Gli sviluppi della scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo Spirito
Dopo aver insegnato in diversi licei italiani, nell’ottobre 1906 Giovanni Gentile fu nominato professore straordinario di storia della filosofia nell’Università di Palermo. Da allora iniziò a raccogliere intorno a sé un nutrito gruppo di allievi, dando vita a una vera e propria scuola, e mostrando la volontà e la capacità di attrarre giovani studiosi che in quegli anni, e per molto tempo ancora, avrebbero riconosciuto nell’attualismo un orizzonte di pensiero capace di rispondere alle loro domande.
Alla prima generazione attualistica appartennero i pedagogisti Giuseppe Lombardo-Radice ed Ernesto Codignola e gli studiosi di filosofia e storia della filosofia Vito Fazio-Allmayer, Giuseppe Saitta, Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero, che Gentile ebbe come allievi a Palermo. Assidui frequentatori della villa di Giuseppe Amato Pojero, dove era nata la Biblioteca filosofica che divenne il centro della loro attività, furono i discepoli più anziani del filosofo, i primi a promuovere un’elaborazione del suo pensiero (Mustè 2008, p. 97) e a raccogliere i temi più importanti della sua riflessione. Proprio durante una delle conferenze organizzate dalla Biblioteca nel 1911, Gentile dichiarò che la sua filosofia non si sarebbe separata dal mondo degli uomini e spiegò che «di quella filosofia solitaria ed astratta» lui e i suoi collaboratori avrebbero riso «come di un grosso sproposito» perché il pensiero «se ha un valore, se è una forza, deve penetrare di sé la vita umana e governarla, informarla di sé» (G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, «Annuario della Biblioteca filosofica», 1912, 1, pp. 9-10). Queste parole avrebbero ribadito un modo diverso di studiare la filosofia, non più legato alla discussione accademica, o alla sola indagine speculativa, ma profondamente immerso nella realtà del proprio tempo ed esteso a molteplici discipline.
Già dall’inizio del secolo, del resto, Gentile condivideva con Benedetto Croce l’esigenza di contribuire al progresso del Paese occupandosi anche degli aspetti concreti dello sviluppo culturale italiano. Così, dall’impegno sulle pagine della «Critica», alle tante iniziative editoriali che seguirono insieme, i due filosofi avevano lavorato a un’opera di trasformazione della cultura italiana coinvolgendo anche giovani studiosi. Quando, nell’ottobre 1913, Croce decise di rendere pubblica la ragione del loro dissenso, si rivolse attraverso le pagine della rivista «La Voce» fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini, «agli amici della Biblioteca filosofica di Palermo», e non solo a Gentile, sottolineando che la presenza di un gruppo di seguaci era ormai parte importante del lavoro del suo amico e collaboratore (Intorno all’idealismo attuale, «La Voce», 17 ottobre 1913, 46, p. 1195). In effetti, sin da allora, i gentiliani si presentarono come strenui difensori dell’attualismo, uniti nella battaglia condotta dal loro maestro per il rinnovamento della filosofia e della cultura italiana.
Nel 1914 Gentile lasciò Palermo perché ottenne la cattedra di filosofia teoretica all’Università di Pisa, e tre anni dopo si trasferì a Roma dove iniziò la sua nuova attività di docente di filosofia aggregando intorno a sé numerosi allievi. Ben diversi dai giovani riuniti nel circolo palermitano, coinvolti nel processo di maturazione dell’attualismo, nella polemica fra Croce e Gentile e nelle prime elaborazioni della politica scolastica, gli studiosi della scuola romana – Ugo Spirito, Arnaldo e Luigi Volpicelli e Carmelo Licitra – formularono critiche più incisive nei confronti dell’attualismo e si confrontarono con il regime fascista cui aderirono seguendo il maestro, che dal 1922 divenne uno dei filosofi più importanti d’Italia, al quale il regime riconobbe un potere che non riconobbe a nessun altro studioso.
Si è soliti distinguere i collaboratori di Gentile degli anni Venti e Trenta in una destra e una sinistra gentiliana, per analogia con la scuola hegeliana e perché i gentiliani di destra approfondirono gli sviluppi dell’attualismo in senso spiritualistico, cercando di conciliare l’idealismo con l’ortodossia cattolica, mentre quelli di sinistra furono attratti dall’immanentismo e da una dimensione laica.
È probabile che su questa distinzione abbiano pesato anche le scelte politiche dei gentiliani che aderirono al fascismo: in effetti, il maggiore esponente della destra, Armando Carlini, ottenne molteplici riconoscimenti dal regime fascista, anche quando decise di abbandonare l’idealismo e di cercare risposte in un orizzonte filosofico diverso; mentre il più importante rappresentante della sinistra, Ugo Spirito, si allontanò dal maestro, divenne un teorico del corporativismo e per questo fu accusato da molti fascisti di essere comunista. In realtà, si tratta piuttosto di una convenzione lessicale, che non aiuta a comprendere le diverse espressioni del fascismo e forse nemmeno della filosofia di Gentile.
Laureatosi in lettere a Bologna, dopo aver insegnato nei licei di molte città italiane, Carlini venne chiamato a Pisa nel 1917 sulla cattedra di filosofia teoretica che era stata di Gentile. Era uno dei giovani studiosi italiani vicini al neoidealismo e uno dei più assidui collaboratori della casa editrice Laterza. Con La vita dello spirito (1921), Carlini mostrò la sua adesione all’idealismo proponendo una sintesi fra l’immanentismo di Gentile e l’‘empirismo’ idealistico di Croce: da un lato accettò l’atto gentiliano, dall’altro la distinzione crociana fra teoresi e prassi che contrastava con la predeterminata unità dell’atto del pensare. Già da allora tentava di riportare la filosofia di Gentile a una dimensione legata all’interiorità (A. Carlini, Alla ricerca di me stesso. Esame critico del mio pensiero, 1951, p. 5).
Nel 1922 aderì al fascismo e tre anni dopo prese la tessera del Partito fascista (Tarquini 2009, p. 291). Nel 1927, quando era ancora uno dei collaboratori più stretti di Gentile, divenne rettore dell’Università di Pisa e si attivò per trasformare la facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo toscano in un centro di studi corporativi. Più volte nel corso del suo mandato Carlini si scontrò con i giovani universitari che lo accusavano di non essere un vero fascista; nondimeno, in quegli anni non perse occasione per ribadire il suo impegno nella politica del regime.
Nel 1929 partecipò insieme a Gentile all’organizzazione del VII Congresso nazionale di filosofia, convinto che da quella sede sarebbe iniziata una nuova fase della storia della filosofia italiana, notando che fra gli idealisti italiani si andava sviluppando «una maggiore varietà di atteggiamenti» «che non c’era dieci anni addietro». Al filosofo di Castelvetrano scrisse:
Io avrei caro che il Congresso di filosofia fosse organizzato su queste basi […]: di grande libertà dal lato teoretico (diciam così), in ragione inversa, quindi dal lato pratico. Escluderei soltanto gli antifascisti. Il Congresso deve essere fascista: a Roma non è concepibile che si raduni oggi un congresso nazionale con un sentimento che non sia favorevole apertamente al Regime. […] Forse la tua rivista e quella dei Neoscolastici possono diventare i due centri più vivi per la cultura presente, in un’antitesi che può essere vantaggiosa per noi (Carlini a Gentile, 12 marzo 1929, Archivio Fondazione Giovanni Gentile).
Carlini pensava che il fronte gentiliano si stesse disgregando, e che gli studiosi dell’Università cattolica di Milano e gli idealisti fossero gli esponenti più importanti della filosofia italiana. Per questo auspicava una collaborazione fra i due gruppi che, a suo avviso, avrebbe giovato ai secondi. Non era l’unico a ritenere che la filosofia di Gentile fosse in declino: per es., Giovanni Papini, con una delle sue consuete ed efficaci forzature, scrisse che «una filosofia dura trent’anni o poco più» (Il nuovo Gentilesimo, «Il frontespizio», maggio 1931, p. 3). L’idealismo aveva compiuto i suoi e dunque si avviava sulla via del tramonto. Considerando il percorso intellettuale di Carlini, che all’inizio degli anni Trenta era già impegnato in un percorso di studi molto diverso da quello di Gentile, Papini non aveva torto.
Nel 1931 il maggiore esponente della destra gentiliana spiegò che si allontanava da Gentile non per un rifiuto del pensiero moderno, ma per concentrare «l’idealismo nel suo principio originario sì da enucleare il motivo di pura spiritualità» (A. Carlini, Orientamenti della filosofia contemporanea, 1931, p. 79). Al contrario di Spirito, che temeva che la filosofia di Gentile non fosse in grado di trasformare la realtà, Carlini indicava la necessità di raccogliersi «in sé dal mondo dell’esperienza storica» ponendosi «come problema di pura interiorità, di sé a sé» per cogliere «quel senso e quella ragione ultima dell’esistenza a cui convergono per opposte vie filosofia e religione» (p. 111).
Tre anni dopo iniziò il periodo più proficuo del suo percorso intellettuale, segnato da una nuova riflessione sui rapporti fra religione e filosofia e il suo rinnovato e sempre maggiore impegno nella cultura del regime fascista. Nel 1934, eletto deputato, pubblicò due volumi: La religiosità dell’arte e della filosofia e Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini. Nel primo propose uno spiritualismo cristiano di matrice agostiniana: immaginando la strada per raggiungere la verità come un percorso individuale, Carlini pensava che il messaggio cristiano non sarebbe nato da una metafisica dogmatica, ma dalle esigenze della coscienza. Proprio per questo fu criticato dai tomisti dell’Università cattolica di Milano, come testimonia la lunga discussione che ebbe dal 1931 al 1933.
Nel secondo libro si soffermò sul pensiero di Benito Mussolini e definì la cultura del regime e i suoi rapporti con la religione, sostenendo, a cinque anni dal Concordato, che il temperamento mussoliniano era l’antitesi di ogni atteggiamento speculativo e religioso. Se all’inizio del secolo il futuro capo del fascismo aveva subito l’influenza del pragmatismo e dell’intuizionismo, mentre negli anni della guerra mondiale aveva aderito all’idealismo – tanto che l’idealismo, scriveva Carlini, era stato una delle componenti principali dell’ideologia fascista degli anni Venti – alla fine del decennio la riflessione politica di Mussolini era approdata allo spiritualismo.
In realtà, anche Carlini, come molti intellettuali degli anni Trenta, attribuì al capo del governo il proprio percorso intellettuale, quello che lui aveva svolto da quando era uno dei più stretti collaboratori di Gentile fino all’incontro con lo spiritualismo cristiano. Lo notò con la consueta finezza il giovane Delio Cantimori, sostenendo che Carlini identificava
i punti di divergenza del pensiero mussoliniano da quello idealistico (idealistico del Gentile e forse del Saitta), in fondo, con quelli propri: e non con quelli propri specifici e filosofici, sibbene con quelli propri di un uomo che si è avvicinato al cattolicesimo («Leonardo», 1937, 8, pp. 296-98, ora in D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, 1991, p. 598).
Negli anni successivi Carlini proseguì la sua ricerca verso una filosofia molto distante dall’attualismo. Nel 1936 scrisse al suo antico maestro definendosi un gentiliano contro Gentile, anche se ormai di gentiliano in lui c’era ben poco. In un articolo di quello stesso anno affermò infatti:
Il fascismo ha messo innanzi all’attenzione degli studiosi […] i problemi riguardanti la vita storico-sociale dell’uomo, il fondamento economico e morale di essa, il significato e valore dello Stato in sé e nella sua funzione in rapporto al mondo della civiltà ch’è il mondo storico propriamente detto (Orientamenti e problemi speculativi del pensiero filosofico italiano nell’età presente, 1936, p. 39).
Come aveva sottolineato Spirito, anche Carlini credeva che la politica totalitaria avesse posto alla filosofia il problema della concretezza dell’esistenza. Dalla fine degli anni Trenta Carlini, che nel 1939 fu nominato accademico d’Italia, divenne uno degli intellettuali fascisti più vicini a Giuseppe Bottai, intervenne assiduamente su «Critica fascista», espresse il proprio sostegno alla Carta della scuola (la riforma presentata dal politico romano nel 1939) e si andò ad aggiungere all’ormai nutrito coro degli ex allievi di Gentile.
Furono in molti negli anni Trenta a lasciare l’idealismo gentiliano cercando altri orizzonti di pensiero e stringendo rapporti più stretti e più proficui con la politica. Secondo alcuni studiosi, la ragione di questo cambiamento sarebbe rintracciabile nel Concordato: dopo il 1929 il regime fascista,
alla ricerca di strumenti più efficaci di conquista del consenso di massa e dei giovani, aveva trovato nel cattolicesimo “ufficiale” dei neoscolastici di Milano e, più in alto di loro, delle gerarchie ecclesiastiche fino al sommo pontefice, un sostegno più forte e più efficace (Restaino 2000, p. 212).
In questo senso uno studioso come Carlini sarebbe ampiamente rappresentativo di una tendenza importante della storia della filosofia italiana, ma – come si vedrà dopo aver soffermato l’attenzione su Spirito – questa proposta interpretativa non è convincente.
Nel 1918 Spirito si laureò in giurisprudenza e due anni dopo in lettere e filosofia a Roma con Gentile. Da allora divenne un collaboratore fedele del filosofo idealista, e per tutti gli anni Venti si impegnò nelle battaglie promosse dal suo maestro, convinto che l’idealismo attuale rappresentasse l’espressione più importante della filosofia moderna. Come la maggior parte dei collaboratori di Gentile, anche lui aderì al fascismo cercando di costruire una vera e propria egemonia nella cultura del regime e combattendo contro i molti antigentiliani (Tarquini 2009, p. 113). Nel marzo 1926, dedicò uno spazio ai critici dell’idealismo sul «Giornale critico della filosofia italiana» e scrisse:
Da parecchi anni non c’è cultore di studi filosofici che accingendosi a scrivere su un qualunque argomento non abbia la mente rivolta alla soluzione che dello stesso problema ha dato l’idealismo attuale sì […] che non deve sembrare esagerata l’affermazione che gli studiosi italiani di filosofia si dividono oggi in due sole grandi categorie: dei gentiliani e degli antigentiliani (Rassegna di studi sull’idealismo attuale, «Giornale critico della filosofia italiana», 1926, 7, p. 153).
Fra i critici di Gentile, Spirito distinse tre gruppi diversi. Il primo era costituito dai gentiliani non ortodossi, come Carlini, Luigi Russo, Vittorio Enzo Alfieri, Guido Calogero, Vincenzo Cento, Mariano Maresca e Vincenzo La Via, che avevano iniziato un percorso autonomo dal maestro rimanendo all’interno della filosofia di Gentile. Del secondo, invece, facevano parte quegli intellettuali che si erano formati alla scuola dell’attualismo e nella seconda metà degli anni Venti erano approdati al cattolicesimo, come Mario Casotti. E infine, i collaboratori della «Rivista di filosofia neoscolastica» ai quali non diede particolare credito e dei quali scrisse: «Quali altri paladini potrebbe trovare una filosofia che è fatalmente costretta a rinnegare tutto il valore del pensiero moderno?» (p. 157). Queste sue considerazioni confluirono nel volume L’idealismo italiano e i suoi critici (1930) che mostra come Spirito alla fine degli anni Venti fosse ancora un gentiliano convinto, deciso a difendere la filosofia idealista dalle critiche dei suoi nemici.
Coerentemente con queste premesse, nel 1927, insieme ad Arnaldo Volpicelli, iniziò la pubblicazione della rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica», con l’obiettivo di trasformare le scienze sociali alla luce della filosofia di Gentile. In realtà Spirito e Volpicelli, con la loro iniziativa, esplicitavano un limite dell’attualismo e cioè la difficoltà di riuscire a incidere concretamente sul diritto, sulla politica e sull’economia del fascismo. Entrambi credevano che soltanto un nuovo rapporto fra scienza e filosofia avrebbe cambiato la realtà politica e sociale e immaginavano la seconda non come una metafisica «che si sequestra dal mondo e dalla storia», ma come «la riflessa coscienza della realtà e dello spirito, la determinazione dei criteri adeguati d’indagine e d’intellegibilità del reale». Dunque, una filosofia «più modesta ma utile» (Programma, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1927, 1, p. 1). A questo tema, che avrebbe caratterizzato il suo itinerario speculativo degli anni a venire, Spirito dedicò la relazione che presentò al VII Congresso nazionale di filosofia (1929) e che, al contrario di ciò che aveva auspicato Carlini, non solo non sancì la collaborazione fra i neoscolastici di Milano e gli idealisti, ma registrò uno scontro particolarmente acceso fra i due gruppi.
In quella sede Spirito sostenne la tesi dell’identificazione di scienza e filosofia e spiegò che la prima doveva essere pensata come un sapere storico che, misurandosi con la realtà, supera ogni distinzione fra concezioni astratte e problemi concreti. In realtà, la sua riflessione non perveniva all’identificazione della scienza con la filosofia, ma al contrario concludeva che quest’ultima trovasse la propria concretezza nelle scienze sociali, e dunque che fosse uno strumento per affrontare e risolvere problemi reali. E per questo motivo, distante da una filosofia che si ponga il problema della definizione della verità, il giovane filosofo maturò il suo allontanamento da Gentile non accogliendo la distinzione fra logo astratto e logo concreto che, a suo giudizio, implicava una svalutazione del significato conoscitivo delle scienze. Se con la parola astrazione s’intende il genere, e cioè qualcosa di intermedio che si contrappone, da un lato, al particolare e, dall’altro, all’universale, bisognerebbe riconoscere allora che tutta la nostra conoscenza è generica, astratta e pseudoconcettuale, notava Spirito. In effetti, come è stato sottolineato, la critica dell’astratto comportava una vera riabilitazione del sapere scientifico (Mustè 2008, p. 129).
A queste considerazioni del suo allievo e collaboratore, Gentile replicò nel 1931 che la risoluzione della filosofia nella scienza presentava diverse assonanze con la riflessione di Croce secondo cui la filosofia si sarebbe identificata con la storia. In realtà in Croce la filosofia non si sarebbe mai risolta nella politica, nell’economica o nella scienza, ma nel giudizio storico della politica, dell’economia, della scienza, del diritto, distinti dalle relative discipline scientifiche. Come sosteneva Gentile, Spirito giunse alle sue conclusioni per una via opposta a quella percorsa da Croce: attraverso la negazione della concezione pratica della scienza e «dell’antilogica dei concetti che non sono concetti, e del pensiero astratto che viceversa opera nel più solido del concreto, come fa il pensiero scientifico» (G. Gentile, Filosofia e scienza, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1931, 4, pp. 1-10, e «Giornale critico della filosofia italiana», 1931, 2, pp. 81-92). Negli anni successivi la distanza dal maestro si fece ancora più forte: nel 1933 Spirito sostenne di aver ritrovato
la vera filosofia nella politica, nella pedagogia, nel diritto, nell’economia, nell’arte, dovunque la vita chiamasse con l’urgenza di uscire da vecchi schemi e da metodi infecondi (Attualismo costruttore, in Id., Scienza e filosofia, 1933, p. 7).
Il suo attualismo, dunque, era una filosofia che per vivere doveva esprimersi nelle diverse manifestazioni della realtà. A partire da questa nuova consapevolezza, il giovane filosofo percorse due strade diverse, animato dal medesimo intento: da un lato, divenne il principale teorico del corporativismo fascista, approfondendo quanto aveva sostenuto durante il II Convegno di studi sindacali e corporativi (1932), dove aveva criticato radicalmente la concezione tradizionale della proprietà privata; dall’altro, con La vita come ricerca (1937) si allontanò definitivamente da Gentile approdando a un nuovo percorso che volle definire problematicismo. Ed è su questo che è necessario soffermare l’attenzione.
Sin dalle prime pagine, Spirito affermò il carattere contraddittorio della realtà definendola un incessante tentativo di rispondere alle obiezioni del pensiero e quindi di ricercare la verità. «Pensare significa obiettare», «ossia dubitare», affermare sempre «la forza corrosiva incontenibile e distruttrice» del dubbio:
Ideale succede a ideale e, al fondo di ognuno di essi, non ritrovo che il mio pensiero nell’ansia della conquista, l’antinomia: un pensiero cioè potenziato fino all’ipercriticismo, che mi dà la gioia di una libertà non mai prima raggiunta e il dolore di una schiavitù anch’essa non mai tanto profonda e completa (La vita come ricerca, cit., p. 56).
Nel volume riconobbe di aver pensato che l’attualismo di Gentile rappresentasse il momento culminante della filosofia occidentale e quindi la possibilità di superare l’antinomia fra soggetto e oggetto, la libertà dell’autocoscienza emancipata «dall’oggettività opaca dell’ignoto e del mistero» (p. 81) e la possibilità di superare la distinzione fra pensiero e azione. In questo senso gli era sembrato che la filosofia gentiliana esprimesse uno sforzo creativo autentico, antintellettualistico, aperto verso la vita. Di fronte alle sfide del suo tempo, tuttavia, aveva preso atto che l’idealismo era «rimasto chiuso di fronte a problemi e a manifestazioni di indiscutibile valore», non aveva capito il positivismo e la scienza e non aveva avuto «occhi per tutte quelle espressioni spirituali che ripugnano al rigoroso criterio di una filosofia sistematica» (p. 91).
Di fronte a questa trasformazione dell’idealismo, descritta come una sconfitta di Gentile e di tutti quelli che avevano aderito al suo orizzonte di pensiero, Spirito affermò il bisogno di una filosofia pensata non come metafisica bensì come problema: una filosofia che assumesse l’antinomia come sua caratteristica essenziale e al contempo riconoscesse la necessità di perseguire l’incontrovertibile e perciò di non abbandonare quello che egli denomina il ‘mito’ della verità. L’esito cui giunse per questa strada fu il riconoscere che la soluzione alla problematicità sarebbe stata demandata al futuro; la sintesi fra soggetto e oggetto si sarebbe scissa nuovamente e non solo nell’opposizione dei due termini, ma anche nell’opposizione tra l’antinomia e la sua soluzione. Pensare la vita, e quindi assolvere uno dei compiti primari della filosofia, avrebbe significato accettare il peso di un’antinomia sempre presente:
Allo stato attuale delle cose dobbiamo riconoscere di non avere la capacità di uscire dal mito e di acconciarci a quello della ricerca come al meno dogmatico di tutti (p. 93).
La vita come ricerca contribuì a esprimere una convinzione diffusa nella cultura filosofica italiana, perché indipendentemente dalle sue contraddizioni, e al di là del fatto che Spirito offrì una descrizione fenomenologica della crisi che denunciava, fu la prima riflessione sull’attualismo nata all’interno della scuola di Gentile, elaborata da uno degli allievi più importanti. In questo senso la critica di Spirito ha un’importanza che va oltre il suo percorso intellettuale e rappresenta un momento decisivo della storia della cultura italiana del Novecento: quello in cui il fascino esercitato dalla filosofia di Gentile sui molti giovani intellettuali che avevano aderito all’orizzonte di pensiero rappresentato dall’attualismo lasciò il posto a riflessioni diverse che avrebbero caratterizzato il dibattito degli anni successivi.
A rendersene conto fu lo stesso Gentile, che recensì sul «Giornale critico» La vita come ricerca definendolo un libro sbagliato. Il fondatore dell’attualismo accusò Spirito di assumere una posizione dogmatica e di sostenere, senza motivarne le ragioni, la necessità di dare un valore all’esistenza insieme alla percezione della sua inafferrabilità. Se pensare è obiettare, Spirito si era fermato a un corno del dilemma, alla particolarità della realtà, alla separazione fra pensiero e azione. Non credeva più nell’intelligibilità della realtà e immaginava di uscire dalla crisi in modo dogmatico asserendo il primato della ricerca. In realtà, secondo Gentile, si trattava di esprimere uno stato d’animo, e non un problema di natura filosofica, un’angoscia non sorretta dalla «volontà virile di veder chiaro dentro alla crisi e di riaffermare il possesso della realtà con cui il pensatore, ossia l’uomo, deve reagire alla crisi e pensare» (G. Gentile, La vita come ricerca. Al. prof. Ugo Spirito, «Giornale critico della filosofia italiana», 1938, 19, p. 242).
Anche Cantimori sottolineò le contraddizioni del volume. Recensendo il lavoro sul «Giornale critico della filosofia italiana» (1937, 18, pp. 356-70), notò che Spirito falliva nel suo intento e si limitava a dare voce a un’angoscia personale, «un complesso di sentimenti, percezioni, riflessioni, aspirazioni che si esprime nello sforzo di determinare un nuovo concetto filosofico» (ora in Politica e storia contemporanea, cit., p. 624). E andò ben oltre, accusandolo di descrivere il suo stato d’animo come se fosse rappresentativo della vita contemporanea italiana. Si trattava di una critica molto grave, articolata in due modi diversi: da un lato, sollevò una questione di metodo sostenendo che «una situazione psicologica, per definizione particolare» non avrebbe potuto «presumere di rappresentare lo stato d’animo di tutti cioè di avere valore generale» (p. 625); dall’altro, entrò nel merito delle critiche rivolte all’attualismo e negò che fosse una filosofia conservatrice.
Così uno dei principali intellettuali italiani, cresciuto nel mondo dell’idealismo gentiliano, e di certo alieno da simpatie reazionarie, mostrava la sua distanza da Spirito e la difficoltà di utilizzare le categorie di destra e sinistra per spiegare le articolazioni del fascismo. A confortare questa convinzione sono le parole dello stesso Cantimori che nel Dizionario di politica, edito dal Partito nazionale fascista, scrisse:
In ogni caso oggi, in un pensiero totalitario come quello fascista, i termini di “destra”, “centro”, o “sinistra”, non hanno più valore attuale, ma solo significato storico (D. Cantimori, Sinistra, Partiti della, in Dizionario di politica, 4° vol., 1940, ad vocem).
Nell’autobiografia, Spirito dichiarò che il suo allontanamento dall’attualismo e il distacco che andava maturando nei confronti del fascismo erano strettamente legati: così come nel 1922 egli aveva sostenuto il regime sulle orme di Gentile, nella seconda metà degli anni Trenta ne aveva preso le distanze, criticando il maestro sul piano filosofico (cfr. Memorie di un incosciente, 1977). Non diversamente, nelle sue memorie autobiografiche Carlini si soffermò sul discostamento da Gentile alla fine degli anni Trenta e non accennò minimamente al fatto che da quel nuovo percorso filosofico emerse una sempre maggiore collaborazione con il fascismo (cfr. A. Carlini, Alla ricerca di me stesso. Esame critico del mio pensiero, 1951).
All’indomani della guerra mondiale destra e sinistra gentiliana, dunque, rappresentarono se stesse come eterodosse rispetto al maestro e al regime fascista. Mentre per Carlini la critica a Gentile derivava dalla convinzione che l’attualismo dovesse trovare la sua vera natura nel mondo della coscienza, Spirito temeva che non fosse in grado di trasformare fino in fondo la realtà del proprio tempo. Coerentemente con questa nuova riflessione, entrambi negli anni Trenta intensificarono la collaborazione con Bottai entrando a far parte del gruppo di intellettuali che scrivevano su «Critica fascista» e si battevano per accelerare il processo di costruzione del regime totalitario. Non furono i soli: subendo l’influenza dei fascisti che consideravano Gentile un intellettuale liberale, in quel periodo molti giovani si impegnarono più chiaramente nella politica culturale e nell’ideologia del regime e trovarono in Bottai il loro punto di riferimento.
Per es., nel luglio 1940 Spirito scrisse un lungo appunto per il politico romano sui rapporti fra fascismo e cultura. Era convinto che la contestazione della filosofia di Gentile nata dalla necessità di affermare lo spirito rivoluzionario del fascismo avesse provocato la fine della discussione sui principi del corporativismo e sull’elaborazione di un’ideologia fascista rivoluzionaria. A questo proposito parlò di «quattro anni di silenzio» – dal 1935 al 1939 – e spiegò che «scoppiata la guerra, pressoché tutta l’Italia si era trovata anglofila e francofila, antitedesca e antirivoluzionaria». Convinto sostenitore dell’alleanza fra l’Italia e la Germania, in cui vedeva l’affermarsi di uno spirito autenticamente rivoluzionario, scrisse a Bottai:
Nel colloquio che avemmo nei primi giorni del settembre scorso, quando da pochi giorni avevo fatto ritorno dalla Germania, ti espressi la mia fede nella vittoria della Germania e nel carattere rivoluzionario dell’asse (Spirito a Bottai, 20 luglio 1940, Archivio Giuseppe Bottai).
Credeva, dunque, che i tedeschi fossero «più avanti» degli italiani nel combattere la «guerra rivoluzionaria» e si augurava che l’asse fra l’Italia e la Germania potesse dar vita a «un’alleanza fedele» (Tarquini 2009, p. 290).
Queste riflessioni confluirono nel volume del 1941 Guerra rivoluzionaria (edito postumo nel 1989) e nel suo intervento al convegno organizzato dall’Istituto nazionale di cultura fascista nel 1942 sul tema dell’Idea di Europa, dove peraltro egli distinse il ruolo dell’Italia da quello svolto dalla Germania, senza mai porre in discussione la natura rivoluzionaria della guerra, dell’alleanza italo-tedesca e del fascismo. Possiamo allora parlare davvero di una destra e di una sinistra fasciste e di una medesima distinzione nella filosofia di Gentile?
Se è vero che Carlini fu un fascista ortodosso, che fino all’ultimo cercò di costruire rapporti con i principali esponenti del regime, la stessa considerazione può essere estesa a Spirito, che non nascose le proprie simpatie per il regime nazionalsocialista e non espresse mai una concezione di sinistra della politica o del fascismo. La distinzione tra destra e sinistra non sembra consona in realtà a definire la situazione dei gruppi politici e intellettuali all’interno di un regime totalitario: in primo luogo, i termini destra e sinistra indicano una differenza che riguarda visioni del mondo e dell’individuo alternative fra loro; inoltre, tale distinzione lascia credere all’esistenza di un ‘centro’, o di tanti diversi ‘partiti’ all’interno dello Stato totalitario.
In realtà, il problema è piuttosto quello di comprendere se le differenze tra le varie correnti fossero maggiori di ciò che invece le accomunava, o se, al contrario, fosse più rilevante ciò che legava le diverse anime del fascismo. All’accusa di apologia del fascismo che nel giugno 1944 provocò la sua epurazione, Spirito reagì presentando ricorso, motivando la sua adesione al regime con una sincera passione politica e non con un interesse personale o un abito mentale acritico. Se da un lato difese le proprie scelte, dall’altro volle comunque chiarire che non era mai stato un fascista ortodosso e che anzi dopo gli anni Trenta aveva criticato il regime anche severamente. Sei mesi dopo fu dichiarato non colpevole e riammesso in servizio nel maggio 1945, nonostante il ricorso dell’Alto commissario per l’epurazione. Direttore della casa editrice Sansoni, nel 1951 assunse la direzione del «Giornale critico della filosofia italiana» e fu nominato professore ordinario di filosofia teoretica nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma. Nel 1953, diede alle stampe La vita come amore, il terzo volume della trilogia iniziata con La vita come ricerca e proseguita con La vita come arte (1941).
Carlini proseguì il percorso che aveva inaugurato negli anni Trenta. Dopo la Seconda guerra mondiale si dedicò agli studi sull’esistenzialismo, introdusse Martin Heidegger nel contesto italiano impegnandosi in diverse traduzioni: nel 1952 tradusse e curò l’edizione italiana di Il pensiero logico e l’anno successivo Che cos’è la metafisica?. Da questo punto di vista, il ruolo che ebbe nel dibattito pubblico del dopoguerra fu senza dubbio minore di quello ricoperto da Spirito che, come la maggior parte degli intellettuali che erano stati fascisti, sostenne di essersi identificato in un’idea personale di fascismo, non coincidente con quella ufficiale: un fascismo eterodosso che non sarebbe stato vissuto come un’incoerenza da chi si accingeva a partecipare attivamente alla costruzione dell’Italia repubblicana e a ricoprire ruoli di spicco nel dibattito culturale del Paese o insegnando nelle sue università. A differenza di ciò che accadde a Gentile che, come è noto, pagò con la vita le sue scelte politiche e non aderì a tutti i totalitarismi del Novecento come fecero molti suoi allievi.
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