Gli strumenti musicali nel mondo romano: cenni di organologia antica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella Roma imperiale del I secolo sono presenti tutti gli strumenti musicali conosciuti all’epoca nel suo vasto territorio, ma nessuno di loro ha origini romane. La storia dell’arrivo di questi strumenti, provenienti dall’Etruria, dalla Grecia, dal Vicino Oriente, dall’Egitto, dalle conquiste militari e dalla preistoria europea, è parte della storia di questa città.
La lunga tromba di bronzo dal padiglione ricurvo caratteristica degli Etruschi, il lituus, è un elemento essenziale di importanti cerimonie, indispensabile nell’atto di fondazione di una città. Romolo, che adotta il rituale etrusco per fondare Roma, utilizza il lituus e introduce così il primo suono musicale nel paesaggio sonoro romano. Lo strumento, in base alle evidenze iconografiche e ai ritrovamenti, ha una lunghezza complessiva che da un minimo di circa 80 cm arriva a 150 cm; lo stretto canneggio, cilindrico o, più di rado, leggermente conico, è ottenuto da una lamina bronzea arrotolata, mentre il padiglione è realizzato usualmente tramite fusione. Il bocchino, assente nei reperti conosciuti, potrebbe essere in legno o altri materiali organici, come corno, osso o avorio.
La tuba e il cornu sono le altre trombe lunghe di origine etrusca che vengono adottate molto presto e continuativamente dai Romani; nella riforma dell’esercito attribuita a Servio Tullio sono già incluse centurie di cornicines e tubicines, ma il loro largo impiego include anche varie occasioni cerimoniali, spettacoli teatrali e giochi circensi. La tuba ha una lunghezza analoga al lituus ma è completamente diritta, normalmente con un canneggio dall’andamento leggermente conico e un padiglione più o meno espanso. Il cornu ha canneggio e padiglione simili alla tuba, ma è ricurvo e può arrivare a superare i tre metri; quando l’eccessiva dimensione lo richiede, viene adottato il pratico stratagemma di una curvatura circolare e di un manubrio trasversale sul diametro con la funzione di supporto di rinforzo e come impugnatura. Il bocchino di questi strumenti, limitatamente agli esemplari rinvenuti, è di bronzo e presenta una forma "a tazza", simile a quello dei moderni "ottoni". Anche il corno "naturale", ottenuto da corna animali o da conchiglie, è ampiamente utilizzato ed è indicato dal termine bucina.
Il secondo strumento a fiato che si aggiunge al mondo sonoro dell’antica Roma è quello denominato tibiae; importato molto presto dall’Etruria, dove gode di particolare favore, e ben conosciuto in Grecia con il nome di aulos, è formato da due canne dotate di ancia, ed è per questa sua natura di aerofono doppio che il nome latino dello strumento è al plurale. La sua origine però è difficile da identificare; tracce di analoghi aerofoni ad ancia in Sardegna, a Creta e nel Vicino Oriente, ne allontanano la provenienza nel tempo e nello spazio. La prima indicazione dell’esistenza a Roma di un’associazione di musicisti, il Collegium tibicinum romanorum, risale a Numa Pompilio. L’importanza di questa "corporazione" è evidente se si pensa che per i Romani non è possibile celebrare alcun rito senza il suono delle tibiae e che, conseguentemente, una loro assenza è in grado di paralizzare tutte le attività della città. Il nome latino tibiae è anche un possibile indizio sul materiale utilizzato originariamente, l’osso, ma è attestato anche l’uso di vari tipi di legno. Le canne, sia a profilo cilindrico che leggermente conico, hanno lunghezze che da una quindicina di centimetri possono persino arrivare a superare il metro, sono solitamente rivestite da una sottile lamina metallica e i fori sono inizialmente limitati a tre o quattro; successivamente il numero dei fori aumenta, fino a un massimo rilevato di 15, e per chiuderne alcuni vengono inseriti degli anelli rotanti con la funzione delle "chiavi" degli strumenti moderni. Le tibiae possono essere pares, ovvero con canne di uguale lunghezza, o impares, con una canna più lunga dell’altra; nel caso delle tibiae impares chiamate berecynthiae o frigie, una delle due canne termina con un padiglione di corno ricurvo. La tecnica di insufflazione è quella della cosiddetta respirazione circolare, che prevede un’inspirazione periodica dalle narici e un’espirazione costante dalla bocca, con il mantenimento di una riserva d’aria all’interno del cavo orale, provocando così un accentuato rigonfiamento delle guance e producendo il suono continuo che è caratteristico dello strumento; un sostegno a questa difficile tecnica è offerto dall’impiego di una sorta di bavaglio, il capistrum, equivalente della phorbeia greca. Per segnare il tempo e sostenere il ritmo, il suonatore di tibiae si avvale talvolta di un "sandalo sonoro", lo scabellum, noto in Grecia come kroupezai, dotato di una doppia suola incernierata sotto il tallone.
Infine, è da segnalare un’ultima serie di "oggetti sonori" che hanno confronti iconografici con strumenti analoghi attestati in Etruria: una specie di nacchere (crotala) e i sonagli piriformi fittili e metallici (crepitacula). I crotala sono gli idiofoni a percussione reciproca più rappresentati nell’iconografia etrusca, dove appaiono sempre nelle mani delle danzatrici, e in quella romana. I crepitacula, presenti nell’area laziale già dal IX-VIII secolo a.C. e frequentemente considerati dei semplici giocattoli infantili, sono probabilmente anche significativi indicatori di funzioni in ambito rituale; sono quasi sempre associati a sepolture femminili di rango elevato e potrebbero quindi indicare un ruolo rilevante di queste donne nelle attività di culto; si ritiene inoltre che la presenza del suono prodotto da questi sonagli sia stata essenziale per connotare l’orizzonte sonoro di determinate cerimonie.
Tra gli strumenti conosciuti dai Romani, soltanto quelli a corde di uguale lunghezza come la lyra e la cithara sono reputati di origine greca e tenuti in debita considerazione; non mancano le testimonianze della loro presenza in varie occasioni pubbliche ma, fino all’epoca imperiale, il suono di questi strumenti ha un ruolo minore nella definizione del paesaggio sonoro romano ed è presente principalmente in privato, nelle residenze delle classi sociali più elevate.
La lyra, con la sua struttura semplice, tradizionalmente una cassa ottenuta da un carapace di tartaruga, i bracci formati da corna, con una traversa che ne collega le sommità, e un numero limitato di corde di budello o di tendine animale, è strumento diffuso, ma è la cithara di tipo ellenistico a essere più spesso utilizzata. Verosimilmente, è al maggior numero di corde, all’incremento del volume di suono e a un’accresciuta stabilità della struttura rispetto alla lyra che la cithara deve il suo ampio impiego; considerando le dimensioni e il peso di alcuni esemplari di questo strumento, costruito principalmente in legno ed esteticamente arricchito da elementi decorativi, non sorprende che nell’iconografia latina il citharoedus spesso si esibisca seduto. Le corde sono suonate con le dita e con il plettro, realizzato in osso o avorio; con questi stessi materiali possono essere prodotte anche parti specifiche della cithara come piroli, ponticelli e cordiere.
Strumenti a corde di lunghezza diversa, del tipo dell’arpa e del salterio, e a corde di uguale lunghezza, del tipo del liuto, sono molto meno rappresentati nelle immagini dell’arte romana e il loro uso è circoscritto essenzialmente ad ambiti privati ed esclusivi. La loro origine orientale è testimoniata dalle fonti e dalle numerose evidenze archeologiche del Vicino Oriente antico.
Alcune percussioni, legate ai rituali dionisiaci e soprattutto al culto di Cibele, incontrano particolare fortuna presso i Romani: i cymbala, piccoli piatti di metallo con un pronunciato incavo centrale, conosciuti anche come acitabula, e il tympanum, tamburo a cornice simile alle "tammorre" e ai tamburelli dell’Italia meridionale. Il culto della Grande Madre Cibele è accolto a Roma nel 204 a.C. quando, da Pessinunte in Frigia, viene portata la pietra nera che ne costituisce la rappresentazione aniconica; nel 191 a.C. i Romani le dedicano ufficialmente un tempio, con il relativo seguito di sacerdoti evirati e suonatrici di cymbala e tympana. Da allora le sonorità di questi strumenti contribuiscono progressivamente a movimentare ritmicamente e a colorare timbricamente la vita musicale di Roma.
Con la diffusione del culto di Iside, a Roma si afferma l’uso di un altro idiofono metallico, il sistrum, composto da una staffa con un manico; in alcuni fori praticati sui due lati della staffa sono inserite delle sbarrette scorrevoli, ripiegate alle estremità, che producono un caratteristico suono quando l’oggetto viene scosso.
Dall’Egitto ellenizzato della seconda metà del III secolo a.C. proviene uno strumento che incontra un grande successo nel mondo romano dove, per la sua intensità sonora e per la possibilità di eseguire musiche in diverse tonalità, è utilizzato specialmente nei vasti spazi acustici dedicati ai giochi e nelle rappresentazioni teatrali: è l’organo idraulico (hydraulus), congegno meccanicamente molto complesso, pesante ed imponente, la cui invenzione è attribuita a Ctesibio, ingegnere di Alessandria. Vitruvio (Sull’architettura 10, 8, 1-6) descrive minuziosamente il sistema di pompe idrauliche che rendono possibile mantenere una pressione costante del flusso d’aria che alimenta le canne (organa) e i meccanismi che consentono ai tasti (pinnae) di aprirne e chiuderne le imboccature. Oltre alle informazioni tecniche di Vitruvio e di Erone Alessandrino (Pneumatica, 1, 42), è possibile cogliere ulteriori accenni all’impiego di questo strumento in numerosi autori latini e i dati archeologici offrono inoltre un’ampia gamma di immagini e alcuni resti materiali. L’organo idraulico è infatti raffigurato su gemme, medaglie, monete, epigrafi, sarcofagi; nel mosaico di Zliten (Libia) l’hydraulus accompagna un combattimento di gladiatori nell’anfiteatro, insieme a due suonatori di cornu e uno di tuba; una rappresentazione analoga proviene dal mosaico di una ricca villa di età adrianea a Nenning (Germania). Una lucerna in terracotta del Museo di Cartagine riproduce dettagliatamente un grande organo idraulico, con tre ordini di diciotto canne ciascuno, e conserva ancora una parte della figuretta del suonatore; l’altezza reale del maestoso strumento ritratto dovrebbe raggiungere i due metri.
Nella base dell’obelisco di Teodosio a Costantinopoli appaiono invece due organi "a mantici", e dunque pneumatici; l’esistenza di questo tipo d’organo, più piccolo, leggero e trasportabile, è già segnalata nel II secolo da Polluce (Onomasticon, 4, 69-70). Lo straordinario ritrovamento, tra le rovine del Collegium Centonariorum di Aquincum (Budapest), dei resti di un piccolo organo a quattro file di canne, tredici per fila, con una placchetta bronzea che lo indica come dono di Gaio Giulio Viatorino, decurione della colonia nel 228, conferma molte delle testimonianze citate, ma non è chiaro se il sistema per la produzione del flusso d’aria costante fosse idraulico o pneumatico.
Oltre a essere utilizzate per dare segnali in battaglia, incitare le truppe ed enfatizzare i trionfi militari, le trombe sono considerate anche a Roma tra le principali insegne di un esercito e la resa di un popolo può essere sintetizzata dalla perdita di questi sacri simboli. Forse è anche per non essere privati di queste insegne distintive della loro identità che i Celti rendono inutilizzabili e nascondono, sotto terra o in acqua, le loro caratteristiche trombe di metallo (karnykes); lunghe fino a un paio di metri, sono composte da una serie di tubi in lamina di bronzo e terminano con un padiglione espanso a protome zoomorfa, di solito una testa di cinghiale.
La vittoria su di un nemico è celebrata dai Romani con monumenti o con l’emissione di specifiche monete in cui spesso appaiono questi strumenti dei vinti, segni inequivocabili della loro sconfitta; le spoglie sonore sottratte agli avversari vengono esibite, ma sono condannate al silenzio. La sottomissione degli ebrei del 70 d.C. è riassunta nei rilievi dell’Arco di Tito, dove la sottrazione delle trombe sacre dal Tempio di Gerusalemme ha un notevole risalto; è probabile, però, che i due strumenti raffigurati nei rilievi, realizzati più di dieci anni dopo gli avvenimenti illustrati, non siano le trombe d’argento descritte dai testi biblici, bensì le classiche tubae romane.
Gli strumenti che hanno origini risalenti a epoche preistoriche, spesso costruiti in osso o con materiali vegetali di rapido deperimento, come gli idiofoni più arcaici (a percussione, a scuotimento o a raschiamento) o come molti rudimentali aerofoni (il rombo, i fischietti d’osso, i flautini ottenuti da canne o steli, la syrinx di canna o di legno ed altri ancora), sono gli oggetti sonori che contribuiscono a completare il panorama musicale dell’antica Roma.