerizzazione. La relazione delle due fasi è variabile e dipende dalla temperatura o da influenze meccaniche; si ha quindi una trasfomiazione sol-gel reversibile.
Sintesi del caucciù. - La relazione fra caucciù e isoprene è stata già messa in evidenza come si è visto nella distillazione del caucciù. Lo scopritore dell'isoprene C. G. Williams già nel 1860 osservava che l'isoprene si modifica sotto l'azione dell'ossigeno dell'aria e passa a prodotto consistente. Nel 1879 il Bouchardat lasciando a sé l'isoprene notò che esso si trasforma lentamente in una massa simile al caucciù e che questa trasformazione può esser affrettata dall'impiego di acido cloridrico. È però soltanto nel 1909 che Hofmann e collaboratori della Bayer affrontarono il problema dal punto di vista tecnico. Essi trovarono che con un riscaldamento di 8 giorni tra 120° e 200° e per tempi più lunghi a temperature più basse ha luogo la polimerizzazione dell'isoprene. Il prodotto così ottenuto (isoprene-caucciù) si comporta con l'ozono in modo assai simile al caucciù naturale. Harries nel 1910 propose una polimerizzazione a caldo modificata per trattamento con acido acetico a 100° in vaso chiuso. Nello stesso anno sia C. Harries che F. E. Mattews, indipendentemente l'uno dall'altro, trovarono che la polimerizzazione può aver luogo con sodio metallico; il così detto sodio caucciù che così si ottiene si comporta in modo anormale con l'ozono perché il suo ozonuro per decomposizione non dà aldeide levulinica. Per polimerizzazione con sodio in atmosfere di CO2 Holt nel 1914 ottenne un caucciù che si comporta normalmente alla decomposizione dell'ozonuro. Da allora molti brevetti sono stati presi sulla polimerizzazione dell'isoprene e degli altri idrocarburi più affini che sono il butadiene CH2=CH−CH=CH3 e il 2•3 dimetilbutadiene
da cui si ottengono rispettivamente il butadiene-caucciù e il metil-caucciù.
Quanto alla preparazione di questi idrocarburi che per polimerizzazione successiva dànno il caucciù sintetico, l'isoprene o 2 metilbutadiene si può ottenere con buona resa per quanto troppo costosa da vapori di trementina o limonene su filo di platino scaldato al rosso. L'amido per fermentazione dà con buona resa l'alcool isoamilico (CH3)2CH•CH2CH2OH il cui cloruro, che si ottiene dall'alcool per trattamento con acido cloridrico, dà per clorurazione due dicloruri isomeri i quali passando su calce sodata dànno isoprene. Anche facendo passare una miscela di acetaldeide e alcool isopropilico su alumina riscaldata si forma isoprene secondo la seguente:
I dicloruri di sopra possono esser preparati clorurando l'isopentano che può ottenersi frazionando il petrolio. Questo procedimento ha particolare importanza dopo i miglioramenti realizzati nel cracking del petrolio.
I maggiori sforzi sono stati però fatti per preparare gli omologhi dell'isoprene e principalmente il butadiene e il dimetilbutadiene. Il butadiene si può preparare da alcool butilico come l'isoprene da alcool isoamilico. Alcool butilico si può avere per speciale fermentazione di sostanze amidacee. Un altro metodo consiste nel far passare vapori di alcool con aria su rame riscaldato, si forma così dell'acetaldeide che in miscela con l'alcool viene fatta passare su alumina calda
Un'altra sintesi consiste nell'idrogenare il fenolo a cicloesanolo che versato su una superficie scaldata al rosso, dà butadiene, etilene e acqua. Con una reazione simile dall'ortocresolo si può ottenere l'isoprene. Da ultimo per idrogenazione del carbone e di CO si formano diversi idrocarburi saturi e non saturi i quali probabilmente rappresentano una sorgente economica di butadiene e isoprene.
Forse il più interessante di tutti gli omologhi dell'isoprene è il 2•3 dimetilbutadiene che fu preparato per primo da U. Couturier per disidratazione del pinacone con acido solforico
Il pinacone a sua volta si ottiene dall'acetone per riduzione con amalgama di magnesio o di alluminio. La maggior parte della gomma sintetica preparata in Germania durante la guerra fu ottenuta polimerizzando il dimetilbutadiene preparato dal pinacone; il punto di partenza di queste sintesi è l'acetilene che viene convertito in acetone attraverso l'acido acetico e l'acetato di calcio. Mentre il caucciù sintetico ottenuto da isoprene si comporta analogamente al caucciù naturale e il suo ozonuro si decompone normalmente dando aldeide levulinica e acido levulinico, il caucciù da butadiene dà solo con scarsa resa l'ozonuro che si decompone dando principalmente dialdeide succinica; il caucciù da dimetilbutadiene dà un ozonuro che si decompone principalmente ad acetonilacetone; ciò era prevedibile in quanto i polimeri dell'eritrene e del dimetilbutadiene non possono essere identici alla gomma naturale che è un polimero dell'isoprene. Si può anche aggiungere che in tutti i casi i polimerizzati all'acido acetico differiscono dai polimerizzati al sodio; ai primi si dà il nome di normal caucciù e ai secondi di anormal caucciù o sodio caucciù.
Quanto alle proprietà della gomma sintetica in confronto a quella naturale è da osservare che la prima si ossida facilmente e non resiste bene come la seconda ai cambiamenti di temperatura. Occorre perciò aggiungere alla gomma sintetica dei plastificanti e degli antiossidanti (v. più oltre). Anche alla vulcanizzazione, la gomma sintetica si comporta male se non si opera in presenza di acceleranti (v. più oltre) e il vulcanizzato che si ottiene ha proprietà elastiche nettamente inferiori a quelle del vulcanizzato di gomma naturale. Migliori risultati si hanno quando si vulcanizza a ebanite; in questo caso il prodotto che si ottiene non è affatto inferiore a quello che si ha da gomma naturale. Per il momento quindi solo in circostanze eccezionali, come nel caso di una guerra, è possibile uno sviluppo della gomma sintetica tanto più che i prezzi della gomma naturale sono estremamente bassi.
Affatto recentemente è stata ottenuta dalla casa Du Pont una nuova gomma sintetica (duprene) che peraltro differisce notevolmente nel suo comportamento dalla gomma naturale. Dal vinilacetilene che si ottiene per polimerizzazione dell'acetilene in speciali condizioni si ha per fissazione di acido cloridrico il 2 clorobutadiene che, a differenza dell'isoprene, si polimerizza rapidamente a temperatura ambiente acquistando le proprietà caratteristiche della gomma vulcanizzata. Il polimero del 2 clorobutadiene avrebbe quindi proprietà simili a quelle dei prodotti ottenuti per vulcanizzazione delle gomme naturali.
Fisica. - Non v'è accordo fra i varî autori sulla presenza nella gomma greggia di granuli di gomma identici o meno a quelli presenti nel lattice. Secondo H. Freundlich ed E. A. Hauser vi è differenza fra i due tipi di granuli; e, precisamente, nella coagulazione si determinerebbe la gelificazione del liquido vischioso che riempie i granuli di Hevea, e il raccostamento delle varie particelle sospese con espulsione del siero e formazione di una struttura più compatta, i cui elementi costitutivi sarebbero però sempre formati da uno strato esterno più rigido e da uno interno più deformabile. V'è qui la concezione dell'esistenza di più fasi nella gomma; concezione molto antica e che si connette anche al desiderio di spiegare nella gomma il fenomeno detto di Joule (benché sia stato osservato prima da J. Gough, 1805, e da altri), che consiste in un riscaldamento generato dalla trazione e in un raffreddamento dovuto alla compressione. Ciò è in contrasto con il comportamento dei metalli; e porta come conseguenza un accorciarsi della gomma tesa (con un estremo libero) in seguito al riscaldamento e un allungarsi per azione del raffreddamento. Si noterebbe nella gomma un raffreddamento (piccole variazioni di temperatura) per bassi allungamenti (10-20%), e un riscaldamento, già per un allungamento del 30%, e ciò sia con gomma greggia sia con gomma vulcanizzata. Il fenomeno termico raggiunge un massimo per un certo allungamento; insistendo ancora esso decresce d'intensità fin quasi ad annullarsi in corrispondenza al carico di rottura.
Nel 1866-67 G. Govi, in alcune comunicazioni all'Accademia delle scienze di Torino, spiegò il fenomeno ammettendo che la gomma fosse simile a una schiuma solidificata, si componesse cioè di infinite vescichette piene di gas; quando essa viene tesa, queste vescichette si allungherebbero nel senso dello stiramento, e scaldandosi, il gas interno si dilaterebbe, le gonfierebbe e raccorcerebbe il loro diametro nella direzione della forza stirante. La presenza del gas nelle vescichette della gomma spiegherebbe poi facilmente il riscaldarsi di questa sostanza quando si stira, e il raffreddarsi quando si ritrae, perché si comprimerebbe o si dilaterebbe in tale atto il gas compresso e ne risulterebbe sviluppata perciò o assorbita una quantità notevole di calore.
In sostanza il Govi esprimeva il concetto dell'esistenza di due fasi, di cui una agente da involucro elastico, di elementi vescicolari; quello della connessione del fenomeno Joule con l'azione dell'involucro delle vesciche sul contenuto di queste; la connessione fra le variazioni di volume e questo effetto. Sostituendo all'aria una materia gelatinosa, la concezione del Govi si trasforma in quella di R. A. Mallock, di C. Chenevau e F. Heim, di R. A. Fessenden e di altri, e trova parziale conferma nelle recenti osservazioni di E. Hauser e anche in quelle di Hock.
La gomma greggia va considerata come un colloide; anche perché messa in contatto con opportuni solventi rigonfia (in genere questo rigonfiamento si associa ad assorbimento di calore) e, se la quantità di questi è sufficiente, dà luogo a formazione di soluzioni colloidali. Operando con benzolo, su una soluzione di gomma, e osservando al microscopio, H. Freundlich e E. Hauser hanno osservato che le particelle s'ingrossano tanto più quanto più erano inizialmente allungate, finché si perviene alla rottura dell'involucro e si genera un'unica massa omogenea. Naturalmente non è da escludere, benché non sia da tutti ammesso, che durante il rigonfiamento si abbia anche un allontanamento delle varie particelle. È quindi perfettamente spiegabile in base alla struttura, il passaggio in soluzione della gomma greggia. Si noti ancora che la gomma greggia non lavorata ha rigonfiamento limitato, mentre dopo lavorazione al masticatore o al mescolatore è a rigonfiamento illimitato; ciò sarebbe spiegabile ove si ammettesse la rottura, durante la lavorazione con le dette macchine, degl'involucri delle particelle. Si deve a H. P. Stevens (1912) e a W. A. Caspari (1913) la connessione di questi fenomeni con l'ipotesi della composizione a due fasi. Secondo W. Ostwald fra potere di gonfiamento Q e costante dielettrica D intercede la relazione D√Q = costante, con n compreso tra 2 e 3. Il gonfiamento si produce anche per azione di gas opportuno, ad esempio, di anidride carbonica.
Va osservato che le soluzioni di gomma non ubbidiscono alla legge di Poisseuille: non vi è cioè proporzionalità fra velocità di efflusso e pressione che la determina (W. Ostwald, F. Kirchhof, W. H. Herschel e R. Bulkley, Dogadkin e Pousner). Vale invece la legge esponenziale di Ostwald collegante le vischiosità (η) allo sforzo (P) che determina lo scorrimento (η = PKm), che è caratteristica per i celluloidi polifasici. L'esponente accusa la natura della gomma; per le gomme più comuni m è intorno a −o,5, vale a dire v'è quasi inversa proporzionaità fra quadrato di η e P (per il Guayule, invece, m −o,23). La lavorazione al mescolatore, riduce il valore di questo coefficiente.
La valutazione della plasticità è fatta correntemente nell'industria specialmente con il metodo per estrusione utilizzato per prima da B. Marzetti (1923) e quello per compressione, dovute a I. Williams (1924), entrambi operati a caldo, e che consentono l'enunciazione di leggi empiriche. Ma la valutazione è più agevole se si ricorda il comportamento della gomma in corrispondenza a tutta la gamma delle temperature, dalle basse fino a quelle di 50°-100°. Si può accertare che a bassa temperatura il caucciù si comporta come corpo solido in cui la deformazione dipende esclusivamente dal carico; a temperature intermedie come corpo plastico su cui influisce altresì la durata d'applicazione del carico; a temperature elevate come liquido vischioso. Si può ritenere esista un carico di fluidazione al disotto del quale le deformazioni sono prevalentemente elastiche mentre al disopra sono vischiose e permanenti (Ariano).
A freddo la gomma cruda s'indurisce fortemente. Gelando in aria liquida della gomma greggia stirata L. Hock ha ottenuto una sostanza dura, tanto da poter esser rotta per martellatura (1925). Egli poté così mettere in evidenza la struttura fibrosa della gomma greggia stirata.
Interessanti esperienze di A. van Rossem e J. Lotichius (1929) confermate per via röntgenografica da J. R. Katz, dimostrano che la gomma greggia, tenuta per tempo sufficiente a temperature inferiori a 0°, assume uno stato cristallino e ha un punto di fusione che cresce con la durata di gelamento (da 30° a 37° circa); il che sarebbe da connettere con l'ingrossamento dei grani cristallini; il calore di fusione risultava di calorie 5,05 per gr. di gomma. Questi autori tenevano la loro gomma per anni a bassa temperatura, e per poche ore alle temperature di prova.
R. Pummerer e G. Susich (1931) non sono riusciti a ottenere cristallizzazione di gomma tenuta, non tesa, per otto giorni a −190°. La ragione di ciò andrebbe ricercata, secondo questi autori, nella composizione della gomma. Purificando questa in modo da ottenere l'idrocarburo caucciù, il Bureau of Standards è riuscito recentemente a ottenere del caucciù cristallino per raffreddamento a −80°. La forma cristallina è invece facilmente ottenibile se si gela della gomma stirata, il che è comprensibile se si tiene presente che la gomma ha caratteri cristallini, come vedremo, anche se è stirata a temperatura ambiente. A temperature da circa 20° a circa 50° (i limiti superiore e inferiore non sono ancora ben definiti), la gomma greggia ha comportamento di corpo plastico.
Abbiamo già visto che la gomma stirata dà luogo a una struttura fibrosa se è gelata. Diremo che il congelamento in tale condizione produce anche opacità e sottili fessurazioni (H. Feuchter). Inoltre la gomma stirata e gelata ha curve di trazione che rassomigliano a quelle della gomma vulcanizzata (M. Le Blance e M. Kroger parlano di una vulcanizzazione per gelamento), e se lo stiramento preventivo è stato notevole, rassomigliano a quelle di gomma vulcanizzata contenente ingredienti fortemente rinforzanti. Altrettanto si dica del carico di rottura, il quale cresce fortemente col crescere dell'allungamento preventivo, fino a raggiungere e superare valori dell'ordine di kg. 1,5 per mmq. Se la gomma è tenuta a caldo (ad es., in acqua a 80°) poi rapidamente stirata, e quindi bruscamente raffreddata in acqua fredda, la deformazione prima data si fissa nella gomma, ed è possibile ripetendo l'operazione, ottenere stiramenti enormi, ad es. del 10.000% (H. Feuchter). Stirando a temperatura ambiente della gomma fino ad almeno l'80% J. R. Katz e K. Bing per primi (1925) hanno potuto osservare il formarsi di una struttura fibrosa, che dà luogo a interferenze cristalline se osservate per via röntgenografica. Siamo quindi in presenza di una struttura ordinata, cristallina, di cui sono determinabili le caratteristiche e che scompare solo per azione di un riscaldamento ad almeno 60°.
Secondo Hauser i cristalli preesisterebbero allo stiramento, solo sarebbero allora muniti di moti oscillatorî troppo grandi che impedirebbero le interferenze. Va detto che per H. Staudinger gli elementi costitutivi della gomma sono delle lunghe catene di molecole (1000 a 3000) di isoprene che hanno forma di aste lunghe e sottili. Se esse effluissero rapidamente sotto l'azione di una pressione, si determinerebbe un moto piano, di elementi paralleli, e perciò la viscosità sarebbe minore, per notevole velocità, di quella prevista dalla legge di Poisseuille. La disposizione ordinata di questi bastoni sottilissimi per azione della trazione ne giustificherebbe la cristallizzazione per trazione. Occorre però ammettere che sopprimendo l'allungamento, permangano forze che tendono a riportare questi bastoni nelle posizioni primitive non ordinate. L'aspetto caratteristico di questi fenomeni è da ricercare in questa difficoltà di spiegare come un'azione meccanica possa indurre uno stato cristallino, che scompaia non appena scompare la causa che lo determinava. Se si potesse parlare di una vera cristallizzazione, l'effetto joule nella sua parte più appariscente (riscaldamento per l'allungamento abbastanza spinto) sarebbe spiegabile come calore di cristallizzazione; se invece si accetta l'idea dell'esistenza di due fasi nella gomma, in equilibrio, si può parlare di cristallizzazione per trazione nel senso che agli allungamenti si associa la fuoriuscita della fase vischiosa dagl'involucri della fase solida, con orientamento filiforme di questa e di quella; l'effetto Joule trova spiegazione per i bassi allungamenti (raffreddamento) nel fatto che questo fenomeno è comune ai corpi che subiscono piccole deformazioni, per gli allungamenti più grandi (riscaldamento) nel fatto che il materiale di riempimento viene compresso nell'involucro (Govi), espulso parzialmente da questo (processo inverso a quello di gonfiamento) e disposto in fili semiliquidi per scorrimento lungo pareti dell'altro componente. Anche il carico di fluidificazione, l'esistenza secondo molti autori di una temperatura critica (circa 60°) per la variazione di più proprietà della gomma, la cristallizzazione a bassa temperatura, si spiegano con questa ipotesi dell'esistenza di due fasi; nel mentre con essa si accordano le esperienze di più autori che avrebbero condotto a un isolamento nella gomma di due idrocarburi fisicamente diversi ma a eguale formula chimica bruta.
La densità della gomma greggia oscilla intorno a 0,91; per le buone gomme non supera 0,926. Il calore specifico a temperatura ambiente è, in media, 0,38 piccole calorie per grammo, secondo S. Bostroem; 0.33125 secondo Russner. Le sue variazioni in funzione della temperatura sono state determinate da M. Le Blanc e M. Kröger prima, da M. Ruhemann e F. Simon in seguito, sia su gomma normale, sia su gomma precedentemente gelata. Le curve che si sono ottenute accusano delle anomalie nette (una o più punte) per la gomma normale a temperature più basse di quella che compete alla gomma gelata. La conducibilità termica è secondo I. Williams di 0,00032 (calorie che passano in un secondo attraverso un cmq. di sezione, per lo spessore di 1 centimetro e per una differenza di temperatura di i°).
Mescole di gomma e processo di vulcanizzazione.
Mescole di gomma. - Le sostanze che si aggiungono alla gomma greggia per favorirne o svilupparne le caratteristiche si distinguono, a seconda dello scopo cui sono destinate, in ingredienti, vulcanizzanti, acceleranti, plastificanti, antiossidanti. Anche i succedanei della gomma (fatturati e rigenerati) possono, volendo, farsi entrare nelle mescole.
Gl'ingredienti (v. più oltre: Lavorazione industriale) si possono cosi classificare: 1. pigmenti (coloranti della mescola); 2. ingredienti di carica (sostanze che generalmente abbassano il costo della mescola); 3. ingredienti che migliorano le proprietà fisiche del vulcanizzato e che si possono dividere in rinforzanti e in sostanze che aiutano la vulcanizzazione (acceleranti inorganici). Praticamente i diversi ingredienti non si differenziano tra loro così nettamente e l'aggiunta di uno di essi può avere contemporaneamente effetti diversi: così il carbon black funziona insieme da pigmento nero e da rinforzante e l'ossido di zinco da pigmento bianco e da rinforzante. Ha grande influenza il grado di divisione dell'ingrediente e sono da preferire gl'ingredienti più finemente divisi.
La scelta dei pigmenti va fatta tenuto conto che per la vulcanizzazione a caldo occorre avere una resistenza della tinta per alcune ore a 145° anche in presenza di zolfo. Dei pigmenti bianchi l'ossido di zinco è il più usato, oltre che per il buon potere ricoprente, per le buone proprietà fisiche che impartisce al vulcanizzato; altri pigmenti bianchi sono il litopone, il solfuro di zinco e l'ossido di titanio. Fra i pigmenti neri i più importanti sono il carbon black e il lamp black: il primo ha anche ottime proprietà rinforzanti ed è quindi di larghissimo impiego. Dei pigmenti blu ricorderemo il blu di Prussia e il blu oltremare. Dei verdi il cromo. Dei gialli il solfuro di cadmio e l'ocra gialla. Dei rossi, oltre al solfuro di mercurio e all'ocra rossa il trisolfuro d'antimonio o solfuro rosso e il pentasolfuro di antimonio misto a zolfo (solfodorato d'antimonio). Quest'ultimo è anche un agente vulcanizzante per lo zolfo che contiene. Da tempo relativamente recente sono stati introdotti nell'uso i coloranti organici scelti fra i pochi resistenti alla vulcanizzazione a caldo.
I più comuni ingredienti di carica sono: la barite, il carbonato di calcio, il talco, la terra da infusori: sostanze a semplice azione diluente.
Fra i rinforzanti che migliorano la resistenza all'abrasione sono da mettere anzitutto il carbon black e poi l'ossido di zinco, il caolino e il carbonato basico di magnesio.
Gl'ingredienti che accelerano la vulcanizzazione sono: il litargirio, l'idrato di calcio e l'ossido di magnesio che nella proporzione di alcune unità per cento sono buoni acceleranti. È quasi superfluo notare che le sostanze comprese nelle voci "vulcanizzanti", "plastificanti", ecc., sono anch'esse ingredienti di mescola. Per consuetudine, tuttavia, esse vengono elencate a parte sotto le rispettive voci che indicano la loro azione specifica in seno alla mescola.
I vulcanizzanti (v. più oltre: Vulcanizzazione) sono lo zolfo per la vulcanizzazione a caldo e il cloruro di zolfo per la vulcanizzazione a freddo. Ha soltanto interesse teorico la proposta di vulcanizzazione con selenio (C. R. Boggs), o di usare i nitrocomposti aromatici o i perossidi in assenza (I. Ostromyslenskij) di zolfo o i solfuri di fosforo o gli alogeni.
La voce acceleranti oggi peraltro si riserva di solito agli acceleranti organici, sostanze che vengono introdotte nelle mescole in piccola quantità (i % e anche meno), e che migliorano le proprietà fisiche e la conservabilità degli oggetti di gomma. L'estendersi dell'uso degli acceleranti organici risale al 1914 ma già l'anilina nel 1906 (G. Oenslager) e la tiocarbanilide nel 1907 erano adoperate in America. Il primo brevetto in argomento è della Bayer (1913) e protegge l'uso della piperidina e dei suoi omologhi. L'uso di questi acceleranti in Germania sembra che abbia avuto in parte origine dalle difficoltà sorte nei tentativi di vulcanizzare il caucciù sintetico in cui mancano le sostanze proteiche che sono invece presenti nelle gomme naturali e che si possono considerare degli acceleranti naturali. Sostanze organiche dotate di proprietà acceleranti sono le ammine aromatiche (anilina e omologhi); i ditiocarbammati sostituiti (piperidilditiocarbammato di piperidonio, ecc.), i disolfuri di tiourame (disolfuro di tetrametiltiourame, ecc.); le tiouree aromatiche (difeniltiourea, ecc.); i prodotti di condensazione delle aldeidi con le ammine (urotropina, ammonaldeide, etilidenanilina ecc.); le guanidine e biguanidi sostituite (difenilguanidina, monofenilbiguanide); gli alchilxantogenati, sali di ditioacidi (etilxantogenato di zinco, ditiobenzoato di zinco); i nitrosoderivati (paranitrosodimetilanilina, nitrosobenzene, paranitrosofenolo). Per molte di queste sostanze l'azione acceleratrice risulta esaltata dalla presenza di ossidi metallici, particolarmente ossido di zinco.
I diversi plastificanti usati nell'industria della gomma rientrano nelle seguenti classi: olî minerali e vegetali (olio di palma, olio di resina ecc.); catrami e peci (catrame di legno, gomma minerale che è un bitume naturale asfaltico, pece di stearina, ecc.); cere (cera carnauba, ozocherite); resine (colofonia); acidi grassi e loro sali (acido palmitico, oleico, oleato di piombo, stearato di metilendifenildiammina); esteri di acidi grassi (ftalato di butile, ecc.). Mentre alcuni plastificanti hanno solo un effetto lubrificante (pseudoplastificanti) che serve a ridurre l'energia spesa nelle operazioni di mescolanza, altri migliorano anche le proprietà fisiche della mescola pure in relazione all'invecchiamento (veri plastificanti). Anche alcuni sostituti della gomma come i fatturati si potrebbero far rientrare nei plastificanti.
Molto interessante è l'azione che alcune sostanze cosiddette antiossidanti, aggiunte nella proporzione dall'i al 20% nella mescola, esercitano col ritardare l'ossidazione naturale della gomma cruda e, quello che più conta, della gomma vulcanizzata. Il primo brevetto in argomento è del 1901 (L. R. Moore) e propone l'aggiunta di pirogallolo ai mastici di gomma. Successivi brevetti proteggono l'aggiunta di fenolo (1902), di ammine (1911), ecc. Sostanze antiossidanti o antiossigeni come preferisce chiamarli C. Moureu, di cui taluna con sensibile azione accelerante, sono: le ammine primarie e specialmente secondarie e le diammine (anilina, metilanilina, etilendifenildiammina, difenilammina, 2•4 toluilendiammina, ecc.); i prodotti di condensazione di aldeidi con ammine (aldolalfa-naftilammina, etilidenanilina, condensato acido, ecc.); i fenoli, amidofenoli, loro prodotti di condensazione con le aldeidi (fenolo, idrochinone, diossinaftaline, amidofenolo, benzilidenamifenolo, ecc.). Esse vengono di solito introdotte nelle mescole, ma possono anche essere usate in soluzioni in solventi organici immergendovi gli oggetti già vulcanizzati che così si rivestono di uno strato sottile di antiossidante.
Quanto ai succedanei della gomma essi sono i fatturati (v.) e in qualche modo anche la gomma rigenerata (v. rigenerati).
Vulcanizzazione. - Sotto il nome di vulcanizzazione s'intende il trattamento della gomma con zolfo a temperatura elevata (vulcanizzazione a caldo) e quello con soluzioni diluite di cloruro di zolfo in solventi inerti (vulcanizzazione a freddo). Con la vulcanizzazione la gomma passa da materiale plastico a materiale elastico, risente assai meno delle differenze di temperatura, e non è più solubile nei solventi della gomma greggia ma vi si rigonfia soltanto, acquistando così quelle proprietà che la rendono materiale straordinariamente importante nella tecnica.
I procedimenti di vulcanizzazione d'impiego generale sono tre: 1. mescolamento della gomma con zolfo e riscaldamento della mescola sopra il punto di fusione dello zolfo (Goodyear, 1839); 2. immersione dell'oggetto di gomma in un bagno di zolfo fuso (Hancock, 1843); 3. trattamento della gomma a freddo con una soluzione diluita di cloruro di zolfo in solventi inerti, come solfuro di carbonio, tetracloruro di carbonio o benzina (Parkes, 1846); oppure mantenimento della gomma in un'atmosfera di vapori di cloruro di zolfo a 50° a 60°. Il primo procedimento è di gran lunga il più applicato; il secondo è quasi completamente abbandonato; il terzo serve per vulcanizzare foglie sottili di gomma o comunque oggetti a piccoli spessori per i quali sia preferibile non operare a temperatura elevata.
L'azione dello zolfo sulla gomma dipende da numerosi fattori il più importante dei quali è il calore. Nella pratica si realizzano temperature fra 115° e 166°. Però anche temperature più basse (70-80°) per tempi prolungati (settimane) dànno luogo a reazione. Con l'aiuto di acceleranti organici e particolarmente di quelli che agiscono a bassa temperatura (xantogenati, sali di ditioacidi, ditiocarbammati sostituiti) è possibile vulcanizzare a temperature anche assai più basse e in tempo relativamente breve.
La quantità di zolfo che s'adopera in pratica varia assai: in assenza d'un accelerante organico, di solito dal 3 al 10% del peso della gomma per la vulcanizzazione a gomma molle (gomma elastica); in presenza di un accelerante organico basta il 2% e anche meno. Nel primo caso lo zolfo combinato (si conviene di chiamare così lo zolfo che non è più estraibile dalla mescola per estrazione acetonica della stessa) è di circa il 3%, nel secondo è dell'1,5 sino al 2%. Adoperando percentuali elevate di zolfo nella mescola (sino al 50%) non è possibile peraltro ottenere un vulcanizzato che abbia più del 32% di zolfo combinato (si giunge in questo caso all'ebanite o gomma dura). Per ottenere numeri confrontabili circa il grado di vulcanizzazione di mescole a diverso contenuto in gomma-zolfo basta riferire lo zolfo combinato alla gomma presente nella mescola. Si è convenuto di chiamare coefficiente di vulcanizzazione il rapporto
dove a è il % in zolfo combinato e b il % in gomma.
Ricerche recenti tendono a provare che in mescole accelerate il minimo limite di zolfo necessario per la vulcanizzazione tenda a 0,12%, ossia 1 atomo S per circa 100 radicali C5H8 (Bruni 1931). Nel processo di vulcanizzazione al cloruro di zolfo si adoperano come s'è detto dei diluenti (solfuro di carbonio, tetracloruro di carbonio) perché l'azione del cloruro tal quale sulla gomma è troppo energica e di più il solvente penetrando nella gomma aumenta l'azione del cloruro di zolfo in profondità. È da notare che il cloruro di zolfo è rapidamente decomposto dall'umidità con separazione di zolfo e liberazione di acido cloridrico. La decomposizione agisce in modo disastroso sul prodotto vulcanizzato deteriorandolo; perciò in pratica si fa spesso la neutralizzazione dell'oggetto vulcanizzato con ammoniaca o meglio si fa uso di ingredienti basici (per es., ossido di magnesio) nelle mescole.
Le vulcanizzazioni con alogeni, con selenio, con nitroderivati organici, con perossidi hanno soltanto interesse teorico. Qualche interesse pratico, specie per la preparazione di oggetti di poco spessore, ha il procedimento Peachey (1919) secondo il quale si fa formare lo zolfo allo stato nascente nell'interno della massa di gomma mediante l'azione reciproca dell'idrogeno solforato sull'anidride solforosa, sottoponendo prima l'oggetto a una atmosfera d'idrogeno solforato e poi di anidride solforosa. Si ha però l'inconveniente che nella medesima si formano degli acidi politionici che danneggiano la qualità della gomma.
È possibile anche vulcanizzare una soluzione di gomma. H. P. Stevens (1921), riscaldando una soluzione di gomma e zolfo alla temperatura di vulcanizzazione a caldo, ha ottenuto uno spesso gel che dopo evaporizzazione lascia indietro una pellicola di gomma che ha l'elasticità della gomma vulcanizzata. Una soluzione di gomma può anche essere vulcanizzata col processo Peachey saturando prima la soluzione di gomma con idrogeno solforato e poi con anidride solforosa; P. Schidrowitz (1923) ha osservato che è anche possibile vulcanizzare il lattice di gomma. Si aggiungono al lattice lo zolfo e gl'ingredienti e in presenza preferibilmente di un accelerante organico si scalda in autoclave sotto agitazione il lattice ben preservato con ammoniaca. La soluzione vulcanizzata risultante, vultex, differisce assai poco all'aspetto dal lattice originale e può essere usata direttamente per diversi scopi dato che per evaporazione lascia indietro una pellicola di gomma vulcanizzata (v. Lavorazione industriale).
Teorie della vulcanizzazione con zolfo a caldo. - Payen nel 1852 ammetteva che la vulcanizzazione fosse un processo chimico di sostituzione. W. T. Brande nello stesso anno spiegava le proprietà acquistate dalla gomma vulcanizzata con una "nuova condizione molecolare": Höhn nel 1899 riteneva che nella vulcanizzazione si ha un assorbimento di zolfo fuso da parte della gomma. Si hanno quindi due teorie, l'una chimica, l'altra fisica di assorbimento, che poi sono state elaborate da altri e alle quali di recente se ne sono aggiunte di nuove di carattere fisico-chimico.
Nel 1902 C. O. Weber ha mostrato che la vulcanizzazione è da considerare come un processo chimico, ma additivo e non di sostituzione. Anzitutto il fatto che vulcanizzando la gomma una parte dello zolfo non è più estraibile coi solventi dello stesso è a favore di una combinazione chimica; il non aversi poi nella vulcanizzazione un copioso sviluppo di idrogeno solforato è a favore di un procedimento additivo. Weber vulcanizzò una mescola di 90 parti di gomma e 10 di zolfo per diversi tempi determinando ciascuna volta lo zolfo combinato. I risultati mostrarono che non si formano solfuri di caucciù definiti, eccezione fatta per il disolfuro C10H16O2 che rappresenta il limite più elevato di combinazione dello zolfo con la gomma (32%), dato, questo, che corrisponde alla percentuale di zolfo inestraibile nei solventi dall'ebanite.
Nel 1910 W. Ostwald, servendosi dei dati sperimentali raccolti da precedenti autori, cercò di dimostrare che essi sono più in accordo con un processo di assorbimento di zolfo da parte della gomma che con una reazione chimica fra gomma e zolfo. Egli osservò che in ogni gomma vulcanizzata è presente dello zolfo libero mentre non sarebbe da aspettarcene se la reazione fosse di ordine chimico; la gomma vulcanizzata per estrazione sufficientemente prolungata può essere liberata completamente dallo zolfo; la gomma fissa lo zolfo in forma additiva; non è stato isolato alcun solfuro definito di caucciù; la quantità di zolfo assorbita dalla gomma aumenta con l'aumentare del trattamento meccanico preliminare della gomma; la capacità di fissare lo zolfo aumenta con l'aumentare della temperatura e il coefficente di temperatura è in accordo con un processo di assorbimento, l'assorbimento ha luogo secondo l'equazione esponenziale x/a = Kcm, dove x è il peso della sostanza assorbita, a il peso dell'assorbente, c la concentrazione iniziale della sostanza che è assorbita e K e m sono costanti.
Le vedute di Ostwald condussero a intensificare lo studio sul processo di vulcanizzazione. Ma mentre D. Spence e Young (1912) trovavano che trattando con acetone un campione di gomma vulcanizzata per tempo prolungato non si può più estrarre zolfo, L. Harries e E. Fonrobert (1916) trovavano che il campione ne può contenere una certa quantità sia pure minima (0,29%) e Stevens una quantità non inferiore all'1%. Così mentre F. W. Hinrichsen (1912) trovava che trattando il campione con potassa alcoolica in presenza di metalli il contenuto in zolfo non scende sotto l'1,5%, P. Alexander e B. D. Porritt trovavano che con questo trattamento non si ha alcuna desolforazione. Poté invece essere confermato da F. W. Hinrichsen e E. Kindscher (1911), per mescole più ricche e da Spence e Young (1912), per mescole col 63% di gomma e il 37% di zolfo, che dopo estrazione prolungata, il limite di 32% di zolfo presente stabilito da Weber non fosse superabile. Fu negata, infine, da Spence e C. A. Ward (1913) e ammessa, invece, da S. Axelrod (1909) l'influenza del trattamento meccanico sulla quantità di zolfo combinato.
Spence e Young studiando per una data temperatura le quantità di zolfo fissate dalla gomma per tempi crescenti trovarono che il coefficente K di velocità della reazione che si calcola dall'equazione K = x/t, dove x è la percentuale di zolfo che entra in combinazione per un dato tempo t, è 0,477 per 135° e 3,35 per 155°, valore questo conforme a quello del coefficiente di temperatura della velocità di reazione calcolata dall'equazione di Vant'Hoff (2,65 per un aumento di 10°). H. Skellon (1914) vulcanizzando mescole contenenti proporzioni crescenti di zolfo e riferendo i contenuti in zolfo combinato per 100 parti di gomma al contenuto iniziale in zolfo, ottenne delle curve che hanno una tendenza all'insù e poi un appiattimento al punto in cui la gomma risulta satura rispetto allo zolfo. Al punto di massimo le curve sono del tipo y/m = aC, dove y è la quantità di zolfo combinato, m la massa reagente, a costante, C la concentrazione dello zolfo nella gomma, sono cioè del tipo caratteristico di una reazione chimica e non di un fenomeno di assorbimento. A favore di una combinazione chimica sono anche i dati di D. Spence e W. Scott sulla reazione gomma-bromo e quelli di Staudinger e Fritschi sull'idrocaucciù.
Secondo H. Erdmann (1908) lo zolfo si lega al caucciù come tioozono (S3) e non come molecola (S8), e questa teoria ha recentemente trovato sostegno in lavori di D. F. Twiss e Peachey e di C. W. Bedford e L. B. Sebrell che da SO2 e idrogeno solforato in benzina raffreddata ottennero uno zolfo plastico che vulcanizza la gomma a temperatura ordinaria e che quindi è zolfo attivo, probabilmente il tioozono di Erdmann. F. Kirchhof (1913) espone l'ipotesi che la vulcanizzazione consista essenzialmente nella trasfomiazione della gomma da una forma relativamente instabile a una forma stabile in presenza di zolfo. C. Harries (1916) ha proposto anche lui un'ipotesi simile: secondo questo autore la vulcanizzazione avrebbe luogo in due tappe, di cui la prima consistente nel passaggio a forma stabile accompagnato da assorbimento di zolfo; lo zolfo può essere estratto quantitativamente ma se prima dell'estrazione il campione è tenuto in un luogo caldo per qualche tempo, una parte dello zolfo si fissa in modo che col successivo trattamento con acetone non viene rimosso.
Per Ostromyslenskji (1910) e anche per Stevens (1928) la vulcanizzazione è un processo in cui solo una piccola proporzione della gomma entra in combinazione con lo zolfo. Axelrod considera il processo di vulcanizzazione come un processo in cui ha luogo contemporaneamente una depolimerizzazione per azione del calore e una polimerizzazione dovuta allo zolfo per la formazione simultanea di prodotti di addizione con lo zolfo. Secondo P. Bary (1928) la gomma greggia è un sistema complesso di molecole di diverso grado di polimerizzazione, precisamente di due tipi di polimeri trasformabili l'uno nell'altro per azione della temperatura e di altri fattori. Quanto più alta è la temperatura tanto più basso è il grado di polimerizzazione; ossia la vulcanizzazione a bassa temperatura richiede meno zolfo della vulcanizzazione ad alta temperatura.
H. L. Curtis, A. T. MacPherson e W. Scott (1927) hanno trovato che in una serie di diverse ebaniti contenenti quantità crescenti dì zolfo combinato la costante dielettrica presenta un massimo per un contenuto in zolfo combinato del 10,5% e cade a un minimo col 19% di zolfo combinato. Ciò viene a confermare la teoria chimica della vulcanizzazione perché se la vulcanizzazione fosse un processo di solo assorbimento di zolfo si dovrebbe avere un aumento progressivo nelle proprietà elettriche dell'ebanite col crescere della percentuale di zolfo combinato. D. W. Kitchin (1929) ha confermato in massima questi risultati e applicando la teoria di P. Debye sul significato della costante dielettrica ha dato una spiegazione assai suggestiva dei cambiamenti che hanno luogo quando la gomma è vulcanizzata con zolfo e ha potuto, come pure fecero C. R. Boggs e Blake, spiegare come nell'ebanite, aumentando la quantità di zolfo combinato, la costante dielettrica prima aumenti e poi cada quasi al suo valore originario.
Teoria della vulcanizzazione con cloruro di zolfo a freddo. - Secondo C. A. Fawsitt (1889) la vulcanizzazione a freddo consiste nella sostituzione di atomi d'idrogeno del caucciù con zolfo, con contemporanea eliminazione di acido cloridrico. W. Thomson nel 1890 considerava il cloro come agente attivo della vulcanizzazione. R. Henriques nel 1893 ammetteva che il cloruro di zolfo si fissa come tale alla molecola del caucciù, ammissione confermata da Weber, secondo il quale la vulcanizzazione a freddo procede parallelamente alla vulcanizzazione a caldo con zolfo; soltanto che qui non si lega lo zolfo ma il cloruro di zolfo che si fissa alla molecola del caucciù nella posizione del doppio legame. Il composto C10H16S2Cl2, ottenuto trattando la gomma con eccesso di cloruro, rappresenterebbe il limite superiore di una serie di clorosolfuri di caucciù e corrisponderebbe nella serie gomma zolfo al composto limite Cl10H16S2. F. W. Hinrichsen e E. Kindscher, ripetendo il lavoro di Weber, non hanno ottenuto il composto C10H16S2Cl2 ma solo un composto [(C10H16)2S2Cl2 che dovrebbe contenere ancora due doppî legami. Questi autori avanzano l'ipotesi che il prodotto di Weber doveva contenere anche del cloruro di zolfo di assorbimento. B. V. Bysow (1910) ha trovato che per deboli concentrazioni di cloruro di zolfo ha luogo assorbimento. G. Bernstein (1912) e M. Le Blanc e M. Kroger (1921) hanno ottenuto risultati in accordo con Hinrichsen e Kindscher per cui si può concludere che per azione del cloruro di zolfo in eccesso sul caucciù, il caucciù si lega con metà del suo peso in S2Cl2. Che poi non si possa parlare di assorbimento almeno in misura notevole, sta il fatto che il vulcanizzato a freddo è stabile all'acqua mentre se si trattasse di S2Cl2 assorbito si dovrebbe avere uno sviluppo di acido cloridrico, d'idrogeno solforato e di SO2.
Secondo P. Bourgois (1929) il cloruro di zolfo reagirebbe come vulcanizzante per lo zolfo disperso che libera a contatto dell'umidità. Egli sostiene ciò per il fatto che il cloruro di zolfo non vulcanizza la gomma se s'impedisce che esso si decomponga e liberi zolfo colloidale cioè se si evita completamente l'umidità nell'immersione e nell'essiccamento dell'oggetto.
È anche da notare che nel cloruro di zolfo tecnico è contenuto sempre dello zolfo disciolto ed è perciò probabile (G. Bruni e M. Amadori, 1919) che il politiocloruro formi dei politioderivati di caucciù che contengono zolfo e cloro in un rapporto più elevato del rapporto S : Cl.
Influenza sulla vulcanizzazione delle sostanze naturali che accompagnano l'idrocarburo caucciù. - L'influenza di queste sostanze - resine e proteine - è stata esaminata per primo da Weber. Il fatto che le gomme ad alto contenuto in resine (circa il 200%) non forniscono vulcanizzazioni soddisfacenti, ha indotto Weber a ritenere che per la reazione fra resine e zolfo alla temperatura di vulcanizzazione la quantità di zolfo disponibile per la solforazione dell'idrocarburo caucciù in queste gomme è fortemente diminuita; ne risulterebbe che quanto più una gomma è povera in resine tanto più c'è da aspettarsi un buon vulcanizzato. Il Weber stesso però notava, e Spence e Young confermavano, che le resine hanno una funzione necessaria e la gomma che non ne contiene non vulcanizza. A risultati affatto diversi giunsero C. Beadle e Stevens che vulcanizzarono della gomma deresinificata; essi trovarono che una tale gomma vulcanizza quasi normalmente ma che invecchia rapidamente; notarono inoltre l'influenza favorevole delle resine sulla vulcanizzazione. G. Martin e F. L. Elliot hanno esaminato l'influenza della qualità e quantità delle sostanze naturali che accompagnano l'idrocarburo caucciù nelle diverse qualità di gomma sul contenuto in zolfo combinato del vulcanizzato. G. Bruni e T. G. Levi (1925) hanno isolato recentemente gli acceleranti naturali dello Slab che è una gomma naturalmente accelerata.
Teorie dell'accelerazione: a) acceleranti inorganici. - Weber ne spiegava l'azione col loro carattere basico. Si può peraltro obiettare che sostanze fortemente alcaline come l'ossido di bario non sono acceleranti. Anche l'attribuire la particolare azione del litargirio alla sua buona conducibilità al calore cade se si pensa che l'ossido di zinco, che ha una conducibilità egualmente buona, ha un'azione accelerante assai inferiore. L'ipotesi che per reazione di ossido di piombo e zolfo con formazione di solfuro la molecola di zolfo S8 viene demolita e si libera dello zolfo attivo, più attivo dello zolfo solito, acquista verosimiglianza se si pensa che il solfuro di piombo come tale, mescolato con la gomma, non è affatto accelerante. Seeondo E. Seidl l'idrogeno solforato che si forma nella reazione fra resine e zolfo reagisce col litargirio con grande sviluppo di calore ed è appunto questo aumento di temperatura che spiega l'effetto accelerante, togliendo alla gomma le resine e mancando quindi la sorgente d'idrogeno solforato non si ha accelerazione. G. D. Kratz e A. H. Flower hanno ottenuto risultati analoghi con l'ossido di magnesio. C. W. Bedford e H. W. Winkelmann hanno confermato i risultati di Seidl e di più hanno trovato che l'azione degli acceleranti inorganici viene esaltata per aggiunta di acidi oleico e stearico; essi spiegano ciò ammettendo la formazione di sali di piombo di acidi grassi che con lo zolfo della mescola darebbero dei polisolfuri i quali libererebbero facilmente zolfo atomico attivo: è da notare che gli stessi acidi grassi abbondano nelle resine della gomma. B. V. Bisow (1926) ha anche messo in evidenza l'influenza delle resine in relazione al loro contenuto in acidità e P. Dekker ha trovato per gli acidi grassi inferiori risultati analoghi a quelli avuti con gli acidi oleico e palmitico.
b) acceleranti organici. - L'azione degli acceleranti organici nell'affrettare il processo di vulcanizzazione è di solito attribuita alla trasformazione dello zolfo in una forma attiva, probabilmente attraverso la formazione intermedia di un composto capace di dare zolfo nascente. Come Peachey ha dimostrato, lo zolfo che si libera in loco influenza la vulcanizzazione quasi istantaneamente anche a temperatura ordinaria. Appare quindi ben probabile che l'accelerazione possa esser dovuta a zolfo attivo che si libera da un derivato instabile attraverso una serie di reazioni a cui l'accelerante prende parte. La maggior parte delle teorie proposte si basa su tali supposizioni per quanto, appartenendo i diversi acceleranti a classi ben diverse, il loro modo di agire non possa essere eguale in tutti i casi. Non si può quindi esporre una teoria che valga in modo generale per tutti gli acceleranti. Nel caso delle ammine primarie e secondarie, Erdmann prima (1908) e poi Ostromyslenskij hanno ammesso che in presenza di ossidi metallici si abbia un'azione catalitica dell'ossido nei confronti dell'ammina con formazione di zolfo attivo (tritioozono). L'ammina formerebbe un tritiozonuro instabile (questa formazione è peraltro ipotetica) che ridarebbe ammina e zolfo attivo e così di seguito. G. D. Kratz e A. H. Flower e C. Coolidge ammettono che le ammine formino con lo zolfo un prodotto di addizione a azoto pentavalente che ridà poi ammina e zolfo. A. Dubosc ammette che nella reazione con zolfo delle ammine si formi acido solfocianico che darebbe nella gomma acido cianidrico più zolfo attivo. È però da notare che in realtà con una simile reazione non si sono mai notati tali prodotti di reazione né è presumibile che nella gomma le cose vadano diversamente. La teoria più generalmente accettata è quella di W. Scott e C. W. Bedford: le ammine fisserebbero idrogeno solforato e il solfuro d'ammina passerebbe a polisolfuro con lo zolfo della mescola. Questo polisolfuro poi ridarebbe solfuro d'ammina e zolfo attivo e così di seguito. Queste teorie riguardano le ammine e in genere le sostanze capaci di dare dei polisolfidrati (ammonaldeide, arilguanidine, ecc.). Le rimanenti sostanze acceleranti rientrano tutte, eccetto i nitrosoderivati, nel gruppo delle sostanze di aggruppamento ⊄C−SH: così le tiouree, i ditiocarbammati, gli xantogenati, i mercaptani e i prodotti di ossidazione di queste ultime sostanze. Bedford e Sebrell ammettono per gli acceleranti di questa seconda classe la formazione di polisolfuri direttamente per azione del solo zolfo e successiva scissione in solfuro più zolfo attivo.
Mentre le vedute di Bedford e collaboratori sono basate sulla supposta formazione di polisolfuri, G. Bruni e E. Romani hanno formulata una teoria che si basa sull'aumento di attività di alcuni acceleranti in presenza di ossido di zinco; si formerebbero qui con gli ossidi metallici i corrispondenti sali metallici che, con lo zolfo della mescola, darebbero disolfuro e solfuro di zinco. Il disolfuro poi si scinderebbe in monosolfuro più zolfo attivo e così di seguito. Il Bruni e il Romani hanno trovato a conferma di ciò che i disolfuri sono capaci di vulcanizzare anche senza zolfo libero (auto-acceleranti); anche le tiouree secondo Bruni agirebbero analogamente perché passerebbero per riscaldamento con zolfo a mercaptobenzotiazolo che attraverso il sale di zinco si comporterebbe nel modo esposto. Le due teorie in fondo si rassomigliano e differiscono solo nel trasportatore di zolfo. Quanto all'azione specifica dell'ossido di zinco la proprietà di questo sugli altri ossidi metallici consisterebbe nelle diverse condizioni di stabilità e scomposizione dei rispettivi sali e solfuri.
Teorie sull'azione degli antiossidanti. - Secondo Taylor (1923) l'antiossidante funziona combinandosi con le molecole attivate della sostanza ossidabile per dare un complesso instabile che poi dà per demolizione molecole inattive; in altre parole esso inattivizza la gomma e la rende meno soggetta all'ossidazione. C. Moureu e C. Dufraisse invece suppongono che il perossido RO2 (dove R è la gomma) ossida l'antiossidante A con formazione di perossido RO mentre l'antiossidante è trasformato in un altro perossido AO. I due perossidi RO e AO sono naturalmente in antagonismo e si distruggono l'un l'altro rigenerando le sostanze originali R, A, e O2. Questa teoria si accorda con parecchi fatti connessi con l'azione degli antiossidanti nella gomma dei quali il più interessante è quello messo in evidenza dal Naunton (1930), che l'effetto di una miscela di antiossidanti prodotta in contatto chimico come è la combinazione di due basi simultaneamente con una stessa aldeide è più persistente di quella della miscela degli stessi prodotti di condensazione preparati separatamente con le stesse ammine prese singolarmente e ciò perché vi sarà una rigenerazione di antiossidanti per azione dei rispettivi perossidi.
Lavorazione industriale.
Lavorazione industriale con gomma coagulata. - La lavorazione industriale della gomma elastica già coagulata implica sostanzialmente la seguente serie di operazioni: preparazione della mescolanza di gomma o della soluzione di gomma; trasformazione di questa mescolanza o soluzione nel senso opportuno per confezionare l'oggetto desiderato (calandratura, o trafilatura, o impermeatura, o frizionatura di tessuto); confezione dell'oggetto; sua vulcanizzazione a caldo o a freddo; finitura, ove occorre.
Preparazione della mescolanza o soluzione. - La scelta delle sostanze da mescolare con la gomma va fatta tenendo presenti numerosi fattori. Occorre prima di tutto preoccuparsi delle proprietà, soprattutto meccaniche, che deve avere l'oggetto che sarà confezionato con la mescolanza da preparare. Se si deve preparare, ad esempio, del filo elastico da far intervenire nella confezione di tessuti elastici o di cordoni per aeroplani o simili, non occorre mirare a una gomma dura, ma a una gomma ad alta deformabilità, a piccolo ciclo di isteresi, che possa avere una notevole durata anche se tesa a lungo. In questo caso il costo è fattore relativamente secondario, dovendo divenire il filo parte essenziale di un complesso in cui entrano elementi, ad esempio cotone o seta, di costo grandemente maggiore. Non si ricorrerà perciò all'impiego d' ingredienti inorganici, e fra gli organici si cercheranno quelli che accelerano la vulcanizzazione e rendono il prodotto meno sensibile a disattenzione di chi vulcanizza, o a sostanze che rallentino l'azione ossidante dell'aria. Se invece occorre preparare una mescolanza da usare nella confezione di anelli gommati, occorre preparare mescolanze meno deformabili di quelle per filo elastico (e quindi introdurre ingredienti rinforzanti), più atte a resistere all'azione abrasiva dello slittamento sulla superficie stradale (particolarmente adatti sono i neri), possibilmente conducibili (ad esempio, l'ossido di zinco), a piccola isteresi, e poco lacerabili. Non si può nemmeno dimenticare, in generale, il costo dell'oggetto da produrre; se nel filo elastico, come si è detto, esso ha poco interesse, l'interesse diviene fondamentale se si devono produrre tacchi, o suole, o gomme da pavimenti. In questi casi occorrerà fare largo uso d'ingredienti inerti, il cui ufficio è diminuire il costo dell'unità di volume del prodotto. Spesso interessa pure il colore dell'oggetto finito; si provvede allora mediante sostanze appropriate organiche o no. Va tenuto pure presente il diagramma di lavorazione; mescole, ad esempio, da trafilare, dovranno essere sufficientemente plastiche per consentire che ciò sia possibile senza eccessivi sprechi di energia, senza pericoli per il macchinario, senza generare superficie irregolari. Si farà perciò uso in tali casi di plastificanti, i quali faciliteranno pure la lavorazione al mescolatore.
Per disperdere nella gomma greggia gl'ingredienti, occorre ridurre la prima in uno stato di notevole plasticità, il che si ottiene per mezzo di speciale macchina chiamata mescolatore (figg. 14, 20). È costituita da due cilindri che girano in senso in verso. I due cilindri sono muniti di tubi per l'immissione di vapore, per riscaldare le superficie, e di altri per immissioni d'acqua. La loro distanza è regolabile mediante viti facilmente manovrabili. Sono previsti dispositivi che consentono arresti i più rapidi possibili della macchina in caso d'inconvenienti.
La gomma passando fra i cilindri si riscalda sia per trasmissione di calore, sia, e più, per il lavoro meccanico cui è obbligata da parte dei cilindri che la trascinano; essa così si plastifica, sicché dopo un certo numero di passaggi fra i cilindri stessi è atta a disperdere le polveri da incorporare (che devono essere pesate con esattezza). Queste sono fatte cadere sulla gomma sul mescolatore, gradualmente; si insiste nella lavorazione finché il tutto è divenuto omogeneo. Occorre non eccedere nella durata della mescolazione sia per non consumare molta energia, sia per evitare che il prodotto ottenuto con la mescolanza sia troppo molle. Occorre pure curare che la temperatura dei cilindri non sia eceessiva (in genere non si superano i 70°) e che le polveri non vadano disperse, raccogliendo quelle che cadono dai cilindri. In casi particolari occorrono speciali accorgimenti. Così, per citare un esempio. se occorre aggiungere quantità minime di sostanza (ad es., di acceleranti) a mescolanze di notevole peso di gomma, per evitare che non si abbia buona dispersione, si procederà a una prima incorporazione delle dette sostanze in poca gomma, e il tutto sarà poi aggiunto sul mescolatore alla restante mescola.
Ricerche recenti (D. Porritt, H. Cotton) hanno dimostrato che un assorbimento di ossigeno è necessario alla plastificazione o snervatura della gomma greggia. Un riscaldamento in aria può sostituire in buona parte la masticazione meccanica (D. Ungar e P. Schidrowitz, 1931).
Calandratura, trafilatura, frizionatura, preparazione della foglia segata. - A seconda dell'oggetto da confezionare, la mescolanza va calandrata, o trafilata o messa in soluzione o passata direttamente agli stampi di vulcanizzazione. La calandratura consiste nel far passare la gomma, resa plastica e riscaldata nel mescolatore, fra i cilindri di una calandra per esservi laminata in foglie di vario spessore.
La calandra (figg. 15, 23) è composta sostanzialmente di due, più spesso tre, a volte quattro cilindri di ghisa temperata della migliore qualità, muniti di dispositivi che permettano la circolazione di vapore e di acqua, attraverso ai quali passa la gomma per esservi laminata in foglie di vario spessore. I cilindri devono essere accuratamente rettificati e devono permettere una rigorosa regolazione delle loro distanze reciproche. La loro temperatura è diversa. Così ad es., in una calandra a tre cilindri si possono tenere caldi i due cilindri più alti e freddo quello inferiore; in una a quattro cilindri si possono alternare i cilindri caldi a quelli freddi, ecc.
I costruttori per tener conto dei cedimenti per flessione dei cilindri, dovuti alla reazione della gomma che passa fra essi, tengono un po' più grande il diametro medio del cilindro di quello agli estremi. Le calandre servono per tirare le mescolanze di gomma in foglie di spessori uniformi o per frizionare il tessuto, vale a dire per legarlo il più intimamente possibile con foglie di gomma. Variano nei due casi i rapporti di velocità fra i diversi cilindri, e inoltre, per frizionare, occorre disporre di un meccanismo che consenta al tessuto di svolgersi da un tamburo con la velocità con cui il tessuto gommato esce dalla calandra e di avvolgersi su un altro. La lavorazione con calandra determina un carattere anisotropo nella gomma, specialmente se questa contiene ingredienti. Quest'anisotropia risente della natura della gomma e di quella degl'ingredienti, e si valuta principalmente a mezzo della differente resistenza a trazione nella direzione di calandratura e nelle direzioni normali a essa. L'anisotropia permane, sia pure attenuata, dopo vulcanizzazione; e risente del modo con cui questa è ottenuta (in stampo, liberamente, in foglia in ambiente compresso, ecc.).
La trafilatura consiste nel forzare (in genere a mezzo di una vite di Archimede) la gomma entro una camera spingendola attraverso una filiera riscaldata, in modo da ottenere liste o tubi.
La trafila (figg. 16, 21) utilizza in sostanza l'attitudine della gomma a fluire attraverso un foro, eventualmente sagomato (e ciò ne giustifica l'interesse pratico), se la temperatura è sufficiente e agisce una pressione conveniente. Il trafilato è raccolto su piano fermo, o su tavole mobili. Di viti spingenti se ne possono usare anche più di una. Il loro moto è sempre lento: ad es., 6 ÷ 15 giri al minuto primo. Oggetti di primaria importanza (ad es., le gomme piene e i semipneumatici) sono ottenuti passando per la trafila, macchina che determina una forma e un profilo eguali, o di poco diversi, a quelli da ottenere nel prodotto finito. La trafilatura presuppone una certa plasticità della mescolanza da lavorare. Ma se questa è così grande da consentire moti relativi dei varî filetti effluenti, soprattutto di quelli centrali rispetto ai periferici, la trafilatura può presentare inconvenienti. Sia pure in grado minore della calandratura, la trafilatura tende a produrre un'anisotropia meccanica nel prodotto; il che è logico (oltre che sperimentalmente dimostrabile), perché le condizioni relative delle particelle allineate parallelamente all'asse meccanico della trafila, sono nettamente diverse da quelle che competono alle altre disposte lungo direzioni perpendicolari a quella sopra nominata.
La frizionatura si applica alla preparazione dei tessuti gommati e consiste in sostanza nel far passare il tessuto da gommare attraverso una soluzione di gomma. È compiuta con le cosiddette macchine spalmatrici chiamate correntemente col loro nome inglese, spreading (figg. 17, 24): un coltello la cui altezza e inclinazione sul tessuto è regolabile, limita lo spessore della gomma di soluzionatura, o come suol dirsi, la carica (in pratica si dà il numero di grammi di gomma per metro quadrato di tessuto). Il tessuto, abbandonata la soluzione, passa su tavole calde (o fra tavole calde) che fanno evaporare il solvente. Esistono spreadings orizzontali e verticali (queste sono meno ingombranti), senza o con ricupero di solvente. Naturalmente gl'impianti più moderni suppongono macchine verticali che consentono il ricupero dei solventi (generalmente benzina o benzolo), i quali sono materiali costosi. La soluzionatura può avere luogo sulle due facce o su una sola faccia del tessuto. In genere se gli altri macchinari possono presentare pericolo per l'operaio che vi lavora, se questi è inabile o distratto (minimo è il pericolo per le scintille che possono scoccare per l'elettrizzazione prodottasi fra gomma e cilindri), la spreading presenta il pericolo di incendi essendo i solventi materiali infiammabili. Anche eventuali diffusioni di solvente nell'ambiente in cui si lavora possono essere dannose alla salute degli operai.
Una parte a sé tiene nella tecnologia della gomma, la preparazione della foglia segata, il cui impiego però è limitato alla produzione di pochi oggetti (palloni sonda, palloncini, guanti, cuffie, anelli per cerini, tubicini per valvole, ecc.). In questo caso la gomma greggia dopo lavorazione al mescolatore è compressa in piani, che sono irrigiditi per breve esposizione (pochi giorni a temperatura di circa 0°); si fissa lo stato di relativa rigidità mediante stagionatura (che dura qualche mese) a temperature di 10° ÷ 13°. Ciò allo scopo di ottenere un prodotto quasi legnoso, che consenta di tagliare a mezzo di seghe a comando meccanico delle foglie sottilissime (spesso aventi spessori di frazioni di millimetro) senza che il taglio determini superficie irregolari delle foglie, o riscaldando un po' la gomma, la riduca troppo priva di consistenza. Questi oggetti sono poi vulcanizzati a freddo, o, meno frequentemente, in bagno di zolfo fuso.
Confezione. - La gomma calandrata, trafilata, frizionata o segata che sia, passa alla confezione, la quale è diversa secondo gli oggetti da ottenere. Molto spesso si opera mediante stampi che raccolgono la gomma greggia, e consentono la sua vulcanizzazione (a caldo) nelle forme e dimensioni desiderate. Naturalmente gli stampi devono presentare una superficie interna eguale a quella esterna dell'oggetto da preparare; devono permettere che durante la vulcanizzazione si trasmetta alla gomma una certa pressione, per evitare il prodursi di non desiderate strutture spugnose, e insieme presentare una resistenza sufficiente per opporsi alle azioni emananti dalla gomma per effetto della dilatazione termica dovuta al riscaldamento delle variazioni volumetriche dovute alla vulcanizzazione e a eventuali sviluppi gassosi.
Per particolari scopi può interessare il prodursi di compressioni notevoli entro la gomma ma in genere ciò non interessa, e perciò si provvede a ridurre le sollecitazioni cui sottostà il materiale permettendo la fuoriuscita lungo aperture o in canali appositamente creati, di una certa quantità di gomma in forma di sottili lamine (bave). Occorre in ogni caso studiare lo stampo in modo che dopo l'uscita delle bave, sia durante la vulcanizzazione, sia durante la parte di raffreddamento (soprattutto da alta temperatura, cioè a 100 o più gradi) che ha luogo entro stampo, il volume della gomma si riduca inferiore a quello interno allo stampo, e ciò sia per evitare la formazione di superficie irregolari, sia per evitare la formazione di spugnosità (in termine tecnico pipps). Come è logico la forma degli stampi è la più varia ed è connessa con quella degli oggetti per il cui ottenimento si usano.
Vulcanizzazione tecnica. - Ultimata la confezione, gli oggetti vanno vulcanizzati, il che si fa, come si è detto, in genere a caldo, eccezionalmente a freddo.
Per realizzare la vulcanizzazione a caldo si fa uso di diversi apparecchi di riscaldamento, raggruppabili in tre tipi: torchio, caldaia, autoclave.
I torchi (figg. 18, 25) possono essere a uno o più piani, ognuno dei quali permette la circolazione di vapore per riscaldamento, ed eventualmente, di acqua per raffreddamento. I piani sono a volte (ad esempio, per vulcanizzazione di tappeti, di piastre per pavimenti, di cinghie) molto lunghi e la pressione può essere realizzata a mezzo di pistoni comandati idraulicamente o di viti. Le pressioni totali raggiungono a volte più centinaia di tonnellate. Nella vulcanizzazione sotto torchio non c'è contatto fra vapore e oggetto da vulcanizzare.
Le caldaie (figg. 19, 22), possono, anch'esse, avere dimensioni notevoli dovendo a volte servire per oggetti lunghi o di dimensioni trasversali ragguardevoli (ad es., cilindri per cartiere). Il riscaldamento può essere ottenuto per circolazione di vapore entro una doppia parete o in serpentini o tubi contenuti nella caldaia. A volte la caldaia è piena d'acqua e vi viene immessa aria o altri gas compressi, oltre all'oggetto da vulcanizzare.
Gli autoclavi consentono la vulcanizzazione per contatto diretto della gomma con il vapore. L'oggetto di gomma è bendato, o tenuto in talco o simili e il vapore oltre a servire da mezzo riscaldante serve pure per comprimere la gomma. Gli autoclavi possono essere orizzontali o verticali, e avere dimensioni diverse. Oggetti molto lunghi, come, ad esempio, dei tubi, possono richiedere autoclavi orizzontali di notevole lunghezza. Gli oggetti da vulcanizzare, sono talvolta portati all'autoclave in carrelli scorrevoli su guide metalliche.
Molto interesse hanno le presse autoclavi. Sono come gli autoclavi, con in più una piastra portata da un pistone a comando idraulico, che ne attraversa il fondo a mezzo di dispositivi che consentono buona tenuta.
La durata di vulcanizzazione è prestabilita a mezzo del tracciamento delle cosiddette progressive di vulcanizzazione relativa alla mescolanza che interessa. In sostanza si vulcanizzano, a una data temperatura, varî piccoli campioni della mescolanza in parola (spesso si tratta di dischetti da cui vanno tranciati gli anelli necessarî pcr eseguire la prova di trazione al dinamometro Schopper, o i provini piatti da trazionare con apparecchi del tipo Scott) scegliendo durate diverse di riscaldamento. Le curve di trazione sono riportate su uno stesso diagramma, dal quale si rileva che, col crescere della durata di vulcanizzazione, crescono i valori del carico e dell'allungamento di rottura fino a una certa durata, al di là della quale decrescono. S'individua così l'optimum di vulcanizzazione. In pratica va tenuto presente, soprattutto se si tratta di oggetti di notevoli dimensioni, che occorre del tempo perché il calore penetri entro la gomma; si fa quindi spesso precedere la permanenza alla temperatura di vulcanizzazione da un accrescimento graduale, interrotto da qualche arresto, della temperatura. Scale di temperatura si realizzano in pratica anche durante il raffreddamento. La traduzione quindi dell'optimum teorico nella durata pratica di permanenza alla temperatura di vulcanizzazione non è sempre operazione molto agevole. Oltre al controllo meccanico si può seguire (ma ciò non è fatto che in casi eccezionali) il progredire della vulcanizzazione per mezzo della determinazione del cosiddetto grado di vulcanizzazione che è la quantità di zolfo combinato in percento della gomma. Per miscele cariche s'introduce anche il coefficiente di vulcanizzazione che è il rapporto fra lo zolfo combinato, espresso in percento della miscela totale, e quello espresso in percento della sola gomma.
Di gran lunga meno interessante è la vulcanizzazione a mezzo di vapori di cloruro di zolfo o di soluzioni di cloruro di zolfo. La durata di immersione in soluzione è breve (da pochi minuti a mezz'ora circa, secondo i casi). È opportuno evitare la presenza di umidità nella gomma e perciò seccarla in stufa (meglio se in presenza di cloruro di calcio o simili) prima della vulcanizzazione, e ciò perché occorre evitare che il cloruro si decomponga in quantità sensibile in acido cloridrico e anidride solforosa. È opportuno eliminare quella parte di queste sostanze, la cui formazione non si riesce a evitare, a mezzo di un'abbondante aereazione dell'oggetto vulcanizzato. Opportuna è pure la neutralizzazione degli acidi nominati con ammoniaca. Il cloruro di zolfo e i suoi solventi (solfuro di carbonio, etere di petrolio, ecc.) usati in questa vulcanizzazione hanno proprietà venefiche. Onde per evitare danni agli operai si cerca di tenere "l'acido" (così si chiama correntemente la soluzione di cloruro di zolfo) in recipienti chiusi, curando che si produca un abbondante ricambio d'aria nell'ambiente in cui ha luogo la vulcanizzazione.
Le diverse confezioni. - Si confezionano con gomma moltissimi oggetti d'uso comune o industriale. Alcune delle confezioni hanno una eccezionale importanza e costituiscono la base dell'industria; così la fabbricazione delle ruote gommate (pneumatici, semipneumatici e gomme piene), dei tessuti impermeabili e dei tubi, per i cui particolari di lavorazione si veda alle rispettive voci. Altre confezioni, pur essendo importanti, rientrano nella categoria delle lavorazioni varie: così la fabbricazione di filo elastico, palle, spugne, cinghie. Di queste si dà, qui appresso un cenno.
Il filo elastico è adoperato soprattutto per la confezione di nastri elastici (per bretelle, giarrettiere, calze elastiche, busti, ventriere, ece.) o anche dei cordoni che sono usati in aviazione per sostenere in modo elastico l'assale e collaborare con i pneumatici ad assorbire (pressoché in parti eguali) il lavoro d'urto negli atterraggi. Il filo elastico deve avere per caratteristiche sostanziali: attitudine ad assumere notevoli deformazioni; piccola entità dei fenomeni di isteresi; poca perdita di carico; notevole resistenza a fatica per trazioni ripetute; capacità di strisciare mentre è teso, a contatto con fili di cotone o di seta o simili, senza che si determinino inizî di lacerazioni. Si usano perciò mescolanze ottime, senza o quasi senza ingredienti inorganici.
La preparazione suppone: un'accurata calandratura; la vulcanizzazione con la foglia, avvolta su cilindro, immersa in acqua in autoclave; l'essiccamento della foglia; il suo trattamento con una soluzione di gomma lacca che la irrigidisca consentendo il taglio al tornio; l'asportazione della lacca con soda; la lavatura e l'essiccamento. Molta cura occorre avere nel togliere i fili dal mandrino. Occorre anche evitare che vi sia molta luce, sia pure diffusa, nell'ambiente in cui si lavora o si conserva il filo, essendo il deterioramento per ossidazione e per azione della luce molto facile in un oggetto a piccola sezione e grandissima superficie. Trattandosi di un prodotto costoso i controlli devono essere sistematici e accurati.
Il filo è distinto a seconda del titolo, cioè del rapporto fra 25,4 (numero di millimetri equivalenti a un pollice) e la dimensione lineare della sezione (se questa è, come in genere avviene, quadrata).
Delle palle cave di gomma la parte più abbondante, cui qui principalmente ci riferiamo, è costituita dalle palle da giuoco per bambini. Le palle da tennis, quelle per il giuoco del calcio, ecc., richiedono una propria tecnica. Tuttavia v'è qualche analogia fra le loro varie confezioni, così come v'è fra esse e quella di molti giocattoli cavi di gomma. Per la preparazione delle palle si parte da mescolanze cariche d'ingredienti, però abbastanza plastiche prima della vulcanizzazione da fornire buone giunte, capaci di dare superficie lisce, di bell'aspetto, permeabili il meno possibile ad alcuni gas, non rapidamente invecchiabili. Si tirano a calandra fogli di spessore uniforme e variabile con il diametro della palla da preparare; da esse per mezzo di opportune macchine si ricavano dei segmenti che congiunti in un numero opportuno (in genere quattro) costituiscono la palla. Prima di costituire la sfera chiusa, occorre includervi una qualche sostanza che, per azione del riscaldamento sviluppi dei gas, i quali, pressando la gomma contro le pareti interne dello stampo (pareti naturalmente sferiche) ne fissino la forma. La vulcanizzazione ha luogo in autoclavi, o in caldaia. A vulcanizzazione avvenuta, la palla va tolta dallo stampo, dopo raffreddamento, per evitare che la pressione interna ne determini la rottura.
La sostanza che si metteva generalmente nelle palle era costituita da carbonato di ammonio; questo composto ha però l'inconveniente di riprodursi dai suoi prodotti di decomposizione (anidride carbonica e ammoniaca) quando si abbassa la temperatura. Si ha quindi bisogno, quando se ne fa uso, di gonfiare la palla vulcanizzata con aria compressa, e ciò si ottiene a mezzo di siringhe che attraversino un tappo di gomma senza zolfo saldato all'interno della palla alla parete di questa. Si determinano però degl'inconvenienti (particolamiente noiosi per palle da tennis, in cui il centro di gravità deve coincidere, il più esattamente possibile, col centro geometrico della palla) cui si cerca di ovviare facendo uso di nitrito di ammonio (ottenuto durante la vulcanizzazione per doppio scambio fra nitrito sodico e un sale di ammonio), sostanza instabile, che non si riforma alle temperature normali a partire dai prodotti di dissociazione. Si cerca anche, variando la quantità delle sostanze incluse, di far variare la quantità di azoto sviluppato e quindi la pressione interna della palla.
Altro problema che deve formare oggetto di studio è la colorazione delle palle da giuoco. I colori sono ottenuti in genere con una o più immersioni in soluzioni colorate, e successiva vulcanizzazione a freddo della pellicola ricoprente, se questa è costituita da gomma e da pigmenti. Si può anche ricoprire con colori finemente divisi (ad esempio con l'uso di spazzole) e poi fissare questi colori con lacche. In particolari casi si può anche spruzzare la soluzione colorata.
La preparazione delle spugne di gomma presenta interesse per le sue particolarità, più che per ragioni commerciali del prodotto; v'è inoltre un interesse indiretto nel senso che ci si deve preoccupare di non ottenere assolutamente fori in oggetti pieni all'infuori che nella spugna. Le mescolanze usate per preparare questo prodotto contengono sostanze capaci di decomporsi durante la vulcanizzazione dando luogo a uno sviluppo di gas diffuso uniformemente entro la massa. Godono di queste proprietà tutte le sostanze che si volatizzano a temperatura inferiore a quella di vulcanizzazione (p. es.: acqua, alcoli varî, l'acetato di metile. quello di butile, ecc.), nonché quelle che, come il carbonato di ammonio, si decompongono, alla detta temperatura, con abbondante sviluppo di gas. Il prodotto deve essere soffice; s'introducono perciò nella mescolanza olî, paraffina, cere e altre sostanze plastificanti. Inoltre le spugne sono generalmente colorate.
La vulcanizzazione è fatta in caldaia ed è uno degli argomenti studiati attentamente da ogni fabbrica. Occorre infatti fare in modo che gli sviluppi gassosi si determinino gradualmente, entro tutta la massa e non brutalmente per evitare la formazione di fori grandi. Ciò si ottiene procedendo per scale bene studiate di temperature e giocando opportunamente sulle pressioni agenti dall'esterno. In genere le spugne si producono in blocchi da cui vanno tagliate le spugnette da mettere in commercio. Qualche volta si producono le spugne vulcanizzandole in stampi.
Soprattutto per il maggiore coefficiente di attrito radente fra gomma e superficie delle pulegge, anziché fra cuoio e le stesse superficie, la gomma presenta un interessante impiego nelle cinghie e nei nastri trasportatori. Questi prodotti devono però essere poco estensibili; perciò nel prepararli non si fa uso solo di gomma, ma di pacchetti di tessuto (in genere di cotone) gommato, ricoperti con una foglietta di gomma. La gommatura del cotone può essere fatta alla spreading o alla calandra. Le tele sono sovrapposte tenendole parallele e cucendole agli estremi o ripiegando successivamente una stessa tela. Il numero degli strati di tela è il più vario; va da due a otto o anche a dieci e più: è limitato, oltre che dalla resistenza del tessuto e dalla potenza da trasmettere, dalla necessità di conservare al complesso una flessibilità sufficiente perché possa adagiarsi bene sulla superficie delle pulegge. Sul pacchetto delle tele si mette la foglia di copertura; il tutto è pressato bene per mezzo di rulli; indi è teso sulle presse di vulcanizzazione (si dànno allungamenti discreti, fino al 10%, e ciò perché la cinghia finita sia poco deformabile); in casi speciali si può vulcanizzare anche senza tendere e in caldaia e si vulcanizza a caldo. In genere la cinghia è messa in commercio sotto forma di striscia; la giunzione è realizzata per mezzo di elementi analoghi a quelli usati per le cinghie di cuoio. Quando si desiderano cinghie chiuse ad anello, si sovrappongono i due estremi, opportunamente confezionati, su una certa lunghezza e si procede al loro incollaggio per mezzo di soluzioni di gomma a rapida vulcanizzazione (meglio se vulcanizzano a freddo) o di soluzioni di altre sostanze adatte. Quando si tratta di trasmettere un moto fra pulegge molto vicine si fa uso di cinghiette a sezione trapezoidale, chiuse ad anello durante la vulcanizzazione, che in questo caso ha luogo in stampo. Fra gl'impieghi di queste cinghie va ricordata la trasmissione dall'albero motore al ventilatore, dietro il radiatore, nelle automobili. Le pulegge da usare in questo caso hanno gole pur esse a sezione trapezoidale, e le superficie di contatto fra pulegge e cinghie sono fornite dai fianchi di queste.
Essendo le cmghie organi di notevole interesse nelle trasmissioni, si suole sottoporle a molte prove, di cui alcune sono in varî paesi oggetto di standardizzazioni ufficiali. Fra le variabili più correntemente determinate notiamo: la resistenza a trazione, la perdita di carico, la resistenza al distacco fra le tele, la flessibilità, la resistenza a fatica (realizzando condizioni un po' più severe di quelle pratiche), il coefficiente di attrito radente su varî materiali, il rendimento delle trasmissioni.
Lavorazione industriale con lattice. - Abbiamo visto come l'impiego diretto del lattice nell'industria della gomma avesse origini molto remote. Già gl'indigeni dell'America Meridionale usavano lattice per fare scarpe e bottiglie e per impermeare tessuti. Nel 1791 il Peel in Inghilterra prese un brevetto per impermeare cotone e carta con lattice. Nel 1824, E. Hancock brevettò la preparazione di cuoio artificiale dal lattice; egli ebbe però difficoltà ad avere il lattice originale perché esso coagulava lungo il tragitto e anche più tardi quantunque fosse stata scoperta l'azione preservante dell'ammoniaca Hancock ritenne che l'elevato contenuto in acque del lattice ne rendesse troppo costoso il trasporto. È solo dopo il 1921 che l'interesse per il lattice è andato aumentando: è stata largamente praticata l'esportazione del lattice preservato con ammoniaca o formaldeide e la produzione di concentrati di lattice a basso contenuto in acqua e a elevata stabilità.
A seconda del tipo di lattice adoperato, le applicazioni attuali si possono distinguere in: applicazioni a base di lattice normale di piantagione e preservato; applicazioni a base di lattice concentrato; applicazioni a base di lattice vulcanizzato.
Del lattice vulcanizzato (Vultex) si è già detto nel capitolo vulcanizzazione; usando un tale lattice non occorre eseguire vulcanizzazione, ciò che è vantaggioso in molti casi.
La concentrazione del lattice può essere eseguita: per evaporazione; per via meccanica (centrifugazione, filtrazione); per via chimica.
Nella concentrazione per evaporazione si può avere un concentrato d'interesse industriale ("Revertex") trattando il lattice con un preservante alcalino non volatile e immettendolo in un evaporatore costituito da un cilindro rotante, così da assicurare la costante agitazione del lattice, circondato da un cilindro esterno fisso: fra i due cilindri passa acqua calda per ottenere il riscaldamento del lattice. Un potente ventilatore immette nel cilindro interno una corrente di aria fredda che esce carica di umidità tolta al lattice. L'evaporazione viene spinta sinché il lattice ha raggiunto una consistenza pastosa (sino al 75%; E. Hauser).
La concentrazione per centrifugazione, p. es.,. è stata studiata da G. Loomis e H. E. Stump e da W. L. Utermark; operando con supercentrifughe si ha la separazione del lattice in un strato superiore assai più ricco in gomma (60%) e in uno strato sottostante di lattice assai più diluito e da cui si ricupera la gomma in altro modo. Si può anche separare il siero per filtrazione attraverso porcellana porosa o altri diaframmi (E. Hauser); i pori si ostruiscono però dopo breve tempo. Si è riusciti a rendere pratico il processo tenendo in moto il lattice con una circolazione alternata (Pestalozza).
Nella concentrazione per via chimica (Traube) si aggiungono al lattice alcuni reattivi che producono la separazione di una crema cioè di uno strato più ricco in gomma da uno strato più sieroso. Così agiscono la colla, la gelatina e particolarmente gli estratti acquosi di alcuni vegetali come il muschio d'Islanda.
Impasti. - Al lattice normale o concentrato bisogna, a meno che non si eseguano vulcanizzazioni a freddo, aggiungere gl'ingredienti e lo zolfo ed eventualmente l'accelerante per ottenere gli oggetti che possano poi essere vulcanizzati. Prima di aggiungere al lattice gl'ingredienti bisogna inumidirli e farne una sottile pasta in presenza di un colloide protettore, come una soluzione di caseina, lavorando preferibilmente a un mulino colloidale o a un mulino a palle per ottenere una perfetta dispersione dei materiali. Se non si fa l'impasto preliminare degl'ingredienti, si ha formazione di coagulo. Vi sono peraltro ingredienti che anche dopo il trattamento preliminare sono dei coagulanti del lattice: come i sali dei cationi di- e trivalenti; in piccolissime quantità questi ultimi sono ordinariamente solo degli addensanti e producono cioè un effetto opposto a quello dei colloidi protettori che sono dei disperdenti.
Confezioni. - I procedimenti applicati nella lavorazione del lattice sono i seguenti: preparazione di oggetti per immersione negl'impasti; preparazione per trafilatura degl'impasti; preparazione per spruzzatura degl'impasti; impermeatura di tessuti per immersione, spreading, per spruzzatura, per elettrodeposizione.
La preparazione di oggetti per immersione (guanti, ditali, cuffie, ecc.) si può distinguere secondo che si determini:
a) deposizione per immersioni ripetute di stampi di legno, porcellana, vetro in lattice normale o concentrato (brev. J. Venosta), ed evaporazione sino a raggiungere lo spessore desiderato;
b) deposizione per coagulazione e immersione: lo stampo è immerso prima in un bagno coagulante e poi nel lattice e le operazioni abbinate sono ripetute sinché si raggiunge lo spessore desiderato, oppure si adoperano modelli porosi contenenti un coagulante;
c) deposizione su stampi caldi di lattice contenente speciali addensanti-coagulanti: il Pestalozza (1927) ha trovato che aggiungendo al lattice normale o concentrato piccole quantità di solfato di calcio o di altri sali bivalenti o di combinazioni di sali e ossidi bivalenti e immergendovi stampi caldi a 90°, nel lattice così addensato si ha deposizione di un coagulo compatto il cui spessore varia secondo il tempo d'immersione dello stampo (in 3″ da 1/2 a 1 mm.). In modo analogo agiscono alcuni acceleranti organici eome la difenilguanidina;
d) deposizione elettroforetica su stampi: brevettata da S. E. Sheppard e L. W. Eberlin e indipendentemente da P. Klein (1924) si basa sul fatto che le particelle di gomma nel lattice sono cariche negativamente e in un campo elettrico migrano all'anodo dove si scaricano e coagulano; all'anodo si può così avere uno strato continuo di gomma usando una corrente di 4 a 5 ampère per dmq. a 105 volt; all'anodo si libera anche ossigeno che causerebbe il formarsi di un coagulo spugnoso di gomma. Occorre quindi preparare l'anodo in modo che lo svolgimento di ossigeno non disturbi la gomma separatasi. Nel 1927 il Williams ha brevettato l'elettrodeposizione di gomma in corto circuito senza ausilio di una sorgente esterna di corrente elettrica.
La preparazione per trafilatura (filo, tubi, ece.), si può distinguere: secondo che si abbia estrusione di lattice fluido e successivo passaggio in un bagno coagulante E. Hopkinson e W. A. Gibbons o trafilatura con contemporanea coagulazione del trafilato. Nel primo caso il lattice fluido fuoriesce da apposita filiera e coagula passando nel bagno coagulante; nel secondo caso (Pestalozza) si fa uso di un impasto come quello descritto in c) a proposito della deposizione per immersione. In questo caso la filiera è scaldata a 80° e il filo fuoriesce già coagulato e dopo essiccamento è pronto per la vulcanizzazione.
Recentemente si sono introdotte altre utilizzazioni dirette del lattice. Così si può aggiungere lattice alla pasta di carta per ottenere carte o cartoni più flessibili e resistenti o meno permeabili (F. Kaye); servendosi dello stesso macchinario dell'industria della carta si possono da dispersioni acquose di fibre prevalentemente vegetali deporre su una macchina continua (v. carta) fogli suscettibili di svariate applicazioni (Kaye); con ritagli di cuoio sfibrato e lattice si può produrre con analoghi procedimenti del cuoio ricostituito (A. Ferretti-Salpa).
La gomma cruda depositata direttamente da lattice ha una rigidezza molto maggiore della ordinaria e dopo vulcanizzazione una resistenza assai più grande alla trazione e soprattutto alla lacerazione.
Chimica e fisica della gomma vulcanizzata.
Chimica. - Comportamento coi solventi. - Mentre la gomma greggia dà con molti solventi organici una effettiva soluzione con formazione di un sol, la gomma vulcanizzata a temperatura ordinaria coi diversi solventi organici si rigonfia soltanto particolarmente quando viene lasciata a lungo in essi. Questo rigonfiamento è diverso a seconda del solvente, della composizione e del grado di vulcanizzazione. Kirchhof in seguito a esperimenti da lui fatti ha proposto una formula valevole per un vulcanizzato di sola gomma e zolfo: Qu.Ke = costante dove Qu è il peso del solvente adoperato, K è il coefficente di vulcanizzazione ed e è un esponente che dipende dalla natura del solvente. A temperatura elevata e coi solventi ad alto punto di ebollizione si può avere però una soluzione della gomma vulcanizzata.
Comportamento all'ossidazione e invecchiamento. - Tutti gli oggetti di gomma vulcanizzata hanno una durata limitata. Essi invecchiano e gradualmente si deteriorano diventando duri e fragili. La causa di questo fatto è stata riconosciuta da tempo: è un'ossidazione della gomma. Siccome la gomma vulcanizzata possiede come la gomma cruda un forte carattere non saturo, essa ha la capacità di fissare l'ossigeno ai doppî legami non ancora saturati con zolfo; ciò è tanto vero che la gomma vulcanizzata si conserva in assenza di aria e di luce quasi illimitatamente.
I primi studî sistematici sul comportamento della gomma, a diversi gradi di vulcanizzazione, all'invecchiamento è stato fatto dallo Stevens (1916). Secondo questo autore una mescola: gomma 90, zolfo 10, vulcanizzata per 2 ore a 135°, risulta dopo 310 giorni d'invecchiamento in condizioni ordinarie praticamente non invecchiata; mentre se è stata vulcanizzata per 5 ore, l'invecchiamento dopo pari tempo è disastroso. Ciò dipende dal fatto che la postvulcanizzazione che si ha nelle mescole vulcanizzate e per la quale dello zolfo libero si lega alla gomma con un vero e proprio aumento in zolfo combinato, produce nel caso di sottovulcanizzazione un miglioramento e nel caso di vulcanizzazione all'optimum un peggioramento nelle proprietà fisiche. Lo Stevens ha più tardi (1918) notato, come già prima W. C. Geer (1916), che l'aumentare della temperatura accelera l'invecchiamento; Geer e Evans (1916) hanno messo in evidenza l'influenza oltreché della postvulcanizzazione, anche dell'ossigeno dell'aria con conseguente aumento della porzione solubile in acetone; Stevens anzi ha notato che dopo estrazione acetonica la gomma vulcanizzata invecchia più facilmente e cioè che le resine proteggerebbero dall'ossidazione; Eaton e F. W. Day esaminarono gli aumenti in peso di gomma stravulcanizzata e poi sminuzzata e notarono un aumento in peso sino al 40% dopo 9 mesi. Essi osservarono che nell'invecchiamento si formano prodotti solforati volatili. B. Marzetti (1923), studiando l'invecchiamento a 75° in ossigeno, ha notato che quando la gomma ha fissato l'i % d'ossigeno rispetto al suo peso è fortemente invecchiata mentre prova analoga in ambiente di CO2 ha dato un prodotto ancora ottimo. F. Kirchoff (1913 e poi 1927) ha trovato che l'ossidazione di gomma vulcanizzata estratta con acetone per trattamento a caldo in corrente di aria dipende dal grado di vulcanizzazione.
Accanto al deterioramento che porta a oggetti duri e fragili si è osservato talora con gomme debolmente vulcanizzate, particolarmente vulcanizzate a freddo, la formazione di gomma peciosa analogamente a quanto ha luogo con la gomma greggia. Secondo D. Spence (1909) questo processo è da collegare a una disaggregazione della gomma dovuta in parte al calore e in parte a tracce di acido solforico formatosi, e Thomson e Lewis già nel 1891 notarono l'effetto in questo senso di piccole quantità di sali di metalli pesanti (sali di rame, cloruro di vanadio, nitrato d'argento, ossido di manganese). Queste osservazioni furono poi confermate da G. Bruni e C. Pelizzola (1921). Kirchoff (1927) ha fatto uno studio completo dei diversi sali solubili e insolubili di metalli pesanti in relazione alla loro azione sui tessuti gommati. Egli spiega l'azione di questi sali solubili in acqua con la formazione di saponi metallici degli acidi grassi della gomma mentre si formano tracce di acidi forti liberi che agiscono come depolimerizzanti della gomma vulcanizzata a freddo.
Invecchiamento artificiale. - Dato il gran tempo necessario a eseguire prove d'invecchiamento a temperatura ordinaria, sono stati proposti degl'invecchiamenti accelerati artificiali. La temperatura va scelta in modo che l'alterazione sia piuttosto rapida. A questo scopo Geer (1921) adopera una stufa in cui passa aria riscaldata a 71°. A questa temperatura un giorno d'invecchiamento corrisponde con larga approssimazione a 6 mesi circa di vita naturale. Un miglior accostamento all'invecchiamento naturale si ha in certi casi col metodo di Bierer e Davis (1925), che consiste nello scaldare in autoclave a 60° i campioni sotto una pressione di 20 atmosfere d'ossigeno.
Analisi della gomma vulcanizzata. - Le più comuni determinazioni a cui si sottopone la gomma vulcanizzata sono le seguenti: umidità sostanze solubili; estratto acetonico (da cui la separazione in porzione saponificabile e porzione non saponificabile); acceleranti organici; estratto cloroformico; estratto con potassa alcoolica; carica minerale; zolfo totale; idrocarburo caucciù.
L'umidità si determina in essiccatore a vuoto su acido solforico. Le sostanze solubili si liberano estraendo il vulcanizzato con acqua calda: esse possono essere principalmente gelatina, colla, glicerina, anilina, alcali.
L'estratto acetonico si dosa come per la gomma greggia, soltanto che nella gomma vulcanizzata si estraggono oltre alle resine della gomma lo zolfo libero ed eventualmente plastificanti e ingredienti di mescola come olî, cere, peci, colofonia, acceleranti, antiossidanti, fatturati, ecc. Se per altro l'estratto acetonico non supera il 5% rispetto alla gomma, si può concludere che il vulcanizzato non contiene materiali aggiunti solubili in acetone perché il contenuto normale in resine della gomma vulcanizzata non oltrepassa mai il 5%. Per dosare lo zolfo nell'estratto acetonico si ossida questo con bromo e acido nitrico e si pesa lo zolfo come solfato di bario. Per l'esame particolareggiato dell'estratto acetonico quando si suppone la presenza degl'ingredienti e plastificanti anzidetti si fanno le seguenti determinazioni: dosaggio degli acidi grassi liberi presenti nell'estratto; separazione dell'estratto in parte non saponificabile (olî minerali e cere) e in parte saponificahile (acidi grassi degli olî saponificabili e acidi resinici). L'analisi deve farsi in presenza di uno o due plastificanti al massimo e in mancanza di rigenerati; altrimenti diventa difficile.
Il riconoscimento degli acceleranti organici è assai difficile e la loro determinazione quantitativa è possibile solo in rari casi anche perché molti acceleranti subiscono profondi cambiamenti durante la vulcanizzazione o non si trovano più affatto nel vulcanizzato (ditiocarbammati sostituiti). Il riconoscimento si fa direttamente sull'estratto aeetonico o nell'estratto acquoso o nell'estratto acquoso cloridrico del vulcanizzato.
La determinazione di estratto cloroformico serve a isolare l'asfalto e il catrame. L'estrazione cloroformica si fa sulla gomma già estratta con acetone; un estratto superiore all'i% rispetto alla gomma dà indizio della presenza di asfalto naturale o artificiale (gomma minerale).
L'estrazione con potassa alcoolica si esegue sul vulcanizzato già estratto prima con acetone e poi con cloroformio e serve a determinare il fatturato presente che si dosa come acidi grassi da cui si risale al fatturato moltiplicando per il rapporto 10/9. La determinazione di carica minerale si fa o per incenerimento in una capsula o, volendo risultati più precisi, per soluzione scaldando il vulcanizzato con solventi ad alto punto di ebollizione come xilolo, cumolo, ecc.; si diluisce quindi con etere di petrolio e si filtra la carica separatasi, su crogiolo di Gooch.
La determinazione di zolfo totale nella gomma vulcanizzata si fa per ossidazione con bromo e acido nitrico del vulcanizzato e dosaggio come solfato di bario o per fusione con carbonato sodico e nitrato potassico e precipitazione sempre come solfato di bario. Il contenuto del vulcanizzato in idrocarburo caucciù si ha per differenza sottraendo da 100 la somma degli estratti cloroformio, acetonico, potassico, alcoolico e ancora lo zolfo totale, la carica minerale ed eventualmente il carbone e altri ingredienti occasionali come colla, ecc. Un altro metodo è quello raccomandato dall'U. S. Joint Rubber Insulation Committee che consiste nel trattare con acido cloridrico, in modo da eliminare gl'ingredienti eliminabili in questo modo, la gomma già estratta con acetone, con cloroformio e poi con potassa alcoolica. La gomma è poi seccata e incenerita. La perdita in peso dà il contenuto in gomma. La determinazione diretta del caucciù nel vulcanizzato si può fare col metodo al nitrosito e al tetrabromuro (v. Analisi della gomma greggia, p. 513).
Fisica. - Una delle caratteristiche più tipiche della gomma vulcanizzata è costituita dall'andamento assolutamente eccezionale delle curve di trazione.
Se si riportano, in una rappresentazione cartesiana nel piano, sull'asse delle ascisse i carichi traenti riferiti alla sezione uno del provino prima della trazione e sull'asse delle ordinate i corrispondenti allungamenti percentuali, si trova la curva A della fig. 26 da cui risulta che la gomma in un primo intervallo dei carichi è relativamente poco deformabile, successivamente si deforma grandemente per piccole variazioni del carico traente, finalmente diviene pochissimo deformabile. È un comportamento anormale, spiegato dal fatto che la curva così tracciata viene a essere ricalcata sulle ordinarie curve relative ai materiali poco deformabili; per questi le variazioni di dimensione del provino durante la trazione sono piccole e quindi il riferire i carichi alla sezione iniziale equivale a considerare con lieve approssimazione le effettive tensioni agenti nei varî istanti in rapporto ai corrispondenti allungamenti, mentre per la gomma la sezione si riduce grandemente durante la trazione (diviene la terza, quarta,... nona parte di quella iniziale) e quindi quella approssimazione non ha più alcun significato. Riferendo, invece, i carichi alla "sezione attuale" del provino, cioè a quella che ha il provino nell'istante in cui il suo allungamento ha quel certo valore che è riportato in corrispondenza sull'asse delle ordinate, si stabilisce una corrispondenza fra la tensione effettivamente agente e la corrispondente deformazione e le curve (Ariano) acquistano un andamento (curva B della fig. 26) indicante un decrescere continuo della resistenza alla deformazione col crescere dell'allungamento. Ciò sarebbe comune anche a molte fibre tessili e in contrasto con quanto si verifica su corpi rigidi; i metalli ad es. si comportano come se l'allungamento distruggesse uno stato solido (cristallino) nel mentre la gomma si comporta come se lo stiramento determinasse una cristallizzazione.
Nella fig. 26 sono anche segnate le curve relative alla compressione per carichi unitarî relativi alla sezione iniziale (curva C, che è un'iperbole secondo Ariano) o alla sezione attuale (retta D).
La curva A della fig. 26 (l'unica che abbia formato oggetto di esteso esame) varia col variare di diverse variabili, mescolanza di gomma, velocità di trazione, temperatura di prova dei trattamenti precedentemente subiti dalla gomma, della forma del provino, ecc.
Gl'ingredienti, soprattutto rinforzanti, fanno raddrizzare la curva con flesso, rendendo questo meno accentuato e avvicinano la tangente nell'origine all'asse dei carichi. Per tener conto dell'azione indurente degl'ingredienti in varie proporzioni, W. B. Wiegand ha introdotto alcune funzioni desumibili dalle curve di trazione. La velocità di trazione è stata poco studiata; però notevole è l'osservazione del Williams, che la curva diviene sensibilmente una retta se si procede con notevoli velocità di trazione, cioè se si evita il prodursi di moti di natura plastica. Se questa osservazione fosse confermata si potrebbe trarne argomento per emettere ipotesi sulla struttura della gomma vulcanizzata. Entro i limiti delle velocità normali non ci sono però sensibili differenze; ad esempio, fra 10 e 60 cm. al 1′ per provini piatti aventi circa dieci centimetri di distanza fra i morsetti, Ariano non ha trovato pratiche differenze nella forma delle curve di trazione. L'influenza della temperatura, entro limiti anche estesi di questa, è relativamente non grande.
La storia dei trattamenti subiti dalla gomma è pur essa accusata dalla curva di trazione. Prescindendo dalla composizione della gomma, particolare interesse presenta l'aver vulcanizzato in modo conveniente; anzi è in base alle curve di trazione che i tecnici desumono la durata ottima di vulcanizzazione; è da essa che questi desumono la capacità di dare luogo a intervalli di durata di vulcanizzazione in cui le proprietà meccaniche sono sensibilmente invariate (si parla di plateau effect, ed è uno dei meriti che si attribuiscono agli acceleranti di vulcanizzazione), e via dicendo.
L'effetto Joule, come si è detto avanti, è percettibile anche per la gomma vulcanizzata. Recenti determinazioni del Williams conducono a condizioni identiche a quelle indicate di Hock, e cioè a uno sviluppo termico più grande dell'energia meccanica impiegata nella deformazione se la deformazione è del 600%.
Particolare interesse presentano i fenomeni di ritardo nel ritorno elastico della gomma. Si suole riferirsi al riguardo principalmente ai cicli d'isteresi, dei quali si dà un'idea in fig. 27, anche in rapporto all'andamento delle curve di trazione, ai limiti entro cui si svolgono questi cicli e alle loro variazioni di forma secondo che ci si riferisca alle sezioni iniziali o a quelle attuali. Nella fig. 27, la curva inferiore è quella di trazione, la superiore quella di ritorno. L'area compresa fra le due curve rappresenta il lavoro dissipato sotto forma di calore e ha grande importanza pratica per taluni articoli (filo elastico). È chiaro che la gomma elastica è effettivamente un corpo che, specialmente per le notevoli deformazioni (d'altronde molto variabili con la composizione della mescolanza), ha un comportamento molto poco elastico.
I soli cicli d'isteresi non dànno un'idea completa di questi fenomeni. Attraverso a essi si osserva la somma della defomiazione vischiosa, relativa alla particolare velocità di deformazione con cui si opera, e di quella permanente. Un'idea più precisa, dell'adattamento della gomma all'azione dei carichi, è formata dall'esame del comportamento di questo materiale con carichi costanti, applicati per un certo tempo. Per miscele di gomma e zolfo ben vulcanizzate si nota che l'allungamento varia poco; se però si vuole ricondurre la lunghezza del provino al valore che aveva appena si è applicato il carico, occorre togliere una quantità relativamente discreta di pesi (che è il 5 ÷ 30% a seconda dei casi, del valore iniziale del carico per mescolanze non contenenti quantità sensibili d'ingredienti) del valore del carico stesso se il carico ha agito per 12 ÷ 18 ore. Questo percento costituisce un parametro molto interessante sia per lo studio di mescolanze, sia per lo studio di tessuti gommati, e dà anche un'idea reale di ciò che avviene in tanti oggetti gommati che sono sottoposti ad azioni molto prolungate, a volte, di carichi. Esso è stato chiamato perdita di tensione (o perdita di carico) in un "determinato tempo" (Ariano). Se invece si tiene la gomma sopraddetta tesa per tempi lunghissimi (ad esempio, per due o tre mesi) all'oscuro e a temperatura ambiente e si misurano i parametri correnti (carico e allungamento di rottura), non si trovano variazioni notevoli; si notano solo deformazioni permanenti sensibili se l'allungamento a cui era tenuta la gomma era notevole.
Il coefficiente di dilatazione termica cubica della gomma vulcanizzata non stirata è di 0,000526 secondo il Joule; 0,00067 secondo il Lebedeff; variabile da 0.0007 a 0,000855 nel passare da 0 a 60,7 secondo il Lundal. Questi valori vanno modificati quando ci si riferisce a gomma tesa con allungamento costante o con carico costante. Il calore specifico può ritenersi a temperatura ambiente di 0,4 grammi calorie. Nelle mescolanze di gomma il calore specifico, come la densità, ha carattere additivo. Il calore di combustione è stato trovato di 10.700 grammi calorie. Va qui detto che se la gomma è mescolata a ossigeno compresso ed è riscaldata a temperatura opportuna, può dar luogo a esplosioni (Ariano).
La conducibilità termica è minima; secondo il Williams per lo smoked sheet è di 0,00032 (quantità di calore che attraversa i cmq. di sezione di gomma in un secondo per gradiente termico di 1°). Alcuni ingredienti d'uso corrente hanno una più alta conducibilità: per zolfo, ossido di zinco e nero è rispettivamente eguale a 0,000166, 0,00082, 0,00067. Si sono trovati per la costante dielettrica (Bureau of Standards, 1926) 2,38; 2,43; 2,53 per diverse qualità di gomma; in miscele con zolfo questo valore varia con la composizione e con il grado di vulcanizzazione oscillando fra 2,4 e 3,5. Secondo determinazioni del Liebisch e del Rubens (1919, 1921) è di 2,61 per la gomma naturale e 2,56 per quella sintetica. Gl'ingredienti fanno variare ancora questa costante; con il 20% di nero si è trovato il valore 6. Va notato che O. M. Corbino e F. Canizzo prima, e altri poi, hanno osservato che questa costante diminuisce quando la gomma è stirata.
La resistenza elettrica è di alcune decine di centinaia di milioni di megaohms per la gomma greggia e per quella vulcanizzata che contiene solo zolfo; gl'ingredienti fanno spesso diminuire molto questo valore. Per l'ebanite si hanno valori ancora maggiori.
La rigidità dielettrica è dell'ordine di qualche decina di kilovolt (18-32) per mm. di spessore; per l'ebanite è ancora più grande. Una lamella di gomma greggia messa in un campo elettrostatico subisce un allungamento, e ciò anche se è tesa inizialmente, il che porta a escludere, secondo G. Ercolini, che possa trattarsi di effetto termico, traducendosi questo in una diminuzione di lunghezza per gomma stirata. Le variazioni di volume ubbidiscono alle leggi di Maxwell sull'elettrostrizione dei dielettrici.
È noto che le deformazioni meccaniche determinano elettrizzazioni della gomma. Ciò è stato verificato da più autori, e fra gli altri da Ercolini e da Corbino. L'indice di rifrazione a 16° è, secondo Geiger, 1,5222. Il caucciù stirato dà luogo al fenomeno della doppia rifrazione (Bjerken, Rossi, ecc.), il che può essere connesso con i citati fenomeni Joule e con quello della struttura fibrosa generata dall'allungamento. Questo determina pure una variazione nella costante dielettrica. Poco si sa sulle proprietà magnetiche. Finalmente ricorderemo che la gomma vulcanizzata se polverizzata al mescolatore assorbe più liquidi con una velocità v che secondo G. Flusin (confermato da altri autori) si esprime con la formula:
dove p è la quantità di liquido disciolto nell'unità di volume e pS è la stessa quantità corrispondente alla saturazione. La quantità massima di liquido assorbita dalla gomma vulcanizzata (q, n) è data, secondo Kirchoff da
dove d è la densità del liquido, l è funzione del liquido e K è funzione della gomma provata. Fra i liquidi rigonfianti, notiamo: benzolo, toluolo, xilolo, solfuro di carbonio, tetracloruro di carbonio, alcool acetone, acqua, ecc.
Oltre ai liquidi la gomma discioglie molti gas, e ciò ha, fra l'altro, notevole interesse tecnico perché si connette con la permeabilità ai gas stessi. Si suole considerare questa permeabilità come generata dall'assorbimento del gas da parte della gomma, dalla sua diffusione attraverso lo spessore della gomma stessa, dalla distillazione sulla faccia non immersa nel gas. Spesso al processo di diffusione si attribuisce il carattere di vera soluzione del gas nella gomma. L'argomento è stato oggetto di studio da parte di numerosi autori. Fra i gas che sono più facilmente assorbiti (anche con attitudine a dare notevoli rigonfiamenti) va ricordata l'anidride carbonica. Sembra si verifichi per un discreto numero di gas la proporzionalità fra solubilità e temperatura (non in tutti i casi però la solubilità cresce con la temperatura); è abbastanza verificata la proporzionalità fra gradiente di pressione, a pari spessore e permeabilità, e quella fra inverso dello spessore e permeabilità a pari gradiente di pressione.
Quanto alla natura dei gas, diremo che la gomma presenta permeabilità enormi al cloruro di etile; segue a grande distanza l'anidride carbonica; ancora più distante è l'ossido di carbonio; e più ancora, in ordine, l'ossigeno, l'aria, l'azoto.
L'industria della gomma elastica in italia.
Nel 1872 G. B. Pirelli aprì a Milano una fabbrica di gomma alla quale aggiunse nel 1879 un reparto per la produzione dei conduttori elettrici isolati. La fabbrica Pirelli, per oltre un ventennio, rimase unica in Italia nell'industria della gomma. Successivamente, mentre la Pirelli ingrandiva i suoi impianti, aprendo altre due fabbriche a Milano per gli articoli di gomma e i conduttori elettrici e una a S. Bartolomeo (Spezia) per i cavi sottomarini, altre imprese sorgevano con analoghi scopi industriali.
Attualmente (1932) l'industria della gomma e dei conduttori elettrici conta in Italia, tra grandi e piccole, 61 aziende, delle quali una tratta i due rami, 44 producono soltanto manufatti di gomma e 16 solo conduttori elettrici isolati. L'industria è concentrata quasi interamente nella Lombardia (Milano) e nel Piemonte (Torino): Milano conta intorno a 20 imprese, Torino cirea 12. Il personale occupato è di circa 18 mila persone e il capitale impiegato di circa mezzo miliardo di lire.
Il consumo delle diverse materie prime che entrano nella lavorazione ha raggiunto negli ultimi anni le 70-75 mila tonn. per gli articoli di gomma e le 40 mila per i conduttori elettrici, e si è così ripartito: gomma greggia tonn. 10-11 mila; ingredienti chimici varî tonn. 13-14 mila; tessuti e filati di cotone tonn. 2,5-3 mila; barre e fili di ferro tonn. 3,5-4 mila; benzina tonn. 1,8-2 mila; combustibile tonn. 40-41 mila; rame e piombo tonn. 20 mila; materiali diversi (nastri e fili di ferro, carta per cavi, olî minerali, ecc.) tonn. 20 mila. Il valore di tali materie prime si aggira intorno a 400 milioni di lire per gli articoli di gomma e a 200 milioni per i conduttori elettrici isolati, per un totale quindi di circa 600 milioni.
L'industria è dipendente dall'estero per una buona parte delle materie prime di cui si vale (gomma, benzina, combustibili, rame, ecc.ì. Una sola impresa, che possiede tre fra i più grandi stabilimenti, ha piantagioni di gomma proprie nell'Estremo Oriente, che però non coprono che una piccola parte del suo fabbisogno. L'andamento delle importazioni di gomma greggia dall'anteguerra può rilevarsi dal seguente prospetto:
L'industria produce qualsiasi articolo di gomma o tipo di conduttore elettrico. Acquistano particolare importanza però i pneumatici per ruote di automobili, motocicli, velocipedi, aeroplani e altri veicoli, le gomme piene e semipiene per ruote di autocarri, le liste di gomma per ruote di carrozze. Seguono gli articoli per usi sanitarî e chirurgici e per usi tecnici (cinghie, tubi); i tessuti gommati e impermeabili; i fili elastici, i fili e cordoncini elettrici isolati; i cavi armati per trasporto di energia; i cavi telegrafici e telefonici sottomarini. Complessivamente, nel 1928, la produzione si valutava in 900 milioni di lire, di cui 300 riguardanti i conduttori elettrici.
Circa una metà della produzione di articoli di gomma viene abitualmente esportata. La maggior parte della produzione dei conduttori elettrici è invece collocata sul mercato interno.
Nella seguente tabella sono riportati i dati del commercio d'importazione e di esportazione.
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