Gli ultimi quarant’anni
Chi studia Venezia nella seconda metà del Novecento si trova davanti a un problema inedito: quello della sua definizione e descrizione. Infatti, di solito, per raccontare una città nella sua totalità ci si può appoggiare a un immaginario e a un lessico più o meno condivisi. Qui no, perché dopo le grandi trasformazioni degli anni Cinquanta e Sessanta la sua estensione e quella del territorio comunale sono state oggetto di disputa, e non solo per i quattro referendum separatisti finora tenuti, ma anche, per esempio, perché lo stesso «problema di Venezia» appariva, ai primi degli anni Settanta, come lo scontro tra due visioni di città, una inclusiva e una esclusiva(1). Le parole chiave che abbiamo a disposizione per nominare i luoghi e distinguere le parti non sono neutre, portano con sé il segno delle diverse idee di comunità, politiche urbane e autonomia amministrativa; e talvolta assumono significati diversi, definendo aree più o meno ampie. Per rendersi conto di come in questi anni si siano sovrapposte e susseguite una molteplicità di letture, basta scorrere alcuni tra i testi più rilevanti che contengono interpretazioni del territorio e della società veneziana.
I numeri dell’Annuario dell’Ufficio statistica, pubblicati tra il 1956 e il 1962, presentando i dati demografici del comune, lo concepiscono come un insieme di quattordici «località» separate, delle quali solo i sestieri e la Giudecca compongono «Venezia-città»(2). Non c’è ancora un tentativo di allargare a tutto il comune il modello centro-periferia, la cui applicazione rimane ristretta alla città, che viene a sua volta suddivisa in «Venezia-centro» e «Giudecca». «Venezia-città» viene vista come se fosse situata, si direbbe, in un territorio comunale di borghi. I numeri stampati dopo il 1964 presentano un’unica variazione: le località al di fuori di essa vengono suddivise in due aggregati: «Estuario» e «Terraferma»(3). L’Ufficio mantiene lo schema sino alla fine degli anni Settanta(4).
La tripartizione era già stata adottata da Renato Desideri in uno studio del 1956, apparso sempre nell’Annuario: solo che invece di «Venezia-città» aveva preferito usare la parola «Centro urbano»(5). È una differenza non da poco perché apre la possibilità di una concezione del comune come grande città unitaria. La sostituzione poi della parola «Centro urbano» con «Centro storico», che troviamo in alcuni interventi al convegno della Fondazione Giorgio Cini (1962) e nel Rapporto su Venezia dell’Unesco (1969), ribadisce la stessa impostazione, aggiungendo qualcosa di nuovo, perché il riferimento implicito qui è al dibattito sulla salvaguardia, la valorizzazione e il risanamento dei nuclei urbani antichi(6). Non viene enfatizzata solo la centralità di un’area urbana rispetto alle altre, ma anche il particolare valore di testimonianza storica che le viene attribuito e che si vuole preservare.
La formalizzazione della «Terraferma» come entità a sé stante e rilevante, è utile a Desideri per raccontare lo sviluppo demografico di Venezia nel lungo periodo, spiegando l’ampliamento del comune (1883-1926) come aggregazione e non come espansione. Ma anche serve a contrapporre alla sovrappopolazione del «centro», le grandi possibilità di sviluppo insite nella sua «periferia» a ovest(7). In un saggio del 1958, usando indifferentemente l’espressione «Centro storico», «Venezia insulare», «Venezia», «Venezia centro e Giudecca», per definire quello che nel lavoro precedente aveva denominato «Centro urbano», giustifica la tripartizione con la «pluriforme natura e morfologia del territorio del nostro comune». Ognuna delle tre parti, sostiene Desideri, possiede «proprie caratteristiche topografiche, demografiche, economiche e sociali». I dati raccolti soltanto su base comunale avrebbero potuto «indurre a valutazioni errate» sui «problemi che conseguono alla fisionomia particolare anzi unica del nostro territorio»(8). Il rapporto tra le parti del comune diventa il problema fondamentale da evidenziare e da misurare nei suoi aspetti sociali ed economici. I cambiamenti di residenza infracomunali diventano «migrazioni» e gli spostamenti per lavoro, «pendolarismo». Su questa base, verrà messa in evidenza la ‘perdita’ di popolazione del centro a vantaggio della terraferma, presentata sempre più come impoverimento economico e sociale della Venezia originaria.
Proprio contrapponendosi a quanti leggono lo spopolamento del centro storico come «una minaccia alla sua economia», nel 1971 un saggio di Paolo Costa, Bruno Dolcetta e Gianni Toniolo uscito su «The Architectural Review» annuncia, sulla base di un’analisi funzionale, il consolidarsi di una «nuova scala della città»: Venezia insulare non è più «separata, autosufficiente» ma è il centro di una più ampia entità che coinvolge, oltre a Mestre e al restante territorio comunale, anche la cintura esterna. Appare dunque possibile, come per gli altri grandi comuni, leggere il nuovo assetto urbano sulla base del modello dei cerchi concentrici: il centro storico, le periferie e l’hinterland, dove la somma dei primi due corrisponde all’area comunale. Questo viene fatto pur accettando la tripartizione «Centro storico-Terraferma-Estuario», includendo però questa volta Murano e Burano nel «Centro storico»(9).
Sostanzialmente simile nell’approccio e nelle intenzioni è un saggio di Giorgio Bellavitis del 1972, il quale distingue la «struttura sociale» dalla «struttura urbana» della città: l’evoluzione della prima, in linea con quanto avvenuto altrove, ha creato un «sistema» più vasto; la «permanenza» della seconda è responsabile dell’«equivoco» di voler contrastare fenomeni spontanei e fisiologici, come spopolamento e pendolarismo. La distinzione tra le due strutture è utile per sottolineare la particolarità di Venezia: «la mancanza di reciprocità» tra di loro, dovuta al fatto «che il processo di sviluppo è troppo recente e inespresso in termini strutturali, anche per la particolare conformazione del territorio che impone tempi di concezione e realizzazione più lunghi che altrove». Ne consegue che per le politiche territoriali è più utile rifarsi all’analisi sociale piuttosto che a quella urbana(10).
Nel volume Una legge contro Venezia di Wladimiro Dorigo (1973), all’espressione «centro storico» viene preferita e contrapposta quella di «città antica». Secondo Dorigo, Venezia è ancora «una città completa anche se non è più una città autosufficiente». Non è una serie di «insule» monumentali come nel caso dei centri storici delle maggiori città. Al contrario di questi, contiene «pressoché tutti i monumenti del passato» e resta collocata in un ambiente lagunare «che ha in gran parte conservato la sua struttura millenaria»: isolata dai quartieri moderni e contenente ancora un notevole numero di funzioni. Il punto non sta solo nel «conservare l’immagine formale — e quindi l’esistente struttura che l’innerva» — ma nel preservare gli «organici rapporti fra le ripartizioni socioeconomiche della popolazione». In sostanza, Dorigo vuole mantenere un equilibrio sociale, che suppone esista ancora a Venezia, impedendo che essa venga ridotta a «quartiere residenziale e di rappresentanza di un più vasto agglomerato urbano», presupposto per lui di speculazioni e della sovversione della struttura urbanistica(11). L’argomentazione è tipica di certe preoccupazioni che si manifestano all’epoca: il tentativo di contrastare operazioni di mercato, all’interno dei centri storici, che abbiano come esito l’espulsione dei ceti popolari e delle attività produttive. È significativo che però qui, facendo riferimento al quadro locale, venga proposta anche una revisione della lettura del territorio comunale: la salvaguardia sociale viene, in fondo, giustificata sulla base di un concetto di comunità separata, anche se Dorigo non risparmierà critiche contro le «stupide animosità [dei veneziani] contro la città di terraferma» e sarà contro «la divisione del comune»(12).
Il documento di Bruno Visentini in appoggio al «sì» alla creazione dei Comuni separati di Venezia e Mestre al referendum del 1989 sostiene che dietro l’incorporamento di Mestre c’era sì un disegno, «ma sin dall’inizio, e con forte accentuazione nel dopoguerra, è avvenuto che alcune industrie localizzate in terraferma dipendevano da gruppi industriali con direzione in altri centri, anche fuori del Veneto», attirando popolazione dalla campagna circostante e dalla Venezia insulare e creando di fatto una grande città autonoma. Perciò il territorio comunale consiste non in una, ma in due città che non hanno nessun legame: «Mestre» e «Venezia». Il vincolo comunale le ostacola entrambe. «Mestre» è «una città industriale, commerciale e di attività economiche». Comprende tutta la terraferma (tranne S. Giuliano, Fusina e l’aeroporto) e «fa capo a Padova e Milano». «Venezia» è «una città residenziale, turistica, di servizi, di attività di studio e centri amministrativi». Comprende la «Venezia insulare», quello che altrove è detto il «Centro storico» più «l’estuario», con l’esclusione del Cavallino che, secondo Visentini, rappresenta un polo a sé che potrebbe legittimamente rivendicare la propria autonomia(13). Il documento del Movimento per l’autonomia amministrativa di Mestre e della terraferma presenta un quadro simile, parlando di una «città di terra» e una «città d’acqua». Interpreta però l’estensione del Comune di Venezia del 1926 come «una assurda colonizzazione» che ha impedito a Mestre di essere una città «rivolta al Veneto» e rivendica quella che, secondo gli estensori, è la sua lunga storia da insediamento paleoveneto — risalente a 3.000 anni fa — a «città» riconosciuta con decreto di Vittorio Emanuele III, nel 1923(14).
Le tesi costituenti del comitato «Una Città», contrarie alla separazione, affermano invece che «c’è una sola città, tra terra e acqua», per quanto complessa e con più poli; che «la laguna da sempre accomuna, unisce, integra, fonda una stessa cultura sulle due sponde»; che «è impensabile immaginare oggi un qualsiasi futuro possibile per Venezia, senza le aree che hanno fatto una parte consistente della sua storia contemporanea: il porto industriale e commerciale, l’aeroporto e le zone residenziali di terraferma che hanno accolto gli espulsi dalla città urbana»; che «nella terraferma è ormai maturata una identità di venezianità che sta con fatica ricucendo la lacerazione provocata dall’espulsione dal centro storico»; e, infine, che «una identità mestrina di estraneità a Venezia e alla venezianità farebbe torto e violenza a questo pezzo di storia comune»(15).
Dagli anni Ottanta a oggi, le statistiche comunali seguono ancora la tripartizione «Centro storico-Estuario-Terraferma», ma ora sulla base dei diciotto quartieri (nel 1997 diventeranno tredici e, nel 1999, dodici, dopo la separazione del Cavallino) che, in parte, ricalcano i vecchi borghi definiti dall’Annuario, tranne nel caso di Malamocco che viene accorpato al Lido(16). Solo che ora, invece che «Mestre», figurano tre quartieri e gli ex borghi vengono messi sullo stesso piano dei sestieri: così per esempio i dati di «Murano-S. Erasmo» o «Pellestrina-S. Pietro in Volta» non vengono più confrontati con «Venezia-città» o «Mestre» ma con «Cannaregio» o «Piave-1866». L’immagine è quella della continuità urbana, il comune come città compiuta.
Roberto D’Agostino al convegno dell’Istituto Gramsci sulla «nuova dimensione urbana» di Venezia-Mestre (1990), sostiene che «un’unica matrice urbana, sostanzialmente non difforme da quella di tutte le città storiche, che a un certo punto della loro esistenza hanno sfondato la cinta muraria che le conteneva, sembra aver generato due o più città». La conclusione è però diametralmente opposta alle ragioni del «sì», perché, secondo D’Agostino, poi assessore all’urbanistica nella giunta di Massimo Cacciari, queste città separate, proprio per via della loro comune matrice, vanno ricongiunte in un’unica «città bipolare» o «città di Venezia-Mestre» o «Grande Venezia»(17). Queste riflessioni sfociano nel progetto preliminare al nuovo piano regolatore generale (1996) che, di conseguenza, abbandona esplicitamente il termine «centro storico», per adottare quello di «città antica»(18).
Chiudiamo la rapida carrellata citando una prolusione di Paolo Costa all’Ateneo Veneto (1997) nella quale troviamo una distinzione tra urbs e civitas che è assai simile a quella di Bellavitis: Venezia come costruito compiuto (la città storica) e Venezia come insieme di funzioni. Qui però il quadro è quello della dimensione metropolitana e la città funzionale è «un insieme sfuocato» definito da quelle forme dello spostarsi e quei movimenti pendolari che fanno «sistema». Tant’è che, secondo Costa, «oggi, parlando di Venezia ci si può legittimamente riferire, alternativamente, alla sola città storica lagunare, alla città a cavallo della laguna compresa entro il confine amministrativo del comune attuale, al sistema urbano giornaliero, che oltre al comune capoluogo comprende almeno un’altra ventina di comuni che gli fanno da cintura, o, addirittura l’area metropolitana che, nella condivisione di funzioni centrali per l’intero Veneto, se non per tutto il Nordest, si estende fino a comprendere i capoluoghi di Padova e Treviso»(19). Si noti che nel testo, come sinonimi di «città storica», compaiono le espressioni «urbs storica», «Venezia-urbs», «Venezia storica» e «centro storico», mentre non viene adottato il termine «città antica». D’altronde viene qui riproposto il modello centro-hinterland, pur riconoscendo la peculiarità «di un ‘centro’ eccentrico, ubicato sul mare, separato dall’‘hinterland’ dalla cesura lagunare, operante all’interno di una ‘forma’ che si vuole sostanzialmente immutata e immutabile, e che condivide con Mestre e con Marghera alcune funzioni ‘centrali’»(20).
Fin qui alcune letture del territorio da parte di osservatori interni al dibattito cittadino. Gli studiosi esterni in genere assumono, come di norma, il territorio comunale come l’elemento che corrisponde alla «città di Venezia». Ma si trovano anche interpretazioni diverse. Per esempio, Nedim R. Vlora (1979), rifiutando l’approccio funzionale, preferisce parlare di Venezia e Mestre come di due città separate (21); mentre Marco Torres e Francesca Morellato (1995), sostengono che dal 1981 i due centri urbani di Mestre e Venezia, che prima risultavano far parte della conurbazione di «Mestre», sono entrati a far parte di quella di Padova(22). Più di recente (1999), Ada Becchi interpreta «Venezia» come il risultato della convivenza di quattro città: quella del turismo che «diffonde i propri effetti» sulla terraferma, quella della vecchia industria pesante formata da Marghera e le sue periferie operaie, quella dei sistemi delle piccole e medie imprese tipiche dell’area veneta e, infine, quella amministrativa(23).
In questo quadro così complesso e disorientante, dal quale risulta smarrito un senso condiviso della città, per nulla controverso è invece l’uso comune, quotidiano, della parola «Venezia» come toponimo legato all’orientamento nello spazio, nelle carte geografiche, nelle segnalazioni stradali e nelle mappe mentali degli abitanti. Corrisponde, in genere, ai sestieri o a questi più la Giudecca, in un contesto nel quale la parola «centro» viene scarsamente usata. Non esiste in commercio una pianta di città o una guida stradaria che comprenda l’intero territorio comunale. Nella carta idrografica e della navigazione della laguna veneta, vicino alla sagoma della forma urbis, simile a un pesce, non sta mai la parola «centro» né «centro storico», ma «Venezia». La segnalazione «Venezia» non compare all’altezza del confine comunale, ma all’imboccatura del ponte della Libertà. Nelle mappe dell’A.C.T.V. (Azienda del Consorzio Trasporti Veneziani), esposte negli imbarcaderi della Venezia insulare, la terraferma non è rappresentata, solo una freccia indica «Mestre» come località fuori campo; gli autobus per piazzale Roma recano, come distinzione, la scritta «Venezia». Chi va dal Lido a S. Zaccaria o da Marghera a Mestre non dice «vado in centro», ma rispettivamente «vado a Venezia», o «vado a Mestre»: la parola «centro» viene usata semmai da uno che da S. Elena va a S. Marco, da Ca’ Bianca va in Gran Viale o, che da via Miranese va in piazza Ferretto. «Vado a Venezia» lo può dire persino uno che dalla Giudecca va alle Zattere o che da Murano va a Fondamente Nuove, senza che la frase suoni strana. Emerge insomma una concezione dello spazio simile a quella ritratta nei numeri dell’Annuario pubblicati tra il 1956 e il 1962.
Non interessa qui chiudere il problema — scegliendo una concezione univoca di Venezia — ma aprirlo come utile punto di partenza per un discorso sugli ultimi quarant’anni. Perché la sua stessa esistenza è una particolarità forte di questo territorio. Infatti, di norma, nei grandi comuni, l’espansione residenziale ‘fuoriporta’, comporta l’estensione del toponimo del nucleo urbano centrale alle nuove aree residenziali che, nonostante le identità di quartiere e degli ex borghi, vengono prevalentemente percepite come facenti parte della stessa città del centro. Nel nostro caso questo non avviene. Il prossimo passo è cercare di spiegare perché.
Nel XIX secolo, mentre gli altri grandi comuni si espandono fuoriporta abbattendo le mura, Venezia ospita la maggior parte delle funzioni moderne all’interno del confine amministrativo che fino al 1883 corrisponde all’attuale «centro storico», trattenendo la popolazione dentro quella che possiamo considerare la sua cinta muraria: infatti lo specchio lagunare ha avuto la stessa funzione sacrale e difensiva delle mura. È all’interno di questo spazio che cominciano a prender corpo un centro (la ‘city’ di S. Marco) e una periferia (la Giudecca e le zone degli altri sestieri ai margini esterni) e non, come altrove, in un’area più vasta, sotto forma di contrapposizione tra la città dentro e quella fuori della cinta. Quando i confini comunali vengono allargati (1883-1926), il territorio amministrativo diventa sovradimensionato rispetto all’agglomerato urbano; la città, dentro le sue ‘mura’ acquee, galleggia ancora in una campagna di borghi. La popolazione di Venezia esplode oltre-laguna, per processo spontaneo, negli anni Cinquanta del secolo successivo, con circa settant’anni di ritardo rispetto all’espansione fuoriporta delle altre grandi città, in un momento in cui le tendenze urbane non possono più essere adeguatamente rappresentate dal modello centro-periferia che altrove aveva consentito l’integrazione tra le aree dentro e fuori le mura. A Venezia, il rapporto tra il centro e il suo contesto extra moenia passa a piè pari da una situazione che può essere ricondotta alla contrapposizione tra città murata e campagna, a una dimensione metropolitana, frammentata e multicentrica(24). Il passaggio alla nuova dimensione è rapido e brutale perché non viene ammorbidito né mediato da una fase intermedia. Questo spiega la difficoltà a leggere la nuova situazione e le grandi paure che genera; ci fa anche capire perché, nella città antica, l’epiteto più comune per definire Mestre più che «periferia» sia ancora «campagna».
Nei primi anni Sessanta, Mestre appare al giornalista del «Corriere della Sera» Alberto Cavallari in tutta la sua spaventosa novità, piena di incognite, con il suo dispiegarsi che sembra puro caos: «teoricamente dovremmo considerarla un quartiere della banlieue veneziana. In pratica, siamo […] in un metropolitano magma ancora caldo, che può diventare tutto e il contrario di tutto. […] Mentre la si percorre, s’ignora dove finisce e dove comincia, dato che s’allunga sotto i piedi. […] Gli ex-contadini in tuta hanno dilatato la vecchia città, dilatato i villaggi, e con le opposte dilatazioni prodotto lo scoppio e l’intrico di borghi e condominii, di periferie e di nuovi borghi che adesso costituiscono [scrive il dotto urbanista] ‘la megalopoli in nuce’»(25). Difficile perciò metterla in relazione con la città antica, e questo spiega perché processi tipici della nostra epoca, come lo spopolamento dei «centri storici» e la loro terziarizzazione e turisticizzazione, siano qui percepiti come aggressione e minaccia alla sopravvivenza stessa della città; e anche perché gli abitanti di Mestre abbiano vissuto la loro «tendopoli di cemento», forse persino con maggior spaesamento e disorientamento che altrove, perché non c’è stato un centro o una città immaginata che in qualche modo giustificasse quell’esperienza «moderna» e consentisse all’individuo di collocarsi nella geografia di una grande città condivisa con un proprio «universo simbolico» e una propria «immagine ambientale» di contesto(26).
È innanzitutto la morfologia del territorio a non permettere una espansione continua del costruito e la creazione di un unico agglomerato centro-nuovi quartieri. Venezia-comune consiste per il 58,5% di acqua e già nel 1951 circa la metà dei suoi abitanti sono residenti nelle «parti del territorio […] separate da quella comprendente la casa comunale»(27). Si presenta perciò come un arcipelago, i cui frammenti, presentano però caratteristiche profondamente diverse. Non sono equamente distanti dal centro: la Giudecca ne è separata da un canale di qualche centinaio di metri, Mestre dista circa 8 km, tanto quanto Sesto San Giovanni da quello di Milano. Ma, soprattutto, alcune sue parti, la terraferma e il Cavallino, sono situate nella pianura padana e, nel contesto del processo di urbanizzazione della campagna evidente a metà degli anni Settanta, entrano fisicamente a far parte di quel continuum edilizio, quella cosiddetta «città diffusa», che caratterizza in particolare il Veneto centro-orientale, dalla quale il resto del territorio comunale rimane separato dalla laguna(28). Questo iato viene rafforzato dal boom della motorizzazione privata degli anni Sessanta che avvantaggia le zone che fanno parte della rete viaria nazionale, mentre tende a emarginare le isole pedonali prive di accessi stradali (Murano, Burano, Torcello), le isole percorribili da mezzi su ruota ma prive di accessi stradali (Lido, Pellestrina, S. Erasmo), e il centro insulare pedonale con un unico accesso (Venezia). Non per nulla saranno la terraferma e il Cavallino a vedere il più ampio sviluppo della popolazione in questi anni. Sarà soprattutto a Mestre e dintorni, cioè tutto a ovest del centro, che avranno luogo quei fenomeni tipici delle «periferie» dei grandi comuni. A Mestre: la quale nel 1951, da sola e nell’accezione più ristretta, tra i capoluoghi di provincia, è già la frazione più grande d’Italia(29).
Questo quadro in sé, però, non determina se lo spazio acqueo attorno a un gruppo di isole demarca ciò che è «Venezia» da ciò che non lo è; se includere la Giudecca ed escludere Murano, Marghera e Mestre da tale concezione. A decidere se l’acqua è un elemento di separazione o di unione sono semmai le relazioni sociali che intercorrono tra le parti e l’uso che viene fatto del territorio. Da questo punto di vista, si può sostenere che la creazione di una seconda sponda portuale a Marghera (1917-1924) e lo sviluppo della ville de loisir al Lido (a partire dal 1857), ma soprattutto l’avvento dei consumi di massa e la relativa omogeneizzazione degli stili di vita, l’accresciuta mobilità residenziale, la redistribuzione degli abitanti sul territorio comunale e l’assiduità degli spostamenti quotidiani per lavoro (a partire dagli anni Cinquanta del Novecento), abbiano segnato un passaggio di scala della «città funzionale». Ma ci sono tendenze che complicano la situazione, collegate proprio all’urbanizzazione della campagna che è anche effetto del decentramento caratteristico del ciclo urbano in atto dagli anni Settanta: la relativa degerarchizzazione dei luoghi, l’insediamento di attività produttive industriali e servizi nel «diffuso», che agiscono come fattori centripeti(30). Negli anni Ottanta, la stessa Mestre risulta avere una sua centralità autonoma da Venezia, in un quadro però in cui per i consumi giornalieri ci si sposta in automobile per andare a fare le spese nei discounts e negli ipermercati della terraferma e non solo(31). Il territorio, sebbene sussistano ancora diversi luoghi centrali, appare sempre più come una «ragnatela» di pendolarismi e spostamenti quotidiani all’interno del quale, in un certo senso, ciascun individuo costruisce la propria «città funzionale»(32). Perciò se nel 1926 il comune era sovradimensionato, avanti rispetto ai tempi, dopo gli anni Cinquanta risulta sottodimensionato di fronte ai problemi dello sviluppo urbano ed economico, ai quali si aggiungerà quello della salvaguardia ambientale. Si cercano così nuovi strumenti per governare su un territorio più vasto. Basti citare il piano intercomunale elaborato dalla Provincia, relativo a tutta l’area che gravita su Marghera, inclusa Venezia (1962), il piano comprensoriale che coinvolge i comuni lagunari e dell’entroterra (1974) e la proposta di un ente territoriale metropolitano per Padova-Treviso-Venezia (1970)(33). Un ulteriore passo in questa direzione è stato fatto con l’approvazione delle due leggi che prevedono l’istituzione di un’area metropolitana veneziana (1990 e 1993), oggi forse superate dal protocollo d’intesa firmato dal sindaco Costa per un’«Area Metropolitana Centro Veneta» con Padova (2000)(34). Questo ha un esito immediato: il comune viene indebolito nel suo ruolo di principale punto di riferimento per la costruzione di una città immaginata.
Un fattore che oppone resistenza al cambiamento delle mappe mentali degli abitanti in area lagunare, nonostante la grande trasformazione, è comunque la struttura urbana stessa della Venezia originaria. Il fatto che quest’ultima sia diventata precocemente città da conservare e che, proprio per questo, sia stata risparmiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ha infatti consentito all’edificato di rimanere relativamente intatto. Secondo Maurice Halbwachs, un gruppo urbano trova conferma della propria identità e personalità nelle pietre e se queste restano uguali, «non ha l’impressione di cambiare», «rimane impassibile, perché non si interessa a ciò che succede in realtà fuori della sua cerchia più vicina». Questo avviene ancor di più nei luoghi in cui prevalgono le categorie «che sono più legate alle pietre che agli uomini» e cioè l’artigiano che è legato al suo laboratorio, il commerciante al suo negozio(35). Se questo è vero, allora più la conservazione dell’edificato è totale, meno diventa possibile la creazione di una nuova città integrata nei sentimenti, per facilitare la quale si sarebbero dovuti lasciare forti segni simbolici sul territorio capaci di alterare la dimensione urbana. D’altronde anche negli altri grandi comuni l’espansione fuoriporta aveva provocato una contrapposizione tra centri storici e nuovi quartieri, che è stata via via risolta attraverso l’abbattimento delle mura, la costruzione di edifici moderni e l’allargamento della maglia dei collegamenti stradali(36). Il progetto della «Grande Venezia», invece, fin dalle origini, si regge su un delicato equilibrio tra lo sviluppo moderno in terraferma e la salvaguardia della Venezia insulare che negli anni Sessanta diventa sempre più difficile governare.
Nel novembre 1966, un’acqua alta eccezionale allaga Venezia e sommerge Cavallino, S. Erasmo e Pellestrina. Livello massimo raggiunto: 1,94 metri sul livello medio del mare. Sono sott’acqua tutti i pianiterra, saltano luce, gas, telefoni. Si rompono le tubazioni dell’acquedotto(37). L’effetto immediato è quello di mettere sotto gli occhi di tutti i problemi idrogeologici che sembrano minacciare la stessa sopravvivenza della città antica e del sistema lagunare. Da qui parte una mobilitazione extrapartitica senza precedenti che origina un comune sentire in difesa della «struttura fisica» e dell’«equilibrio lagunare», che caratterizzerà questi ultimi quarant’anni. Si tratta di un «ambientalismo» precoce, molto differenziato al suo interno, ma con la particolarità di focalizzarsi più che sulla natura, sulla città e la laguna intese come espressione di una civiltà e di una storia, tanto da prefigurarsi come una nuova «ideologia veneziana». Si assiste per esempio alla riscoperta delle politiche ambientali della Serenissima attraverso anche alcune mostre documentarie, come quella tenuta a palazzo Grassi nel 1970(38). Nella nuova costellazione associazionistica, in prima fila, c’è Italia Nostra, manifestazione di un civismo dei ceti medi guidato, fra gli altri, da due donne dell’aristocrazia dai cognomi pesanti: Teresa Foscari e Anna Maria Volpi. Nel 1967 nasce invece il Fronte per la Difesa di Venezia, «formato da giovani, studenti, lavoratori e commercianti». Tra i partiti si fa avanti quello repubblicano, qui caratterizzato fin da subito da tinte ambientaliste. Italia Nostra riesce a mobilitare l’opinione pubblica contro le proposte di strade translagunari alla Mario Ferrari Aggradi (1967)(39). Ma l’effetto del nuovo sentire è ben più dirompente perché sovverte l’immaginario collettivo su Porto Marghera. L’escavo del cosiddetto «canale dei petroli», le bonifiche e l’emungimento delle falde artesiane vengono indicati come responsabili della mareggiata. Da «polmone economico» della città e prova che Venezia resta al passo con i tempi, Marghera diventa minaccia e «avamposto di capitali ‘padani’ e forestieri, che qui vengono a emungere profitti saltando a piè pari Venezia e il Veneto»(40). Nella nuova ottica il «polmone» della città invece diventa la laguna e per molti «la terraferma [torna] ad essere una minaccia, anche più pericolosa che ai tempi di Sabbadino, perché foriera di tutti i messaggi di un mondo nuovo»(41). È nel 1969 che esplode la vera e propria contestazione, nella stagione dei movimenti collettivi. Pochi giorni dopo la presentazione di un telefilm su Venezia, seguita da un comizio di Indro Montanelli al quale partecipa anche Visentini, i commercianti spengono le luci dei negozi per un’ora per protestare contro gli scavi, gli imbonimenti e l’inquinamento industriale. Due giorni dopo, pescatori e militanti di Italia Nostra e del Fronte bloccano la petroliera che inaugura il nuovo canale Malamocco-Marghera(42). Negare le ragioni di Porto Marghera però significa mettere in crisi lo stesso modello volpiano e, con esso, l’idea della «Grande Venezia». Si tratta sotto certi punti di vista — come è stato scritto di recente — di un «ritorno in isola»(43). C’è, più in generale, la riscoperta della dimensione acquea, per esempio con l’invenzione, nel 1975, della Vogalonga, «rivincita sul troppo facile richiamo del motore», che si tiene, significativamente, il giorno dello Sposalizio col mare(44). Ma c’è anche il primo referendum per la separazione di Venezia da Mestre, del 1979, che parte non dalla terraferma ma da quattro avvocati del Lido e sostenuto, tra gli altri, dal giornalista Sandro Meccoli secondo il quale dal giorno dell’alluvione «l’identità di Venezia si è andata precisando in senso internazionale e artistico, e dunque non è più giustificabile una Mestre intesa come banlieue»(45). Peraltro lo stesso Meccoli proporrà persino il ritorno alla città-stato: «restituire a Venezia e alla Laguna un’autonomia integrale, cioè di tipo statuale, con leggi e ordinamenti propri: ripristinare, in altri termini, la Repubblica Serenissima, collegata con l’Italia mediante un Concordato preferenziale — come la Città del Vaticano, per esempio — e garantita dall’Europa», prevedendo che, se le cose non cambiano, «nel Duemila avremo l’omologazione definitiva di Venezia: ovvero la sua irreparabile trasformazione in una città come le altre»(46).
Ma la grande mareggiata è importante per un altro motivo: è un evento mediatico. L’immagine di piazza S. Marco sott’acqua ha fatto il giro del mondo, vista in televisione in fotografia, in mostre itineranti; la città — tutta però condensata in pochi monumenti (la Piazza, il campanile, la basilica, il ponte di Rialto e quello dei Sospiri) — diventa un’icona mondiale, entra a far parte insieme alle piramidi egizie, dei luoghi della memoria di un mondo globalizzato, oasi antimoderna e magnete romantico, in una maniera che non ha precedenti neppure nell’epoca di Pompeo Molmenti. Questo non fa che rafforzare l’idea della sua unicità esclusiva. Vengono formati comitati privati che raccolgono fondi e li investono nel restauro di edifici, come gli americani Committee to Rescue Italian Art e Save Venice Inc., il britannico Venice in Peril Fund, i comitati per la salvaguardia di Venezia australiano, belga e francese, per citarne soltanto alcuni. Entra in campo l’Unesco. Il Consiglio d’Europa istituisce il Centro europeo del restauro(47). Il governo approva diverse leggi speciali di intervento su Venezia e la laguna (1973, 1984, 1991) in seguito alle quali varie agenzie istituzionali sovrintendono a una forte capacità di spesa e attuano politiche locali, come la Commissione per la salvaguardia di Venezia (1973) e il Comitato interministeriale per Venezia (1984)(48). L’area dei partecipanti legittimi alla discussione sui problemi della città si dilata, ormai non corrisponde soltanto ai residenti o ai loro rappresentanti. Per esempio, l’uomo di punta nella critica all’operato delle giunte veneziane, per le loro politiche sulla zona industriale, è Montanelli(49). L’opinione pubblica internazionale ha un ruolo importante nell’influenzare le discussioni, in senso perlopiù conservativo. Un ruolo altrettanto importante lo giocano «Le Monde», il «New York Times» e la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» nella campagna contro l’Expo 2000 che vede una delle sue manifestazioni principali a Parigi, con il sindaco Antonio Casellati in testa, indice anche questo di una delocalizzazione (o globalizzazione) della politica cittadina(50).
Detto questo, non si vuol negare che, fin dagli inizi, il Comune abbia definito un territorio immaginato entro cui si sono svolte le politiche urbane e, dopo la caduta del fascismo, una cittadinanza e un elettorato che ha espresso anche sindaci provenienti dalla terraferma come Giovanni Favaretto Fisca (D.C.-P.S.I.-P.S.D.I., 1960-1970), Mario Rigo (P.S.I.-P.C.I., 1975-1980, P.S.I.-P.C.I.-P.R.I., 1980-1985) e Nereo Laroni (P.S.I.-D.C.-P.S.D.I., 1985-1987). Le giunte Rigo, in particolare, con la loro presenza nel sociale, hanno creato un punto di riferimento e un senso di aggregazione, costruendo asili nido, aumentando le infrastrutture nelle scuole, stimolando il decentramento culturale e nei consigli di quartiere, creando ex novo i consultori familiari e, non ultimo, il Centro Donna(51). Non sono neppure via via mancati progetti che avrebbero potuto lasciare il segno, nell’ottica della città integrata: il quartiere di S. Giuliano e il prolungamento della via Fausta verso l’isola della Certosa (discussi e approvati dal consiglio comunale nel 1957-1958, ma non recepiti nel piano regolatore generale del 1962)(52); l’ospedale di Le Corbusier caldeggiato da Giuseppe Mazzariol e Carlo Ottolenghi (l’incarico viene assegnato nel 1964, ma la cosa sfuma e nel 1978 l’U.S.S.L. [Unità Socio Sanitaria Locale] decide di fare l’ospedale a Mestre)(53); la metropolitana veneta sostenuta da Giusto Tolloy (proposta nel 1967, senza esito concreto)(54); la già citata Expo 2000 proposta da Gianni De Michelis, che prevede, tra l’altro, la costruzione di un «Magnete» a Tessera e il risanamento dell’Arsenale (lanciata nel 1984, bocciata nel 1990)(55).
Evidentemente queste proposte non riescono a coalizzare interessi sufficientemente forti da creare consensi. Il progetto preliminare del piano regolatore generale del 1962, per esempio, è contestato da più parti, anche contrapposte: «l’associazione abitanti del Lido, quella di Burano, la Cooperativa agricoltori di Cavallino, la corporazione dei vetrai di Murano, l’Associazione civica per Mestre e la Terraferma» e Italia Nostra. Alla fine a spuntarla sono soprattutto gli interessi su Porto Marghera e quelli per la salvaguardia monumentale del centro storico, obiettivi che allora venivano ancora considerati conciliabili, anzi, collegati, in quanto la zona industriale garantiva lo sviluppo della città e allo stesso tempo era l’area in cui potevano stabilirsi «quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polveri o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’aria sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori»(56). Mentre le proposte di metropolitana incontrano via via diverse obiezioni suscitate dal timore che una migliore accessibilità al centro storico possa aprire le porte alla speculazione edilizia, incrementare l’esodo della popolazione e favorire gli alberghi della terraferma a scapito di quelli della Venezia insulare(57).
La paura di Mestre è diffusa negli anni Sessanta. Significativo è l’intervento di Eugenio Miozzi al convegno della Fondazione Cini del 1962 sul «Problema di Venezia». Egli vede l’espansione del «complesso urbano» di terraferma come una minaccia per la «città vecchia» perché si tratta di una periferia cresciuta tutta su un lato e non «radialmente a macchia d’olio». La «città madre» rischia di trovarsi emarginata e di appassire. Perciò secondo lui bisogna incrementare lo sviluppo edilizio dell’estuario (S. Erasmo, Certosa, Vignole, Cavallino) mitigando quello della terraferma, nella quale si deve evitare la concentrazione urbana, favorire insediamenti decentrati, consentendo la realizzazione del «più cristiano dei doni sociali: una piccola casetta in proprietà, con l’orto e con i fiori, la capretta e le galline, un televisore e l’utilitaria». Gli operai dovrebbero essere disincentivati dall’insediarsi a Mestre, concedendo loro direttamente «i contributi che ora vanno largiti dallo stato per le case popolari, in modo che ogni famiglia degli operai di Marghera, seguiti ad abitare nel Comune di sua origine e residenza. […] Il pagamento rateizzato della utilitaria, considerata come attrezzo di lavoro, eliminerebbe la preoccupazione delle distanze». Le famiglie operaie continuerebbero ad affluire a Mestre per i loro acquisti e «Venezia lagunare si vedrebbe sollevata dal soffoco di un grande ammassamento di case operaie poste sulla sua porta di casa e cioè sulla fronteggiante sponda di Terraferma»(58).
Altrettanto significativa è la relativa assenza, in quello stesso convegno, di proposte che invece pongano direttamente il problema della cooperazione sociale tra gli abitanti delle varie parti della nuova città e quello della costruzione di una cittadinanza unitaria, anche sul piano simbolico. È monsignor Valentino Vecchi, probabilmente l’unico tra i congressisti che abiti a Mestre, a rimarcare il fatto che l’unione tra Venezia e la terraferma «manca prima nell’anima che non nel corpo», sollecitando osmosi e forme di solidarietà (cita l’esempio delle ricche chiese di Venezia che aiutano i poveri delle parrocchie di Mestre) e da parte dei mestrini l’appropriazione dei simboli veneziani. I «terrafermieri» devono essere portati a Palazzo Ducale non come visitatori ma «come padroni di casa»(59).
Nel 1969 il già citato Rapporto dell’Unesco, compilato da Louis-Jacques Rollet-Andriane e Michel Conil-Lacoste, rileva che «la Grande Venezia esiste solo a titolo di postulato e che restano da stabilire i rapporti necessari fra il centro storico e la terraferma. Gli stessi veneziani non sembrano troppo certi di dove comincia e finisce la loro città. […] Quando gli abitanti di Venezia si trasferiscono a Mestre non hanno la sensazione di cambiare semplicemente quartiere. […] La terraferma è un’altra città: diverso modo di vivere, altro ambiente. Mentre a Roma (dove pure il centro storico va spopolando) l’EUR è sempre Roma. Venezia sembra non avere, o aver perduto, questa facoltà di assimilazione, di assorbimento, che fa sì che si attribuiscano talvolta alle grandi metropoli territori maggiori di quelli che hanno realmente. […] Questa capacità interna di divergenze non è latente. Si esteriorizza anzi ed è comunemente ammessa. Gli abitanti di Mestre vogliono avere una loro pinacoteca, un loro museo […] quelli del centro storico non gli bastano, non sono i loro. I partiti politici sanno che devono organizzare manifestazioni separate. […] Le attività economiche della Venezia insulare sono sentite come estranee all’avvenire della terraferma. Le imprese si piegano a tale psicologia». Non esiste però solo divisione tra Venezia e terraferma: «Quanto agli isolani, sono più inclini a dividersi che a unirsi? Infatti sarebbe poco dire che non si sentono un tutt’uno con i loro vicini di terraferma: non sono nemmeno sempre coscienti di formare una comunità di ideali e di interessi all’interno della loro unica città. Non si tratta solo di classi, clan o consorterie, come ne esistono, ancor oggi, in tutte le città e paesi del mondo, ma esiste una tendenza di carattere socioeconomico a presentarsi come massa superindividualista e frammentaria fino all’esasperazione di isolati interessi minori, addirittura microscopici: bottegai, piccoli imprenditori turistici, ecc. che mettono ferocemente in pratica il motto ‘ognuno per sé’ e non si aspettano dalla comunità e dall’amministrazione che una garanzia e una protezione statiche dei loro più o meno modesti privilegi. Lo spirito di comunitario non ha più probabilità di affermarsi dello spirito di novità d’iniziativa». Dunque questione di composizione sociale, dalla quale non è probabilmente estranea l’importanza del turismo(60). Il Rapporto si chiede se i bambini della terraferma cresceranno come dei veneziani e «se guarderanno a S. Marco come alla loro basilica, a Ca’ Farsetti come al loro palazzo comunale, a Ca’ Foscari come alla loro Università, alla Fenice come al loro teatro e al Lido come alla loro spiaggia». «Verranno sulla Piazzetta ad amoreggiare la sera? Oppure si stabiliranno, come rivali, alle porte di Venezia?». Già si prospetta persino la possibilità di un ‘divorzio’, con un incorporamento oggettivo di Mestre a Padova(61).
Da allora si sono visti tentativi di (ri)costruire una identità propria di città per Mestre. Basti citare le attività del Centro Studi Storici, sorto nel 1962; la produzione storiografica locale sul periodo ante 1926; il Gruppo archeologico veneziano che nel 1989 propone il «ripristino sistematico delle preesistenze» a partire dal nome di piazza Ferretto che si vuole sostituito da quello di «piazza Maggiore»; e, più di recente, le pubblicazioni del Municipio di Mestre che vanno da un’antologia di brani letterari ambientati in terraferma al catalogo di una collezione di medaglie mestrine(62). Altri due referendum, oltre a quello del 1979, sono stati indetti per separare Venezia e Mestre (1989, 1994). Nessuno ha avuto successo, sebbene i voti in favore siano progressivamente aumentati. Oggi, dopo l’avvenuta separazione del Cavallino (1999), nell’eventualità di un quarto referendum c’è chi scommetterebbe nella riuscita finale. Comunque vada, l’esito di queste consultazioni, a lungo andare, è stato quello di togliere legittimità al senso di appartenenza a una città unitaria e di dividere ulteriormente gli animi. Le giunte Cacciari (1993-2000) hanno operato da questo punto di vista una vera svolta, ‘prendendo atto’ dell’esistenza di due città separate, il che è confluito nel preliminare per il piano regolatore generale, che, come si è detto, intende però tenerle unite, configurando un’unica «città bipolare», con la laguna che, soprattutto attraverso la realizzazione del parco di S. Giuliano, diventa «cerniera»(63). Però nella prospettiva dell’applicazione della legge del 1990 che consente, nel quadro dell’area metropolitana, lo smembramento dei comuni maggiori in unità più piccole, l’esperimento delle nuove municipalità, introdotto di recente dalla giunta Costa (eletta nel 2000) e per ora limitato al Lido e a Marghera, sembra prospettare più che una città bipolare, una città «al plurale»(64).
La questione rimane aperta e lo stato di fatto è quello di un’area urbana nella quale si sovrappongono diversi sensi di identità cittadina. Questo si riflette bene nella mappa del tifo calcistico. Nel 1987 il Mestre e il Venezia sono stati fusi in un’unica società il Veneziamestre che nel 1989 è diventato Venezia 1907. I più affezionati al passato hanno presto rifondato due nuove squadre: il Mestre e il Venexia, mentre tra i tifosi della squadra maggiore, che nel campionato 2001-2002 ha militato in serie A, ci sono rivalità tra i fedeli al nero-verde del vecchio Venezia e gli «Ultras unione» che vogliono che nella maglia sia equamente rappresentato l’arancione del Mestre. Per questi ultimi la squadra dev’essere l’espressione di un’area metropolitana bipolare che si contrappone al resto del Veneto «bigotto» e «xenofobo» per la sua cultura «più aperta e cosmopolita che si riflette anche in curva», riconducibile, secondo un capotifoso intervistato nel 1991, a una peculiarità tutta veneziana(65).
Seguendo le tendenze generali, fino alla fine degli anni Sessanta la popolazione residente del comune di Venezia è in aumento: passa da 315.811 (1951) a 367.832 (1968)(66). Quest’ultimo dato rappresenta il suo apice. Dopo di che, segue un periodo di alti e bassi fino al 1973, prima che si verifichi come altrove un calo costante.
Già da prima del 1968, il tasso di crescita medio annuo è inferiore a tutti gli altri grandi comuni, per via del saldo migratorio, che nel 1961-1969, caso unico tra quelli del centro-nord, è negativo, nonostante il tasso medio annuo di incremento naturale sia il più alto(67). Negli anni in cui l’Italia vede massicce migrazioni dal meridione e dalla campagna, dunque, il comune non si presenta come uno dei principali poli di attrazione netta. Come era avvenuto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, in una fase d’intensa urbanizzazione, l’area veneziana non assorbe, se non in minima parte, la «fuga dalle campagne» venete. Le popolazioni rurali sono dirette altrove, in Lombardia, Piemonte e all’estero, dove ci sono catene migratorie ormai consolidate, l’America vera e immaginata, ma persino Verona, Padova, Treviso e Vicenza, in quegli anni, presentano saldi migratori nettamente positivi e un maggiore incremento annuo di abitanti(68).
Questo non significa l’esclusione dai processi migratori, solo che questi prendono forma di ricambio. Si verifica infatti una importante mobilità sia in entrata che in uscita. Tra il 1951 e il 1978 ci sarebbero stati 188.949 trasferimenti di residenza da Venezia verso altri comuni e 184.563 nel senso inverso: una media di oltre 13.000 tra cancellazioni e iscrizioni annue nel registro della popolazione, senza contare gli spostamenti interni(69). Negli anni del miracolo economico (i dati che elaboriamo si riferiscono al 1958-1962), sempre escludendo gli spostamenti interni al comune, circa la metà delle cancellazioni e delle iscrizioni riguardano migrazioni interregionali ed estere, in prevalenza da e per Lombardia, Friuli Venezia-Giulia e Lazio. Le aree con le quali Venezia-comune registra un saldo migratorio negativo sono, nell’ordine, Lombardia, e poi staccati notevolmente, Lazio, Liguria, Piemonte e, in modo contenuto, Toscana. I luoghi di destinazione di chi lascia il comune sono: le altre province venete (27,7%), la provincia di Venezia (20,2%), la Lombardia (10,9%) il Lazio (6,2%), le altre regioni del Nord (18,1%), il resto del Centro Italia (3,9%), il Meridione e le isole (9,7%), l’estero (3,3%). Gli immigrati provengono dalla provincia (il 29,7%), dal resto del Veneto (24%), dal Friuli Venezia-Giulia (5,3%), dalla Lombardia (4,7%), dal resto del Nord (9,7%) e dall’Italia centrale (7,8%). C’è anche una interessante presenza di immigrati dall’estero (3,7%) e dal Meridione e dalle isole (15,1%)(70). Di questi ultimi, che vengono in gran parte da Puglia, Campania e Sicilia, restano alcune, ma poche, tracce visibili, come il Circolo culturale sardo di Mestre, sorto una decina di anni fa su iniziativa di una rete di solidarietà preesistente.
La popolazione residente diminuisce stabilmente dopo il 1973: passa da 366.201 (1973) a 291.531 (1998)(71). La percentuale di decremento è più simile a quella registrata negli altri grandi comuni dell’industria fordista piuttosto che a Verona, Vicenza e Padova, le quali presentano variazioni più contenute. Venezia-comune, tra 1971 e 1991, vede però un decremento percentuale inferiore a Milano, Torino, Genova e Bologna(72). La novità, comunque, è il calo delle nascite, che inizia dopo il 1967 (anno record che registra 6.700 «nati vivi») e che porta il saldo naturale su valori negativi dal 1977, seguendo peraltro un trend nazionale, legato all’invecchiamento degli abitanti e ai nuovi costumi sessuali e familiari(73). La tendenza discendente è continuata fino al 1994 che ha registrato il nadir: appena 1.824 bambini nati(74). Da allora è iniziato un movimento ascendente, legato alla riscoperta della maternità e della paternità, soprattutto da parte dei trentenni(75).
Il saldo migratorio invece ha visto valori negativi costanti anche se la mobilità residenziale proveniente e quella diretta fuori del comune è andata diminuendo. Il biennio 1997-1998 ha visto un numero medio annuo di iscrizioni e cancellazioni (con trasferimenti di questo tipo) pari a 8.843. Molto è cambiato rispetto agli anni del miracolo economico. Le immigrazioni provengono per la maggior parte da aree oltre i confini regionali (52,1%), con una presenza di spostamenti dall’estero probabilmente senza precedenti (18,1%)(76). Tra il 1991 e il 1998, il numero di stranieri residenti (nazionalità prevalenti: jugoslava, filippina, cinese, tedesca, croata, francese, bangladeshi, britannica, statunitense) è più che triplicato, passando da 1.394 a 4.591(77). La tendenza è considerevole anche se, nel 1998, questa componente rappresenta soltanto l’1,6% della popolazione residente totale, dato inferiore alla percentuale nazionale, e caratterizzato — per oltre il 20% — dalla presenza di cittadini di paesi dell’Unione Europea e del Nordamerica(78). Venezia è capoluogo di una provincia che, nel 1997, non figura neppure tra le prime quindici in Italia, per presenza di stranieri residenti(79). Il resto degli immigrati proviene dalla provincia (34%) e dalla regione (appena il 13,9%)(80). Le emigrazioni invece non sono più rivolte verso luoghi al di fuori del Veneto: il 71,9% hanno per destinazione un comune della regione. Si tratta prevalentemente di spostamenti di residenza a corto raggio, il 51% del totale sono dirette in provincia di Venezia, in parte verso i comuni della prima e seconda cintura, che vedono una forte crescita demografica, grazie soprattutto ai saldi migratori(81). Il comune di Marcon, in particolare, presenta una crescita del 141,4% tra il 1971 e il 1998 mentre gli altri — Martellago, Salzano, Santa Maria di Sala e Quarto d’Altino — registrano aumenti tra il 45 e il 60%(82).
In concomitanza a questi movimenti è avvenuta una redistribuzione della popolazione residente all’interno del territorio comunale. Basti confrontare il censimento del 1951 con l’ultimo pubblicato (1991): sono aumentati gli abitanti di tutte le frazioni della terraferma, tranne Malcontenta, e quelli del Lido e di Ca’ Vio-Cavallino, mentre sono diminuiti quelli dei sestieri e di tutte le altre isole della laguna. L’aumento più drastico lo vede la terraferma, la diminuzione più forte i sestieri. Il fenomeno è esito di un movimento demografico complesso che è lineare solo in negativo per questi ultimi e Burano, in positivo per Ca’ Vio-Cavallino, mentre le altre località registrano periodi ascendenti e discendenti(83).
Si tratta di movimenti che alterano notevolmente gli equilibri interni all’area comunale, in particolare il rapporto tra la componente insulare e quella continentale: nel 1960 la terraferma, nel suo complesso, supera la Venezia-storica per popolazione (152.575 contro 145.402). Nel 1964 conta più di metà della popolazione dell’intero comune (183.045 su 360.241).
La crescita demografica della terraferma si colloca in un arco temporale specifico. Raddoppia i suoi abitanti (da 105.018 a 210.674) tra il 1953 e il 1975, presentando un tasso di crescita superiore al 5% annuo tra il 1954 e il 1961; in cifre assolute gli aumenti annui più consistenti sono tra il 1956 e il 1964. La popolazione residente comincia a calare dopo il 1975, portandosi a 178.630 (1998)(84). Un corso simile si riscontra nella sua frazione più grande, Mestre, che pure più che raddoppia gli abitanti tra il 1953 e il 1973 (passano da 57.532 a 124.489), presentando un tasso di crescita di popolazione superiore al 5% annuo in un arco di tempo più ampio, tra il 1955 e il 1965, e registrando in cifre assolute gli aumenti annui più consistenti in un periodo più concentrato, tra il 1958 e il 1964. Mestre possiede un saldo migratorio esterno negativo già a partire dal 1967 e vede il calo di popolazione iniziare dal 1973, raggiungendo, nel 1998, 90.177 abitanti(85).
Le ragioni dello sviluppo demografico della terraferma stanno in tre fattori, in ordine di importanza: lo stabilirsi di individui e famiglie provenienti da altre parti del comune, l’insediamento di immigrati da fuori e la crescita naturale. In altre parole: un saldo migratorio interno, un saldo migratorio esterno e un saldo naturale tutti positivi. Per dare un’idea delle proporzioni tra i vari fattori, limitandoci alla sola Mestre tra il 1958 e il 1962 (periodo di cui è possibile avere dati dettagliati), basti dire che il totale del saldo migratorio interno (+11.800) equivale a più della somma tra saldo migratorio esterno e saldo naturale (rispettivamente +5.567 e +5.080). In cifre assolute in quel periodo Mestre accoglie 21.060 immigrati interni, 10.777 immigrati esterni e vede la nascita di 7.826 bambini. Dei 21.060 immigrati interni, 12.039 provengono dai sestieri veneziani. Arrotondando, su 10 nuovi arrivati a Mestre tra il 1958 e il 1962, 4 prima abitavano in uno dei sestieri, 2 in altre frazioni della terraferma, 1 nelle altre isole della laguna (nel comune di Venezia), 2 in un altro comune del Triveneto e 1 in altre parti d’Italia o all’estero. Questi dati mettono in evidenza il peso cruciale che, negli anni di maggior crescita, i traslochi degli abitanti delle isole della laguna hanno avuto nello sviluppo di gran parte della terraferma, anche se questo vale più per Mestre e Marghera che per Zelarino, Chirignago, Gazzera e Favaro, le quali vedono in prevalenza l’insediamento di persone che già abitano in terraferma, con la differenza che il quartiere di Marghera, al contrario di Mestre, nasce fin dal principio come colonia urbana di veneziani(86).
I sestieri più la Giudecca passano da 174.808 (1951) a 67.838 abitanti (1998). Mentre la crescita di Mestre — come abbiamo visto — a un certo punto si ferma, il loro declino demografico continua tutt’ora. Il periodo più intenso va comunque dal 1961 al 1963(87). Tra il 1958 e il 1968, perdono abitanti meno velocemente di quanti Mestre ne acquisisca: i primi diminuiscono del 26,4% del totale e la seconda aumenta del 58,7%. La diminuzione di popolazione residente è dovuta — nell’ordine — ai trasferimenti in altre zone del comune, all’emigrazione fuori comune e al declino delle nascite. In altre parole a un saldo migratorio interno, migratorio esterno e naturale, tutti negativi(88). Il saldo naturale è negativo fin dal 1955, dato attribuibile a una reazione al sovraffollamento(89). Il peso del saldo naturale negativo sulla perdita complessiva di residenti diventa sempre più importante e supera il saldo migratorio totale nel 1976-1983 (con l’eccezione del 1981) e dal 1989 (con l’eccezione del 1992), complice il progressivo invecchiamento della popolazione e la riduzione del fenomeno emigratorio. L’apice del saldo negativo interno si è avuto nel 1960 (sopra i 20.000 emigrati interni tra il 1957 e il 1960, circa 5.000 l’anno), l’apice del saldo negativo esterno si è avuto nel 1962. Mentre il saldo migratorio interno è rimasto sempre negativo, quello esterno in alcuni anni è risultato positivo (1972-1973, 1979, 1981 e 1995)(90).
Nel 1958-1962, su 10 abitanti del centro storico che lasciano la città 3 vanno a Mestre, 1 nel resto della terraferma comunale, 1 va al Lido, 1 all’estuario o in terraferma, 2 in qualche altro comune del Veneto e 2 in un comune del resto d’Italia o all’estero(91). Confrontando questi dati con i precedenti si può dire che, negli anni del miracolo, Venezia ha un impatto superiore sulle immigrazioni a Mestre, di quanto Mestre abbia sulle emigrazioni da Venezia.
Ancora, secondo i dati del 1998, gli emigrati dal centro storico continuano a manifestare la loro propensione a stabilirsi a Mestre e in terraferma: su 10 che spostano la propria residenza altrove, 3 vanno a Mestre e 1 in altra località della terraferma. Però, dato che in termini assoluti sono diminuiti, il loro impatto sulla cifra complessiva degli immigrati a Mestre è diminuita. Soltanto 2 su 10 dei nuovi arrivi a Mestre provengono dal centro storico o dall’estuario(92).
In sostanza, riconducendo i trasferimenti di residenza nell’ultimo mezzo secolo a uno schema interpretativo generale, si può dire che, chiusasi la fase in cui il fenomeno di inurbamento riguarda soprattutto il centro storico, ne è seguita una di migrazione nelle periferie e una terza di insediamento nelle prime e seconde cinture urbane. Si tratta di tendenze generali. La stessa diminuzione di popolazione residente nei centri storici è proprio tipica dei grandi comuni, lungo tutto il periodo. Per dare un’idea, tra il 1951 e il 1981 il centro storico di Venezia perde il 47,2% degli abitanti, quello di Milano il 41,5%; tra il 1951 e il 1971 quello di Bari il 58,1%, quello di Roma circa il 54,6%, quello di Genova il 40,4%(93).
Quando Guido Piovene, nel 1953, durante il suo Viaggio in Italia, fa tappa a Venezia trova, in strada, ancora «donne che lavorano d’ago, mondano la verdura, fanno il bucato, tengono d’occhio i bambini»; «pescatori che approdano e riparano le reti»; «rematori, stracciaioli, mercanti» che gridano; buffet che «vendono pere cotte, pan pepato, la frutta caramellata infilata nello stecchino, zucca al forno, patate americane, pesce fritto, castagne arrosto». Come avrebbe potuto fare un viaggiatore d’altri tempi, a questa immagine pittoresca associa una considerazione: è la miseria o, meglio, sono le tristi condizioni delle abitazioni, umide, buie e sovraffollate (il 12% a pianoterra) che hanno abituato il «popolino» veneziano a vivere nelle calli e nei campi(94). Insomma, come leggiamo altrove: «fioi cressui in calle. So mare de ’sti fioi no a ghe dizeva ‘Torna presto’, ma pitosto ‘No sta tornar prima de le sete’»(95).
Un’indagine comunale del 1957 conferma una situazione degli alloggi distantissima dagli standards di oggi: il 66% delle case ha bisogno di restauro, il 74% manca di stanza da bagno, il 90% non ha riscaldamento centrale (ci si scaldava con la cucina o con le stufe), il 50% è colpito da umidità, il 24% risulta sovraffollato (più di 2 persone per vano)(96). Ancora nel 1961, la quantità di abitazioni disponibili non è sufficiente a ospitare tutti i nuclei familiari. Le coabitazioni sono numerose, riguardano oltre 5.000 famiglie (il 13,5% della popolazione del centro storico), anche se più che di subaffitti si tratta in prevalenza di famiglie allargate, costituite da coppie di anziani e un figlio sposato(97).
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, Piovene rileva che sono proprio quelli che «alloggiano sordidamente» a far fatica a staccarsi dalla propria calle e dal loro «piccolo giro di affari». Difficilmente si trasferirebbero fuori dal centro: trovano compenso «in un giro in piazza», considerano la città «un caso unico e meraviglioso nel mondo», ascrivono le proprie strettezze «non tanto alla nequizia delle classi elevate, quanto allo straordinario ambiente in cui viv[ono]»(98). La presenza di questo atteggiamento che Piovene chiama «narcisistico» (perché nella bellezza di Venezia si riflette quella dei veneziani) — e che quasi certamente, (aggiungiamo noi), se davvero sussiste, viene rafforzato dalla crescente presenza turistica — appare confortata da due fatti.
Il primo consiste in una indagine del Censis per conto del Ministero dei Lavori pubblici condotta nel 1969-1970 che riscontra, in un sondaggio sui vantaggi e gli svantaggi del vivere in centro storico, un’alta percentuale di risposte che individuano come fattori negativi la «casa non confortevole» o «nessuno», e come fattori positivi oltre alla «vicinanza al lavoro», «bellezza e tranquillità», «abitudini e conoscenze» e «città natìa». Secondo gli estensori questi dati sono da ritenersi «senz’altro come uno dei più peculiari e caratteristici» di Venezia perché manifestano un forte attaccamento alla città. La cosa si spiega, sempre secondo l’estensore, con la permanenza di uno zoccolo duro di nativi rimasto a vivere in centro storico, che non ha riscontro in quelli delle altre grandi città(99).
Il secondo è una ricerca di un’antropologa americana svolta tra il 1956 e il 1977 nella quale si sostiene che i veneziani sono affetti da un «etnocentrismo neutrale»: convinti della superiorità della propria way of life, che va dal rito dello spritz all’uso compiaciuto del dialetto, sono ben disponibili a far da ciceroni mostrando tutto ciò che è typical venetian, ma senza manifestare alcuna intenzione di venezianizzare gli altri che vengono indistintamente definiti foresti. Legati alla loro città, ostili a ogni cambiamento, a loro piace che le cose restino dove e come sono. Prova ne sarebbe che emigrano con moltissima difficoltà, e mai in modo permanente. La cosa interessante è che la studiosa, assorta dal modo in cui gli intervistati le presentano la propria «venezianità», non si accorge degli spostamenti di residenza che hanno avuto luogo proprio in quegli anni: un fatto che in sé potrebbe essere già rivelatorio dell’intensità di questo discorso dell’attaccamento al locale, almeno come rappresentazione di sé(100).
Secondo la già citata indagine del Censis, i trasferimenti di residenza dal centro storico nel periodo 1964-1968 sono dovuti prevalentemente alla cattiva condizione degli alloggi e alla ricerca di «abitazioni confortevoli inserite in un complesso di servizi urbani moderni». Non riguardano però la popolazione indifferentemente, ma particolari strati sociali con un reddito sufficiente a pagare un affitto a Mestre, spesso più alto, ma non a comprarsi una casa o a comprarla a Venezia e restaurarla. Si tratta soprattutto di famiglie del proletariato industriale e della media-piccola borghesia, con casa in affitto, almeno un figlio piccolo e il capofamiglia sotto i 45 anni. I ceti medio-alti (artigiani, negozianti, esercenti) e il sottoproletariato, e in genere le famiglie che abitano in casa di proprietà, sono invece meno propensi a lasciare Venezia(101).
Uno dei fattori che contribuiscono a questa situazione è il mercato degli affitti. Nel centro storico gli alloggi ad affitto bloccato sono molto più numerosi che al Lido e in terraferma. I proprietari non trovano conveniente migliorarli perché il reddito che ne ricavano è troppo basso. Quelli a fitto libero, dopo il restauro, per via della forte domanda tendono ad avere prezzi alti. A Venezia manca cioè l’offerta media, che invece è più disponibile in terraferma e al Lido(102). Ma non si tratta di semplici meccanismi di mercato, perché a monte c’è una maggiore disponibilità di reddito per le famiglie operaie e del ceto medio, dovuta all’espansione economica, che consente a molte di queste di tentare di raggiungere nuovi, più alti, stili di vita. Non è corretto perciò parlare di espulsione. Si tratta di famiglie intraprendenti che trovano a Mestre la propria emancipazione. Né il ruolo di Mestre è semplicemente quello di ricettacolo. Essa è in grado di fungere da magnete residenziale. Negli anni Cinquanta e Sessanta, dunque, giovani coppie veneziane possono finalmente permettersi nuovi stili di vita e una casa decente, lasciando spesso una convivenza con i genitori. In terraferma trovano più facilmente case moderne, più grandi, senza umidità, con pavimenti di marmo, il bagno, il riscaldamento e l’ascensore.
La particolarità del miracolo economico italiano è che a un raggiungimento degli standards minimi di vita (igiene, salute e spazio) coincide l’affermazione dei nuovi consumi di massa, in questa fase caratterizzati soprattutto dall’acquisto di beni utili: il frigorifero, l’aspirapolvere, la televisione e l’automobile(103). Questo cambia la vita delle famiglie in modo ancora più radicale. Anche nelle isole, dove non poche case vengono ristrutturate e sopraelevate, le antenne televisive sui tetti entrano a far parte del paesaggio. Il simbolo del nuovo consumismo sorge però a Mestre dove apre il grande magazzino Coin (1964): un cubo senza finestre che diventa meta di pellegrinaggio e nel quale la gente perde il senso del tempo(104). Ma questi sono soprattutto gli anni dei neofiti dell’automobile e dei motocicli: a Mestre, Marghera e sul ponte della Libertà si svolgono gimcane notturne. Il tasso di incidenti è alto, per la scarsa familiarità e il voler provare la velocità(105). Nella lettera pastorale della Quaresima del 1961 il patriarca Urbani sente la necessità di invitare gli automobilisti al «senso di misura, rigorosa disciplina e continua attenzione»(106). È un fattore che differenzia le potenzialità della terraferma rispetto a quelle del centro storico, i cui abitanti, che vivono in un ambiente pedonale, non hanno mezzi privati per trasportare persone e cose fin sotto casa e perché questi non sono sostituiti da altri mezzi, come taxi acquei a prezzi accessibili. Questa ‘scomodità’ si aggrava con la scomparsa dei garzoni di negozio e dei facchini. Il cambiamento è segnato più o meno dagli anni Settanta in poi dalla messa in soffitta dei bauli da viaggio e dei cestini che venivano calati dalle finestre per tirar su la posta e il pane, rimpiazzati dalle valigie con le rotelle e dai carretti per la spesa. È un prezzo da pagare per poter vivere nell’unica città nella quale, come dice Guido Ceronetti, per mancanza di altri rumori, «vive ancora la voce umana»(107).
Va anche detto che negli anni, sui traslochi in terraferma sembrano aver influito molto gli sfratti, dovuti ai restauri del patrimonio edilizio e, dagli anni Ottanta, il mercato degli affitti, influenzato dal fenomeno delle seconde case. Si è visto l’evolversi dell’emergenza abitazioni, fonte di uno dei conflitti più gravi(108). Quella tra proprietari e non proprietari è una delle discriminanti sociali più forti. Gli inquilini vedono aumentata l’insicurezza e si vedono stretti dalla forte domanda di seconde case da parte di gruppi sociali con redditi maggiori. Però è persistita, fino all’abolizione della legge sull’equo canone, una fascia di case ad affitto controllato che hanno privato di reddito molti piccoli proprietari.
Ultima annotazione: finora è emerso un quadro quantitativo dei trasferimenti. Non sappiamo nulla degli spostamenti di residenza — per matrimonio e per lavoro — dei membri delle famiglie più ricche, per esempio, attratte dalle grandi città. Ci darebbe un’idea della sorte toccata agli eredi della vecchia élite veneziana che ha dominato la prima metà del secolo.
Tornando però agli anni Cinquanta e Sessanta, è evidente che la domanda di case in terraferma coincide con una forte attività edilizia. L’urbanizzato attorno alla frazione di Mestre si compie soprattutto negli anni del miracolo economico, cristallizzandosi nell’attuale assetto fisico nei primi anni Settanta. È possibile forse anche proporre una data simbolica precisa, per la fine di questo ciclo costruttore: l’inaugurazione della tangenziale ovest, avvenuta il 3 settembre 1972(109). Secondo il censimento più recente, infatti, l’88,5% delle attuali abitazioni di terraferma sono state costruite dopo il 1945 e il 71,1% tra il 1945 e il 1971, di cui poco meno della metà nel solo decennio 1961-1971(110). A Mestre tra il 1961 e il 1964 si costruisce a un ritmo di oltre 2.000 appartamenti l’anno(111). Lungo tutto il decennio a costruire sono — nell’ordine — privati, cooperative, I.A.C.P. (Istituto Autonomo Case Popolari), enti pubblici e I.N.A. (Istituto Nazionale Assicurazioni) Casa. Le zone più interessate dall’edificazione sono Bissuola-Carpenedo (per esempio in zona Rielta e a est di via Ca’ Rossa) e i quartieri centrali di S. Lorenzo-XXV Aprile e Piave-1866 (fra l’altro, vengono innalzati alcuni palazzoni sul lato est di corso del Popolo, sorgono case nella zona di Altobello, case popolari continuano a sorgere lungo viale S. Marco dove vengono edificati i quartieri Aretusa e S. Teodoro). Ma si è costruito molto anche a Favaro-Campalto e Marghera-Catene(112). È proprio a Marghera, vicino alla linea ferroviaria, che vengono costruiti da un’impresa privata gli alti palazzoni della Cita, forse l’unico landmark urbano che dà un carattere da grande città alla conurbazione.
Tutto questo edificare ha la caratteristica di non concentrarsi su un determinato punto, né di rappresentare un’espansione a macchia d’olio di Mestre. Si tratta di un fenomeno diffuso su tutto il territorio, a densità non costante. Le case spuntano come funghi o come oggetti posati sul territorio obbedendo a criteri diversi (pubblici e privati), dove è più conveniente, a volte riempiendo gli spazi vuoti in aree già edificate, altre volte innalzando edifici su terreni anche un po’ distanti dai servizi e dalle altre abitazioni, altre volte ancora seguendo il percorso di una strada. Alcuni studiosi hanno parlato di «indifferenza localizzativa» e di «rifiuto della città»(113). Più che la città che urbanizza la campagna sembra quasi che sia la campagna a costruire l’urbanizzato: ex fittavoli ed ex mezzadri, ora «passati ad attività operaie», si autocostruiscono la casa dopo aver ricevuto la liquidazione(114); i lotti si strutturano secondo i confini dei campi; molte delle imprese edili sono gestite da ex contadini. L’edilizia presenta modelli disparati (palazzoni a dieci piani, condomini a cinque piani, casette duplex ma soprattutto casette monofamiliari con orto, a tetto sfalsato) e in pratica molte delle tipologie sono presenti in molte parti della conurbazione. Le parti più riconoscibili sono quelle che sono frutto della mano pubblica: per esempio il Piraghetto e Villaggio S. Marco(115).
Venezia non trasmette la sua cultura urbanistica alla terraferma, anzi, la terraferma è il luogo dove si può fare tutto ciò che non si può fare a Venezia. Nelle pagine del «Gazzettino» dell’epoca se lo slogan per il centro storico è «restaurare per conservare», a Mestre è «abbattere per ricostruire» e mettere ordine: nell’ordine moderno non c’è spazio per la convivenza tra i vecchi edifici rurali scrostati e le facciate nuove fiammanti dei palazzoni. Ma quegli slogans sul «Gazzettino» sono anche lamenti per la mancanza di razionalità nella distribuzione dell’edificato perché in realtà questa razionalità non si affermerà(116). L’unico tentativo di creare un ambiente «veneziano» sono alcuni lotti dei quartieri popolari di viale S. Marco, come per esempio «le case del campo» nel quartiere Aretusa progettate dal Gruppo Architetto Luigi Piccinato, costruite agli inizi degli anni Sessanta, che racchiudono uno spazio pedonale aperto su cui si affacciano negozi, botteghe artigiane e un caffè-ritrovo(117). Una decina di anni dopo gli abitanti hanno abbattuto gli sbarramenti, per fare entrare le automobili negli spazi verdi, nei quali vengono costruite delle baracche con funzione di garage(118).
Comprare immobili in terraferma negli anni del miracolo e fino al 1964 viene considerato un grande affare. Lo consigliano le agenzie finanziarie. Si registra anche un flusso di investimenti da parte di emigrati veneti(119). Soprattutto i primi investitori comprano terreni ai contadini a pochissimo per poi renderli edificabili e guadagnarci. Nel corso del boom edilizio i prezzi dei terreni vanno alle stelle e così anche il costo degli appartamenti. Quando c’è un calo della domanda subentra una crisi edilizia (in linea con quello che avviene nel resto d’Italia) che mette in seria difficoltà le piccole imprese(120).
La terraferma in quegli anni è un cantiere. Chi va ad abitare nelle nuove case si sente un pioniere: in aree a volte isolate dal resto della città, con scarsi mezzi pubblici, senza scuole, servizi, farmacia, senza strade asfaltate, senza fognatura. Tra miasmi, zone acquitrinose piene di zanzare, le zone attorno a Mestre-centro, per esempio Carpenedo, sono fogne a cielo aperto perché le case di recente costruzione hanno i propri scarichi ma manca il collettore(121). I fumi del porto industriale colpiscono diversi quartieri, a seconda del vento. All’epoca non c’è nessun controllo sugli scarichi e i trasporti di sostanze chimiche. Testimonianze ci raccontano di melma gialla nei canali e di scie di polvere rossa caduta dai camion in entrata e in uscita dagli stabilimenti, per non parlare delle discariche attorno alla zona del porto, che hanno cambiato il paesaggio: a sud di Fusina tuttora esistono colline di terra rossiccia(122).
La terraferma non è la città moderna che promette di essere. Gli interni delle case sì. Mestre è una città di interni, al contrario di Venezia-storica nella quale si preferisce vivere all’esterno e le calli e i campi vengono percepiti come prosecuzione della propria casa. Lo si vede da come vengono tuttora usati i terrazzini che danno sulle strade: diventano verande, piccionaie o ripostigli(123). Pochi sono gli spazi per la socialità: principalmente i patronati, ma anche i bar(124). La Chiesa si affretta a creare nuove parrocchie e a costruire luoghi di culto nei nuovi quartieri(125). I rapporti tra vicini non sono sempre facili soprattutto per questioni di confine tra le piccole proprietà(126). Ci sono però anche forme di solidarietà: commercianti che aiutano le famiglie facendo credito; inquiline delle case popolari che si organizzano per ottenere migliori servizi(127). Gli uomini invece socializzano soprattutto in fabbrica(128). I ragazzi e i bambini dello stesso quartiere giocano nei cantieri edili e nei terreni inedificati. La presenza di bande di minorenni nelle aree più emarginate crea allarme: il quartiere Aretusa negli anni Sessanta viene, per questo, considerato malfamato e soprannominato la «città degli zingari o degli indiani»(129).
Molti faticano ad adattarsi alle nuove condizioni di vita, soffrendo di nostalgia per il centro storico: uno shock culturale, seguito, dopo alcuni anni, dall’adattamento e, a volte, dalla cancellazione del luogo di origine dal proprio orizzonte sentimentale(130). «Il Gazzettino» parla dei «veneziani in terraferma» come «pesci fuor d’acqua». In un’intervista, una signora trasferitasi a Villaggio S. Marco racconta le difficoltà di rapporto con certi inquilini che «essendo sempre vissuti in abitazioni isolate e autonome, non sono capaci di abituarsi ai doveri della coabitazione»(131). Ma anche gl’individui che da più tempo vi abitano, soprattutto nelle aree precedentemente non urbanizzate, come il quartiere di via Miranese, devono adattarsi alla nuova situazione: alcuni di loro si dedicano al commercio, acquistando negozi di alimentari e verdure con i soldi dell’esproprio della terra, per rifornire i nuovi residenti; e c’è chi continua a coltivare part-time(132).
La qualità della vita migliora verso la fine degli anni Settanta: con il completamento dell’asfaltatura delle strade e la costruzione delle fognature. Negli anni Ottanta il Comune realizza alcune importanti strutture pubbliche: il Palasport di via Cavergnaghi e parco Bissuola. Ma sarà negli anni Novanta che verranno eseguite operazioni di riqualificazione e arredo urbano: il verde, la ristrutturazione di piazza Ferretto, la trasformazione di Coin in centro commerciale Le Barche con l’apertura delle finestre nel cubo. Il ruolo della terraferma si amplifica con l’apertura dei grandi ipermercati e centri commerciali: Panorama sulla Romea, Valecenter a Marcon, Auchan vicino al Terraglio(133).
I censimenti del 1951-1991 registrano, a livello comunale, una diminuzione nel numero dei residenti con una professione in agricoltura, caccia o pesca: da 8.663 (7,4% del totale della popolazione attiva) scendono a 2.107 (1,7%), con un calo drastico tra il 1951 e il 1971 (–67,3%)(134). L’economia agricola veneziana però, nonostante l’urbanizzazione, lo sviluppo di attività remunerative concorrenti, il calo di addetti e di superficie utilizzata, è tutt’altro che in via di estinzione. Il numero di aziende agricole tra il 1961 e il 1991 è variato di poco (passando da 2.413 unità a 2.122) mentre la superficie utilizzata si è ridotta (passando da 9.353 ettari a 6.489) soprattutto tra il 1971 e il 1981. Il comune di Venezia che nel 1961 era quello in provincia con il più alto numero di aziende, oggi mantiene questo primato, mentre per superficie agricola passa dal terzo al quinto posto ed è primo per numero di trattrici e motocoltivatrici.
La mezzadria, che nel 1961 coinvolgeva ancora 323 aziende per un totale di 2.162 ettari, si è estinta (soprattutto tra il 1961 e il 1971). Dagli anni Novanta la maggior parte dei campi sono a conduzione familiare e di proprietà di coltivatori diretti, anche se, per via di un aumento della dimensione media dei poderi più grandi, una percentuale maggiore (il 35% del totale della superficie coltivata) viene lavorata da manodopera salariata.
Soprattutto nei quartieri Chirignago-Gazzera, Cipressina-Zelarino-Trivignano, Carpenedo-Bissuola, nei quali l’urbanizzazione degli anni Cinquanta e Settanta è stata più massiccia ma non totale, sono sopravvissuti piccoli appezzamenti coltivati a tempo parziale, che non garantiscono reddito autosufficiente; verso Campalto e Favaro, nei terreni di bonifica otto-novecentesca, invece, esistono grandi proprietà redditizie che oggi sono condotte in forme capitalistiche avanzate, a monocoltura intensiva in grado di adattarsi alle richieste del mercato. Nelle isole di Lido e Pellestrina, i campi coltivati sono pochi e ormai privi di rilevanza economica; ma a Cavallino-Treporti e — a livello meno significativo — S. Erasmo e Vignole, piccole aziende si danno con profitto all’orticoltura tradizionale. Nella penisola del Cavallino, dopo la mareggiata del 1966 che ha distrutto gli impianti a frutteto, cambiano le tecniche di coltivazione per aumentarne la produttività, con l’adozione di serre, meccanizzazione, nuove tecniche di concimazione, diserbo e fecondazione.
L’agricoltura dell’intera area lagunare (con Chioggia e i comuni della gronda) nel biennio 1991-1992 produce 285 mila quintali di radicchio, 140 mila quintali di carote e oltre 100 mila quintali di cipolle. La Regione Veneto ha recentemente riconosciuto, per la loro qualità, alcuni dei prodotti della laguna come «tipici regionali»: le carote, le cipolle bianche, le patate e il radicchio rosso di Chioggia, il pomodoro del Cavallino, la pesca bianca di Venezia, la pera del Veneziano e la castraùra di S. Erasmo (il carciofo violetto). Il mercato di Rialto è ancora oggi in parte fornito dagli orti suburbani(135).
Se un tempo la pesca reggeva quasi totalmente le economie di sussistenza di Burano e Pellestrina, oggi dà reddito a una minoranza di famiglie. Già nel 1981 risultavano ufficialmente attivi nel comune soltanto 324 addetti: la maggior parte dei quali a Pellestrina e S. Pietro in Volta.
La pesca è stata rivoluzionata dall’introduzione dell’uso del motore, avvenuta a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. La trasformazione ha comportato un adeguamento delle tecniche, dell’organizzazione del lavoro, insieme a un aumento della potenzialità di pescato e di guadagno, anche se i «cicli» sono rimasti invariati(136). La maggiore possibilità di spostamento e i maggiori costi di acquisto degli strumenti di lavoro hanno però contribuito alla fine delle vecchie regole, all’aumento della competizione, alla differenziazione sociale tra i possessori di barche e i semplici operai, e a una selezione a vantaggio delle comunità chioggiotte che, tradizionalmente specializzate nella pesca d’alto mare, avevano più disponibilità di capitale, nonostante la chiusura dell’accesso tradizionale al mare dalmata, conseguenza della guerra fredda. La pratica della caccia come mezzo diffuso per arrotondare il guadagno si è estinta.
Alla trasformazione delle comunità dei pescatori — come quelle agricole della terraferma — ha contribuito l’offerta occupazionale che si è aperta in altri settori economici che forniscono lavori più sicuri e meno faticosi. Gianfranco Vianello, nato a Portosecco (Pellestrina) nel 1937, racconta di avere imparato a pescare dal nonno e dal padre già all’età di 6-7 anni, e di avere avuto il suo primo impiego come dipendente alla Montecatini di Porto Marghera nel 1955, ma per poco perché il padre gli lascia l’attività di pesca. Nel 1959, si vede «costretto» a comprare, facendo parecchi debiti, una barca a otto cavalli, per far fronte alla concorrenza e aumentare la velocità di spostamento. Mette su un equipaggio e riesce a darsi — tra l’altro — alla pesca di cefali prima a Scardovari (Ferrara) e poi a Jesolo. Qui nel 1961 conosce un imprenditore che lo assume, con tutto l’equipaggio, come manovale a Brescia. Dopo due settimane, decide di tornare, da solo, a Pellestrina dove per un mese fa la guardia notturna ma poi ritorna a pescare a tempo pieno. Nel 1963 si sposa, mette su famiglia, vive una fase di difficoltà finanziarie. La moglie lavora il merletto in casa, lui tenta di mettere su, senza successo, un allevamento di cozze a Caorle. Nel 1969 viene assunto all’Arsenale e lascia definitivamente la pesca a tempo pieno. «C’erano dei giorni in cui non pescavo granché ed in quei casi era difficile per noi dare da mangiare alle nostre figlie. Questo invece, sarebbe stato un lavoro vero, sarei uscito di casa al mattino e tornato alla sera con la giornata ‘economicamente e sicuramente presa’ […] con la possibilità straordinaria di ricevere degli assegni famigliari […] di godere grazie all’Empas dell’assistenza gratuita, in caso di malattia […] e non ultimo […] mi avrebbe anche dato modo di riscuotere, un giorno la pensione per la nostra vecchiaia»(137).
Alcuni giovani, però, continuano il mestiere. Tra i buranelli, per esempio, si è diffusa la pesca delle moeche col sistema della seragia fissa, tecnica ‘rubata’ ai chioggiotti nel secondo dopoguerra. La moeca, produzione totalmente autoctona, diventa economicamente rilevante, soprattutto dagli anni Ottanta e Novanta per le richieste dei ristoranti anche fuori Venezia(138). Soprattutto chioggiotti e pellestrinotti si dedicano invece alla pesca dei caparossoli (vongole), molto remunerativa, tanto che alcuni sono tentati a pescare più del consentito dalla legge, e/o a farlo nelle zone inquinate, e/o utilizzando una macchina turbosoffiante montata sui barchini a motore che sconvolge il fondale. All’alba del nuovo secolo, la laguna è teatro di liti tra pescatori e di inseguimenti tra guardie di finanza e caparozzolanti abusivi. Secondo «Il Gazzettino» una barca può anche guadagnare un milione di lire in nero a notte(139). Le valli, la laguna aperta e il mare adiacente, nonostante il calo di addetti, non hanno dunque cessato di essere una risorsa economica, e tutt’oggi la città — nonostante la consistente quota percentuale di prodotti importati — è ancora, in parte, rifornita di pesci e di molluschi pescati o allevati nella zona.
Nel 1961, con i suoi 46.128 addetti alla manifattura (il 42,1% del totale), tra i comuni con più di 300.000 abitanti, quello di Venezia ha il più alto indice di specializzazione industriale dopo Torino, Milano e Bologna(140). Nel corso degli anni Cinquanta il settore aveva registrato un’espansione offrendo oltre 12.000 posti di lavoro in più. Negli anni Sessanta la tendenza si arresta e il numero inizia lentamente, ma costantemente, a decrescere. Le imprese passano da 2.853 (1961) a 2.309 (1981); gli addetti da 46.128 (1961) a 39.719 (1981)(141). Il numero di occupati tra i residenti seguono la medesima curva, ma calano molto più drasticamente, soprattutto tra il 1971 e il 1981: nel 1961, il 33,2% (41.651) della popolazione residente attiva risulta occupato nelle «industrie estrattive e manifatturiere»; nel 1991 il 18,2% (22.051), una percentuale inferiore (tra i comuni con più di 250.000 abitanti) a Torino, Verona, Milano, Bologna e Firenze(142). La tendenza va inquadrata nel contesto della deindustrializzazione dei centri urbani maggiori.
Il peso di Porto Marghera sull’offerta di impieghi industriali, diretti e indotti, è forte. I suoi settori produttivi sono quelli che a livello comunale presentano il più alto numero di addetti: il settore della produzione e prima trasformazione dei metalli — per esempio — ancora nel 1981 occupa 4.642 persone, mentre quello chimico 10.113, dando impiego, da solo, al 25,5% degli occupati nelle industrie manifatturiere(143).
Porto Marghera vede tra gli anni Cinquanta e Settanta una grossa espansione: viene bonificata la seconda zona industriale, nella quale vengono costruiti nuovi impianti. In conseguenza della fusione della Montecatini con la Edison, nel 1966, nasce il Petrolchimico e, nel 1970, il Petrolchimico 2, stabilimenti integrati di grandi dimensioni a elevata tecnologia, collegati tramite un etilenedotto (pipe-line) alle raffinerie di Ferrara e Mantova(144). Tra il 1960 e il 1967 il porto industriale accresce le sue capacità produttive offrendo circa 1.000 posti di lavoro in più, raggiungendo complessivamente — con 218 aziende — 31.140 dipendenti: di questi, circa 13.500 sono impiegati alla Montedison(145). L’aumento di posti di lavoro è poca cosa in confronto alle aspettative: ma, poi, la decisione di costruire una terza zona (che verrà bonificata ma non vedrà insediamenti industriali), promette ancora nuova occupazione, dando legittimità — nel corso di tutti gli anni Sessanta — alle speranze di uno sviluppo illimitato e inevitabile della terraferma. Invece — in seguito alla crisi petrolifera e della chimica — ha avuto luogo un nuovo processo di ristrutturazione e di conversione che ha portato a una contrazione della manodopera, pur mantenendosi alti i livelli di produttività. Si è vista la chiusura di stabilimenti, con operai in cassa integrazione, disoccupazione e tensioni sociali. Dopo una fase di intervento delle partecipazioni statali e l’insediamento di nuove aziende private, nel 1990 la zona dà ancora lavoro a 19.895 operai, mentre le aziende sono aumentate a 298(146). Tra le grandi industrie, la chimica — ancora attiva — sembra continuare ad avere difficoltà per la concorrenza dei paesi del terzo mondo e i danni ambientali che provoca. Mantengono però un’elevata produttività la cantieristica, la raffinazione del petrolio, la petrolchimica, la produzione di fibre sintetiche e di semilavorati di alluminio(147).
Il porto industriale, un «agglomerato petrolchimico che forse non ha avuto uguali in Europa»(148), svolge un ruolo cruciale nella storia dell’entroterra. Cittadella operaia a ridosso ma avulsa dal resto della terraferma, ha continuato a mantenere la sua estraneità alla città antica: nel 1971, all’apice del suo sviluppo occupazionale, solo il 3,7% dei lavoratori impiegati nel ramo secondario del porto abitano nel centro storico, nelle isole e in altre località del litorale veneziano(149). La terraferma comunale invece si configura come «città fordista», al suo servizio. Nel 1971 è luogo di residenza del 51,9% dei lavoratori del settore secondario, è sede di istituti tecnici e di dopolavoro operai e ha una squadra di pallacanestro, che per un periodo milita in prima divisione, fondata dalla principale azienda chimica, la Sicedison(150). Forse non è una coincidenza che il suo declino demografico coincida con la svolta occupazionale di Marghera. Non che si tratti di un’area urbana esclusivamente operaia: nel 1971, il 44,5% della popolazione residente in condizione professionale è impiegato nell’industria, ma il 54,3% lavora nel terziario(151).
Gli addetti alle manifatture del porto — come fin dalle origini — continuano a essere in larga misura abitanti dei comuni limitrofi della provincia(152). Nel 1971, il 44,3% di essi risiede fuori del comune. Vanno al lavoro in bici, in lambretta o in autobus. Il ruolo di Porto Marghera sta non solo nell’attrarre nuovi residenti a Mestre, ma anche nel frenare l’esodo dai comuni limitrofi, favorendone l’urbanizzazione. Ha contribuito a cambiare i costumi della campagna circostante, promuovendo il distacco dalla cultura paterna di molti giovani provenienti da famiglie di contadini, anche quando restano ad abitare nei comuni di origine. Attorno a esso si forma una rete urbana, unita da spostamenti quotidiani, che coinvolgono Spinea, Mira, Mirano, Dolo, Martellago ma anche oltre, fino a Quarto d’Altino(153). Le fabbriche di Marghera hanno offerto, soprattutto negli anni Cinquanta e Settanta, un reddito sicuro, ambito e importante per molte famiglie che hanno potuto comprarsi la macchina e la casa. «Mi sentivo il futuro tra le mani, di più, mi sentivo il padrone del mondo» — questo era per un operaio entrare in fabbrica, nel 1956, a Marghera — un «lavoro sicuro che ti permetteva di mantenere la famiglia»(154).
Le fabbriche sono però un «girone infernale». Un operaio Sicedison, assunto nel 1955, racconta che «in otto ore si poteva fare una sola pausa all’ora: per mangiare, per andare al gabinetto o per fumare una sigaretta», per non citare i regolamenti interni durissimi e «sorveglianti armati di pistola»(155). Ma la fabbrica è anche fonte di malattie mortali per i suoi operai. Si pensi a quanto è emerso nella requisitoria del giudice Felice Casson che, nel 1996, ha rinviato a giudizio trentotto dirigenti Montedison-Enichem imputati di «delitto di strage e di disastro», per la morte di un numero ancora imprecisato di operai (circa 150 accertati) soprattutto esposti al Cvm-Pvc (componenti della plastica), responsabile di danni alle ossa, al sangue, alle arterie, ai polmoni, al cervello e causa di tumori(156). Ma l’inquinamento e i danni non riguardano soltanto chi lavora dentro le fabbriche. Si parla infatti di enormi quantità di prodotti immessi nell’aria e nelle acque della laguna, e di rifiuti scaricati in mare o sepolti in terraferma, anche prima che esistesse la Montedison(157).
È stato sostenuto che i progetti su Marghera falliscono soprattutto sotto la spinta dei nuovi movimenti che esplodono a partire dal 1968-1969 che chiedono nuovi modelli di vita, salvaguardia dell’ambiente e della salute(158). Questo è un altro aspetto della storia del porto industriale: la crescita del movimento operaio e il suo impatto politico. Infatti è fuori dei cancelli delle fabbriche, nelle manifestazioni e nelle assemblee del Petrolchimico che si salda l’alleanza tra gli studenti di Architettura e gli operai di Marghera. Nel corso del boicottaggio della Biennale d’arte del 1968, su «Rinascita», Luigi Nono parla di «contestazione classista» da parte del movimento studentesco «strettamente collegata alle lotte della classe operaia» che sono decisive «contro lo Stato capitalista»(159). Una caratteristica del panorama politico di Venezia è l’operaismo che coinvolge anche i socialisti lombardiani e il cattolicesimo sociale(160). In questi anni, gli operai del Petrolchimico diventano l’avanguardia del movimento operaio cittadino. Già a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta il 1° maggio di piazza Ferretto comincia ad assumere un’importanza superiore a quello che si svolge a S. Marco(161). Si gettano i presupposti di Venezia «isola rossa» nel Veneto «bianco», che si concretizza nel 1975 con la giunta di sinistra, in un momento però in cui la classe operaia già comincia ad assottigliarsi. Si tratta di un’onda lunga: i collegi delle zone di residenza degli operai di Marghera (Mira, Mirano, Mestre) ancora oggi esprimono voti a sinistra e scarsi voti alla Lega Nord.
Come si è detto, nelle battaglie contro Marghera si forma l’ambientalismo veneziano. C’è un filone che nasce proprio nelle fabbriche. Si tratta di un ambientalismo che deve fare i conti con la fabbrica «che inquina ma dà lavoro». Da questa scia proviene una forte componente dei verdi veneziani che entrano per la prima volta nel governo della città con la seconda giunta Casellati (P.R.I.-P.C.I.-P.S.I.-Verdi-P.S.D.I., 1988-1990)(162).
La presenza di Porto Marghera genera anche radicalismo politico. È teatro di gruppi extraparlamentari che identificano nel Petrolchimico il luogo principe dei conflitti contro il capitalismo monopolistico. Le attività di Ordine Nuovo a Venezia, e il coinvolgimento di neofascisti veneziani e mestrini nella «strategia della tensione» e in particolare nella strage di piazza Fontana, possono essere spiegati con la mancanza di spazi politici, dal momento che le piazze sono occupate dalla sinistra, operaia e studentesca(163). Venezia è una città nella quale tutto il consiglio comunale (quando è sindaco Giorgio Longo), a eccezione dei due missini, in seguito all’uccisione di un agente di polizia a Milano, nell’aprile 1973, vota un ordine del giorno nel quale si chiede, in sostanza, la messa fuorilegge dell’M.S.I.(164). Mestre è anche teatro di violenze di segno opposto: le Brigate Rosse commettono tre omicidi politici nel 1980-1981 (Sergio Gori, vicedirettore del Petrolchimico, Alfredo Albanese, commissario di polizia, e Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico)(165).
Nel contempo, le imprese artigianali e manifatturiere nel centro storico registrano un calo costante di addetti. Nel 1971 sono 6.999 (l’11,7% del totale); 4.447 nel 1981 (il 7,1%); nel 1991 risultano 2.986 residenti con professione in questo settore (il 10,9% della popolazione attiva). A partire dagli anni Cinquanta si è vista la progressiva chiusura delle grandi fabbriche ancora esistenti: Junghans, Mulino Stucky, Cotonificio, Tabacchificio e Arsenale militare, i luoghi storici e simbolici dell’industrializzazione veneziana(166). Ma hanno anche progressivamente chiuso aziende artigiane alimentari, dell’abbigliamento, delle calzature, dei tessuti; botteghe di fabbri, specieri (specchiai), marmisti e falegnami. Oltre alle crisi di settore, a gravare sulla decisione di chiudere o trasferirsi in terraferma sono il costo dei trasporti, le difficoltà di trasbordo, la mancanza di spazi per allargarsi e la necessità di rivolgersi fuori del centro storico per la riparazione e la rettifica dei macchinari. Inoltre c’è difficoltà a recuperare manodopera perché il mercato del lavoro a cui attingere è ristretto, segnato dai confini fisici dell’arcipelago e dai nuovi modelli di vita. Gli artigiani mestrini sono restii ad andare a lavorare nelle isole. I giovani preferiscono mestieri che non richiedono un lungo apprendistato e un’opera di costante attenzione, sotto lo stretto controllo del datore di lavoro. Spesso iniziano come apprendisti ma poi cercano impieghi pubblici, anche come operai, cosa che garantisce occupazione sicura e pensione, magari continuando a esercitare il mestiere in proprio nelle ore libere, lavorando ‘in nero’(167).
Quello del ricambio generazionale è stato ed è uno dei più gravi problemi dell’industria del vetro e della cantieristica, i due principali settori manifatturieri della Venezia insulare. Il lavoro nelle vetrerie è particolarmente duro e malsano, ore al caldo davanti alla fornace, in un contesto nel quale i bravi maestri possono guadagnare molto, ma i «servi di bottega» restano spesso privi di vera tutela legale e le donne sono relegate in operazioni sussidiarie(168). Stando ad alcune fonti, tra il 1951 e il 1991 a Murano (dove si concentrano molte delle aziende del settore) gli addetti alle industrie vetrarie sarebbero diminuiti da circa 3.200 a 1.920: questo è avvenuto più marcatamente dopo il 1971(169). C’è chi parla di un «estinguersi» dell’arte ma si tratta prima di tutto di un processo di ristrutturazione. Si è progressivamente spenta la produzione industriale in serie che aveva dominato il periodo fascista ed entra in crisi il comparto delle conterie (chiudono la Cristalleria Murano e la Società Veneziana Conterie). Si espandono invece le piccole imprese del vetro soffiato artistico, il settore dell’illuminazione e quello della lavorazione a lume. Si verifica anche il trasferimento di alcune aziende verso la terraferma (tra il 1966 e il 1971, 12 imprese si trasferiscono nel Noalese e nel Miranese)(170). Nonostante le minacce di crisi e gli alti e bassi, Murano è stata per tutto il periodo in grado di piazzare i suoi prodotti nei mercati internazionali. Le vetrerie rimangono tutt’ora rilevanti dal punto di vista qualitativo e del fatturato. Recentemente si è visto anche l’investimento di capitale esterno, in aziende come la Venini (passata alla Ferruzzi nel 1985 e alla Royal Scandinavia nel 1998) e la Salviati (alla Ferruzzi nel 1987 e alle Vetrerie Arc nel 1995)(171).
Il settore meccanico e della costruzione di oggetti metallici a livello comunale continua a mantere un elevato numero di addetti. Di maggior spicco sono quelle imprese volte alla costruzione di mezzi di trasporto: le Officine Aeronavali (legate all’aeroporto Marco Polo inaugurato nel 1960), i cantieri navali della Finmeccanica a Porto Marghera, quelli situati in centro storico (alla Giudecca ma oggi soprattutto all’Arsenale), a Pellestrina (De Poli) e al Cavallino (nautica da diporto). Nel 1981 si tratta di 54 aziende che danno lavoro a 4.871 persone: nei sestieri più la Giudecca, 18 imprese e 1.285 addetti. Ciò non toglie che si sia vista una decrescita di attività cantieristiche nel centro storico, soprattutto per la produzione di barche tradizionali in legno. Gli squeri diventano zone protette per fruizione estetica già negli anni Sessanta(172). Questo non significa che l’arte non abbia dimostrato capacità di innovazione. Per esempio, a metà degli anni Settanta un famoso maestro d’ascia costruisce il fondo delle gondole in compensato marino, dotandole di ombrinal (il buco per fare uscire l’acqua che entra col moto ondoso) e listelli in acciaio per dare robustezza allo scafo(173).
Un settore presente nel centro storico è quello edilizio: nel 1981, 220 imprese e 2.477 addetti, la metà di quelli nel territorio comunale (5.403). Le opere pubbliche e i restauri offrono fonti di reddito per un’industria che dopo il boom degli anni Cinquanta-Sessanta era entrata in crisi (10.153 occupati nel 1961). Si tratta perlopiù di imprese artigianali(174).
Nel 1979-1980 si elabora il lutto per la scomparsa dell’attività manifatturiera da Venezia, con gli itinerari di archeologia industriale di Hans Wieser e la mostra Venezia città industriale seguita, nel 1990, da quella sulle impiraresse, le operaie che, insieme alle tabacchine, tanto avevano segnato, con la loro presenza e visibilità, la città lagunare di fine Ottocento e primi del Novecento(175). La chiusura dei vecchi insediamenti apre però opportunità di riuso. L’Arsenale viene recuperato in parte dalla Biennale, dall’impresa di tecnologia marina Thetis e per attività cantieristiche; il Cotonificio e il Macello dalle Università; le birrerie della Giudecca sono convertite in appartamenti privati, l’area dell’ex fabbrica di fiammiferi Saffa in case popolari.
L’«esodo» delle industrie dalla Venezia insulare, in un contesto più ampio, apparve come un ricollocamento che portava sinergie e diffusione di imprenditorialità. Il trasferimento di aziende vetrarie a Marcon, Mirano e Scorzé contribuisce alla creazione di un nuovo distretto industriale di terraferma, integrato a Murano e che ora include anche Casale sul Sile, Ormelle e Resana: 3.829 addetti solo nella provincia di Venezia, dati del 1991. Ci sono aziende, come la Barovier & Toso, che accanto all’attività vetraria muranese hanno aperto in terraferma una divisione specializzata, in questo caso nell’elettrificazione e nella testatura dei prodotti(176). Il nuovo distretto si affianca all’altro, quello calzaturiero della riviera del Brenta che conta circa 600 imprese, 10.000 addetti, a quello mobiliere, che parte dal Livenza, fino ad arrivare nei pressi di Mestre, e a quello meccanico-motoristico, attorno all’Aprilia di Noale(177). Le fabbriche diffuse contribuiscono ad assorbire la disoccupazione fungendo da «polmone occupazionale dopo la crisi industriale di Porto Marghera»: un’opportunità che altre zone costiere industriali, come la Liguria, non hanno avuto(178). Queste iniziative sopperiscono alla relativa mancanza di ceto imprenditoriale nel comune di Venezia, peraltro simile ad altre città del fordismo come Torino e Genova, e rendono la struttura economica della terraferma più simile a quella del restante Nordest. In un certo senso si tratta di un riavvicinamento al Veneto, con tutto quel che comporta: una certa ‘anarchia’ salariale per esempio e la difficoltà di intervento delle organizzazioni sindacali(179).
Dal 1951 al 1991, la percentuale di residenti, con professione nel settore terziario, passa dal 53,8% al 74%. Il settore più dinamico è quello del credito e delle assicurazioni. Nel 1981, le classi del terziario con più addetti sono: commercio minuto alimentari, abbigliamento, arredamento, farmacie (12.048), pubblica amministrazione, sicurezza sociale obbligatoria (10.414), pubblici esercizi ed esercizi alberghieri (9.583), istruzione (9.008), sanità e servizi veterinari (7.365).
Nel 1991, l’80,5% dei residenti nel centro storico risulta svolgere professione nel terziario (28,2%, 4.575 nei servizi e pubblica amministrazione; 24,6%, 3.993 nel commercio; 14,4%, 2.326 nei trasporti e comunicazioni; 13,3%, 2.157 nel credito e nelle assicurazioni). Nel 1981, 52.716 persone, l’84,7% del totale degli addetti nel centro storico, lavorano nel settore. Le classi con più occupati sono: pubblica amministrazione, sicurezza sociale obbligatoria (8.625, l’82,8% del totale comunale), pubblici esercizi ed esercizi alberghieri (5.215, il 54,4%), commercio minuto alimentari, abbigliamento, arredamento, farmacie (5.074, il 42,1%), ferrovie (4.221, il 92,6%), trasporti fluviali, lacuali e lagunari (3.524, il 93,1%). Parrebbe da queste cifre che il processo di terziarizzazione, più marcato di quello medio del comune, sia caratterizzato dalla presenza consistente e quasi esclusiva di uffici ed enti pubblici, esclusiva dei trasporti lagunari e ferroviari, marcata ma non esclusiva di attrezzature di accoglienza dei visitatori e di pubblici esercizi e vendita al minuto di generi non alimentari(180).
Come luogo di occupazione nei servizi c’è anche il porto, che oltre ad avere attività industriali e petrolifere, ha quelle commerciali e turistiche. Fino agli anni Settanta c’è stata una fase di crescita soprattutto dei traffici industriali e petroliferi. Dopo di allora, invece, è la quota di prodotti commerciali sul totale delle merci trattate dal porto, che è andata progressivamente aumentando (1973, 14,1%; 1995, 28,3%), grazie al rilancio del traffico container, sebbene in termini quantitativi sia ancora il settore petrolifero a dominare (41,8%, 1995). Nel frattempo è aumentato anche il traffico turistico, con l’apertura di linee per la Grecia (1994). Dagli anni Cinquanta si è assistito a un graduale trasferimento delle attività commerciali a Marghera. Un piano operativo dell’autorità portuale prevede oggi la destinazione della Marittima esclusivamente al traffico passeggeri(181).
Quello che funge da grande risorsa economica per la città storica e tutto il territorio comunale è, appunto, il ‘turismo’. Si tratta di un sistema articolato in un polo artistico, S. Marco e dintorni, e due poli balneari, il Lido e il Cavallino. Il Lido rimane spiaggia sui generis con le capanne, con una forte caratteristica di luogo di vacanza dei veneziani, della sociabilità tra bambini, adolescenti e prevalentemente donne. Il Cavallino segue il boom di Jesolo come spiaggia di massa, meta di turisti stranieri, soprattutto dalla Germania. Il decollo è degli anni Sessanta, legato ai campeggi(182). Giovanni Comisso in visita a punta Sabbioni nel 1964 scopre già i segni del nuovo benessere europeo: un mondo fatto per il turista del Nord, nel quale si trova pane nero e birra tedesca(183). Negli anni Settanta, al posto di orti, sorgono frettolosi i villaggi turistici abusivi(184).
Venezia-centro si situa nel segmento del turismo «d’arte» (i «turisti d’arte» spendono in media più di quelli al lago, al mare, in montagna, alle terme, e meno soltanto dei congressisti, settore che è qui ancora debole) e si distingue per la forte presenza di alberghi di lusso (eredità della precoce industria turistica) e per l’elevata presenza di stranieri (85,5% degli arrivi negli alberghi del centro storico nel 1998, percentuale che sta sempre più crescendo, anche se già nel 1961 è alta, 76,4%)(185).
Dagli anni Cinquanta le presenze e gli arrivi sono in costante crescita. Nel 1966 gli arrivi nel comune di Venezia superano il milione e mezzo, nel 1998 si è a oltre 3 milioni(186). Venezia-centro vede in aumento il turismo residenziale ma si connota presto per una presenza di quello «pendolare». Si tratta dei visitatori che partono il mattino dal proprio luogo di residenza e tornano la sera, o di quelli che trovano da dormire nell’hinterland veneziano, o di quelli che vengono in gita giornaliera da un altro luogo di vacanza, oppure di quelli che sono solo di passaggio. Spendono meno, molti girano in gruppo, hanno il viaggio organizzato da agenzie. La presenza media di chi si ferma a dormire si abbassa fino a raggiungere nel settennio 1973-1979 la presenza media più bassa (2 giorni)(187).
Più che di industria si tratta, quasi, di rendita: non è necessario costruire grandi strutture spettacolari. La gestione del turismo si limita a offrire qualche attrazione in più: concerti, Carnevale. Il turismo perciò modifica più il paesaggio umano che quello fisico anche perché qui non c’è distinzione tra la città turistica e quella storica. Come ha osservato Mary McCarthy: «la Venezia turistica è Venezia: le gondole, i tramonti, la luce che cambia, il Florian, il Quadri, Torcello, l’Harry’s Bar, Murano, Burano, i piccioni, le perle di vetro, il vaporetto»(188).
Nel 1977 tra E.P.T. (Ente Provinciale per il Turismo), A.A.S.T. (Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo), Ufficio turistico commerciale, agenzie turistiche, C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), A.V.A. (Associazione Veneziana Albergatori), gondolieri, sandolisti, alberghi, affittacamere, ostelli, foresterie, campings, guide turistiche, intromettitori, commercianti in «specialità veneziane», venditori di grano, in «centro storico» ci sono 6.465 occupati. Si tratta dei lavori direttamente e totalmente turistici. Ai quali potremmo aggiungere gli occupati nelle categorie direttamente e parzialmente turistiche: dipendenti delle autorimesse, porta bagagli e addetti al deposito bagagli, lavoratori dell’A.C.N.I.L. (Azienda Comunale di Navigazione Interna Lagunare), taxisti acquei, addetti negli esercizi pubblici, in tutto altri 2.699. Totale complessivo: 9.164, il 18% dell’occupazione totale(189). Qualcosa è cambiato rispetto alla prima metà del secolo. L’industria dei souvenirs si rivolge ora al turista ‘di massa’: piatti, cappelli da gondoliere, gondole di plastica, cartoline, penne animate, vetri, macchine fotografiche con la veduta della città e jo-jo luminosi, ma anche articoli delle legatorie e maschere artigianali(190). Con la motorizzazione, negli anni Sessanta il punto caldo di arrivo non è più la stazione ferroviaria ma piazzale Roma e l’Isola Nuova del Tronchetto, il cui parcheggio automobilistico viene aperto nel 1961. Al posto del batidor, c’è l’intromettitore(191). Ai gondolieri si sono affiancati i taxisti acquei, regolari e abusivi: si apre un fronte di conflitto continuo soprattutto sul moto ondoso. Anche in questa metà del secolo i gondolieri recitano la parte dei custodi e guardiani della città contro i motori(192).
Il turismo ha un peso molto maggiore sulla città, però, di quanto farebbero pensare i soli dati sull’occupazione. Nel 1978 rappresenta un giro di affari tra i 300 e i 400 miliardi di lire(193). La spesa del turista, secondo una stima del 1988, consiste nel 61,5% del totale, rappresenta perciò una fonte di reddito assai rilevante che si distribuisce ben oltre i settori più direttamente turistici(194). Non solo c’è il fenomeno dei cambiamenti di licenza (negli anni Settanta chiudono latterie e aprono macellerie, negozi di vetri artistici, souvenirs e «curiosità artigianali»), ma anche quello dell’aggiunta delle tabelle merceologiche a cui fa riferimento ciascuna licenza: fotografi e tabaccherie che vendono sfere con la neve e cartoline, panifici che vendono «la pizza millegusti» con la bibita ghiacciata(195). Chiudono negozi fuori dei percorsi turistici nell’area di S. Marco e nelle strade che portano a piazzale Roma e alla stazione(196). Avviene una sorta di sfratto di luoghi per i residenti: il Circolo dell’Unione, luogo di ritrovo della nobiltà, negli anni Settanta lascia piazza S. Marco, il mausoleo del Quarantotto dietro la Fenice diventa un albergo e il cinema Olimpia un «caffè concerto» dove si suonano «famose melodie italiane».
Il peso della presenza dei visitatori si fa sentire sui servizi. Il comune, a fine secolo, ha la produzione pro capite di rifiuti tra le più elevate d’Italia, consuma più acqua ed energia elettrica pro capite di altre città(197). Questo comporta una certa sperequazione perché i costi di questi servizi sono in gran parte pagati dai residenti: il biglietto A.C.T.V. differenziato — meno caro per i possessori di un abbonamento o ‘carta Venezia’ — è un tentativo di correggere questo squilibrio. La presenza turistica pendolare tende ad abbassare la qualità dei servizi e delle merci in vendita e ad alzarne i prezzi: il commerciante non deve più coltivare il cliente di fiducia, le persone che entrano nel suo negozio sono spesso passanti da sfruttare che non torneranno più. Esiste però un’utenza colta e benestante che genera anche fenomeni di qualità. A Venezia c’è un alto numero di ristoranti e in questi anni, nonostante l’apertura delle pizzerie negli anni Settanta e, successivamente, dei primi cinesi, che peraltro hanno diversificato l’offerta, si è visto uno sviluppo anche interessante della cucina veneziana, con invenzioni raffinate tipo gli scampi in saòr. I bàcari più che estinguersi hanno visto nuovo impeto trasformandosi in ristorantini di pesce. L’ultimo decennio dunque non ha assistito soltanto all’apertura dei fast food.
Uno dei problemi dell’industria turistica è che in una prima fase offre lavori stagionali perché il grande turismo si limita da maggio a settembre con un buco ad agosto. Negli anni Settanta, la disoccupazione ricorrente dovuta alla stagionalità si va ad aggiungere alla crisi delle industrie manifatturiere. Ne consegue che alle tensioni per la difesa dei posti di lavoro si aggiungono le rivendicazioni degli stagionali che vogliono essere assunti regolarmente. In questo contesto si inquadra un exploit senza precedenti di malavita nella città antica, come la banda degli incappucciati di Sacca Fisola, e personaggi con venature romantiche e mitiche come Kociss o Primula Rossa, coinvolti in furti e rapine, comuni anche in terraferma dove si diffondono gli assalti alle ville isolate(198). Sacca Fisola è emblematica, descritta come «periferia milanese» è il nuovo topos della marginalità sociale. Gli fa da pendant, in terraferma, Ca’ Emiliani. Secondo «Il Gazzettino» la presenza del fenomeno della droga tra i giovani del centro storico è attribuibile all’instabilità dell’occupazione(199).
Negli anni Ottanta il turismo diventa meno stagionale. Gli enti locali sono riusciti a promuovere eventi lungo tutto l’anno. Il Carnevale, reinventato dagli studenti delle scuole medie a metà anni Settanta con improvvisate battaglie di farina nei campi e nelle calli e rilanciato da Maurizio Scaparro nel 1980, nell’ambito della Biennale del teatro, viene convertito in attrazione spettacolare a uso dei turisti(200). La bassa stagione si riduce ora a gennaio-febbraio e ottobre-novembre fornendo un’occupazione più stabile e guadagni più regolari. La tendenza inoltre è verso una presenza media maggiore (nella seconda metà degli anni Novanta nel centro storico ha quasi raggiunto i 3 giorni) e dopo una fase di stasi, si è vista ultimamente un’espansione dell’offerta letti. Secondo la Guide Bleu ora il problema sono semmai i «disordini psicologici» causati dal guadagno facile: l’alto numero di bambini obesi e «il flagello della droga, molto diffuso tra i gondolieri, che guadagnano facilmente il doppio di un professore universitario, e sarebbero spesso depressi»(201).
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, il programma D.C. si propone di intensificare il turismo «non solo di qualità, anche di massa»(202). Negli anni Settanta c’è la polemica contro il turista «pendolare», frettoloso, «al visitatore, cioè che ha scambiato la città per un museo da visitare nelle cosiddette ore di ufficio»: portano meno soldi, generano ingorghi, rappresentano una «invasione»(203). Negli anni Ottanta, nei momenti di punta a Pasqua, Carnevale e Ferragosto, si parla di chiusura del ponte della Libertà in caso di eccessivo afflusso(204). Si tratta di immagini che fotografano, ancora grossolanamente, le diverse fasi attraverso cui passa l’economia turistica a Venezia in questi anni, una città che mal sopporta il turismo di massa e ha ancora nostalgia del turismo di élite degli anni Trenta. Si fa strada l’idea di una «gestione dei flussi»(205).
Un fenomeno in reazione all’afflusso di non-residenti è la dichiarazione della ‘sacralità’ dell’area marciana, sancita da un’ordinanza del sindaco del 1972 che «colpisce il ‘comportamento scomposto’ di chi ‘consuma viveri al sacco gettando a terra i rifiuti’ in piazza e nelle immediate vicinanze ‘compromettendo il tradizionale decoro del centro artistico’». È vietato perciò «fare colazione, giocare a carte e dare spettacolo di inciviltà»(206). È interessante come questo significhi attribuire per legge una differenza di qualità dello spazio attorno alla Piazza rispetto al resto della città. È un elemento che riemerge, esteso però a tutto il centro storico inteso come «patrimonio mondiale» e «delicato equilibrio», nelle polemiche contro giovani visitatori che dormono all’aperto in sacco a pelo (1986) e dopo l’arrivo di 200.000 giovani per il concerto dei Pink Floyd in occasione della festa del Redentore (1989)(207).
A Venezia si usano certe autodifese: si parla il dialetto per farsi riconoscere nei negozi per evitare prezzi esosi; si evitano i locali pubblici «per turisti» e le zone battute dalle comitive e dalle gite scolastiche. C’è estraneità e separatezza tra il mondo della popolazione più o meno stabile e quello della popolazione mobile che la circonda. Paolo Barbaro una sera d’estate del 1995 osserva le colonne di foresti in ritirata verso il Tronchetto «in ordine sparso, accaldati e sfatti» seguite dagli «squadroni dei lavoratori al servizio di turisti» che tornano a Mestre: «addio amici; eccoci rimasti soli, noi insulari, nelle nostre quattro isolette»(208). C’è però chi si sente egli stesso a sua volta osservato, prigioniero di un teatrino. Nel 1985 Antonio Alberto Semi immagina di trovare, dopo un viaggio, Venezia tutta cambiata: niente più televisione, epurati tutti i libri stampati prima del 1797, mobili in stile. Il comitato protezione dei veneziani costringe i bambini a parlare solo veneziano. Gli abitanti non devono più lavorare, a meno che non vendano specialità veneziane, ma solo camminare in pubblico per farsi vedere dai turisti. Se si va a Mestre si perdono i diritti perché per legge si è considerati parte dell’arredo urbano. Dopo morti si finisce impagliati ed esposti nelle Corderie dell’Arsenale(209).
Il riferimento alle Corderie non è fuori luogo: sono diventate infatti area espositiva della Biennale che ha allargato i suoi spazi occupando, in occasione delle mostre, diverse parti della città. Nell’ultimo quarto di secolo l’istituzione, che nel 1995 ha celebrato il suo centenario, ha aperto nuovi settori nel campo dell’architettura e della danza. Nel 1968 è stata teatro di un importante capitolo della storia del movimento studentesco che l’ha contestata. Nel 1976 la sua mostra sul dissenso in Europa dell’Est ha avuto 692.000 visitatori. Questo va contestualizzato nello sviluppo di quella che è stata chiamata l’«industria culturale». Oggi la città pullula di istituzioni, archivi, musei e fondazioni culturali: alla Cini (che nel 1980 e nel 1987 ospita i summit del G7), alla Guggenheim, ai Musei Civici (che includono, tra gli altri, Palazzo Ducale, Correr, Ca’ Rezzonico e Casa Goldoni), all’Archivio di Stato, alla Querini (restaurata da Carlo Scarpa nel 1963), alla Bevilacqua La Masa, si aggiungono la Fondazione Levi per gli studi musicali (1962), l’Università internazionale dell’arte (1970), palazzo Grassi rifondato dalla Fiat (1986), la Fondazione della Cassa di Risparmio (1992) e l’Archivio Nono (1993). Questo solo per citare alcuni esempi(210).
Le due Università veneziane vedono un salto quantitativo e qualitativo notevole, soprattutto dopo il 1970 con la creazione di nuovi corsi di laurea (Pasquale Saraceno fonda Economia e commercio, Emanuele Severino Filosofia, Gaetano Cozzi e Marino Berengo Storia, Giovanni Astengo Urbanistica). Nel 1997, invece, ha aperto i battenti la Venice International University, mentre uno dei risultati più innovativi della riforma universitaria è la fondazione della facoltà di Disegno industriale e arti visive presso l’Istituto Universitario di Architettura. Ca’ Foscari ha 1.924 iscritti nel 1954, 5.660 nel 1968, 18.429 nel 1995 (9.111 dei quali iscritti alla facoltà di Economia). La presenza studentesca ha rivitalizzato zone fino a qualche decennio fa marginali come S. Marta e S. Giobbe e dato nuova centralità, anche notturna, alla zona di S. Margherita(211).
Negli ultimi quarant’anni è stato rinverdito il mito della morte di Venezia. Piazza S. Marco nel 1966, il film di Luchino Visconti del 1971, la Fenice che brucia nel 1996 ne sono in qualche modo le icone. Ma non si tratta più del mito letterario-artistico ottocentesco. Ora l’immagine dell’apocalisse veneziana viene prodotta da analisi scientifiche della realtà: acque alte, turismo e soprattutto «esodo». Una studiosa ha tentato di calcolare la popolazione futura del centro storico sulla base dei dati precorsi. Nell’ordine di 25 o 40 anni ci sarebbe lo spopolamento totale. Però — spiega — si tratta di un «contesto apocalittico e in certa misura irrealizzabile», perché è verosimile «che almeno gli addetti al turismo e al paraturismo, di quella che diventerà una sorta di ‘Disneyland della memoria’, continuino a risiedere in città, almeno per certi periodi dell’anno». A meno che il livello del mare non salga, altrimenti «le tendenze evidenziate assumeranno andamenti più o meno drammatici»(212). Nella stessa prospettiva altri hanno sostenuto che Venezia «sta scivolando verso il limite del non-ritorno»; la città non avrà più le forze per tramandare i propri caratteri trasmessi a fatica di generazione in generazione per un millennio(213).
È inoppugnabile che il progressivo spopolamento del centro storico sia uno dei tratti principali della storia di Venezia negli ultimi quarant’anni, soprattutto per le paure che ha generato e continua a generare. Le previsioni suesposte appaiono discutibili perché, probabilmente, la diminuzione del numero di abitanti troverà un suo limite fisiologico, ed è altamente improbabile che restino solo le attività turistiche. Inoltre potrebbe prendere il via un nuovo ciclo urbano che vede un ritorno della residenzialità nelle città antiche. Infatti la diminuzione di abitanti non è dovuta a un evento catastrofico irreversibile. Si colloca nel contesto di tutta una serie di grandi trasformazioni che in Italia, con il miracolo economico, ha coinvolto i principali centri. I cambiamenti epocali che il territorio veneziano ha visto in questi ultimi anni non attestano la fine della storia di Venezia, bensì la sua continuazione, e neppure in un ruolo secondario. La città è entrata nell’epoca postmoderna, caratterizzata da una nuova coscienza ambientale, da tentativi di innescare uno sviluppo sostenibile con l’ambiente, da tensioni tra globalizzazione e identità locali, da mobilità residenziale, spostamenti per lavoro e consumo, dilatazione del tempo libero, crisi dell’industria fordista. Questa è l’epoca in cui il turismo è una delle maggiori risorse economiche delle città, e Venezia è in questo uno dei leaders mondiali e ha visto anche aumentare la sua portata internazionale, non solo come «luogo della memoria», magnetico, spettacolare e mercificato, ma anche come scenario di conflitti e problemi — come dice Piero Bevilacqua — «planetari»(214). Il suo stesso patrimonio simbolico è più che vivo, anzi talvolta soffocante, e non è soltanto elaborazione del lutto per la scomparsa della Serenissima. Esso può in qualsiasi momento ritornare attivo e attualissimo, in modi anche inaspettati: come durante la presa del campanile di S. Marco da parte di un gruppo secessionista veneto, nel 1997(215).
La terziarizzazione di Venezia, che come «città d’arte» significa soprattutto turismo, l’«esodo» della popolazione residente e delle industrie verso la periferia e le cinture urbane, vanno letti in un contesto più ampio, che in fondo è quello dell’espansione economica, della mobilità e, se vogliamo, del postfordismo e della globalizzazione: mutamenti di stili di vita, diffusione della motorizzazione e avvento del turismo di massa.
Prima degli anni Cinquanta-Sessanta il nucleo urbano storico era popolato soprattutto dai suoi abitanti che costituivano il gruppo principale di consumatori e lavoratori. Dopo le grandi trasformazioni, la situazione cambia in modo radicale. Il numero degli abitanti è diminuito, mentre è cresciuto il numero di persone che con una regolarità più o meno giornaliera vengono nel centro urbano per motivi di lavoro o di studio e quelli che ci vengono temporaneamente, come utenti dei servizi pubblici e privati che la città offre, per recarsi negli uffici, fare passeggiate, visitare la città, fare acquisti, andare a un museo, a un convegno o partecipare a un evento. Oggi, la città è popolata non più soltanto dai residenti ma da pendolari e city users (individui che, in diversi modi, la ‘usano’). Nel 1999 i residenti erano 67.838. A questi dovremmo aggiungere gli studenti e i proprietari e gli affittuari di seconde case per permanenze stagionali o periodiche. Nel 1995 gli studenti universitari «con domicilio fuori sede» che vivevano nella Venezia insulare erano circa 6.000 e da una stima basata sui consumi dell’acqua, dell’elettricità e del gas risulta che, nel 1998, il 14% degli alloggi abitati continuativamente (circa 3.000 abitazioni) avevano bollette intestate a non-residenti: quest’ultima cifra sottovaluta il fenomeno perché molti affittuari non fanno la voltura(216). Nel 1991 i pendolari per lavoro erano 27.541, di cui 13.542 dalla terraferma comunale, 5.873 dai comuni della cintura, 5.604 dall’estuario e 2.522 dal resto della provincia(217). Venezia-centro infatti ancora oggi è il principale polo occupazionale del comune. Nel 1987, invece, risultava una media di 20.000 visitatori al giorno e per 6 giorni di punta si erano avuti più di 60.000 visitatori(218). In sostanza, a fronte di 60.000 circa residenti, nel 1993 Costa parla di 90.000 persone che «ogni giorno entrano [nel centro storico] per motivi di lavoro, affari o altro»(219).
Se concepiamo Venezia ancora come fatta soltanto dei suoi abitanti, magari quelli originari, finiamo con l’appiattirci su di loro e assumere il loro punto di vista, percependo i turisti come intrusi o come risorsa economica, e vedendo le trasformazioni come una minaccia alla sopravvivenza della città; finiamo così con il costruire una storia di Venezia contemporanea come storia dei residui della venezianità originaria. In realtà quello che avviene è l’entrata di Venezia nella dimensione metropolitana. Guido Martinotti direbbe «di seconda generazione» per la presenza, appunto, di city users(220). Paolo Perulli parlerebbe di passaggio dalla città murata alla città delle reti(221). Questo avviene con tutte le luci e ombre che comporta e con l’eccezionale persistenza, nei sentimenti e nell’edificato, dell’urbs medievale. I nuovi conflitti tra residenti e non-residenti sono diventati una delle principali fonti di tensione. La questione dell’ampiezza e dell’identità della nuova città rimane ancora aperta. Ma è proprio questo essere immersa nelle contraddizioni del presente che ci consente di dire, senza retorica, con Jean-Paul Sartre: «Certo Venezia è morta. Ma come brulica di vita!»(222).
1. Pietro Zampetti, Il problema di Venezia, Firenze 1976, p. 1.
2. Le località sono Venezia-centro, Giudecca, Burano, Ca’ Vio, Chirignago, Favaro Veneto, Lido, Malamocco, Malcontenta, Marghera, Mestre, Murano, Pellestrina, Zelarino. Cf. Comune di Venezia, Annuario di statistica 1954, 1955, 1956, 1957, 1958, 1959, Venezia 1956, 1957, 1958, 1959, 1960, 1962.
3. Estuario: Burano, Ca’ Vio, Lido, Malamocco, Murano, Pellestrina. Terraferma: Chirignago, Favaro Veneto, Malcontenta, Marghera, Mestre, Zelarino. Cf. Id., Annuario di statistica 1960, 1961, 1962, 1965, 1966, 1967, 1968, Padova 1964, 1964, 1965, 1970, s.a., 1972, 1973.
4. Id, Annuario di statistica 1969-1978, s.n.t.
5. Renato Desideri, La popolazione di Venezia e suo quadro storico durante la Repubblica Veneta, in Comune di Venezia, Annuario di statistica 1956, Venezia 1958, pp. XI-XXVIII. Peraltro lo schema ricalca quello del censimento 1951 (Istat, IX Censimento generale della popolazione. III Censimento generale dell’industria e del commercio. 4-5 novembre 1951. Caratteristiche demografiche ed economiche dei grandi comuni, I-III, Roma 1959: I, Dati riassuntivi e dati dei comuni con oltre 100.000 abitanti, p. 87).
6. Comune di Venezia-Fondazione «Giorgio Cini», Atti del convegno internazionale ‘Il problema di Venezia’, Venezia 1964; Unesco, Rapporto su Venezia, Milano 1969.
7. R. Desideri, La popolazione, pp. XVI-XIX.
8. Id., Alcuni aspetti demografici, economici e sociali del Comune di Venezia durante l’anno 1957, in Comune di Venezia, Annuario di statistica 1957, Venezia 1959, pp. XI-XXV.
9. Paolo Costa-Bruno Dolcetta-Gianni Toniolo, La nuova scala della città (1971), in Paolo Costa, Venezia. Economia e analisi urbana, Milano 1993, pp. 3-9 (traduz. dalla versione originale pubblicata in inglese con il titolo The New Scale of the City, «The Architectural Review», 1971, vol. CXLIX, nr. 891, pp. 310-312).
10. Giorgio Bellavitis, Venezia città e società: equivoci e prospettive, «La Rivista Veneta», 1972, nrr. 16-18, pp. 61-71.
11. Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, pp. 24, 31, 33-34, 48-51.
12. Id., Venezia e il Veneto, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 1059 (pp. 1037-1065).
13. Bruno Visentini, Venezia si cambia, Venezia s.a. [ma 1989] (foglio propagandistico del Comitato promotore della proposta di legge regionale di iniziativa popolare per il ripristino delle autonomie comunali di Venezia e di Mestre).
14. Sapere decidere sì, s.l. 1989 (brochure del Movimento per l’autonomia amministrativa di Mestre e della terraferma).
15. Comitato Una Città (la nostra). Tesi costituenti, Mestre s.a. [ma 1989] (volantino). Sui referendum cf. Paola Sartori, Il referendum del 1979, in Mestre infedele. Confini comunali in terraferma e rapporti tra Mestre e Venezia, a cura dell’Associazione storiAmestre, Portogruaro 1990, pp. 86-94; Alessandro Voltolina, Separazione, autonomia, integrazione. Appunti dal dibattito sulla stampa cittadina, ibid., pp. 95-106.
16. Comune di Venezia, Il censimento 1981 delle attività economiche a Venezia. VI Censimento generale dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato, Venezia s.a.; Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, Venezia 1998, e Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, Venezia 1999.
17. Roberto D’Agostino, La città bipolare: centralità urbana e qualità diffusa, in La nuova dimensione urbana: Venezia-Mestre nella regione Veneto, Venezia 1990, p. 61 (pp. 61-73).
18. Venezia. Il nuovo piano urbanistico, a cura di Leonardo Benevolo, Roma-Bari 1996, p. 5.
19. Paolo Costa, Mecenate sì, mecenate no, in Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla Monarchia alla Repubblica, Venezia 1997, p. 437 (pp. 429-440).
20. Ibid., p. 435.
21. Cf. Nedim R. Vlora, Città e territorio. Distribuzione e crescita urbana in Italia (analisi metodologica), Bologna 1979.
22. Marco Torres-Francesca Morellato, Le conurbazioni in Italia 1971-1991, «Archivio di Studi Urbani e Regionali», 1995, nr. 54, pp. 45-109; Idd., Il fenomeno delle conurbazioni in Italia 1971-1991, Venezia 1995.
23. Ada Becchi, Le ‘mappe sociali’ delle dodici maggiori città italiane e delle loro aree metropolitane, in Caratteri delle recenti trasformazioni urbane. Osservatorio città, a cura di Ead.-Francesco Indovina, Milano 1999, p. 61 (pp. 15-68).
24. Sulle diverse fasi attraverso cui passano le città tra il XIX e il XX secolo in termini del rapporto centro-periferia cf. Paolo Guidicini, I centri storici, Roma 1976, in partic. il cap. II; Thomas Bender, The New Metropol;itanism and the Pluralized Public, «Harvard Design Magazine», Winter-Spring 2001, p. 70 (pp. 70-77).
25. Alberto Cavallari, Mestre: West, Babilonia e vergogna, in Indro Montanelli-Alberto Cavallari-Piero Ottone-Gianfranco Piazzesi-Giovanni Russo, Italia sotto inchiesta. «Corriere della Sera» 1963-65, Firenze 1965, pp. 282-283 (pp. 282-286).
26. Concetto mutuato da Kevin Lynch, L’immagine della città, Venezia 1984; cf. anche Piero Brunello, Dubbi sull’esistenza di Mestre e prove della sua inesistenza, «Oltre il Ponte», 8, 1990, nr. 31, pp. 147-161.
27. Per i dati sulla superficie acquea: Comune di Venezia, Il censimento 1991 a Venezia, Venezia 1994, p. 5. Sugli abitanti del centro e delle frazioni cf. Istat, IX Censimento generale, I, p. 87.
28. Sulla «città diffusa» cf. Maria Chiara Tosi-Stefano Munarin-Paola Viganò, Veneto, in Alberto Clementi-Giuseppe Dematteis-Pier Carlo Palermo, Le forme del territorio italiano, II, Ambienti insediativi e contesti locali, Roma-Bari 1996, pp. 128-147.
29. Istat, IX Censimento generale, I-III.
30. Cf. per esempio A. Becchi, Le ‘mappe sociali’, pp. 17-23.
31. Intervento di Isabella Scaramuzzi, in Associazione Olof Palme, Atti degli incontri Conosci la tua città. Itinerario di conoscenza e cultura sugli aspetti vecchi e nuovi di Mestre, Mestre-Venezia 1989, pp. 61-65.
32. Utile da questo punto di vista la nozione di «territorio di circolazione» in Alain Tarrius, Territoires circulatoires et espaces urbains. Différenciation des groupes migrantes, «Les Annales de la Recherche Urbaine», giugno-settembre 1993, nrr. 59-60, pp. 50-60; cf. anche Pierluigi Crosta-Andrea Mariotto-Antonio Tosi, Immigrati, territorio e politiche urbane. Il caso italiano, in Migrazioni. Scenari per il XXI secolo. Atti del convegno, III, Roma 2000, pp. 1215-1294. Sull’avvento della «città delle reti» che succede a quella «delle mura» cf. Paolo Perulli, La città delle reti. Forme di governo nel postfordismo, Torino 2000.
33. Luigi Scano, Venezia: terra e acqua, Roma 1985, pp. 117-120 e 175; Giannandrea Mencini, Venezia acqua e fuoco. La politica della ‘salvaguardia’ dall’alluvione del 1966 al rogo della Fenice, Venezia 1996, pp. 27-33.
34. Michele Pelluso, Area metropolitana: da dove verso dove, «La Rivista Veneta», gennaio-giugno 1991, nr. 37, pp. 1-21; leggi regionali 8 giugno 1990 nr. 142 e 12 agosto 1993 nr. 36; Unificare Padova e Venezia, «La Nuova Venezia», 30 settembre 2000.
35. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, Milano 1987, p. 138.
36. P. Guidicini, I centri storici, cap. II.
37. L. Scano, Venezia: terra, p. 137; G. Mencini, Venezia acqua, p. 3.
38. Mostra storica della laguna veneta, catalogo della mostra, Venezia s.a. [ma 1970].
39. G. Mencini, Venezia acqua.
40. Giulio Obici, Venezia fino a quando?, Venezia 1996, p. 32.
41. Ibid., pp. 14 e 33.
42. G. Mencini, Venezia acqua.
43. Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla Monarchia alla Repubblica, Venezia 1997.
44. Vogalonga in Laguna, «Il Gazzettino», 18 gennaio 1975.
45. P. Sartori, Il referendum del 1979, p. 92.
46. Sandro Meccoli, Salvare Venezia: da chi?, «Meridiani», 1, settembre 1988, nr. 1, pp. 64-67; interessante anche Id., La battaglia per Venezia, Milano 1977.
47. Unesco, Venice Restored, s.n.t.
48. Sandro Ambrosino, La salvaguardia di Venezia. Leggi e programmi di intervento, Padova 1996.
49. Indro Montanelli, Per Venezia, Venezia 1969; Wladimiro Dorigo, Una laguna di chiacchiere, Venezia 1972.
50. G. Mencini, Venezia acqua, pp. 68-77.
51. Venezia ’75-’80. Cinque anni di governo della città, suppl. nr. 1 di «Comune di Venezia», 1980, nr. 9; Franca Marcomin-Nadia Filippini-Irene Gola-Graziella Goattin Vendrame-Maria Pia Miani, Il Centro donna. L’avventura, il progetto 1980-1993, Venezia s.a.
52. Su tutti i progetti in generale cf. Guido Zucconi, Grandi progetti per una più grande Venezia, in Vene;zia Novecento, nr. speciale di «Insula. Quaderni», 2, settembre 2000, nr. 4, pp. 61-67. Sul piano regolatore generale in partic. cf. W. Dorigo, Una legge, pp. 77-84.
53. Luisa Querci Della Rovere, L’Ospedale di Le Corbusier a San Giobbe, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 276-285.
54. Giusto Tolloy, Venezia, per salvarle la storia e restituirle la vita. Come? Perché?, Verona 1968; Carlo Giacomini, Materiali per una ricostruzione della storia, delle proposte, del dibattito e delle realizzazioni di sistemi di trasporto pubblico su ruote a Venezia, in Venezia su ruota? Logiche valutative in un’esperienza didattica, a cura di Id.-Domenico Patassini, Venezia 1996, pp. 39-43 (pp. 21-63).
55. Giorgio Lombardi-Carlo Aymonino, L’Arsenale di Venezia e l’Expo 2000, Venezia s.a.; Renzo Piano-Ugo Camerino-Giampaolo Mar, Istruttoria: un magnete sulla gronda lagunare, Venezia s.a.; Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni. Fine secolo a Venezia, Milano 1991, pp. 93-98.
56. Cesco Chinello, La produzione, il lavoro, i movimenti, in Porto Marghera: le immagini, la storia, 1900-1985, catalogo della mostra, Torino 1985, p. 11 (pp. 7-13); W. Dorigo, Una legge, pp. 82-83.
57. Cf. per esempio Un piano concreto per la metropolitana, «Il Gazzettino», 18 aprile 1965; Intervento del prof. Luigi Piccinato, in Comune di Venezia-Fondazione «Giorgio Cini», Atti del convegno internazionale ‘Il problema di Venezia’, Venezia 1964, pp. 344-345 (pp. 339-346); C. Giacomini, Materiali.
58. Intervento dell’ing. Eugenio Miozzi, in Comune di Venezia-Fondazione «Giorgio Cini», Atti del convegno internazionale ‘Il problema di Venezia’, Venezia 1964, pp. 281-304.
59. Intervento di mons. Valentino Vecchi, ibid., pp. 225-228.
60. Unesco, Rapporto, pp. 102-104.
61. Ibid., p. 104.
62. Oltre ai «Quaderni di Studi e Notizie del Centro Studi Storici di Mestre», v. Luigi Brunello, Mestre: il porto, il castello, Mestre 1971, e Adriana Gusso, Mestre: le radici, identità di una città, Padova 1986. Tra le pubblicazioni del Municipio di Mestre cf. in partic. Mestre, un bacio e addio. Mestre nella letteratura da Machiavelli a Ernest Hemingway, a cura di Ivo Prandin, Mestre 1998; Hemingway a Mestre, s.n.t. [ma Mestre 1999]; Mestre attraverso le medaglie, a cura di Piero Voltolina, Venezia-Mestre 2000.
63. Venezia. Il nuovo piano urbanistico.
64. Municipalità, si sperimenta, «Il Gazzettino», 12 settembre 2000.
65. Filippo Benfante, Tifosi, «Altrochemestre», primavera 1997, nr. 5, pp. 43-46.
66. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. IX.
67. Roberto Mainardi, Caratteristiche demografiche ed economiche delle grandi città italiane, in Le grandi città italiane. Saggi geografici ed urbanistici, a cura di Id., Milano 1971, pp. 21-87.
68. Antonella Prete, Le modificazioni della città di Venezia attraverso l’analisi delle cause demografiche, «La Rivista Veneta», gennaio-giugno 1989, nr. 35, pp. 101-113; W. Dorigo, Una legge, p. 99; Giandomenico Romanelli-Guido Rossi, Mestre. Storia, territorio, struttura della terraferma veneziana, Venezia 1977, p. 57.
69. Nostra elaborazione su dati raccolti in A. Prete, Le modificazioni, p. 111.
70. Elaborazione dell’autore sulla base dei dati pubblicati in Comune di Venezia, Annuario di statistica 1958, 1959, 1960, 1961, 1962.
71. Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. IX.
72. A. Becchi, Le ‘mappe sociali’, p. 48.
73. Cf. oltre ai numeri dell’Annuario di statistica, già citati a n. 70, quelli del 1954, 1955, 1956, 1957, 1965, 1966, 1967, 1968; Comune di Venezia, Annuario di statistica 1969-1978, e Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, p. 48. I dati si riferiscono al 31 dicembre di ogni anno.
74. La serie storica del saldo naturale 1988-1998 si trova in Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 56, cf. però anche la serie 1971-1997, in Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, p. 48.
75. Sull’età media della madre, v. Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 4.
76. Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, e Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998.
77. Istat, 13° censimento generale della popolazione 1991. I Grandi comuni: Venezia, Roma 1995, p. 22, e Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 130. Le cifre si riferiscono a fine anno.
78. Per la percentuale nazionale cf. Istat, L’Italia in cifre. 2000, Roma 2001, p. 7, in realtà riferita al 1° gennaio 1999.
79. Id., La presenza straniera in Italia negli anni ’90, Roma 1998.
80. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998.
81. Sempre Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, e Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998.
82. Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 33.
83. Cf. fonti già citate.
84. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. IX.
85. Elaborazione dell’autore sui dati della Serie storica popolazione residente nel Comune di Venezia, in Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. IX, e G. Romanelli-G. Rossi, Mestre, p. 53, tab. 1.
86. Elaborazione dell’autore sulla base dei dati pubblicati in Comune di Venezia, Annuario di statistica 1958-1962.
87. Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. IX.
88. Elaborazione dell’autore sulla base dei dati pubblicati in Id., Annuario di statistica 1958-1962.
89. Cf. l’intera serie dell’Annuario di statistica.
90. Ibid. e altre fonti citate (in partic. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1997, p. 48).
91. Id., Annuario di statistica 1958-1962.
92. Nostra elaborazione su dati di Id., Informazioni statistiche. Annuario 1997, p. 60.
93. A. Prete, Le modificazioni, p. 110; Mario Fazio, I centri storici italiani, Milano 1976. Si tratta di cifre da prendere con una certa cautela: gli altri Comuni non hanno infatti la stessa preoccupazione di misurare anno per anno le differenze nell’andamento demografico delle parti che li compongono. Questa incertezza non inficia l’esistenza e l’entità del fenomeno, semmai conferma (al di là della tradizione statistica tutta veneziana, presente anche nell’Ottocento e nel periodo della Serenissima) quanto qui venga percepito come un problema un fatto che altrove non viene considerato altrettanto importante.
94. Guido Piovene, Viaggio in Italia, Milano 1957, pp. 21-33.
95. Antonio Alberto Semi, Venezia in fumo 1797-1997, Milano 1996, p. 72.
96. Dati riportati in Unesco, Rapporto, pp. 80-81.
97. Comune di Venezia, Annuario di statistica 1961, e I primi dati del nuovo censimento. La popolazione del Centro storico diminuita di quarantamila unità, «Il Gazzettino», 3 gennaio 1962.
98. G. Piovene, Viaggio in Italia, pp. 22 e 27.
99. Censis, Indagine sul contenimento dell’esodo dal Centro storico di Venezia, pt. I, Roma 1973, pp. 116-120; W. Dorigo, Una laguna, pp. 92-98; Anna De Angelini-J. De;kleva-Luigi Di Prinzio, Sintesi della ricerca Censis sull’esodo dal centro storico, «La Rivista Veneta», 7, aprile 1972, nrr. 16-18, pp. 158-162.
100. Eileen Casarini, Ethos and the Resistance to Change Among the Venetians of Venice, Italy, tesi di dottorato, University of California, 1983.
101. Censis, Indagine.
102. Un rinnovamento lento e faticoso, «Il Gazzettino», 26 giugno 1962.
103. Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma 1996, p. 84; Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino 1998, pp. 161-162.
104. Giovanna Lazzarin, Coin, «Altrochemestre», primavera 1998, nr. 6, pp. 27-28.
105. Per la sicurezza del traffico. Individuare e punire i teppisti del volante, «Il Gazzettino», 9 ottobre 1962; La città di notte, ibid., 30 gennaio 1963; Quando andremo a 70 sul ponte?, ibid., 10 febbraio 1963.
106. Giovanni Urbani, Dio nostro padre. Lettera pastorale per la Quaresima 1961, Venezia s.a.
107. Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Torino 1983, p. 219.
108. La casa, un sogno proibito, «Il Gazzettino», 5 aprile 1975; Ogni giorno scene di esasperazione, ibid.
109. Dall’autostrada Ve-Pd del 1933 alla tangenziale di Mestre, a cura della Società autostrade di Venezia e Padova, s.n.t.
110. Comune di Venezia, Il censimento 1991 a Venezia, Venezia 1994, p. 250, tab. B.6.
111. G. Romanelli-G. Rossi, Mestre, p. 78, tab. 27.
112. Cf. Comune di Venezia, Il censimento 1991, pp. 244-259.
113. Franca Matassoni-Michelangelo Savino, Alle radici della città diffusa: l’indifferenza localizzativa e la pianificazione mancata, in La città diffusa, Venezia 1990, pp. 101-139.
114. Bruno Pagliaro, Chirignago, Gazzera, Venezia 1979, p. 33; Claudio Zanlorenzi, Casa di Dina e Silvano, memoria dattiloscritta, Zelarino giugno 1999; anche testimonianza della figlia di Mauro, operaio di Marghera che abita a Mestre, in Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace, a cura di Gianfranco Bettin, Milano 1998, p. 129; Molti e complessi i problemi della periferia. A Carpenedo città e campagna muovono assurdi contrasti, «Il Gazzettino», 22 gennaio 1963.
115. Una città dispersa, «Urbanistica», 98, marzo 1990, pp. 104-119; Sergio Dinale-Paolo Falquin-Mauro Frate-Daniele Paccone-Roberto Raimondi-Paola Rigonat Hugues-Francesco Spanò, Un progetto urbanistico per Mestre, tesi di laurea, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.a. 1988-1989; Stefano Munarin-Maria Chiara Tosi, Un’indagine urbanistica sui nuovi territori dell’abitare. Un’esplorazione progettuale per la costruzione di un paesaggio adeguato: il caso dell’area vasta mestrina, tesi di laurea, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.a. 1990-1991.
116. Il nuovo volto della città, «Il Gazzettino», 23 agosto 1962; Chiaroscuri della nuova città, ibid., 31 agosto 1962; Resistono numerose isole di vecchiume, ibid., 8 febbraio 1963.
117. Laura De Carli-Michele Zaggia, Tipologie edilizie e qualità architettonica, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983, pp. 131-132 (pp. 112-140).
118. Aretusa verso il degrado, «Il Gazzettino», 21 agosto 1975.
119. Un fenomeno tutto mestrino. Una ‘città in vendita’ per i ricchi emigrati?, ibid., 11 dicembre 1962.
120. Diminuiti i prezzi degli appartamenti, ibid., 26 luglio 1964.
121. Il quartiere Bissuola attende la soluzione dei suoi problemi, ibid., 16 gennaio 1963; Molti e complessi i problemi della periferia. A Carpenedo città e campagna muovono assurdi contrasti, ibid., 22 gennaio 1963; Il quartiere miranese è rimasto a metà strada tra città e campagna, ibid., 12 febbraio 1963; Lotta contro le zanzare, ibid., 14 gennaio 1963; Lettere al cronista, ibid., 7 luglio 1963.
122. Lettere al cronista. Benvenuti a Venezia, ibid., 21 febbraio 1962.
123. Antonello Frongia, Terrazzini, «Altrochemestre», primavera 1994, nr. 1, p. 11.
124. B. Pagliaro, Chirignago, Gazzera, p. 53.
125. Domenico Canciani, Chiese e quartieri, «Altrochemestre», autunno 1994, nr. 2, pp. 32-34; Adriana Gusso, Guida alle chiese, in Mestre. Arte e fede, Venezia 1997, pp. 62-83.
126. C. Zanlorenzi, Casa di Dina.
127. Paola Sartori, I primi anni del villaggio San Marco, in La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del convegno, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990, pp. 107-117, e Maria Teresa Sega, Tempo, cambiamento, identità, ibid., pp. 118-126; B. Pagliaro, Chirignago, Gazzera, p. 54.
128. B. Pagliaro, Chirignago, Gazzera, p. 54.
129. Lettere al cronista. Gli indiani a S. Giuliano, «Il Gazzettino», 23 agosto 1962; sulla delinquenza minorile cf. Perché è morto ‘John il bandito’, ibid., 1° dicembre 1962; Una banda di minorenni rubava nei cantieri edili, ibid., 1° febbraio 1963.
130. Roberta Pellegrinotti, Un modo di vivere la territorialità, in La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del convegno, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990, pp. 127-129; P. Sartori, I primi anni; M.T. Sega, Tempo, cambiamento.
131. Inchiesta-campione al Villaggio S. Marco. Pesce fuor d’acqua il veneziano in terraferma, «Il Gazzettino», 5 gennaio 1962.
132. Il quartiere miranese è rimasto a metà strada tra città e campagna, ibid., 12 febbraio 1963.
133. Paola Rigonat Hugues, ‘La città dispersa’, «Altrochemestre», estate 1995, nr. 3, pp. 18-19; Giannarosa Vivian, Il centro commerciale Valecenter, ibid., pp. 6-9; Marta Baretti-Nicola Pagnano-Carlo Zavan, Insediamenti terziari a Mestre: immagini di un paesaggio in costruzione, tesi di laurea, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.a. 1991-1992.
134. Istat, IX Censimento generale della popolazione. 4 novembre 1951, I, Dati sommari per comune, fasc. 23, Provincia di Venezia, Roma 1956; Id., 10° Censimento generale della popolazione 15 ottobre 1961, III, fasc. 27, Roma 1965; Id., 11° Censimento generale della popolazione 24 ottobre 1971, II, fasc. 23, Roma 1973; Id., 12° Censimento generale della popolazione 25 ottobre 1981, II, t. I, fasc. 27, Roma 1984; Id., 13° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, 20 ottobre 1991, fasc. provinciale «Venezia», Roma 1994.
135. Id., 1° Censimento generale dell’agricoltura 18 aprile 1961, II, Dati provinciali su alcune caratteristiche strutturali delle aziende, fasc. 27 «Venezia», Roma 1961; Id., 2° Censimento generale dell’agricoltura. 25 ottobre 1970, II, Dati sulle caratteristiche strutturali delle aziende, fasc. 23 «Provincia di Venezia. Dati provinciali e comunali», Roma 1972; Id., 3° Censimento generale dell’agricoltura. 24 ottobre 1982, II, Caratteristiche strutturali delle aziende agricole, t. I, fascc. provinciali - Venezia, Roma 1985; Id., Caratteristiche strutturali delle aziende agricole, fascc. provinciali - Venezia, 4° Censimento generale dell’agricoltura. 21 ottobre 1990-22 febbraio 1991, Roma 1991; appendice in Comune di Venezia, Il censimento 1981 delle attività economiche a Venezia, VI censimento generale dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato, Venezia s.a.; Michele Zanetti, Agricoltura lagunare: dall’autarchia alla produzione industriale, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 331-337; Venezia. Il nuovo piano urbanistico, cap. V; Stefano Sisto, Un forte legame con il territorio, in Mangiar bene. Mangiar sano. Mangiar veneto, suppl. de «Il Gazzettino», 19 luglio 2000, pp. 9-11.
136. Sergio Tagliapietra Ciaci, Una vita per il remo. Storie di voga alla veneta, di canottaggio e di pesca in laguna, a cura di Antonio Padovan, Verona 2001, pp. 57-68.
137. Gianfranco Vianello, Venezia un amore, Venezia 1999 (la frase citata è alle pp. 187-188).
138. Gianfranco Bonesso, Granchi in Laguna. La produzione delle moéche a Burano, «La Ricerca Folklorica», ottobre 2000, nr. 42, pp. 5-26; Romano Memo, Pescatori buranelli. Famiglie e cooperativa a Burano 1896-1996, Roma 1996.
139. Turbosoffiante in laguna, sequestro all’alba, «La Nuova Venezia», 23 marzo 2000, p. 28; In laguna lo Stato è sconfitto, «Il Gazzettino», 16 febbraio 2001, p. IV; Finanzieri inseguiti e assediati dai vongolari, ibid., 2 dicembre 2000, p. V; Il sigillo Ulss sui caparozzoli inquinati, ibid., 29 luglio 2000, p. III.
140. Addetti alle attività manifatturiere ogni 1.000 addetti alle attività terziarie al 15 ottobre 1961: Torino 1.316, Milano 1.090, Bologna 665, Venezia 630, Firenze 582, Genova 495, Napoli 434, Palermo 322, Bari 317, Catania 272, Roma 202 (R. Mainardi, Caratteristiche demografiche, p. 68, tab. 1.5).
141. Nostre elaborazioni su dati Istat disaggregati per comune in: Istat, 3° Censimento generale dell’industria e del commercio 5 novembre 1951, I, t. I, Roma 1954; Id., 4° Censimento generale dell’industria e del commercio 16 ottobre 1961, II, fasc. 27, Roma 1964; Id., 5° Censimento dell’industria e del commercio 28 ottobre 1971, II, fasc. 23, Roma 1975; Id., 6° Censimento generale dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato 26 ottobre 1981, II, fasc. 27, Roma 1984. Il dato include industrie petrolifere, della trasformazione di minerali, chimiche, lavorazione e trasformazione dei metalli, meccanica di precisione, alimentari, tessili, pelli, cuoio, abbigliamento, legno mobilio e altre; esclude industrie estrattive, produzione di energia elettrica e gas, raccolta, depurazione e distribuzione d’acqua ed edilizia e Genio civile. Non è stato possibile elaborare i dati per il 1991 perché la pubblicazione del 7° censimento dell’industria e dei servizi con Imprese, istituzioni e unità locali non presenta dati sufficientemente disaggregati.
142. Cf. in partic. Istat, 10° Censimento generale della popolazione 15 ottobre 1961, III, fasc. 27; Id., 13° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, 20 ottobre 1991, fasc. provinciale «Venezia»; Ada Becchi-Francesco Indovina, Presentazione: Osservatorio Città, in Caratteri, a cura di Idd., Milano 1999, p. 33, tab. 2.
143. Cf. Istat, 6° Censimento generale dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato 26 ottobre 1981, II, fasc. 27.
144. Piero Trevisan, Montedison e piano chimico. Lotte operaie e ristrutturazione a Marghera, Venezia 1978, pp. 23-24.
145. W. Dorigo, Una legge, pp. 216-217; P. Trevisan, Montedison, p. 21.
146. Il polo industriale di Porto Marghera. I cambiamenti in atto, a cura di Turiddu Pugliese, Milano 1991, p. 33 (dati al 31 dicembre 1989).
147. Ignazio Musu, Economia e ambiente: Marghera e la fine del sogno della Venezia industriale, in Venezia Novecento, «Insula Quaderni», 2, settembre 2000, nr. 4, pp. 79-87.
148. Rolf Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990, p. 103.
149. G. Romanelli-G. Rossi, Mestre, p. 58.
150. Ibid.; Gabriele Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita. Autobiografia e storia politica tra Laguna e Petrolchimico, Venezia-Mestre 1998, pp. 50-53 e 55.
151. G. Romanelli-G. Rossi, Mestre, p. 58.
152. Per la provenienza degli operai nei periodi precedenti cf. I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983; Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991.
153. Coses, Situazione e prospettive del porto di Venezia, rapporto progressivo 1° settembre 1970 (dattiloscritto) e rapporto progressivo 3 dicembre 1971 (dattiloscritto).
154. Petrolkimiko. Le voci e le storie, p. 121.
155. Ibid., pp. 142-143; G. Bortolozzo, L’erba, p. 40.
156. Un estratto del procedimento penale si trova in Petrolkimiko. Le voci e le storie, pp. 167-190.
157. Giorgio Nebbia, Con che cosa hanno inquinato?, in Quale futuro per le aree industriali inquinate? Un confronto tra alcuni casi italiani ed esteri. Atti del convegno, a cura di Giorgia Guarino-Anthony Zamparutti, Venezia 1998, p. 43 (pp. 37-46).
158. Cesco Chinello, La produzione, il lavoro, i movimenti, in Porto Marghera: le immagini, la storia, 1900-1985, catalogo della mostra, Torino 1985, p. 11 (pp. 7-13).
159. Id., Sindacato, Pci, movimenti negli anni Sessanta. Porto Marghera-Venezia 1955-1970, II, Milano 1996, p. 572.
160. G. Bortolozzo, L’erba, cap. III.
161. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 317-509.
162. Gianfranco Bettin, Laguna mondo, Portogruaro 1997, pp. 55-56.
163. Maurizio Dianese-Gianfranco Bettin, La strage. Piazza Fontana. Verità e memoria, Milano 1999, p. 23.
164. Il consiglio comunale contro la violenza, «Venezia. Notiziario del Comune», 1, 30 aprile 1973, nr. 2.
165. G. Bortolozzo, L’erba, p. 265.
166. Paolo Costa, Le trasformazioni recenti dell’economia del sistema urbano veneziano, in Id., Venezia. Economia e analisi urbana, Milano 1993, pp. 88-89 (pp. 79-96); Comune di Venezia, Il censimento 1991 a Venezia, p. 45; Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 274 (pp. 227-298).
167. Cantieri senza futuro, «Il Gazzettino», 9 dicembre 1975; Ritornano ogni giorno per lavorare, ibid., 5 settembre 1975.
168. Astone Gasparetto, Il vetro di Murano dalle origini ad oggi, Venezia 1958, pt. IV; Mariapia Miani-Daniele Resini-Francesca Lamon, L’arte dei maestri vetrai di Murano, Treviso 1984, cap. 7.
169. V. n. 168.
170. M. Miani-D. Resini-F. Lamon, L’arte dei maestri, cap. 7; Bruno Anastasia-Giancarlo Corò, Evoluzione di un’economia regionale. Il Nordest dopo il successo, Portogruaro 1996, pp. 147-148.
171. Gianfranco Toso, Il vetro di Murano, Venezia-Mestre 2000, pp. 172-175; Giorgio Roverato, L’industria nel Veneto. Storia economica di un ‘caso’ regionale, Padova 1996, p. 369.
172. Zona protetta lo squero di S. Trovaso, «Il Gazzettino», 30 aprile 1965.
173. C’è un quattordicenne che costruisce gondole, ibid., 28 luglio 1975.
174. Comune di Venezia, Il censimento 1981 delle attività economiche a Venezia; Istat, 4° Censimento generale dell’industria e del commercio 16 ottobre 1961, II, fasc. 27.
175. Comune di Venezia, Itinerari di archeologia industriale a Venezia, Venezia 1979; Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, catalogo della mostra, Venezia 1980; Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990.
176. G. Roverato, L’industria, p. 306.
177. B. Anastasia-G. Corò, Evoluzione, pp. 148-149; G. Roverato, L’industria, pp. 372-374; Stefania Bragato-Piergiorgio Ferrarese, Distretti industriali. Una ricognizione nel territorio provinciale veneziano, in Coses, Alfabeto veneziano 1996. Economia e società nell’area metropolitana veneta, Venezia 1996, pp. 61-76.
178. I. Musu, Economia e ambiente.
179. Tania Toffanin, Il lavoro a domicilio nel settore calzaturiero della Riviera del Brenta, in Devi Sacchetto, Frammenti di lavoro. Inchieste operaie in Veneto, Venezia 1999, pp. 29-37; A. Becchi-F. Indovina, Presentazione, p. 32.
180. Istat, 10° Censimento generale della popolazione 15 ottovre 1961, III, fasc. 27; Comune di Venezia, Il censimento 1991 a Venezia; Id., Il censimento 1981 delle attività economiche a Venezia.
181. Maurizio Rispoli-Francesco Di Cesare-Andrea Stocchetti, La produzione materiale nel Comune di Venezia, in Venezia sostenibile: suggestioni per il futuro, a cura di Ignazio Musu, Bologna 1998, pp. 203-209 (pp. 185-242); Provveditorato al Porto-Ufficio Stampa, Venezia vive se vive il suo porto, asse portante dell’economia della regione, raccolta di articoli di Sergio Stocchetti, Venezia s.a. [ma 1974 ca.], p. 104.
182. Un sopralluogo del Sindaco nelle zone dell’Estuario nord, «Il Gazzettino», 31 luglio 1962.
183. Giovanni Comisso, Fuga veneziana, ibid., 1° agosto 1964.
184. Nasce a Punta Sabbioni un villaggio abusivo, ibid., 20 aprile 1975; Terra di conquista, ibid., 5 aprile 1975; Nell’orto spunta il villino, ibid., 2 luglio 1975.
185. Fabio Isman, Venezia, la fabbrica della cultura. Tra istituzioni ed eventi, Venezia 2000, p. 84; Comune di Venezia, Annuario di statistica 1961; Id., Informazioni statistiche. Annuario 1998; Franco Lombardi, Città storiche, urbanistica e turismo. Venezia e Firenze, Firenze 1992, pp. 211-213.
186. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 310.
187. Ibid., e F. Isman, Venezia, cap. 3.
188. Mary McCarthy, Venice Observed, San Diego-New York-London 1963, p. 8.
189. Comune di Venezia-Coses, Il turismo a Venezia, Venezia 1979, pp. 34-36.
190. Leopoldo Pietragnoli, Di tutto un kitch, «Marco Polo», novembre 1987, nr. 46, pp. 26-31; Marco Sorteni, Venezia e il suo doppio, ibid., pp. 32-33; Luisa Balzanella Dal Piaz, Un vizio tenero e dolce, ibid., pp. 34-35.
191. Offensiva al Tronchetto dei cerimonieri tuttofare, «Il Gazzettino», 3 aprile 1975; I ‘protettori’ del souvenir, ibid., 9 aprile 1975.
192. Diciotto gondole in piazzetta per protestare contro i motoscafi, ibid., 28 luglio 1964; I tassisti hanno paura, ibid., 20 luglio 1975; Gli abusivi (in cooperativa) ora hanno anche una divisa, ibid., 28 aprile 1975; Guerriglia al TAR per i nuovi taxi, ibid., 30 luglio 1975.
193. Comune di Venezia-Coses, Il turismo, p. 36.
194. Francesco Indovina, Turisti, pendolari, residenti. Conflitto nell’uso terziario della città, «Coses Informazioni», 1988, nrr. 32-33, p. 33 (pp. 27-36).
195. Dietro il banco con lo sguardo ai turisti, «Il Gazzettino», 12 settembre 1975.
196. Isabella Scaramuzzi, Le relazioni pericolose. Commercio e turismo nella città di Venezia, «Archivio di Studi Urbani e Regionali», 1990, nr. 37, pp. 143-163.
197. F. Isman, Venezia, p. 94.
198. Quando un innocente è accusato di rapina, «Il Gazzettino», 21 agosto 1975; È crollato il mito della ‘Primula rossa’, ibid., 16 dicembre 1975.
199. Quando la droga vuol dire rimorso, ibid., 29 maggio 1985.
200. Cf. per esempio Il carnevale, un’invenzione studentesca, ibid., 7 febbraio 1975; Fiora Gandolfi, Les fêtes du XXe siècle, in Lina Urban-Giandomenico Romanelli-Fiora Gandolfi-Georges Herscher, Venise en fêtes, s.l. 1992, pp. 221-224 (pp. 189-229).
201. Venise et la Vénétie, Paris 1997, p. 71.
202. Per Venezia. Problemi realizzazioni prospettive, s.n.t., p. 91.
203. Le lacrime inutili, «Il Gazzettino», 9 gennaio 1975; Dopo l’invasione, la ritirata, ibid., 1° aprile 1975; Tanti turisti per le calli ma sempre più frettolosi, ibid., 31 luglio 1975.
204. Sarà chiuso il ponte, ibid., 5 aprile 1985.
205. Bruno Ermolli-Ennio Guidotti, Un’ipotesi progettuale per il monitoraggio e il governo dei flussi turistici di Venezia, «La Rivista Veneta», luglio-dicembre 1991, pp. 103-114.
206. Pic-nic in ‘salotto’, «Il Gazzettino», 18 maggio 1975.
207. Gad Lerner, Un sacco di libertà, «L’Espresso», 10 agosto 1986, nr. 31, pp. 6-11; Mai più così, «Il Gazzettino», 18 luglio 1989.
208. Paolo Barbaro, Venezia l’anno del mare felice, Bologna 1995, pp. 43-44.
209. Antonio Alberto Semi, Venezia 1999, morire impagliati, «Il Gazzettino», 29 maggio 1985.
210. Giorgio Busetto, La cultura a Venezia nel ’900, in Venezia Novecento, «Insula. Quaderni», 2, settembre 2000, nr. 4, pp. 89-91; F. Isman, Venezia.
211. Paolo Costa, Università Ca’ Foscari ‘a’ e ‘per’ Venezia, in Coses, Alfabeto veneziano 1996. Economia e società nell’area metropolitana veneta, Venezia 1996, pp. 337-351; Comune di Venezia, Annuario di statistica 1954 e 1968.
212. Rita Cellino, Venezia Atlantide. L’impatto economico delle acque alte, Milano 1998, pp. 138-139.
213. Leopoldo Pietragnoli, L’eloquenza dei numeri: 12 maggio 1797-1997, in Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla Monarchia alla Repubblica, Venezia 1997, p. 418 (pp. 414-418). Dello stesso tenore anche A.A. Semi, Venezia in fumo, p. 101; Giuliano Zanon, Dal sovraffollamento all’esodo: popolazione ed occupazione a Venezia nel ’900, in Venezia Novecento, «Insula. Quaderni», 2, settembre 2000, nr. 4, p. 32 (pp. 19-32).
214. Piero Bevilacqua, Venezia e le acque, Roma 1995.
215. Una cronaca dalla parte degli ‘insorti’ sta in Alvise Fontanella, 1997. Il ritorno della Serenissima, Venezia 1997.
216. P. Costa, Università Ca’ Foscari ‘a’ e ‘per’ Venezia, p. 344; Comune di Venezia, Osservatorio casa, quinto rapporto, giugno 2000, pp. 41-42.
217. Note sulla situazione demografica e le funzioni economiche del Centro Storico di Venezia, a cura di Giuliano Zanon-S. Naidi, rapporto Coses nr. 158, giugno 1995, p. 67.
218. Paolo Costa, Il turismo a Venezia e l’ipotesi di Venetiaexpo 2000, in Id., Venezia. Economia e analisi urbana, Milano 1993, p. 247 (pp. 243-267).
219. Id., Introduzione, ibid., p. XVIII (pp. XIII-XXVIII).
220. Guido Martinotti, La nuova morfologia sociale della città, Bologna 1993, cap. III.
221. P. Perulli, La città delle reti.
222. Jean-Paul Sartre, L’ultimo turista. Frammenti, Milano 1993, p. 63.