Vedi GNATHIA dell'anno: 1960 - 1973 - 1994
GNATHIA (Γναϑία, Gnatia)
Antica città della Puglia, sulla costa adriatica, tra Bari e Brindisi, a 7 km da Fasano. Orazio (Sat., i, v, 96-100) la chiamò Gnatia; la Tabula Peutingeriana: Gnathia, e Γναϑινῶν si legge su un caduceo di bronzo del museo di Berlino, Γνάϑις e [Γ]νάϑιος su due iscrizioni rinvenute nel sito stesso della città (I. G., xiv, 685, 2401, 2402). Plinio (Nat. hist., iii, 11 e 107), Strabone (Geogr., vi, p 182, 3), Tolomeo (iii, 1) e Pomponio Mela scrissero, invece, Egnatia; mentre nello Itinerario Gerosolimitano si trova Leonatia. Le iscrizioni, con molta probabilità, ci hanno trasmesso il nome originario di Γναϑία, così come Orazio ci ha tramandato la forma parlata di Gnathia. Egnatia, quindi, sarebbe una forma corrotta, come corrotte sono le forme Agnazzo e Gnazzo ancora oggi usate dalla gente del luogo. Alcuni studiosi ritengono G. vocabolo di origine mediterranea, altri assertori della indoeuropeità della lingua messapica, ritenuta affine alla illirica, ricollegano il nome della città al tema γαν e al suffisso ϑο, dandogli così il significato di "bocca", o "imboccatura", del porto. G. sarebbe stata, dunque, la città del porto o come alcuni amarono dire il portus Pediae, il porto per eccellenza della Peucezia, prima naturalmente della valorizzazione di quello di Brindisi. Alle fortificazioni del porto gnathino, oggi purtroppo del tutto sommerso, dovette essere affidata la difesa della città dalla parte del mare. Il Lenormant poté ancora intravvedere nelle acque les divisions partiellement conservès des cales des galèrées.
Non abbiamo alcuna notizia scritta sulla storia di G.; né gli scnttori antichi sono concordi se assegnarla alla Peucezia o alla Messapia; fu sicuramente, comunque, una città di confine. Le tombe messe in luce contengono materiale vascolare tanto di tipo peucetico che messapico. Le stesse iscrizioni rinvenute nell'area della città nulla ci dicono sulla messapicità del territorio, poiché la lingua parlata nelle sue regioni contermini doveva essere presso a poco la stessa. Il Galateo, un umanista salentino del XVI sec., parla di una lingua messapica seu peucetica. La città era attraversata dalla via Traiana (originariamente adatta solo al transito di muli e di pedoni, l'ἡμιονική di Strabone) che, dipartendosi dal primo tratto della via Appia (v.), dopo Benevento, scendeva per Canosa ed Herdonia verso la costa adriatica. La cinta fortificata (ora in buona parte scomparsa) che difendeva l'abitato solo dalla parte di terra, per tre lati, aveva una pianta simile a quella di un castrum ed era munita di un fossato largo circa 20 metri. Essa era costituita da due cortine di tufo (volgarmente carparo) internamente terrapienate, costituite di grossi blocchi (misuranti, in media, m 1,40 × 0,70 × 0,45), forniti di anathỳrosis e disposti isodomicamente. Come osserva il Lugli (Tecnica edilizia romana, p. 176), a G. si trova tale sistema costruttivo, invece di quello d'influsso greco, consistente nelle due cortine separate e collegate per mezzo di segmenti trasversali. Si conserva ancora un tratto alto circa 7 m, con 16 file di blocchi, presso il mare, dove è tuttora visibile parte del fossato, oggi invaso dalle acque. Il Pepe, che nella seconda metà del secolo scorso vide ancora in situ molti tratti di mura in tutti e tre i lati, asserisce di avere notato l'esistenza di tre porte, una per lato, ed in quella a S credette anzi di riconoscere un sistema difensivo che presenterebbe dei rapporti con quello tipico delle acropoli di età micenea. Per la tecnica, le mura gnathine potrebbero risalire alla fine del IV o alla prima metà del III sec. a. C.; ma riesce difficile stabilire se esse fossero state innalzate dagli indigeni, in previsione di una possibile guerra con Roma, o se invece fossero state costruite dagli stessi Romani per rendere più saldo e sicuro il loro dominio su quella popolazione che in precedenza aveva impegnato anche gli stessi Greci di Taranto. Le mura racchiudono nel loro perimetro molte tombe di età anteriore, scavate nella roccia; non mancavano quelle ad ipogeo con affreschi ora quasi tutti perduti. Da una di queste tombe, che può rimontare alla fine del IV o al principio del III sec. a. C., sono state staccate le parti più interessanti di quattro affreschi (oggi al museo di Napoli): in uno è raffigurato un efebo vestito di una tunica rossa e di un mantello giallo che regge per la briglia un cavallo scalpitante; un altro rappresenta una testa di Medusa vivamente dipinta su uno scudo rotondo, un terzo mostra un gladio con fodero sospeso ad una benda, un quarto, infine, un grande disco solare affiancato da due Vittorie stanti su due sfere. Queste figure, insieme alle rappresentazioni di frutta rese con fresco realismo e vivace policromia sono interessanti, e mostrano elementi e soluzioni locali accanto ad un linguaggio di chiara ispirazione greca. Delle diverse celle ad ipogeo viste dal Mommsen, ed in seguito sotterrate, distrutte o trasformate in cisterne, di una si conserva la pianta, formata da una cella quadrata preceduta da un vestibolo rettangolare, scavata quasi completamente nella roccia tufacea e fornita di scala di accesso; essa presentava internamente alcune iscrizioni incise e dipinte di rosso; un'altra è visibile ancora oggi: si tratta di una cella a un solo vano con le pareti interne decorate con festoni. Un altro notevole complesso è oggi in buona parte sommerso dal mare.
Gli scavi, eseguiti dalla Soprintendenza alle Antichità della Puglia, hanno messo in luce nel 1914, nel 1939 e nel 1955, parte della città romana per circa 1000 m2, attraversata da O ad E, da una strada (a grossi blocchi di selce, segnati da solchi profondi) fiancheggiata da tabernae, e da una serie di vani di epoche diverse che immette nel cuore della città attraverso un grande arco onorario di cui restano le tracce di fondazione. È stato rimesso in luce un buon tratto del Foro, pavimentato a grosse lastre di pietra tufacea, e con porticato di tipo ellenistico di cui rimangono molti pezzi di trabeazione; si sono trovate basi onorarie e parte di una tribuna oratoria (suggestum). Una basilica pagana a tre navate è stata riadattata a basilica cristiana: i suoi capitelli corinzi, segnati con croci cristiane, e due pavimenti a mosaico, sovrapposti, di età e di fattura diversa (ancora in situ fino ad alcuni anni fa), ce ne danno prova sicura. Vari ambienti adiacenti dovettero esser adattati a sede vescovile.
È noto che G. fu sede vescovile, trasferitasi in seguito nella vicina Monopoli. Al concilio di Roma, tenuto dal pontefice Simmaco I agli inizî del 500, partecipò un vescovo gnathino.
Tutto quanto fino ad oggi è stato messo in luce nell'area della città gnathina rimonta, in ogni modo, ad epoca romana e medievale. Molte tombe, per lo più del IV e III sec. a. C., stavano sotto le tabernae e sotto alcuni vani adibiti a cubicula; ma ancora al di sotto delle mura romane e delle tombe stesse, si è trovato (come fu ben notato per la prima volta negli scavi del 1939) uno spesso strato di terra nera contenente frammenti di vasi ad impasto nerastro non bene depurato, e altri di tipo peucetico o messapico a decorazione geometrica. Non è improbabile che questo strato conservi le tracce dell'abitato indigeno anteriore a quello romano. Tra G. e la vicina Taranto non dovettero certo mancare contatti di carattere commerciale con scambi di manufatti; ma nonostante ciò, G. mantenne sempre nella sua produzione artigianale e artistica alcune caratteristiche proprie. Una discreta quantità di terrecotte rappresentanti figure femminili, amorini cavalcanti su cani, porcellini usati come tintinnabula, ecc., facenti per lo più parte di complessi tombali, dovettero essere fabbricate sul posto, in quanto, nella zona stessa degli scavi, sono state rinvenute alcune matrici fittili, viste e sommariamente descritte da F. Lenormant, che portavano qualche volta incise sull'argilla ancora cruda, alcune lettere messapiche.
Ceramica. - Durante gli scavi condotti a G. nella metà del secolo scorso (1848) si rinvenne un gran numero di vasi, la maggior parte dei quali presentava caratteri omogenei: così, dal luogo di ritrovamento, fu dato a tale gruppo il nome di "ceramica di Gnathia". Tale tipo dipende dalla ceramica italiota della quale nel IV sec. a. C. (seconda metà) conserva ancora le forme più comuni, ma presenta la superficie interamente ricoperta da una vernice nera lucente; su questa talvolta vengono sovraddipinte piccole composizioni: si tratta di scene figurate per lo più desunte dal repertorio dionisiaco, con corteggi di menadi, satiri, pantere (v. àpuli, vasi). In seguito, quasi ad interrompere la monotonia della superficie nera, vengono praticate longitudinalmente delle baccellature, a chiara imitazione del vasellame metallico. Le scene figurate scompaiono quasi completamente, sostituite da una decorazione a motivi geometrici o ghirlande (fitoformi), resi con un colore bianco-giallognolo. Gradatamente alle volute, meandri, palmette, foglie di alloro, viene aggiunto anche il ramo di edera, motivo che ricorre frequentemente nella ceramica ellenistica. Spesso questa decorazione appare sovraddipinta su una fascia orizzontale, liscia, che interrompe le baccellature. Con tale aspetto, la ceramica di G. continua per quasi tutto il III secolo.
Negli ultimi prodotti ceramici, ormai standardizzati, di carattere prettamente artigianale, compaiono i piccoli skỳphoi ed i craterischi dalle piccole anse orizzontali contorte, i bombỳlioi ed i kàntharoi, le coppette ed i piattelli forniti di piccoli piedi. Nella loro decorazione, sempre in bianco lumeggiato di giallo, predominano motivi di fattura dozzinale irrigiditi in formule comuni: sono viticci e grappoli d'uva, spesso trattenuti da bende; qualche volta, nei vasi di una certa grandezza, appaiono maschere teatrali, strumenti musicali, colombelle o qualche testa femminile. In un primo tempo si credette che questi vasi fossero un prodotto locale ed esclusivo della città di G., e si ritenne che rappresentassero la fase finale della pittura vascolare del III secolo. Invece, in seguito a varî ritrovamenti di questo caratteristico tipo ceramico in molti luoghi dell'Italia meridionale e della Sicilia (e più lontano, vasi di G. si rinvennero anche in tombe di Lissa in Illiria - D. Rendic-Miocevic, in Viesnik za arheologiju, liii, 1950-1 [1952] e ad Alessandria - H. Thompson, in Hesperia, iii, 1934, p. 315 ss.) appar chiaro che vi furono parecchi centri di produzione in Puglia, e anche in Lucania, Campania e Sicilia, sebbene con alcune caratteristiche proprie che distinguono tali vasi dal gruppo di Gnathia, e che la produzione di tali ceramiche risale come inizio alla metà circa del IV secolo. Il Della Seta (Italia antica, p. 181) pensa che una fabbrica di vasi gnathini dovette essere a Rugge, presso Lecce. E stato notato (Bianchi Bandinelli) che artisticamente alcune di queste ceramiche costituiscono un precedente al cosiddetto III Stile pompeiano e potrebbero indicare una relazione fra l'Apulia e Alessandria risalente al III sec. a. C.
Il territorio dell'antica G. appartiene alla casa dell'ordine religioso-militare degli Ospedalieri Gerosolim.itani, elevata nel XV sec. al grado di baliàggio. Lungo la strada che unisce G. al piccolo villaggio di Savelletri, esiste una edicola innalzata alcuni secoli fa, con i blocchi tolti alle vicine mura di difesa (uno mostra ancora, per quanto corrose, alcune lettere messapiche) ed erroneamente attribuita all'arte ellenistico-romana. È coronata di timpano e presenta sulla fronte un riquadro che dovette accogliervi una lapide posta da uno studioso gerosolimitano, per ricordare al viandante il sito dove anticamente sorgeva una città, distrutta poi nel IX-X sec. dalla barbarie saracena.
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