PETRASSI, Goffredo
PETRASSI, Goffredo. – Nato il 16 luglio 1904 a Zagarolo (Roma) da Eliseo ed Erminia Calzoletti.
Fu ultimo di sette figli di una modesta famiglia rurale: prima di lui nacquero Flavio, Alfonsina (in Gallo), Regina (in Guadagnoli), Antonietta (in Spiombi), Angelina , Fidea (in Cesolini).
L’economia familiare era legata a «due piccoli negozi e un po’ di terra». Nel 1911 i Petrassi, a causa di ristrettezze finanziarie, si trasferirono a Roma, dove gestirono un negozio all’ingrosso di generi alimentari ubicato in via di Parione, nei pressi di piazza Navona. «Ho fatto il viaggio su un carro a vino, attraverso la campagna romana, lungo tutti i trentadue chilometri di strada che separavano Zagarolo da Roma. Così, in mezzo ai barili di vino […] ho iniziato l’avventura della mia vita» (Petrassi 1991, p. 6).
In città, abitò dapprima in vicolo della Volpe, in Rione Ponte, indi in via Giulia. Petrassi fu iscritto vicino a casa all’istituto elementare dei Fratelli delle Scuole cristiane, in piazza S. Salvatore in Lauro, dove si teneva anche un corso per pueri cantores ch’egli cominciò a frequentare nel 1913. Questi cori giovanili, oltre a essere un vivaio di voci bianche per le storiche cantorie delle basiliche romane, accompagnavano funzioni religiose, assistenziali e civili. Come membro del coro Petrassi cantò negli ospedali militari del Celio e dell’Addolorata, ai concerti dell’Augusteo e in varie accademie. Queste attività corali, che prevedevano un’alfabetizzazione musicale dei fanciulli, rappresentarono per la formazione della sensibilità umana ed estetica di Petrassi una tappa importante, che riemerse nell’età adulta e diede frutti nella sua produzione sinfonico-corale.
Nel 1919, con la muta della voce, venne dimesso dal coro di S. Salvatore in Lauro e perse il modesto introito finanziario che l’istituto gli offriva per le sue prestazioni. La madre gli procurò un lavoro come garzone nel negozio di musica Grandi in via della Stelletta. Quando la ditta Fabbrica italiana pianoforti (FIP) di Torino, fondata nel 1917, rilevò il negozio Grandi e aprì una sede in corso Umberto, il giovane commesso venne trasferito. La nuova ubicazione si trovava non lontana dal Conservatorio di Santa Cecilia e la FIP, su iniziativa di Guido Maggiorino Gatti, nel 1920 promosse l’importante periodico musicale Il pianoforte (divenuto nel 1928 La Rassegna musicale).
Il curricolo scolastico di Petrassi si fermò alle scuole elementari e a tre anni di istituto tecnico serale. La viva attrazione per la letteratura e le arti crebbe attraverso un’autoformazione in sodalizio grazie a una forte amicizia giovanile con il figlio d’un fornaio che abitava in via Giulia, Armando Barboni. Con questo compagno di scuola, impiegato come fattorino telegrafico, Petrassi coltivò, senza guida e in modo un po’ disordinato, i primi interessi artistico-culturali. Frequentò la Galleria nazionale d’arte moderna, ammirato dai dipinti di Giulio Aristide Sartorio e Nino Costa, lesse i romanzi naturalistici di Émile Zola ed Eugène Sue, i classici greci. Particolare entusiasmo suscitarono i racconti ‘pauperistici’ di Francesco Mastriani e, sebbene le preferenze fossero altre, La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio. Per la musica, essendo fin dall’infanzia attratto dall’opera lirica («cantavo a squarciagola il Rigoletto»), frequentò il loggione del teatro Costanzi, anche se l’esperienza d’ascolto di maggiore importanza fu la stagione dei concerti all’Augusteo (Petrassi, 1991, pp. 5, 38).
Il negozio della FIP di via del Corso, frequentato dai musicisti romani, oltre all’ampia possibilità di prendere visione di spartiti e partiture, propiziò alcuni contatti che permisero l’avvio di una regolare formazione musicale. Ciò avvenne grazie ad Alessandro Bustini, insegnante di pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia, il quale sentì suonare da Petrassi, nel retrobottega, le Deux Arabesques di Claude Debussy e gli offrì lezioni gratuite. Lo stesso Bustini favorì, nel 1925, il contatto con Vincenzo Di Donato, insegnante di armonia e contrappunto in Conservatorio, con il quale Petrassi avviò lo studio della composizione.
L’anno seguente furono eseguite, in un saggio pubblico alla Sala Sgambati, le prime composizioni di Petrassi: Canto di Aligi (1926), ispirato alla Fanciulla di Iorio di d’Annunzio, un’Egloga (1926) e una Partita (1926) per pianoforte.
Quest’ultima, pubblicata nel 1927 dalle edizioni Fratelli De Santis di Roma, nella collezione Dorica diretta da Di Donato, rivelò l’eclettismo di un buon musicista ancora alla ricerca di una propria strada. Sul quotidiano La Tribuna (27 novembre 1926) il critico Alberto Gasco, recensendo il concerto, presentò Petrassi come «una grande speranza» della scuola di Di Donato.
Preparatosi nello studio del contrappunto con Cesare Dobici, nel 1928 Petrassi superò la prova d’ingresso ed entrò in conservatorio, ammesso al settimo anno nella classe di composizione di Bustini. In questo periodo di avvio degli studi compose alcuni pezzi per canto e pianoforte che furono eseguiti in saggi pubblici alla Sala Sgambati, quali La morte del cardellino (1927, testo di Guido Gozzano), Per organo di Barberia (1927, Sergio Corazzini) e i Canti della campagna romana (1927), raccolti e armonizzati in collaborazione con Giorgio Nataletti. La lirica per canto e pianoforte Colori del tempo (1931, testo di Vincenzo Cardarelli) vinse un concorso di composizione promosso dall’Accademia Filarmonica Romana.
Un’esperienza culturale, artistica e umana fondamentale, negli anni di studio, fu l’incontro con Alfredo Casella: «Conoscevo Casella, come musicista, prima che lui mi desse la sua preziosa amicizia, per aver ascoltato alcuni suoi lavori all’Augusteo» (La mia musica, 1987, in Scritti e interviste, 2008, p. 354). L’influsso di Casella, oltre che nella Gavotta (grottesco) della citata Partita, emerse nella Siciliana e Marcia per pianoforte a quattro mani (1930), che richiama con tutta evidenza la scrittura della Siciliana negli 11 pezzi infantili e della Marcetta nei Pupazzetti. La prima produzione petrassiana manifestò dunque un orientamento verso quel ‘mito dell’antico’, quei ritorni in chiave antiromantica al barocco e alle forme della polifonia vocale e strumentale del Medioevo e del Rinascimento che accomunò alcuni musicisti di quella che fu poi battezzata ‘Generazione dell’Ottanta’ (Massimo Mila). Nell’ambiente musicale romano questa estetica, generalmente definita neoclassica, fu rappresentata e difesa dal modernismo di Casella, il quale, al rientro in Italia da Parigi, nel 1915, si era stabilito a Roma e aveva iniziato a insegnare pianoforte a Santa Cecilia.
Nel 1932 Petrassi si diplomò in composizione e al saggio di fine anno presentò i Tre cori con orchestra (1932): Casella, che assisté al saggio, espresse il suo apprezzamento. L’incontro inaugurò un rapporto di stima e di amicizia che si concretizzò nella presentazione, diretta da Casella stesso, della Partita per orchestra (1932), frutto della vincita in un concorso promosso dal Sindacato nazionale fascista dei musicisti, all’XI Festival della Società internazionale di musica contemporanea di Amsterdam del 1933. La visibilità internazionale offerta dall’evento fu amplificata, nello stesso anno, dalle esecuzioni della Partita sotto la direzione di Bernardino Molinari a Parigi e di Ernest Ansermet a Ginevra.
Nel 1933 Petrassi compose il suo primo Concerto per orchestra e terminò gli studi in conservatorio, conseguendo il diploma di organo sotto la guida di Remigio Renzi e Fernando Germani. Frequentò in seguito, nel 1935, il corso superiore di direzione d’orchestra tenuto da Molinari nell’Accademia di Santa Cecilia: l’esperienza gli permise di dirigere occasionalmente concerti in Italia e in tournées all’estero.
La vita concertistica romana, negli anni Venti tutt’altro che chiusa alle esecuzioni di novità straniere, permise l’ascolto di musiche contemporanee. Alcune tendenze europee e internazionali, come notò poi Guido M. Gatti, giunsero al compositore ‘filtrate’ da Casella. Su di lui esercitarono un influsso le Kammermusiken e l’ouverture Neues vom Tage di Paul Hindemith, quest’ultima eseguita all’Augusteo sotto la direzione di Mario Rossi: «Quella musica mi aveva colpito per la vitalità e il suo senso contrappuntistico formicolante di idee e di spinte» (Goffredo Petrassi: una biografia raccontata dall’autore, 1986, in Scritti e interviste, 2008, p. 315). Quest’esperienza lasciò traccia nell’energia dell’Ouverture da concerto per orchestra (1931) e in quell’«oscuro impulso ritmico» che il suo primo biografo, Lele (Fedele) d’Amico, individuò negli esordi del compositore (Goffredo Petrassi, Roma 1942, p. 23).
Altra tappa fondamentale fu l’incontro con la musica di Igor′ Stravinskij, in modo particolare con l’Œdipus Rex (1927) e la Symphonie de Psaumes (1930): «Si trattò di un’autentica folgorazione» (Goffredo Petrassi: una biografia…, 1986, in Scritti e interviste, 2008, p. 315). La solenne retorica del Salmo IX per coro e orchestra (1934-36), eseguito all’EIAR di Torino sotto la direzione di Vittorio Gui nel 1936, fu il prodotto di svariati fattori: l’influenza della scultorea oratorialità dell’Œdipus Rex, il clima politico degli anni Trenta, l’ispirazione biblica che aprì il filone sacro del compositore e il riemergere, in età ormai adulta, dell’esperienza corale adolescenziale legata a esecuzioni negli imponenti interni delle chiese barocche di Roma. A questo proposito Petrassi ebbe a dire: «Ero conscio, quando composi il Salmo IX, che nella larghezza corale e nell’urgenza e necessità di esprimermi attraverso il coro si liberassero quei fantasmi della giovinezza, quel sedimento di una pratica corale così importante per me. I grandi riti nelle basiliche romane, ad esempio le beatificazioni e santificazioni in San Pietro, sono tutte immagini che con le loro scenografie barocche si sono impresse in me e che in qualche modo hanno influito sulla mia musica» (La mia musica, 1987, in Scritti e interviste, 2008, p. 355).
La definizione critica di «barocco romano», coniata da Gianandrea Gavazzeni nel 1944 (Quaderno del musicista, Bergamo 1952, p. 101) per descrivere lo stile sinfonico-corale petrassiano degli anni Trenta, e segnatamente del Salmo IX e del successivo Magnificat per soprano leggero, coro misto e orchestra (1939-40), non si attaglia invece al successivo Coro di morti, madrigale drammatico per coro maschile ed ensemble strumentale (1940-41), su testo tratto dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi.
Nel Coro si manifestarono i segni di una crisi storica, individuale e stilistica che aveva investito il compositore: «Mi ha spinto al Coro di morti una forte emozione e una forte reazione, quella dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. […] In quel periodo non è che io proprio cercassi qualche cosa di particolare, ma evidentemente avevo un ribollimento interiore che doveva trovare un modo di esprimersi» (cfr. Lombardi, 1980, p. 115). Nella nuova partitura la retorica neoclassica degli anni Trenta lasciò il posto a una meditazione cupa e pessimistica sulla condizione umana, suggerita dai versi leopardiani. La struttura formale dell’opera fu organizzata aderendo all’articolazione del testo poetico, come suggerisce la denominazione di ‘madrigale drammatico’ che consapevolmente si richiama a Claudio Monteverdi. Questo determinò la fortuna critica del Coro di morti, che Massimo Mila collocò tra gli esiti più alti del «neomadrigalismo» italiano (cfr. Di Goffredo Petrassi, 1983, p. 16).
Negli anni Quaranta l’evoluzione e trasformazione dello stile passò per il teatro. Nella prima metà del decennio Petrassi scrisse due balletti, nella seconda metà due atti unici. Il rapporto con la danza iniziò nel 1942 con un allestimento coreografico del Coro di morti realizzato da Aurél Milloss al teatro dell’Opera di Roma. La prima partitura specifica fu tuttavia La follia di Orlando, ballo in tre quadri con recitativi per baritono (1942-43), dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. La prima rappresentazione si tenne alla Scala di Milano il 12 aprile 1947, coreografia di Milloss, scene e costumi di Felice Casorati.
Nella Follia si colse un progressivo superamento dello stile degli anni Trenta e la ricerca di nuove modalità non narrative. In tal senso venne intesa da Petrassi la danza, «arte di per sé non destinata a raccontare nulla»: «L’elemento fondamentale della danza è il ritmo; pensai dunque di attenermi il più possibile a questo principio. Ma poiché il ballo ha un soggetto, un’azione che si svolge, studiai il modo di ovviare alla necessità narrativa con il solo mezzo che mi parve adatto, ricorrendo cioè alla voce umana» (Le mie avventure con la danza, 1946, in Scritti e interviste, 2008, p. 87). I tre quadri del ballo, preceduti da recitativi di carattere narrativo del baritono, furono concepiti come un incontro di musica e danza basato su un’espressività che mirava all’astrazione.
Nel 1944, insieme con Nicola Costarelli, Sergio Lauricella, Vieri Tosatti e Guido Turchi, Petrassi fondò Musica viva: «Nel 1944 erano appena arrivati gli Alleati a Roma, il caos era pressoché totale. Con questi amici pensammo allora come fare ad uscire da questo caos […]. Programmammo otto concerti che comprendevano, tra l’altro, i Quindici canti op. 15 di Schönberg eseguiti da Casella e la Danco, l’Ottetto di Stravinskij. La nostra ambizione arrivava ad un’esecuzione del Pierrot lunaire di Schönberg, ma il denaro non ci bastò e […] riuscimmo a realizzare solamente cinque, se non sbaglio, degli otto concerti preventivati» (La mia musica…, 1987, in Scritti e interviste, 2008, p. 356).
Analoghe premesse estetiche rispetto al balletto precedente mossero la composizione del Ritratto di Don Chisciotte, balletto in un atto (1945) su libretto di Milloss da Cervantes, rappresentato al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi il 21 novembre 1947.
Anche in questo caso l’interesse del compositore, convergente con quello di Milloss, si concentrò non sulle vicende narrate, ma sul dramma del protagonista, figura-simbolo della vanificazione e del crollo dei sogni e delle illusioni umane.
Petrassi visse come esperienza marginale e occasionale la composizione di musiche per film, iniziata con Riso amaro (1949) e proseguita con Non c’è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe De Santis: «Non mi sono mai occupato di approfondire i rapporti tra immagine e suono perché ho sempre considerato la musica da film come musica scritta con la mano sinistra, legata ad un interesse puramente economico e di sussistenza» (ibid., p. 358).
La ricerca di nuove forme di rappresentazione e narrazione musicale passò, nel dopoguerra, dalla danza all’opera. Il Cordovano (1944-48), opera in un atto dall’entremés di Cervantes El viejo celoso, venne rappresentato alla Scala di Milano il 12 maggio 1949. Il compositore imbastì la partitura direttamente sul testo drammatico in prosa, senza la mediazione di un libretto apposito, e tenne anzi a precisare che il suo interesse si era specificamente appuntato sulla traduzione di Eugenio Montale (apparsa in un’antologia di Teatro spagnolo curata da Elio Vittorini, Milano 1941).
L’intermezzo buffo, centrato sulla vicenda boccaccesca di Cannizares, anziano marito geloso, e di Donna Lorenza, sua moglie smaniosa, fu concepito come una sorta di parodia del genere comico, dove il canto tende piuttosto a rapprendersi che non a spiegarsi. Vi si colse, peraltro, una chiara assonanza con L’Heure espagnole di Maurice Ravel, compositore assai ammirato da Petrassi. L’intento dichiarato di volersi distanziare mediante un intermezzo comico dagli orrori della guerra, con una rappresentazione simmetricamente opposta al Coro di morti, non fu realizzato né pienamente comunicato dalla musica. Semmai, nel Cordovano, i comici inganni coniugali fecero affiorare, ancora una volta, il carattere illusorio dei sentimenti e delle azioni umane e il sempre latente pessimismo del compositore.
Analogo messaggio, influenzato dal concetto di assurdità della vita espresso dall’esistenzialismo di Albert Camus, propose Morte dell’aria, tragedia in un atto di Toti Scialoja (1949-50), allestita nella stagione dell’Anfiparnaso, al teatro Eliseo di Roma, il 24 ottobre 1950. Scialoja si ispirò per il testo a un vecchio film documentario francese che mostrava un episodio di cronaca dei primi del secolo: il volo fatale d’un uomo lanciatosi con un assurdo vestito-paracadute dalla Tour Eiffel di Parigi. Per rappresentare la vicenda Petrassi affidò al coro un ruolo di commento tragico, con una scrittura vocale, armonica e timbrica che, anche grazie all’uso dello Sprechgesang e a un organico strumentale ridotto, rivelò una duttile appropriazione del linguaggio della Scuola di Vienna.
Quanto preannunciato in Morte dell’aria trovò di lì a poco conferma e sviluppo in Noche oscura, cantata per coro misto e orchestra sul poema di san Giovanni della Croce (1950-51), eseguita al Festival di Strasburgo dall’Orchestra e Coro della RAI di Torino nel 1951. Il testo, ambiguamente mistico-erotico, dettò un’idea di concentrazione spirituale che guidò il processo compositivo. L’opera venne strutturata su una manipolazione di una cellula di quattro suoni: «Il fatto che tutta Noche oscura sia articolata su quest’unico materiale comincia ad essere una precognizione di quello che sarà il mio interesse e il mio avvicinamento alla tecnica dei dodici suoni» (Goffredo Petrassi: una biografia…, 1986, in Scritti e interviste, 2008, p. 326).
L’allargamento del proprio linguaggio attraverso l’assunzione di procedimenti dodecafonici o seriali caratterizzò la ricerca degli anni Cinquanta, periodo nel quale Petrassi fu attivo nel consesso della Società internazionale di musica contemporanea e stabilmente presente sulla scena della musica europea. Abbandonato con i due atti unici il teatro, e dopo un ritorno con Noche oscura a un grande lavoro sinfonico-corale, la musica strumentale divenne ora l’interesse prevalente. Nell’arco di pochi anni Petrassi compose cinque Concerti per orchestra, dal secondo al sesto, inframezzati da un’opera di polifonia vocale dal carattere ironico: i Nonsense per coro a cappella (1952), su testi di Edward Lear nella traduzione di Carlo Izzo.
Mentre il Secondo Concerto (1951) non presentò caratteristiche molto innovative, la Récréation concertante, che reca come sottotitolo Terzo Concerto per orchestra (1952-53), indicò chiaramente la mutazione stilistica avvenuta grazie all’adozione della dodecafonia. L’opera, scritta su commissione dell’orchestra del Südwestfunk, venne diretta in prima esecuzione nel 1953 da Hans Rosbaud. In essa, come indicò il compositore, «le tracce tematiche tendevano a scongelarsi per assumere connotazioni più elastiche in cui l’intervallo aveva funzione predominante», ponendo l’opera sulla strada che condusse negli anni successivi a un atematismo astrattista (Dalla pittura di Burri nacque la nuova musica, 1977, in Scritti e interviste, 2008, p. 252). Quest’uso fu attuato «con una specie di libertinaggio, secondo i miei piaceri, e non secondo le imposizioni della regola» (Seminario di composizione, 1976, in Scritti e interviste, 2008, p. 140). Tale trattamento non sistematico della dodecafonia mise in evidenza il peculiare metodo creativo di Petrassi, che si sviluppò per allargamenti e sintesi progressive evitando in maniera costante le brusche virate.
Il desiderio di mantenere una propria poetica immune da dogmatismi lo vide osservatore attento, ma anche critico, nei confronti del diffondersi della dodecafonia in Italia e Europa e dei fermenti dell’avanguardia promanante dai Ferienkursedi Darmstadt. Affermò a questo proposito: «Quando ci fu il Congresso dodecafonico di Milano, organizzato da Malipiero e Dallapiccola, io ci andai come un parente povero […] perché loro erano i depositari di una nuova verità e io non la possedevo ancora, […] ero un povero reietto. […] Quindi c’è stata Darmstadt, dove nei primi tempi fui invitato da Steinecke, da Maderna, da Nono a tenere delle lezioni, ma non accettai perché, l’ho già detto altre volte, rifiutai di fare Daniele nella fossa dei leoni. Era bene che i leoni si sbranassero tra di loro» (Goffredo Petrassi: una biografia…, 1986, in Scritti e interviste, 2008, pp. 326 s., 335).
Il Quarto Concerto per orchestra d’archi (1954) rivelò influenze provenienti dalla Musica per archi, percussione e celesta di Béla Bartók, intrecciate con elaborazioni dodecafoniche del materiale. Alla pienezza della compagine orchestrale tornò invece il Quinto Concerto (1955), commissionato per il settantacinquesimo anniversario della Boston Symphony Orchestra e colà eseguito nel 1955 sotto la direzione di Charles Munch. L’opera, abbandonata la struttura formale senza soluzione di continuità dei due Concerti precedenti, fu concepita in due movimenti e parve ad alcuni osservatori una battuta d’arresto rispetto alla strada intrapresa con il Terzo Concerto. La causa di tale accoglienza fu da un lato la comparsa di un’autocitazione dal Coro di morti (una figura associata alle parole «lieta no, ma sicura»), dall’altro la generale forte espressività di questa nuova consistente partitura, per la quale si parlò di autobiografismo, categoria espressiva guardata con sospetto negli anni dello strutturalismo seriale.
Con la successiva Invenzione concertata (Sesto concerto) per archi, ottoni e percussione (1956-57), commissionata dalla BBC per il decimo anniversario del Terzo Programma ed eseguita nell’Albert Hall di Londra, Petrassi tornò alla forma in un unico movimento continuo. Il titolo mise in risalto, rispetto alla mobile e cangiante espressività del Quinto Concerto, l’attenzione per i puri procedimenti tecnici di tipo seriale messi in atto in quest’opera e per la dialettica sonora, sovente assai energica, e anche qui orientata verso l’espressione astratta, tra ottoni e archi.
Con l’Invenzione concertata la fase di appropriazione e rielaborazione personale delle tecniche e dei procedimenti dodecafonico-seriali si esaurì. Un gruppo di lavori da camera dei due anni immediatamente successivi aprì una nuova e conclusiva fase stilistica nell’iter di Petrassi. Dal Quartetto per archi (1958), dalla Serenata per flauto, viola, contrabbasso, clavicembalo e percussione (1958) e dal Trio per violino, viola e violoncello (1959) ebbe origine il rinnovamento poi trasferito negli organici più ampi del Concerto per flauto e orchestra (1960), del Settimo Concerto (1964), infine dell’Ottavo Concerto per orchestra (1970-72), ultimo del ciclo, scritto su commissione della Chicago Symphony Orchestra, che lo eseguì in sede, nel 1972, sotto la direzione di Carlo Maria Giulini. Per la RAI scrisse successivamente Poema per archi e trombe (1977-80), presentato in prima esecuzione alla Biennale di Venezia del 1981.
A proposito di questa nuova fase stilistica Petrassi osservò come essa consistesse «nell’abbandono dei temi o di possibilità tematiche che risultino riconoscibili […]. C’è poi un notevole sviluppo della pratica virtuosistica dei singoli strumenti […]. Il rivolgimento più profondo che si verifica in questi lavori è dato dalla ricerca di un’idea di consequenzialità diversa da quella tradizionale: non c’è più un’idea che si deve sviluppare ed i cui passaggi debbono sempre conservare un punto di riferimento in quell’idea; il modo di procedere è dato invece da un susseguirsi di idee che nella loro diversità devono alla fine avere una parentela» (Goffredo Petrassi: una biografia..., 1986, in Scritti e interviste, 2008, p. 337).
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta era giunto a piena realizzazione quell’atematismo astratto che accordava importanza fondamentale all’intervallo inteso come basilare unità strutturale e simbolica di una composizione. Proprio quest’ultima caratteristica permette di cogliere – al di là dell’evoluzione, delle differenze e del rinnovamento dello stile – un elemento di continuità nel lungo cammino del compositore.
Nel 1962 Petrassi sposò la pittrice Rosetta Acerbi, e l’anno seguente nacque la figlia Alessandra.
Costante e continuo fu anche l’interesse di Petrassi per la musica sacra, espressione del suo cattolicesimo praticante. Dopo Noche oscura, la coralità tornò alla severa polifonia vocale donde era partita la sua esperienza di fanciullo cantore, con i Mottetti per la Passione per coro misto a cappella (1965), le Orationes Christi per coro misto, ottoni, viole e violoncelli (1974-75), suo ultimo lavoro sinfonico-corale, i Tre cori sacri per coro a cappella (1983), il Kyrie per coro e archi (1986). L’umanesimo religioso del compositore e la sua fede priva di schematiche chiusure confessionali si delinearono ulteriormente attraverso due opere: i Propos d’Alain per baritono e dodici esecutori (1960) e le Beatitudines: testimonianza per Martin Luther King per basso o baritono e cinque strumenti (1968). Nei Propos, su testo del filosofo e scrittore cattolico Émile-Auguste Chartier detto Alain, Petrassi intese dare la propria risposta alla questione allora assai dibattuta dell’impegno civile e politico dell’artista che, a suo giudizio, non può limitarsi a una scelta ideologica o partitica, bensì deve radicarsi nella responsabilità morale dell’individuo, legata all’esercizio del proprio lavoro creativo. Nelle Beatitudines l’assassinio di Martin Luther King lo spinse a tornare sul tema a lui caro della giustizia (si pensi al Salmo IX), mettendo in musica il Discorso della montagna riportato nel Vangelo secondo Matteo.
Per quarant’anni l’attività del compositore fu intrecciata, in vivace dialettica, con quella del docente di composizione. Lasciato l’impiego come commesso nel 1934, Petrassi insegnò dapprima due anni armonia, contrappunto e composizione corale all’Accademia di Santa Cecilia, quindi nel 1939, per meriti speciali, fu nominato insegnante di composizione nel Conservatorio di Santa Cecilia, incarico che tenne fino al 1960, quando successe a Ildebrando Pizzetti nella cattedra di perfezionamento in composizione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, docenza che ricoprì fino al 1978.
Sulla propria didattica, antidogmatica ed empirica, Petrassi ebbe a dire: «L’insegnamento per me consisteva non soltanto nell’insegnare la tecnica, ma nell’insegnare anche il modo di comportarsi civilmente in relazione alla musica e alla società. […] Mi interessava molto seguire lo sviluppo della personalità di un giovane che desiderava diventare un compositore con le idee che lui proponeva e che io combattevo. Da questo confronto nasceva una dialettica […]. Non ho mai scritto niente sull’insegnamento, perché ritengo che scrivere sull’insegnamento della composizione sia una cosa abbastanza astratta» (ibid., pp. 338 s.). Della generazione più anziana furono suoi allievi, tra gli altri, compositori poi affermati quali, per esempio, Cornelius Cardew, Aldo Clementi, Peter Maxwell Davies, Domenico Guaccero, Ennio Morricone.
Petrassi ricoprì numerosi incarichi, e gli furono conferiti vari riconoscimenti: accademico di Santa Cecilia (1936); sovrintendente del teatro La Fenice di Venezia (1937-39); direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana (1947); presidente prima della sezione italiana della Società internazionale di musica contemporanea, e poi della Società medesima (1953; 1954-56); socio della Akademie der Künste di Berlino Est (1975); laureato honoris causa dell’Università di Bologna (1976); Premio internazionale Antonio Feltrinelli per la musica dell’Accademia dei Lincei (1978); membro onorario della American Academy of arts and sciences di Boston (1978); membro onorario dell’Accademia di musica Liszt di Budapest (1979); accademico della Real Academia de bellas artes de San Fernando di Madrid (1980); Prix Prince Pierre de Monaco (1985); laureato honoris causa dell’Università di Roma La Sapienza (1990).
Morì a Roma nella sua casa di famiglia, in via Ferdinando di Savoia, il 3 marzo 2003, all’età di 98 anni. I funerali furono celebrati in S. Maria in Montesanto, la ‘chiesa degli artisti’ di Roma.
Fonti e Bibl.: I manoscritti di Goffredo Petrassi sono conservati nella Fondazione Paul Sacher di Basilea (cfr. G. P.: Musikmanuskripte, a cura di U. Mosch, Winterthur 1997) e nell’Istituto di studi musicali G. Petrassi di Latina, fondato nel 1993 da Raffaele Pozzi e presieduto dal compositore. La biblioteca personale del Maestro è conservata a Roma, nella Bibliomediateca dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Per la bibliografia su Goffredo Petrassi si rimanda alla Bibliografia e catalogo delle opere di G. P., a cura di C. Annibaldi - M. Monna, Milano 1980. Dal 1980 in avanti: L. Lombardi, Conversazioni con P., Milano 1980; Di G. P. Una antologia: 1983, Roma 1983; F. d’Amico, G. P., in Komponisten des 20. Jahrhunderts in der Paul Sacher Stiftung, a cura di H.J. Jans, Basel 1986, pp. 237-244; P., a cura di E. Restagno, Torino 1986; G. Petrassi, Autoritratto, intervista elaborata da C. Vasio, Roma-Bari 1991; R. Pozzi, Su “Frammento” di G. P., in Musica senza aggettivi, a cura di A. Ziino, Firenze 1991, pp. 735-745; Komponisten der Gegenwart, a cura di H.-W. Heister - W.-W. Sparrer, München 1992 (aggiornamento 2014), VII, ad vocem; R. Pozzi, P. ‘en blanc et noir’. Note sull’opera per pianoforte, in G. P. Integrale delle opere per pianoforte, CD Fonè 2049, 2001; The new Grove dictionary of music and musicians, XIX, London-New York 2001 pp. 499-503; M. Billi, G. P.: la produzione sinfonico-corale, Palermo 2002 (in appendice una conversazione inedita con l’autore); R. Pozzi, La parole comme centre et présence. Notes sur la musique vocale de G. P., in Musiques vocales en Italie depuis 1945, a cura di G. Borio - P. Michel, Strasbourg 2004, pp. 115-128; Id., Leopardi e l’ansia di rinnovamento: il “Coro di morti” (1940-41) di G. P., in Storia della lingua italiana e Storia della musica, a cura di E. Tonani, Firenze 2005, pp. 131-141; Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, XIII, 2005, coll. 403-409; P. L’arte, il tempo, le idee. Atti del convegno… Roma, 2004, in Nuova Rivista musicale italiana, XXXIX (2005), pp. 441-576; XL (2006), pp. 141-255; G. Petrassi, Scritti e interviste, a cura di R. Pozzi, Milano 2008 (in partic. Le mie avventure con la danza (1946), pp. 86-88; Seminario di composizione (1976), pp. 130-149; Dalla pittura di Burri nacque la nuova musica, intervista di M. Mila (1977), pp. 252-258; G.P.: una biografia raccontata dall’autore, intervista di E. Restagno (1986), pp. 298-349; La mia musica, intervista di R. Pozzi (1987), pp. 350-362); D. Margoni Tortora, Danza, pittura, musica. Intorno ai sodalizi degli anni Quaranta: Dallapiccola, Milloss, P., Roma 2009, ad ind.; F. d’Amico, Forma divina. Scritti sull’opera lirica e il balletto, a cura di N. Badolato - L. Bianconi, Firenze 2012, pp 435-439; R. Pozzi, I tormenti del Getsemani. Le “Orationes Christi” e l’umanesimo religioso di G. P., in Atti del Congresso internazionale di Musica sacra in occasione del centenario di fondazione del PIMS, a cura di A. Addamiano - F. Luisi, Città del Vaticano 2013, pp. 1131-1151.