GOLIARDI
. Il termine appare contemporaneamente in latino (goliardus) e in francese (goliard): di etimologia incerta, parrebbe riconnettersi, da un canto, a gŭla "gola", con il suffisso -hard (nel senso di "goloso", "incontinente"), e, d'altra parte, al biblico gigante Goliath, che in latino diede la forma declinabile Golias, Goliae (e significò anche "diavolo", "nemico di Dio" - come S. Bernardo chiamava il ribelle Abelardo): anzi, i contemporanei avvertirono l'uno e l'altro etimo, specie il secondo, e si parlò di "Golias", d'una "familia Goliae", d'una "Confessio Goliae".
Comunque, con questo nome, che sostituiva quello di clerici vagantes - termine più antico e una volta assai diffuso, ma diventato ormai generico e insufficiente - si chiamarono nella seconda metà del sec. XII e per il XIII soprattutto - con larga sopravvivenza nel seguente - quei preti e frati, uomini cioè di chiesa e di scuola, che per falsa vocazione abbandonavano il loro stato religioso per correre il mondo, spinti da ambizioni mondane, per sete di libertà e di conoscenza, ma specialmente indotti da esigenze sociali e da urgenti necessità pratiche.
Movevano di solito dai centri universitarî, dalle sedi vescovili, dalle scuole clericali e monastiche, trascorrevano per le terre della cristianità - dove maggiore era il fiorire della vita civile e dove più facilmente si offrivano possibilità di lucro e di generoso uditorio, con la sola dote dei loro canti latini e con una particolare sensibilità, tra ribelle e gaudente, assai spregiudicata ma vitalissima. Erano il prodotto di particolari condizioni spirituali ed economiche, come, per un verso, il risveglio intellettuale operatosi in seno al mondo clericale, l'istituzione di fiorenti scuole grammaticali, l'efficacia esercitata sulle menti dall'insegnamento della dialettica, la stessa diffusione della cultura che penetrava in profondità nelle coscienze, guadagnava gli strati più laici, si estendeva ai paesi più varî e più lontani; e, d'altra parte, il moltiplicarsi di conventi, di chiese, di curie vescovili, di aggregati ecclesiastici e scolastici, che mettevano sulle piazze una folla di "scolari" e di "chierici" troppo smaliziati e pretensiosi per rassegnarsi a una vita umile e grama, e assai numerosi e non sempre capaci per trovare una lucrosa occupazione. I goliardi, appunto, e la poesia che da loro prende nome, rispecchiano e accompagnano questo movimento intellettuale e questa crisi economica da cui sorgono - entrambi di grande importanza per la storia spirituale e letteraria del Medioevo. Scontenti, senza professione né mezzi di vita, malvisti dalla Chiesa che li sconfessava vedendo in loro degli spergiuri e dei dissoluti, essi vivevano al di fuori della regolare compagine sociale, né preti né laici, incapaci di uniformarsi a una condotta pratica. Ribelli all'ordine esistente, che li gettava ai margini della vita, essi non rispettavano le autorità supreme - ecclesiastiche o imperiali - soprattutto spietatamente ostili alle gerarchie clericali - agli alti prelati, ai vescovi, ai cardinali, che per loro costituivano gli ambienti dell'avida, corrotta, ingiusta plutocrazia, e contro i quali affinavano la loro poesia satirica, caricaturale e maledica. Abituati agli stenti e all'esistenza vagabonda, si facevano un vanto della loro stessa sorte precaria, esposta all'avventura, alimentata da incerti guadagni, considerata oziosa e perturbatrice; imbevuti - chi più chi meno - di cultura, trovavano in questa un valido aiuto alla loro arguta ed esperta maldicenza; provenienti per lo più dagli ambienti popolari e ad essi risospinti dall'indigenza, si acconciavano all'arte giullaresca (v. giullari) e scendevano spesso al livello dei mimi e dei buffoni. La poesia "goliardica" traduce queste condizioni e questa sensibilità, e nei canti di maggiore e più popolare diffusione si ripetono quei caratteristici motivi antigerarchici e anticuriali di tono pessimista e irriverente, e si riprendono i temi della giovinezza, della vita libera, dell'amore, del vino e del giuoco, di sapore libertino e sensuale: gli uni e gli altri in rotta con la società costituita e con le norme della morale comune. Ma è un prodotto letterario che possiede una sua lunga tradizione; e alla tesi romantica che lo faceva sorgere dall'indotta improvvisazione di "goliardi vaganti", ispirati dall'estro del vino e dal demone della ribellione, s'è sostituita una più storica consapevolezza critica, che in quello riconosce un comune clima culturale, con consuetudini mentali, stilistiche e metriche di studiata elaborazione, che per lo più risalgono a centri di studî e a particolari individualità artistiche. Dall'epoca merovingica, in cui si ritrovano quelle composizioni parodistiche e oziose, ad uso e a spasso di frati e di preti (Ioca monachorum; Cena Cypriani, ecc.) fino alle liriche conservate nel "Canzoniere di Cambridge", composte negli anni 950-1050, si svolge un contenuto poetico che attinge elementi al mondo biblico ed evangelico, al patrimonio classico-medievale (miti, avvenimenti storico-leggendarî, idealità imperialistiche romano-cristiane, poesia ovidiana e della decadenza), e che rispecchia nuovi interessi spirituali e sociali, i quali rinnovano la loro origine dotta e remota per farsi attuali e fortemente vissuti. Da questa produzione si sviluppa quella più propriamente goliardica in cui si afferma pienamente, di fronte alla poesia fondata sulla quantità, quella ritmica, che sempre più prevale tra i secoli IX-XII. Il numero delle sillabe, la regolarità degli accenti, l'uso della rima perfetta e del suo libero intreccio che a poco a poco sostituisce anche l'assonanza, il graduale complicarsi delle strofi, via via più ampie e variamente consertate - a sostegno della musica e del canto - costituiscono tutta una tecnica nuova, originale, rivoluzionaria. Le raccolte manoscritte, quelle più organiche - come i codici Buranus, Harleianus, Arundelianus, ecc. - e la stessa antologia di Cambridge - sparse nelle biblioteche d'Europa, provengono dai paesi dove, per tutto il sec. XII e XIII, più attivi erano gli scambî intellettuali e dove più varia e fermentata era la vita ecclesiastica. Le poesie, di solito, sono raggruppate - oltre che per l'affinità dei soggetti - sotto questo o quell'autore, di cui si dà, a volte, il nome proprio (Gualtiero di Map, Gualtiero di Châtillon, Serlone di Wilton, il Cancelliere Filippo, ecc.) o più spesso un attributo simbolico: il "Primate", l'"Archipoeta", e addirittura "Golias" - in cui si vuole raffigurare il prototipo dei goliardi. Vivono e si formano, tanto i poeti noti quanto gli anonimi, nei grandi vivai didattici della Francia: a Parigi, Chartres, Orléans, Reims, Lilla, ecc.; nella Germania, soprattutto lungo la valle del Reno, che fu detta la "strada dei papi" e nei cui monasteri s'era continuata la prima rinascenza carolina; in Inghilterra, dove s'era formato un clero colto e fattivo, che fin dal tempo di Carlomagno svolgeva a fianco della Francia una vivacissima cooperazione intellettuale. A questi territorî appartengono gli autori, le composizioni, le peculiarità stilistiche, i riferimenti alla realtà storico-sociale, gli stessi frammenti in lingua volgare che affiorano nel latino goliardico: nei Carmina burana è frequente l'uso del tedesco, e non è raro - qui e in altre raccolte - il francese d'oil. Renano è l'"Archipoeta", come egli ama chiamarsi non senza vanto, autore d'una diecina di poesie, al servizio fin dal 1161 di un alto prelato, forse Reginaldo di Dassel, che egli seguì e celebrò nella sua importante attività religiosa e diplomatica, da Colonia in Italia, e da Roma a Vienna. Esperto nell'arte dell'adulazione e del richiedere, così verso l'arcivescovo e l'imperatore Federico Barbarossa, come verso i dignitarî che incontrava lungo il suo cammino, facile versificatore e gradito dicitore, seguace dichiarato di Bacco e Venere, sempre pentito e tuttavia disposto a peccare, egli incarna la figura tipica del goliardo, come l'ha espressa sul vivo nella sua Confessio Goliae - tracciando i suoi errori, i gusti, lo spirito avventuroso, dissipato, scettico. E prima di lui Ugo Primate d'Orléans anch'egli assunto a metafora della classe, come ne fa fede Fra Salimbene: argutissimo e sardonico, parassita senza scrupoli, poetava a Parigi, verso il 1140, di argomenti dotti (Orfeo ed Euridice; la caduta di Troia; Ulisse all'inferno, ecc.) e di cose occasionali: contro la società, gli amici che lo rubano, le donne che lo inganniano, i protettori avari, la fortuna invidiosa, fino alla bella poesia "Dives eram et dilectus" della giovinezza sfiorente sotto l'incalzare della malinconica vecchiaia. Hanno tutti una cultura scolastica, e sono in relazione con ambienti universitarî e prelatizî; Serlone, inglese di nascita, studia a Parigi; si fa abate dopo una vita mondana; è grammatico e poeta; si trova a contatto con l'alto mondo politico e letterario; e prima di ritirarsi sotto la regola benedettina, compone poesia satirica, erotica, perfino oscena. Filippo è addottrinato: arcidiacono di Noyon nel 1211, cancelliere nel 1217 di Notre-Dame di Parigi, agiografo, polemista, innologo, scrive liriche di pretto sapore goliardico contro i prelati, la curia, la società contemporanea. Attorno a questi maggiori si muove una folla di minori: molti ignoti, sebbene di talento; altri ripetitori insignificanti; non pochi gli epigoni che poetano per inerzia, quando sono già morti i motivi ideali del canto. La loro ispirazione gravita attorno al mondo cristiano: son presi di mira la decadenza dello spirito religioso ed etico e il tralignare delle grandi istituzioni, senza neanche risparmiare Roma e la cattedra di Pietro (sono celebri le poesie: "Utar contra vitia", "Propter Sion non tacebo", ecc.); si fa la caricatura, ironica e malevola, dei grandi dignitarî che corrono dietro le cose mondane; si discute con sarcasmo o con intento edificante la santità di certi monaci, la dottrina e la capacità di certi preti, la miseria degli "scolari"; si fa la parodia dei testi sacri, delle regole monastiche, delle arti retoriche; si gioca sui termini scolastici, sulle etimologie, sul suono e il doppio senso delle parole; si mescola il sacro con il profano, il tono serio ed amaro con il triviale e lubrico, la malignità blasfema con la nostalgia dei cieli. E il ritmo entro cui si modella questa multiforme materia è agile e svelto: come rapide e irruenti sono l'ebbrezza dell'amore e la giocondità del vino, la seduzione del giuoco e la gaudente libertà del vivere. Vi si avverte - nelle poesie "amatoria e "lusoria" - l'esultanza del canto corale e la felice insania delle compagnie clamorose e libertine; c'è il senso della giovinezza esuberante, che ignora l'amara sazietà e la grigia esperienza degli anni. Nei toni più schietti vi si ripete il fascino della vita facile, senza lucrose fatiche e senza malinconie sentimentali, tutta tesa verso il tripudio dei sensi, verso l'avventura che tramuta in godimento le precarietà di un'esistenza senza patria, che irride agli sdegni dei moralisti, e commemora i furori del vino che dà levità spirituale, ed enumera i tradimenti delle donne, mutevoli come la ruota della fortuna e la vicenda del giuoco. In tal modo la produzione cosiddetta "goliardica" presenta limiti assai vasti e comprende temi e ispirazioni molteplici; essa costituisce la più viva poesia del Medioevo, quella che per un verso si riconnette alla tradizione classica e si nutre della varia cultura della chiesa e della scuola, e, d'altra parte, accoglie motivi popolareggianti, echi immediati della realtà attuale, forme, modi e parole del linguaggio parlato, schemi metrici e movimenti stilistici, idealità umane e letterarie che via via rivelano strettissimi rapporti di reciproco scambio e di mutua influenza con la nuova lirica romanza.
Nell'epoca moderna gli studenti universitarî hanno ripristinato il termine, richiamando anche a vita qualche canto, specie tra i "lusoria" e gli "amatoria"; ma gli antichi ed autentici goliardi sopravvivono soltanto come importante elemento per la ricostruzione storica e letteraria del passato medievale.
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