COPPOLA, Goffredo
Nato a Guardia Sanframondi (prov. di Benevento), il 21 sett. 1898, da Pietro e Maria Ricca, frequentò la facoltà di lettere dell'università di Napoli, e qui fu attratto allo studio delle lettere greche dall'insegnamento dei "vitelliano" Alessandro Olivieri, il quale suggerì al discepolo l'amore pel teatro comico e l'interesse per la papirologia.
Il C. aveva, peraltro, alle spalle, quando intraprese il proprio tirocinio di filologo classico, un'esperienza onorevole di combattente (pluridecorato nella grande guerra) - e quest'esperienza è assai probabile, anche per il vincolo propagandistico strettissimo fra combattentismo e fascismo, governasse le posteriori sue scelte politiche. Vincitore, nel 1921, del premio Cantoni amministrato dagli Orvieto (amici del Vitelli) e bandito dell'Istituto di studi superiori, a Firenze subito si trasferì ed iniziò quella "collaborazione, durata nove anni, dal '21 al '29, nella Scuola papirologica fiorentina" (Cirene, p. 16): che lo fece non solo diligentissimo, e alquanto agiografico, allievo del Vitelli, ma l'interessato artefice dei "mito" Vitelli, sin da quando, con altri condiscepoli e amici, fu l'editore (e il recensore sul Marzocco) del volumetto di versi greci e latini del maestro, mettendone in luce il recente fascismo e l'ammirazione per Mussolini.
In questi anni il C., tuttavia, lavorò sodo e seriamente, studiando e commentando testi, prevalentemente papirologici, di poesia comica classica e di poesia efienistica, non senza escursioni, però, in campo "cristiano" con gli scritti su s. Basilio (cui si raccordano i successivi Documenti del Cristianesimo primitivo, Bologna 1935, utile silloge documentaria, ad integrazione e a rincalzo d'un corso universitario coevo sulle lettere di s. Paolo, dov'è, peraltro, carente l'illustrazione storico-religiosa dei testi raccolti e dove manca ogni differenziazione critica fra ciò che è genericarriente proprio dei culti fflisterici e sirii e ciò che è peculiarmente cristiano). L'approfondimento ed inquadramento storico, né la cosa del resto stupisce in un modesto e osservante "vitelliano", gli fecero sempre sostanzialmente difetto. Come si vede anche nel lavoro forse migliore del C.: l'edizione commentata delle commedie di Menandro (Torino 1927), dopo il conferimento d'una borsa di perfezioriamento all'estero (1924) e il soggiorno a Kiel.
Il C. poco o punto si preoccupa di assodare sia la posizione storico-ideologica di Menandro, sia l'effettiva, e quasi direbbesi intenzionale, non poesia del commediografo, e, se mai, si preoccupa di studiare con metodica tradizionale, ma in ultima analisi con poco utili risultati, il rapporto fra Menandro e i comici latini che l'imitarono o raggiustarono, Terenzio in ispecie. Strumento di studio e di lettura non spregevole, il libro fu però inevitabilmente condannato a breve fortuna dalle successive scoperte papirologiche, le quali non solo restituirono di Menandro assai più che il C. non potesse raccogliere e commentare, ma permisero anche, in una diversa temperie culturale, quel giudizio sulla "non poesia" dell'ateniese al quale il C. riluttava.
L'edizione di Menandro fondò, comunque, la fortuna accademica del Coppola. Libero docente di letteratura greca nel '29, questa disciplina professò prima da incaricato (1929-1931), poi, vinto regolare concorso, da straordinario all'università di Cagliari (anno accad. 1931-1932). Il maggior frutto del soggiorno in Sardegna, ed è lavoro tanto più notevole in quanto, svolto in un campo al C. non propriamente familiare, fu la memoria su La grotta della Vipera e l'edizione delle iscrizioni latine e greche ivi incise (nei Rend. d. Acc. naz. d. Lincei, 1932), che non sfuggì al benevolo giudizio di G. De Sanctis (Scritti minori, VI, 2, Roma 1970, pp. 841 ss.).
Nel frattempo, il trasferimento di A. Vogliano dalla cattedra di Bologna alla cattedra di Milano rese vacante l'insegnamento della letteratura greca nella facoltà bolognese e, con decorrenza dal 1° nov. 1932, vi fu chiamato il Coppola. Da Bologna il C. non si mosse più: e la sede, se non la cattedra, decise della sua vita. Da questi anni data, infatti, la militanza squadristica (e il correlativo pubblicismo fascista) del C., il quale, non alieno (anche per certo suo "bello scrivere") dal collaborare a quotidiani e periodici non tecnici (in ispecie la Nuova Antologia, in cui recensì le scoperte papirologiche dei Vitelli, nel 1931 e nel 1932, e ne pianse la morte nel fascicolo del 16 sett. 1935, pp. 312-316; nonché le riviste dell'Ojetti, Pegaso e Pan), forte dell'amicizia di taluni "gerarchi", ad es. il "bolognese" L. Federzoni, cui è dedicata la Cimossacarducciana (Bologna 1935), e approdato, infine, alla terza pagina del Popolo d'Italia, non solamente venne affiancando alla ricerca "scientifica" una volgarizzazione "di regime", sì anche, e peggio, inquinò di fascismo e razzismo la sua ricerca "scientifica".
Vi contribuirono anche le occasionalità del centenario carducciano (donde la cit. Cimossa, cui P. Treves dedicò una severa recensione sulla Nuova Italia, VII [1936], pp. 229 s.) e dei bimillenario augusteo (cfr. L'erede di Cesare, Bologna 1937). Lo stesso volume callimacheo (Cirene e il nuovo Callimaco, Bologna 1936, benché uscito con la data del 1935), se è discutibile ma serio nella ricostruzione degli Aitia e della loro cronologia compositiva, né difetta d!una certa sensibilità letteraria nei giudizi sulla Chioma di Berenice e l'interpretazione-traduzione che ne diedero Catullo e Foscolo, pecca di descrizionismo turistico (il C. era stato ospite delle organizzazioni fasciste in Cirenaica l'autunno dei '34) e di nazionalismo colonialistico (donde l'elogio di Graziani; cfr. pp. 51 ss., 57, 60 s., 71, ecc.), ed è probabile pecchi altresì d'un eccesso di "vitellismo", vuoi nelle critiche al Rostagni vuoi nella errata interpretazione storica dei papiro, di Gurob (vedi ibid., pp. 174 e 202 nota 1).
Poteva forse riuscire migliore il lavoro su Aristofane, il cui secondo volume, che il C. prometteva di pubblicare nel 1937 (destinato in nove capitoli all'analisi delle commedie), non sembra venisse mai a luce, mentre il primo volume (Il teatro di Aristofane, Bologna 1936) è, per confessione medesima del C., un tentativo d'interpretare l'opera e le figure dei predecessori di Aristofane, soprattutto Eùpoli e Cratino, e di ricostruire alcuni elementi esternamente, o tecnicamente, costitutivi della commedia antica, il coro, la parodos, la parabasi, ecc.
Ed è significativo, ma triste, segno dei tempi che nella premessa (p. X) il C. definisse "lavoro definitivo e conclusivo" un'ormai vecchia memoria (1905) di Ettore Romagnoli, già stroncata metodicamente dal Croce dei Problemi d'estetica (Bari 1910, pp. 94 ss.), perché lavorata sull'erronea indistinzione di Kulturgeschichte e di Kunstgeschichte. Ma rientrava nel gioco accademico-politico dei C. inchinarsi al fascista Romagnoli e ignorare (in più sensi) l'antifascista Croce, la cui tesi aveva ripresa il Rostagni, già combattuto dal C. per le sue interpretazioni e datazioni callimachee.
Non istupisce, perciò, che il C. non si peritasse di datar la "poscritta" al Callimaco (la quale pur termina con l'elogio funebre del Vitelli) al "77° giorno dell'assedio economico", durante il quale sfogò sul Popolo d'Italia i propri livori antisanzionistici ed antibritannici con una sguaiata e insensata articolessa contro "il filologo ginevrino", cioè Gilbert Murray, e con altre amenità o sconcezze del genere. Pervenne così alla sostanziale rinunzia ad ogni ulteriore attività "scientifica", tutto preso dal fascismo, dall'antisemitismo e dalla guerra. Benché alle soglie di quest'ultima dettasse per Il Popolo d'Italia (19 ag. 1939) un decoroso articolo sui nuovi frammenti fiorentinì delle cosidde tte Elleniche di Ossirinco (cfr. M. Gigante, in Gnomon, XXXVII [1965], p. 246 n. 3), il privilegiamento fascista della "romanità" è assai probabile gli suggerisse, vacando per la chiamata a Roma del Funaioli la cattedra bolognese di letteratura latina, il proposito di trasferirvisi, a partire dall'anno accademico 1940-41, cioè dopo il ritorno dalla breve campagna antifrancese del giugno 1940. L'unico lavoro notevole del C. "latino" è la memoria su Ilteatro tragicoin Roma repubblicana (Bologna 1940), un cui avant-goût silegge nel volume miscellaneo Italia e Grecia (Firenze 1939, pp. 91 ss.).
Qui è sovente acuta e felice anche per le indubbie sue doti di traduttore, l'analisi stilistica del vortitbarbare dei maggiori tragediografi latini (Ennio, Pacuvio ed Accio), mentre è dubbio che nella tragedia romana le parti musicate o cantate prevalessero sul declamato e la poesia, donde l'audace accostamento di essa tragedia al melodramma seisettecentesco italiano.
Se la monografia su Augusto (Torino 1941: trasparente allegoria del ducismo fascista) è destituita d'ogni valore, se non di pensum o di servitium "politico", manifesto già nella dedica ai "compagni di guerra sulla fronte occidentale", ondeggia fra il romanzo, la traduzione e le belleslettres alla Panzini la biografia di Epicuro (Milano 1942), mentre ha solo il merito d'un pulito dettato italiano la postuma versione (Milano 1947) dei Caratteri di Teofrasto. Il C. si era ormai troppo impelagato e compromesso col fascismo non che per uscime, ma per conservare la propria dignità di studioso. Fece., infatti, carriera "politica" a Bologna, che lo ebbe prorettore dal 24 genn. 1943 al 24 genn. 1944, quando il governo di Salò lo promosse rettore. Del suo impegno "repubblichino", condiviso dal collega archeologo P. Ducati, sono documento la caccia ai partigiani, studenti e non, rifugiati nei sotterranei del palazzo centrale universitario e il suo proposito di sostenere, oltre che di predicare, la resistenza ad oltranza ancor nell'aprile del 1945. Coinvolto con gli ultimi gerarchi (Bombacci, Barracù, Marcello Petacci, ecc.) in fuga nel Comasco, sia che si volesse tentare l'estrema difesa nel presunto, e alquanto fantomatico, ridotto di Valtellina, sia che si cercasse di riparare in Isvizzera, e comunque travolto con i compagni nella cattura di Mussolini e propria, ad opera dei partigiani di Walter Audisio, il C. fu passato per le armi a Dongo (prov. Como), il 28 apr. 1945. Non lasciava dietro di sé né un'opera né una scuola.
Bibl.: Annuario della Univ. di Bologna (1932-33), Bologna 1933, p. 19; Id. (1945-46), Bologna 1946, p. 7; M. Cagnetta, in Matrici culturali delfascismo, Bari 1977, pp. 158 s., 200; L. Canfora, Ideologia del classicismo, Torino 1980, p. 83.