Gli spazi architettonici Genesi e sviluppo dei nuovi spazi sacri dell'Europa cristiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Abbandonati i preconcetti storiografici sul romanico che limitano a poche aree l’ideazione di nuovi moduli formali e nuove compagini strutturali, è necessario riconoscere l’importanza degli scambi culturali tra ambiti anche molto distanti e il peso, ad esempio, di una regione come quella germanica nella storia del romanico europeo. Nei primi decenni dopo il Mille ricerche parallele, in Italia centro-settentrionale, in Francia, nell’area pirenaica si incentrano sul problema della copertura a volta degli edifici sacri, in connessione con la definizione del pilastro articolato, e con iniziali tentativi di partizione per campate dello spazio. Se tali ricerche giungono a piena maturazione nella pianura padana, a Roma la Riforma impone la ripresa di modelli paleocristiani, diffusi soprattutto grazie all’exemplum della nuova abbazia di Montecassino. Negli stessi anni, l’avvio della dominazione normanna nel sud Italia è la premessa di una florida stagione architettonica in Puglia, Calabria e Sicilia, dove si fondono pratiche costruttive locali con soluzioni innovative nord-europee.
È familiare, anche per i non specialisti, la nozione di architettura romanica come di un linguaggio del costruire sorto attorno al Mille e sviluppatosi con caratteristiche comuni in gran parte dell’Europa occidentale, prima dell’avvento del gotico. Si tratta di una nozione scolastica, il cui successo è dovuto ad alcuni dati verificabili, ma che include, come e più di altre macrocategorie interpretative, una straordinaria varietà di espressioni artistiche, e maschera di conseguenza un grosso problema di definizione. Se si può infatti ammettere che vi sia stata verso la fine dell’XI secolo una convergenza in molta parte dell’Europa su tecniche e stilemi, non è altrettanto facile definire un quadro di riferimento unitario per il lungo periodo di elaborazione di questo linguaggio comune, periodo contrassegnato ovunque da un marcato sperimentalismo.
Il concetto medesimo di “romanico” si è venuto a plasmare fin dall’inizio, nella storiografia del XIX secolo, in modo vago. Nel recupero romantico dei “secoli bui” ogni popolo ha guardato al “proprio” Medioevo, e alle sua architettura, come al deposito dei caratteri originari e dell’identità etnico-nazionale. Lo sviluppo delle conoscenze è rimasto per molto tempo condizionato da schemi interpretativi nazionalistici, in cui la complessità del fenomeno storico scompare nella logica dell’affermazione di un primato (culturale, stilistico, tecnico) rispetto alle altre nazioni, e nell’idea dell’irraggiamento da un centro di superiore civiltà artistica verso delle “periferie”. La cultura del positivismo imponeva poi il dato tecnico-strutturale come criterio primario di valutazione, in un’ottica evoluzionista. Il restauro stilistico attraverso cui molte chiese medievali vennero in quest’epoca “reinventate”, e di cui fu massimo esponente l’architetto francese Eugène Viollet-le-Duc, è la più evidente manifestazione di tale interpretazione ideologica del Medioevo. In Italia, la visione ottocentesca di un’arte lombarda cresciuta nel solco dell’eredità romano-bizantina e longobarda, e fattasi vero linguaggio comune dell’Europa occidentale (De Dartein, Rivoira), venne superata dai rigorosi lavori del grande studioso americano Arthur Kingsley Porter, che ribadivano comunque, in contrasto con la visione francocentrica delle origini del romanico dettata da diversi studiosi transalpini, una precocità tecnologica e stilistica dei cantieri nord-italiani su scala europea. Negli stessi anni i lavori dell’architetto e studioso catalano Josep Puig i Cadafalch identificavano nel nord Italia la culla del primo romanico, sulla base del riconoscimento di una supremazia di cantiere, esportata per mezzo dell’alta mobilità delle maestranze dell’area alpina. Le regioni di questo primo romanico meridionale (Lombardia, Francia meridionale, Catalogna), caratterizzato da tipologie decorative proprie, come gli archetti pensili, e da soluzioni strutturali nuove, come la copertura a volta delle navate, venivano contrapposte a un’altra area, quella germanica, contraddistinta, in età ottoniano-salica, da un ancoraggio programmatico – e da qui anche l’idea a lungo invalsa di un’arte ottoniana aulica, di corte, rispetto a quella romanica di presunta ispirazione popolare – ai modelli paleocristiani e alla “classicità” carolingia.
Simili teorie, impostate su preconcetti ideologici, sono state ormai superate dalle ricerche, più empiriche e “scientifiche”, avviate nella seconda metà del secolo scorso. La codificazione ottocentesca di scuole regionali e nazionali, fissate entro i moderni confini di Stato, che nessuna attinenza ha con l’effettiva geografia politica del Medioevo, ha lasciato posto all’identificazione di più circoscritti ambiti territoriali, omogenei quanto a soluzioni architettoniche, ma anche per l’incidenza delle preesistenze monumentali e delle tecniche costruttive tradizionali. Prevale oggi nel complesso l’idea di un’origine policentrica del romanico, e si sono cercate nel condiviso sostrato culturale romano le ragioni di una simultaneità, tra diverse aree europee, nell’invenzione di alcune importanti novità architettoniche. Insomma una costellazione di “romanici”, da non disporre secondo una scala gerarchica, di importanza, per la quale resta tuttavia assai ostico il tentativo di una definizione unitaria.
Ma i caratteri comuni esistono, e non vanno cercati in una prospettiva formalistica ma storica. La migliore conoscenza delle varie realtà artistiche locali non deve infatti far dimenticare il quadro delle fitte relazioni sovraregionali, degli scambi culturali sempre attivi che impongono sintesi fondamentali per gli sviluppi del romanico, tra aree lontane e reputate persino, fino a pochi anni fa, culturalmente antitetiche. Si coglie solo così ad esempio il basilare contributo dell’area germanica alla definizione del nuovo linguaggio costruttivo. La geografia culturale del Medioevo europeo, lungi dall’essere delimitata dai rigidi steccati degli stati nazionali moderni, come si pretendeva nell’Ottocento, è determinata da altri vettori, da altre geometrie: le vie, di commercio e di pellegrinaggio, la rete costruita dalle filiazioni delle diverse famiglie del monachesimo benedettino, le politiche e dunque la committenza artistica dei poteri universali (papato, impero). È nel dinamismo degli scambi, e nella diffusione e capillarità della ripresa costruttiva che si rintraccia un denominatore comune all’Europa del Mille.
Si cita spesso, a testimonianza di tale risveglio architettonico, al volgere del millennio, un famoso passo del cronista Rodolfo il Glabro, secondo cui l’Italia e la Gallia, ma in generale tutta l’Europa, si sarebbero coperte in quegli anni di un “candido manto di chiese”. È un’affermazione sostanzialmente esatta, anche se il fenomeno, legato a precisi fattori economici e politici, non ebbe ovunque stessi tempi e modi: in alcune regioni la ripresa fu più rapida, in altre il condizionamento imposto dagli edifici preesistenti, paleocristiani o carolingi, non favorì lo sperimentalismo; ancora, in determinate regioni si trattò di una vera rivoluzione del paesaggio fisico e architettonico, in altre il processo si innestò su una realtà già da tempo ricca, senza soluzione di continuità. In una simile prospettiva di sistema non si rinuncia oggi a enucleare caratteristiche generali del romanico (attenzione alla modulazione plastica dei muri, scansione degli spazi interni per campate, articolazione unitaria dei volumi), ma si pone nuova attenzione al problema dei modelli, della simbologia architettonica, dei sostrati culturali, e dell’utilizzo dello spazio costruito (rapporto architettura-liturgia). Quest’ultimo aspetto è di straordinaria importanza, in quanto gli arredi mobili e gli apparati figurativi (sculture dei capitelli, affreschi, stucchi) interagiscono con la macchina architettonica, “sulla base di un vero e proprio codice semantico che era dettato dalla liturgia” (Piva), a determinare non solo i modi della fruizione, ma anche una particolare percezione dello spazio nel clero e nei fedeli.
A partire da questa indispensabile, benché necessariamente semplicistica, premessa, si tenterà ora di approntare un percorso per exempla, che mira a fare almeno intuire la varietà, a tratti caotica, del paesaggio architettonico europeo, a identificare ambiti culturali particolarmente rilevanti, e a mettere in luce alcuni sviluppi originali dell’architettura ecclesiastica a partire dalla svolta del millennio.
L’area germanica resta strettamente legata alla tradizione carolingia fino agli ultimi decenni dell’XI secolo. L’eccezionale monumentalità di molti edifici si spiega ancora con la volontà della committenza – abati e vescovi legati alla corte imperiale – di rievocare le più importanti basiliche cristiane dell’epoca di Costantino.
L’antico viene citato già a partire dal trattamento plastico-ritmico delle murature: le pareti esterne sono spesso cadenzate da grandi arcate che inquadrano le finestre centinate, sul modello di edifici del IV secolo. Numerosi gli esempi nella regione della Mosa, come Saint-Hadelin di Celles-les-Dinant (1030 ca.), Saint-Denis di Liegi (972-1008), Sainte-Gertrude di Nivelles (consacrata nel 1046); lungo la valle del Reno (St. Pantaleon di Colonia); nel Giura (Romainmôtier); e nella stessa Italia settentrionale (Galliano, Vigolo Marchese). Un più concreto segno dell’ancoraggio, mediato dalla cultura carolingia, ai modelli paleocristiani, in particolare al più importante martyrium dell’Occidente, la basilica di San Pietro di Roma, si riconosce nella lunga fortuna del transetto continuo posto a occidente. Imponenti edifici a tre navate con ampio transetto continuo sono le cattedrali ottoniane di Augusta (post 994); di Bamberga, conosciuta solo dagli scavi, fondata tra 1004 e 1012 da Enrico II; e di Magonza, cattedrale della più estesa provincia ecclesiastica dell’impero ottoniano, costruita dalle fondamenta dall’arcivescovo Willigis tra il 975 e il 1009, e ricostruita su medesimo impianto dopo un rovinoso incendio, entro la metà dell’XI secolo. Al posto dell’abside la basilica di Magonza era dotata di un coro dall’inusuale forma a triconco. Incerta invece la ricostruzione dell’area est dove, se è dubbia la presenza già in prima fase di una controabside orientale (attestata tanto ad Augusta quanto a Bamberga), tra torri quadrate, è invece provata l’esistenza di un atrio porticato: altro elemento che sottolinea con forza la volontà di adeguarsi ai modelli antichi. Poco tempo prima, negli anni dell’abate Werner (968-973), l’atrio della basilica vaticana compare nella chiesa abbaziale di Fulda, già ricostruita romano more, con un’abside occidentale preceduta da un grande transetto, tra 802 e 819. Eloquente simbolo di renovatio, l’atrio ha una lunga continuità d’uso in area germanica nel X e XI secolo (St. Maximin a Treviri, metà X sec.; cattedale di Magdeburgo, a partire dal 968; Trinità di Essen, 1039-1058; Sciaffusa, seconda metà dell’XI secolo). Ancora nel 1220-1230 si dota di un piccolo atrio porticato di ingresso una delle più caratteristiche basiliche dell’area renana, l’abbaziale di Maria-Laach, legata alla riforma di Hirsau, eretta a partire dal 1127 sulla base di modelli nobili come Magonza e Spira.
L’imponente mole del transetto continuo domina alla vista le rovine dell’abbazia di Hersfeld, sulla Fulda. Tra il 1005 e il 1012 l’abate Godeardo, appoggiato da Enrico II, procede all’erezione delle tre navate su colonne e del transetto sporgente. Riparata dopo un incendio del 1040, la chiesa viene completata con un lungo coro su cripta presbiteriale a oratorio, e abside dal coronamento a fornici – voltine oblunghe funzionali all’appoggio del tetto – elemento caratteristico dell’architettura protoromanica lombarda. Entro la fine del secolo viene aggiunto in facciata un Westbau con tribuna superiore, modulata esternamente nella forma di una controabside, e torri scalari affiancate. Del tutto simili, nei volumi “paleocristiani” del transetto e della navata scandita da un colonnato, ma anche nell’elemento di novità della facciata a torri gemine, dovevano essere due cattedrali dell’epoca di Enrico II: quella di Worms, realizzata sotto il vescovo Burcardo (in carica dal 1000 al 1025), e quella di Strasburgo, incominciata dal vescovo Werner nel 1015.
In diverse chiese sopra citate un’abside innestata in facciata si viene a contrapporre alla zona presbiteriale, e può essere il luogo di un secondo coro per il clero officiante.
In alcuni casi, come a Hersfeld, nella cattedrale di Merseburg (1015-1021) o a Freckenhorst, l’abside è divisa in due in altezza da una tribuna che articola ulteriormente uno spazio polifunzionale. Più sovente essa è occupata da un altare e al di sotto si sviluppa una cripta, di tipo arcaico a corridoio anulare (Colonia), o del nuovo tipo a oratorio (Memleben, Fulda). Il tema della controabside acquista massima evidenza in uno dei monumenti cardine dell’XI secolo, il St. Michael di Hildesheim, la cui edificazione viene avviata dal vescovo Bernward (in carica dal 993 al 1022) attorno al 1010. In area germanica hanno durevole applicazione, nell’XI secolo, forme diversificate del bipolarismo liturgico carolingio. È forse questo l’aspetto che distingue maggiormente la Germania dalle altre regioni europee dove, come si vedrà, è più forte la spinta a concentrare nella testata orientale reliquie e altari, per giungere a una netta divisione dello spazio tra la zona presbiteriale e quella concessa ai fedeli.
I Westwerke sono imponenti corpi di fabbrica su più livelli che nell’architettura carolingia precedono a ovest le navate di chiese abbaziali e cattedrali. Si tratta, come visto in relazione a Centula e Corvey, di impianti centralizzati dall’ampia autonomia architettonica e funzionale, con un piano terra, e una tribuna superiore circondata da matronei.
Per molto tempo si è creduto che i Westwerke fossero spazi riservati all’imperatore e alla sua corte. Nel caso più famoso però, quello di Centula, che si è voluto ritenere, forse con eccesso di sicurezza, una sorta di capostipite della categoria, si conservano fonti documentarie che dimostrano l’utilizzo prettamente liturgico dello spazio. È ragionevole dunque ammettere che si tratti di spazi polifunzionali, legati a esigenze di culto, ma anche simboliche e di rappresentanza. L’eredità del Westwerk si ritrova in tutta l’architettura del nord Europa nel corso dell’XI secolo: il fatto stesso che esso sia adottato negli ambienti ecclesiastici più differenti, con un aumento di varianti tipologiche, fa però capire come non sia lecito interpretare il fenomeno dell’avancorpo con formule univoche. L’architettura ottoniana ne continua la tradizione, scegliendo soluzioni più leggere, e meno complesse in pianta e in alzato. Il gioco delle masse all’esterno, dominato dall’intersezione di grandi volumi longitudinali e trasversali, e dall’emergenza gerarchizzata di torri centrali e torrette scalari affiancate, rimane di forte impatto, semplificandosi però l’articolazione interna. Diversi edifici del nord della Germania databili tra metà del X e primi decenni dell’XI secolo, come la cattedrale di Paderborn nella fase costruttiva riferibile al vescovo Meinwerk, sono accumunati da una tipologia di avancorpo a grossa torre quadrata con torrette cilindriche ai lati, sulla linea di facciata. All’interno, la torre era divisa in altezza da un impiantito ligneo, e la tribuna superiore era aperta sulla navata della chiesa con un’ampia bifora o con una trifora. In questo caso, a parte le dimensioni assai più contenute, a venire meno del modello carolingio sono i matronei della tribuna superiore: resta però la divisione in piani dello spazio che consente funzioni differenziate e la dislocazione eventuale di altari su più livelli.
L’edificio più importante di questo gruppo omogeneo è la chiesa abbaziale femminile di St. Cyriakus di Gernrode. Avviata attorno al 960, la chiesa ha una corta e larga navata mediana, divisa dai collaterali per mezzo di colonne alternate a pilastri, secondo un partito ritmico tipico dell’area renana. Tra le caratteristiche più interessanti vi è la presenza dei matronei sopra le navatelle: ricompare così nell’architettura occidentale un tema che, caro all’architettura paleocristiana di area egea, ha avuto un fugace momento di fortuna (dovuto peraltro a specifiche situazioni topografiche) a Roma tra fine VI e inizi VII secolo (San Lorenzo, Sant’Agnese). Sotto il coro sopraelevato era situata una cripta a oratorio seminterrata, databile agli anni della fondazione. L’avancorpo del St. Cyriakus, precedentemente descritto, viene trasformato nella prima metà del XII secolo, sotto l’abbaziato di Edwige II (dal 1118 al 1152) con la soppressione della tribuna e l’erezione di una controabside con cripta.
Altri corpi occidentali monumentali, come quelli famosi di St. Liudger di Werden, e di St. Pantaleon di Colonia (II fase, si veda il capitolo “La Germania: Hildesheim, Colonia, Spira”), selezionano dai modelli carolingi tedeschi di Minden e Corvey altri elementi, come le gallerie superiori laterali, ma preferiscono conferire unità spaziale al volume centrale rinunciando alla divisione in piani. Già nella prima età ottoniana compaiono poi cori occidentali più semplici (cattedrale di Magdeburgo, cattedrale di Hildesheim nella fase anteriore al cantiere di Bernward), in tutto assimilabili a controabsidi, con cripte seminterrate a oratorio. Una soluzione di straordinaria originalità è quella adottata nell’abbaziale femminile della Trinità di Essen, che al tempo della badessa Teofano (dal 1039 al 1058) viene ampiamente ricostruita e arricchita di un avancorpo che, se all’esterno si mostra nelle fattezza di un’alta torre ottagonale affiancata da torrette, con decorazione romanica ad archetti pensili, all’interno esibisce un’inedita articolazione ad abside poligonale, dotata di deambulatorio e galleria, con forme imitate dalla Cappella Palatina di Aquisgrana.
Va inoltre segnalata la diffusione, tra Palatinato e Alto Reno (Limburg, Basilea, Costanza, Spira, Einsiedeln) di una particolare tipologia di facciata, cosiddetta “armonica”, in cui dominanti divengono i volumi slanciati delle torri-campanili laterali. È da quest’area che il motivo giunge a influenzare gli sviluppi del romanico nell’area alpina e in Lombardia (Moûtiers, Aosta, Santa Trinità di Milano, San Giacomo di Como), ma al contempo si deve segnalare un’autonoma elaborazione del medesimo tipo di facciata in altre regioni d’Europa, come la Normandia (Notre-Dame di Jumièges, Saint-Étienne di Caen).
Una uguale se non maggiore varietà di soluzioni caratterizza la creazione architettonica nell’XI secolo per l’area presbiteriale. Determinante e sempre più urgente, anche per effetto dei movimenti di riforma ecclesiastica, l’esigenza di dislocare un alto numero di altari e di isolare in modo adeguato il clero officiante dalla folla dei fedeli. Si iniziano ad adottare chiusure presbiteriali alte, che finiscono per escludere il popolo da qualsiasi forma di partecipazione alla cerimonia, ma vengono ideati allo stesso tempo partiti architettonici nuovi, con la moltiplicazione di cappelle orientali, il cui accesso può essere in determinati frangenti riservato al clero, e con la sopraelevazione del coro su grandi cripte a sala. Il problema del collegamento di una cappella orientale esterna, luogo di sepoltura privilegiata o per altari e reliquie, con il presbiterio della chiesa era già stato affrontato in età carolingia con soluzioni di grande complessità, come quella (Corvey) del deambulatorio attorno allo spazio del coro-abside, comunicante con cappelle sussidiarie e intersecato, sull’asse della chiesa, dall’andito per la camera esterna, e dal braccio che porta, sotto il coro, alla confessio. Nei casi di Auxerre e Flavigny – a cui si devono aggiungere quelli coevi (con ricostruzioni di fine X sec.) delle cattedrali di Hildesheim e di Halberstadt, in Sassonia – una simile articolazione è stata riprodotta su due livelli, con un percorso di circolazione periferico sovrapposto al deambulatorio di cripta, da cui si accede ad altre cappelle. Nell’architettura ottoniana si ritrovano tutti questi temi.
Le cappelle esterne raggiungono dimensioni inusitate, come a Susteren, e Stavelot, nella regione della Mosa, o nel St. Emmeram di Ratisbona e nel St. Maximin di Treviri. Più interessanti però, per gli sviluppi di età romanica, le ricerche, già avviate nei casi borgognoni di IX secolo, in cui lo spazio del deposito sacro delle reliquie viene espanso fino a raggiungere le dimensioni di un oratorio, capace di ospitare un altare e dunque di trasformarsi in luogo di celebrazione. La cripta a oratorio, le cui prime attestazioni datano alla seconda metà del X secolo tanto in Germania quanto in Francia e Italia, è dunque pensato come spazio unitario di culto e non più come percorso di circolazione. I primi casi che si possono citare sono quelli delle cripte orientali di Gernrode (965 ca.), e di Paderborn (fase di Rethar, 1000 ca.).
Il pieno dominio della tecnica costruttiva di spazi coperti da volte a crociera porta rapidamente a un’espansione volumetrica della cripta, che esce dai limiti dell’abside e del coro antistante per invadere spazi sottostanti l’incrocio, il transetto, una porzione della navata. Se agli inizi dell’XI secolo la cripta di Unterregenbach è già un’eloquente dimostrazione di tale tendenza, la sua massima espressione, per la sicurezza progettuale e stilistica che esibisce, è l’enorme cripta del duomo di Spira, che data subito dopo la fondazione del 1030. Si vedrà che anche nell’Italia settentrionale vi sono attestazioni precoci di cripte di grande estensione, in alcuni casi di vere e proprie chiese inferiori. Sempre in connessione con lo sviluppo della testata presbiteriale un altro dispositivo, prettamente romanico, che inizia a diffondersi è quello del cosiddetto chevet harmonique, ossia del coro affiancato da torri o campanili gemelli (Spira). Anche qui si tratta di scelte distributive che hanno precedenti di età carolingia ma inedito viene ora a essere lo sviluppo dimensionale, dominante, delle torri. In alcuni casi (St. Luzius di Werden) le stesse torri, divise in piani, possono trasformarsi in luogo di culto ospitando altari secondari.
All’area germanica, che troppo a lungo è stata considerata estranea alla formazione del linguaggio romanico, ma che è in verità, lo si è visto, laboratorio di molte soluzioni originali, sono politicamente e culturalmente connesse due regioni che invece in passato sono state considerate vere culle del nuovo linguaggio architettonico: la Borgogna orientale e la Lombardia.
In Borgogna un fatto di eccezionale portata dal punto di vista storico e artistico è la nascita del monachesimo cluniacense. L’abbazia benedettina di Cluny, polo irradiatore della riforma monastica per i successivi due secoli, viene fondata nel 909 dal duca di Aquitania e conte di Mâcon Guglielmo il Pio, che ne dispone da subito l’assoggettamento diretto alla Chiesa di Roma. Su tale presupposto si basa la condizione giuridica di esenzione dalla giurisdizione civile ed ecclesiastica, che, estendendosi anche alle dipendenze, determina la fortuna e l’espansione del monachesimo cluniacense in tutta Europa, venendo al tempo stesso a costruire una realtà politica, spirituale ma anche istituzionale estremamente coesa.
La chiesa abbaziale riceve una prima configurazione monumentale sotto il grande abate Maiolo. Restituita solo in parte dagli scavi dell’archeologo americano Conant, la particolarità più significativa della chiesa (nota come Cluny II) è la configurazione del settore orientale: a est di uno stretto transetto basso (di altezza inferiore a quella della navata maggiore), il coro è infatti assai profondo e ripartito in tre navate absidate (o forse collaterali non comunicanti con il santuario), ai lati delle quali vi sono due annessi rettangolari che, insieme alle absidiole aperte alle estremità del transetto, contribuiscono a definire una pianta scalata in profondità (chevet échelonné). L’importanza di questo tipo originale di pianta – concepito per ospitare un gran numero di altari per le messe private e che appare come uno degli esempi più chiari del processo di rifocalizzazione a est della liturgia, attuata in determinati ambienti riformistici – è da tempo al centro di un dibattito che si interroga sulla possibilità che sia esistita tra X e XI secolo una vera e propria “architettura cluniacense”, esemplata sul modello della casa madre e riprodotta nelle dipendenze.
Se è certo che non vi furono in questo senso prescrizioni rigide a un utilizzo normativo di tipologie fissate, è a ogni modo difficile negare la possibilità che le consuetudini liturgiche proprie del monachesimo cluniancense abbiano indotto l’adozione di concetti generali nell’articolazione dell’edificio ecclesiale: come il potenziamento dimensionale del santuario, la tripartizione del presbiterio, la moltiplicazione delle absidi in progressione scalare, l’adozione di un transetto basso con tiburio cupolato (la cui esistenza in verità non è dimostrabile per Cluny II), e di una peculiare tipologia di avancorpo detto galilaea. Possibilità che si fa certezza quando si guarda a chiese come Gigny, Perrecy-les-Forges, Romainmôtier, St. Peter und Paul di Hirsau, ma anche a casi italiani: il San Maiolo di Pavia, che gli scavi archeologici restituiscono in modo assai imperfetto, ma che parebbe essere un caso precoce (prima metà dell’XI secolo) di adesione al modello di Cluny II; o nell’arco alpino lombardo le chiese di fine secolo di Vertemate e Capodiponte.
La pianta à chevet échelonné trova esemplare applicazione in tre edifici di osservanza cluniacense la cui costruzione viene promossa da uno dei più grandi riformatori dell’epoca, Guglielmo da Volpiano: il monastero di San Benigno di Fruttuaria in Piemonte, riportato alla luce da recenti scavi; la chiesa normanna di Notre-Dame di Bernay, legata alla Trinité di Fécamp e riformata nel terzo decennio dell’XI secolo; ma soprattutto il Saint-Bénigne di Digione, in Borgogna, di cui Guglielmo è abate per quarant’anni, dal 990 fino alla morte, e di cui dirige la costruzione tra 1001 e 1018. Di quest’ultima chiesa rimane ben poco dopo il rifacimento gotico del XIII secolo e le distruzioni degli anni della Rivoluzione, ma diverse fonti iconografiche consentono di ricostruire l’eccezionale impianto dell’edificio. In verità in questo caso la pianta di base a testata con cappelle scalate in profondità si compenetra e confonde con la superba invenzione di una rotonda a tre livelli, con due deambulatori sovrapposti completamente voltati attorno a un nucleo cilindrico, eretta a est in asse con la chiesa, e comunicante con il presbiterio attraverso le pareti dell’abside e delle cappelle laterali traforate da archi. La rotonda è consacrata al culto della Vergine e mira a richiamare in pianta, ma anche nella forma della volta aperta da un opaion, il Pantheon di Roma, ovvero quella che dal 609 è diventata la chiesa di Sancta Maria ad Martyres. Il tema carolingio della cripta esterna a due piani di Auxerre e Flavigny acquista qui proporzioni inaudite, e una grande coerenza strutturale e spaziale. Il piano terra della rotonda, l’unica porzione del Saint-Bénigne ancora in piedi, è poi legato alla cripta della chiesa, una vera chiesa inferiore che corre sotto il transetto sporgente, e lungo tutta la navata centrale della chiesa. All’accesso alla cripta provvede una scalinata nella navata maggiore dell’avancorpo, caratterizzato da una controabside ma forse sprovvisto di una tribuna superiore.
Le origini italiane di Guglielmo hanno fatto pensare a qualche legame con l’area lombarda per la cripta di grande estensione del Saint-Bénigne. In effetti in Piemonte e Lombardia in diversi casi la cripta presbiteriale viene estesa a vani laterali (attorno alla metà del secolo le chiese di Testona, Cavour, Pedona, Valdeblore, San Dalmazio di Piacenza), al transetto o a parte della navata (Spigno, 991; cattedrale di Acqui, 1018; Saint-Jean-de-Maurienne), fino a trasformarsi in una vera e propria chiesa inferiore, come nel caso della chiesa milanese della Santa Trinità San Sepolcro (1030-1040 ca.), o di San Fermo a Verona (1067 ca.). Niente è però veramente rapportabile alle soluzioni messe in opera nel Saint-Bénigne di Digione, edificio che viene di fatto condannato dalla sua stessa straordinaria concezione progettuale a rimanere un unicum nel panorama dell’architettura romanica europea. Altre saranno infatti le soluzioni sull’articolazione dei volumi orientali con percorsi a livelli sovrapposti, con cripte funzionali al deposito di molte reliquie e altari, destinate ad avere fortuna.
Fin dalla metà del X secolo prende piede in Francia un tipo di cripta a oratorio, circondata da un deambulatorio da cui si accede a una serie di cappelle poste radialmente. Un simile assetto planivolumetrico è attestato dagli scavi archeologici per la cattedrale di Clermont-Ferrand, in Alvernia, databile alla metà del X secolo, ma è al Saint-Philibert di Tournus che, nei primi decenni dopo il Mille (consacrata nel 1019), esso acquista piena organicità.
È significativo che attorno al Mille sperimentazioni confrontabili di circolazione periferica a due livelli si possano trovare anche in Italia settentrionale (cattedrale di Ivrea, coro ovest; Santo Stefano di Verona: in entrambi i casi senza cappelle radiali), senza che sia facile riuscire peraltro a riconoscere precisi influssi da una regione all’altra. L’articolazione a cappelle radiali dello chevet ha, come si diceva, grande diffusione per più di un secolo in territorio francese, con una trasformazione morfologica delle cappelle che da rettangolari diventano semicircolari (Saint-Aignan di Orléans, cattedrale di Rouen). Per di più il deambulatorio superiore a cappelle radiali ha una sua autonoma fortuna, sganciandosi a volte dalla presenza di una cripta di identica planimetria (Vignory, ma si veda soprattutto il capitolo “Le vie di pellegrinaggio”, sul pellegrinaggio per le chiese di Saint-Sernin di Tolosa, Sainte-Foy di Conques, Saint-Martial di Limoges etc.). È di questo tipo, con cinque absidiole, il coro dell’enorme abbaziale (Cluny III) che si inizia a costruire a Cluny in sostituzione della chiesa di Maiolo (Cluny II), negli anni dell’abate Ugo (a partire dal 1088). La maior ecclesia è di dimensioni colossali (150 m di lunghezza, esclusa la galilaea), a cinque navate con ben due transetti sovrastati da un totale di quattro torri, sui due incroci e sui bracci del transetto maggiore. Resta oggi, dopo il “meticoloso” smontaggio della chiesa, ridotta tra 1798 e 1823 a cava di materiale da costruzione, solo una piccola porzione del braccio sud del transetto grande e qualche campata della navatella meridionale, oltre le murature inferiori della più tarda galilaea.
Tornando a Tournus, il Saint-Philibert è un monumento chiave del romanico d’Oltralpe, un vero e proprio laboratorio per le tecniche di copertura a volta e scansione modulare dello spazio. Se nel 1020 si è già provveduto a coprire il coro con una volta a botte, si deve guardare soprattutto alle scelte operate per la galilaea, aggiunta qualche anno dopo all’edificio (1040 ca.). Si tratta dell’esemplare sicuramente meglio conservato e più antico della tipologia cluniacense, cronologicamente vicina alla galilaea costruita a Cluny dall’abate Odilone a ovest della scomparsa chiesa di Maiolo (Cluny II). La forma dell’avant-nef di Cluny è oggetto di discussione, data l’esiguità delle informazioni di scavo, ma è assai probabile che la galilaea di Tournus, e di altri centri che adottano le consuetudini cluniacensi, rispetti nelle linee generali il modello della casa madre. Non ci si può qui soffermare sulla funzione di un simile corpo di fabbrica, né sul suo legame, presunto ma in verità assai dubbio, con altre forme di Westbau, come quelle carolingie e ottoniane sopra descritte. Ciò che qui interessa è lo sperimentalismo delle coperture.
L’ambiente al piano terra ha volte a crociera nella navata centrale, e volte a botte trasversale sui collaterali, con una scansione, ormai perfettamente romanica, dello spazio in campate. Nel piano superiore, sullo spazio della navata maggiore, viene gettata una volta a botte longitudinale su archi trasversi, sotto la quale ci si arrischia ad aprire delle finestre. Le semibotti delle navate laterali sono poste troppo più in basso per servire da controspinta, e quindi servono dei grossi tiranti per non rischiare il collasso della struttura. Alla fine del secolo viene voltata la navata della chiesa, i cui alti pilastri cilindrici sono già stati eretti attorno al 1040, al tempo della costruzione dell’avant-nef.
Per la copertura si sceglie un inedito sistema con una volta a botte trasversale all’asse della chiesa per ogni campata, soluzione ingegnosa che permette l’apertura di finestre nel cleristorio. La soluzione di Tournus non ha però eco, la strada più praticata è ormai da tempo quella della volta a botte longitudinale, magari con archi trasversi (Chapaize, Canigou in Roussillon; Cardona, San Pedro di Cassérres, Sant Llorenc del Munt in Catalogna), a cui fa seguito dall’ultimo quarto dell’XI secolo l’impiego diffuso della volta a botte spezzata, e infine delle volte ogivali, che consentono l’illuminazione del cleristorio e sono elemento determinante per lo sviluppo dello stile gotico, dalla metà del XII secolo in poi. Ma alle ricerche sulla volta in muratura per le navate corrono fin dagli inizi in parallelo quelle sul pilastro composito, ossia su un tipo di sostegno di sezione mistilinea, nato dall’aggregazione di diversi elementi “specializzati”. Un simile pilastro è capace di corrispondere nel modo migliore alle singole forze esercitate dalla volta a crociera: a un nucleo centrale di sezione quadrata o cruciforme si appoggiano su ogni lato quattro semicolonne, che servono a raccogliere gli archi trasversi delle volte a crociera, le cui nervature diagonali ricadono invece sui risalti angolari del nucleo. A Tournus, come nella vicina chiesa di Chapaize, le volte (a crociera nei collaterali) sono ancora associate a pilastri cilindrici in muratura, tipici della regione. In effetti in questa fase di elaborazione è possibile trovare coperture a volta su colonne o pilastri semplici, e allo stesso tempo tra gli edifici in cui compare, sia pure in forma embrionale, il pilastro composito, ve ne sono alcuni, come Saint-Vorles a Châtillon-sur-Seine, destinati a ricevere una copertura lignea.
Nella splendida cripta di Saint-Étienne di Auxerre (1023-1035) si trova uno dei primissimi testimoni di pilastro politistilo rigorosamente definito, ma anche qui, a dimostrazione di una sperimentazione che non bada solo al dato prettamente tecnico, non si giustificano con esigenze strutturali le sovrabbondanti dimensioni dei sostegni, e si deve pensare a un’attenzione di natura estetica dei costruttori sulla plastica dei pilastri e sul contributo da questi dato alla definizione dello spazio. Nella seconda metà dell’XI secolo il pilastro composito si diffonde in Borgogna, nel Poitou, nella valle della Loira e in Normandia, dove si trova applicato, nel fondamentale cantiere di Notre-Dame di Jumièges (consacrata nel 1067), secondo una ritmica alternata di navata, pilastro composito - pilastro cilindrico semplice. La navata è scandita in tre livelli, schema tipico del romanico normanno (Saint-Étienne di Caen, Cerisy-la-Forêt), con matroneo praticabile e cleristorio aperto da alte monofore: navatelle e gallerie sono voltate a crociera, mentre la navata maggiore ha in origine una copertura lignea, e le semicolonne dei pilastri compositi servono a sostenere gli archi-diaframma che dividono in campate lo spazio longitudinale. In questa chiesa normanna degli anni 1050-1060 sono combinati insieme in una ferrea logica progettuale molti elementi (volte, pilastri articolati, scansione in campate) costitutivi del linguaggio romanico, il cui impiego si può seguire negli stessi decenni anche in area catalana (San Vincenzo di Cardona) e in Italia settentrionale, su cui adesso conviene spostare l’attenzione.
Alcuni edifici del Novarese e Vercellese sono stati da tempo segnalati per la precoce (primo e secondo quarto dell’XI secolo) comparsa di coperture murarie nei collaterali, a botte (San Genesio di Suno; San Michele di Balocco, I fase ad aula unica), a crociera, in giunzione con pilastri articolati da lesene addossate (San Pietro di Carpignano Sesia, San Vincenzo di Pombia). In diversi casi (Viguzzolo, Pedona, Fornovo) l’adozione di un sostegno articolato da semicolonne è indipendente, come al Saint-Vorles di Châtillon-sur-Seine, dal tipo di copertura. Volte a botte su invasi di ingente larghezza appaiono nei primi decenni dell’XI secolo. Il coro di Sant’Ambrogio di Milano, date le sue dimensioni, potrebbe essere un caso di eccezionale rilievo su scala europea: la datazione è da tempo dibattuta, ma deve rimanere entro il 1030-1040. Allo stesso periodo si datano le prime torri e tiburi sottocupolati su campate di incrocio di chiese con transetto (cattedrale di Acqui, Sant’Antonino di Piacenza), e in piante centrali come nello straordinario battistero di Galliano, in cui anche i matronei sono voltati a crociera.
Esemplare per il modo in cui si vengono a combinare, in un coerente e organico disegno progettuale, molte innovazioni del romanico lombardo, è la chiesa di Santa Maria Maggiore di Lomello vicino a Pavia (secondo quarto dell’XI secolo). L’edificio, ambiziosa commissione del conte Ottone I, è a tre navate con transetto basso sporgente e tre absidi, di cui la maggiore in origine dotata di un’ampia cripta a oratorio seminterrata, uno dei casi più rilevanti della tipologia nei primi decenni dopo il Mille, anche per la plastica dei sostegni di parete delle volte, con semicolonne addossate a risalti del muro. Altrettanto rilevante, per la storia delle tecniche costruttive, l’impiego di volte a botte nei bracci del transetto e nella campata di coro, e la copertura con volte a crociera dei collaterali. In questo caso poi, in parallelo con le esperienze francesi, la forma circolare del pilastro viene modificata, con l’addizione di lesene trasversali, in funzione di un migliore sostegno delle volte e di una partizione ritmica dello spazio: la lesena verso le navatelle supporta gli archi trasversi delle crociere, e quella verso la navata centrale sorregge, un pilastro ogni due, grandi archi diaframma che scandiscono lo spazio in campate.
Si possono trovare altre testimonianze della perizia dei costruttori lombardi e della loro formazione tecnica nel corso del secolo: ad esempio nella grande cupola della Rotonda di Brescia, se questa va datata, come sembra, in fase con l’impianto della chiesa, alla seconda metà dell’XI secolo.
Ma il panorama dell’architettura del nord Italia risulta di grande varietà anche per lo stimolo, specie nei centri urbani maggiori, delle preesistenze paleocristiane: basti pensare ai casi dei gruppi episcopali di Pavia o Novara, o al sistematico rifacimento romanico del patrimonio architettonico ambrosiano di Milano. Stimolo che riguarda anche le tecniche costruttive, riapprese sui ruderi dei grandi monumenti romani, e, quando necessario, da mettere al servizio di spericolate architetture, veramente in gara con l’antico: un caso clamoroso dovette essere il rifacimento dei primi decenni del XII secolo del quadriconco e della enorme cupola di San Lorenzo Maggiore, che resta purtroppo documentato solo da alcune fonti iconografiche, dopo il riallestimento di Martino Bassi a seguito di un crollo nel 1573.
Il nord Italia appare dunque come luogo ove si vanno combinando in sintesi originali un sostrato classico ancora molto presente, i nuovi indirizzi tecnico-costruttivi del primo romanico e altri fattori che più facilmente è possibile considerare non autoctoni e provenienti dal nord Europa. Si è in passato conferita molta importanza, ad esempio, al monachesimo cluniacense come vettore di novità, finendo forse per trascurare altre direttrici di scambi, segnatamente con l’area imperiale del medio e alto Reno. È da qui che arrivano forse dispositivi come il transetto occidentale con controcoro rettilineo di Sant’Antonino di Piacenza (confrontabile con quelli dei St. Aposteln di Colonia e di St. Emmeram di Ratisbona) e di Farfa, l’impianto ad absidi opposte del San Pietro di Civate (terzo quarto dell’XI secolo), la soluzione bipolare della cattedrale di Aosta, segnalata in elevato da torri gemelle, sia in facciata che ai lati del coro (dotate queste ultime di cappelle alte). Dinamica e recettiva è in particolare l’area comasca. In città rimangono alcuni dei più importanti edifici del romanico italiano, tutti attraversati da influenze nordiche. Ne è un esempio lampante la basilica di Sant’Abbondio, avviata nel 1013, ma compiuta negli anni 1060-1070: a cinque navate su pilastri cilindrici (la maggiore) e colonne (i collaterali), e un lungo e alto coro coperto da due imponenti volte a crociera e contenuto entro le moli di due torri campanarie che è inevitabile confrontare, anche nei caratteri formali, con quelle del duomo di Spira. O la chiesa coeva di San Giacomo, il cui impianto sembra ricalcare edifici dell’alto Reno come Limburg, Costanza, Sciaffusa I, anche nell’adozione di una facciata armonica, con tribuna alta sopra l’ingresso.
Altre regioni del centro e sud Italia vivono un periodo di rinnovata attività costruttiva. Il dinamismo sociale ed economico di alcune realtà urbane, proiettate verso un enorme sviluppo commerciale ed economico, e verso nuovi ordinamenti politici comunali, si riflette in commissioni architettoniche di eccezionale entità in cui si coagula l’impegno di tutta la comunità, del potere ecclesiastico e di quello politico.
Si farà menzione più avanti dei grandi cantieri della cattedrali mediopadane, ma è a Pisa che, nel corso dei due secoli che vanno dalla fondazione della cattedrale (1064) al completamento di Giovanni Pisano del battistero (avviato da Diotisalvi nel 1152), si materializza nella maniera più monumentale ed eloquente il potere della repubblica, già nell’XI secolo esteso a tutto il mare Tirreno. Gli inizi della costruzione della cattedrale si legano, come vuole un’epigrafe posta in facciata, all’evento di una vittoria della flotta pisana sui musulmani nel porto di Palermo. Vescovo è da poco diventato Guido da Pavia (in carica dal 1060 al 1076) allineato sulle posizioni riformiste del patarino Anselmo da Baggio, papa Alessandro II. Il bottino serve per avviare l’impresa edilizia, che in verità si conclude dopo il 1118, data della consacrazione da parte di papa Gelasio II. Si conosce il nome del progettista, Buscheto, esaltato da una seconda iscrizione come novello Dedalo.
La pianta è a croce latina a cinque navate su colonne con capitelli corinzi. Il transetto molto sporgente è frazionato in tre navate e le testate sono concluse da absidi, dando la sensazione, dall’esterno, di due basiliche innestate trasversalmente sul corpo maggiore. L’incrocio, oblungo, su archi acuti, è sovrastato da una cupola. I collaterali sono coperti da volte a crociera, che sorreggono un matroneo (praticabile nel settore di incrocio), aperto sulla navata centrale con splendide bifore sopraccigliate. Attorno al 1140 Rainaldo allunga a occidente il corpo della cattedrale di tre navate e avvia la realizzazione della facciata con la ripresa del modulo buschetiano ad arcate cieche dei fianchi, e soprattutto con il disegno che avrà lunga fortuna (San Martino di Lucca, pieve di Arezzo) a loggette sovrapposte. La cattedrale di Pisa, con il suo meraviglioso lessico classicheggiante, il distintivo paramento bicromo, la successione degli archi di parete, svolge una funzione normativa in Toscana, in Liguria, ma anche in Sardegna e Corsica: basti pensare alle chiese lucchesi di San Michele in Foro (consacrazione del 1147) e alla cattedrale di San Martino.
Un’inevitabile focalizzazione della storiografia sui risvolti di questa cultura architettonica incentrata sul recupero dell’antico ha però di fatto obliterato alcune esperienze coeve in cui si mettono anche a frutto le novità del romanico settentrionale. A Firenze ad esempio, il vescovo Gerardo, di formazione cluniacense e futuro papa riformatore Niccolò II, promuove un restauro della cattedrale di San Reparata a cui viene dato un impianto à chevet échelonné, con l’addizione sui lati di due cappelle absidate. L’area presbiteriale è ulteriormente articolata da una grande cripta a sala, e dalla presenza di due campanili ai lati dell’abside maggiore. Colpevolmente trascurata, nonostante la ricchezza del suo paesaggio monumentale, è anche l’area umbro-marchigiana, caratterizzata dalla stessa commistione, riscontrata in Lombardia, tra fedeltà allo schema basilicale, spinte sperimentali e recezione di modelli esterni alle tradizioni costruttive locali: qui forse con l’aggiunta di suggestioni bizantine, rilevabili nelle piante di molte chiese a croce greca inscritta.
Attorno alla metà dell’XI secolo le maestranze hanno ormai raggiunto un pieno controllo tecnico delle coperture a volta: si pensi a Santa Maria di Portonovo, alla chiesa doppia di San Claudio al Chienti, e alla vicina chiesa di Santa Maria a pié di Chienti, la cui prima fase databile entro la metà del secolo è caratterizzata da un deambulatorio a cappelle radiali in continuazione delle navate voltate a crociera e sovrastate da matronei. Si tratta di un impianto curiosamente simile, e coevo, a quello di Vignory in Francia, e che resta quasi un unicum a sud delle Alpi, prima delle fondazioni meridionali normanne, di chiara influenza francese, di Aversa (entro il 1090), di Venosa (coro 1100 ca.), di Acerenza (inizio XII sec.).
Ma va segnalato anche un diffuso interesse per articolazioni non banali dell’area di facciata, in edifici ad abside contrapposta con cripta (Sant’Angelo in Montespino), dotati di tribune occidentali (Sant’Urbano all’Esinante) e di facciate armoniche (Santa Maria alle Moje, duomo di Ascoli).
Più a sud ci si limita generalmente all’adozione di stilemi romanici settentrionali, o all’occasionale inserimento di cripte a oratorio presbiteriali, senza che venga messa in discussione l’articolazione e la distribuzione del tradizionale impianto basilicale trinavato e absidato. A Roma gli anni di Pasquale II segnano l’avvio di una fioritura architettonica che riprende la grande tradizione architettonica paleocristiana in chiave ideologica, come un manifesto della renovatio Ecclesiae primitivae formae e della dottrina universalistica della Chiesa di Roma: in questa prospettiva vanno intepretate le ricostruzioni di Santa Maria in Cosmedin, di San Crisogono e di San Clemente, e, come in quest’ultimo caso (attorno al 1120), il recupero della tecnica musiva e dell’iconografia paleocristiana nel catino absidale. In quest’ottica di ripresa dell’antico l’edificio più influente è senza dubbio la nuova chiesa abbaziale di Montecassino, fatta erigere tra il 1066 e il 1071 da Desiderio, futuro papa Vittore III.
Molto alterata nel corso dei secoli e infine completamente distrutta dai bombardamenti alleati del 1944, l’abbazia desideriana è nota grazie alla Chronica di Leone Marsicano: si tratta di una chiesa a tre navate scandite da dieci coppie di colonne, con transetto continuo, preceduto da un grande atrio “paleocristiano”, in cui le forme classiche sono date allo stesso tempo da un ampio utilizzo di spolia, marmi antichi acquistati a Roma, ma anche dall’attività di artisti e mosaicisti giunti appositamente da Costantinopoli per la decorazione dell’abside. “Copie” di Montecassino sono la cattedrale di Salerno, che il vescovo Alfano – colui che ha contribuito al programma iconografico-simbolico di Montecassino con le didascalie del ciclo pittorico dell’atrio – avvia nel 1076, con l’aiuto economico di Roberto il Guiscardo; la cattedrale di Sessa Aurunca, quella di Capua, di Amalfi, e di molte altre sedi campane e meridionali.
In tutto il sud Italia dominato dai Normanni dalla metà dell’XI secolo il cantiere desideriano di Montecassino esercita un duraturo influsso. La Puglia è di fatto una delle regioni più interessanti, e ancora troppo poco valutate, nel panorama dell’architettura europea di fine XI-XII secolo, proprio per le originali sintesi che vi si producono tra sostrato classico, influenze bizantine, nuovi indirizzi romano-cassinesi da una parte, e apporti sia della cultura normanna sia di quella lombarda, già penetrata in Puglia grazie alla frequentazione di assi viari e di porti strategici.
Si consideri per la sua carica di innovazione e il suo carattere normativo per i cantieri del XII secolo, la basilica fondata a Bari da Elia, futuro arcivescovo (1089), per ricevere le spoglie di San Nicola, giunte in città nel 1087, e in gran parte realizzata entro il 1106. L’impianto trinavato con transetto continuo, di derivazione cassinese, o più probabilmente già noto e adottato a Bari nel rifacimento della cattedrale promosso dal vescovo Bisanzio a partire dal 1034, viene qui completamente stravolto: per la navata si adotta un sistema alternato “sassone” (due colonne - un pilastro forte); le navatelle sono voltate a crociera e sorreggono un matroneo aperto da trifore sopraccigliate che fanno pensare a Jumièges; il transetto è frazionato da grandi archi su cui si doveva appoggiare una cupola, poi non realizzata, e si eleva su una vasta cripta presbiteriale; le absidi sono contenute all’esterno da un muro rettilineo; due coppie di campanili gemelli dovevano ergersi in facciata e ai lati del catino absidale maggiore: motivo, quello dello chevet harmonique, che si ritrova nelle cattedrali di Bari, Giovinazzo e Molfetta.
Il peso, nel campo dell’architettura ecclesiastica, dei nuovi conquistatori normanni si dimostra particolarmente rilevante in Sicilia, regione da questi sottratta a due secoli di dominio arabo, in cui le nuove forme del costruire risentono meno di forti sostrati culturali, ma allo stesso tempo si appropriano di tipologie decorative islamiche. L’organizzazione politica del territorio procede anche attraverso la fondazione di sedi vescovili. Ruggero il Gran Conte istituisce contemporaneamente le diocesi di Agrigento, Mazara, Siracusa, Catania, dopo aver provveduto, in Calabria, alla creazione di due importanti siti monastici, quello di Sant’Eufemia (dal 1062) e quello della Santissima Trinità di Mileto (consacrata nel 1080): da questi cenobi giungono molti monaci riformati di origine francese per essere posti alla guida delle sedi vescovili siciliane. La cattedrale di Cefalù è uno dei monumenti più rappresentativi della Sicilia normanna. Fondata da Ruggero II attorno al 1130, come proprio luogo di sepoltura, la chiesa ha un corpo longitudinale trinavato su colonne a copertura lignea, fortemente ridimensionato in altezza in corso d’opera, raccordato a un transetto sporgente voltato (entro il 1148), e tre absidi in progressione scalare. Recenti studi (Gandolfo) hanno dimostrato l’infondatezza della teoria tradizionale che faceva di Cefalù uno dei capisaldi di uno schema planimetrico plasmato, quanto al dispositivo absidale, su quello cluniacense à chevet échelonné, portato in Calabria dai monaci normanni insediati nelle fondazioni di Ruggero (Santissima Trinità di Mileto), e divenuto modello normativo per le cattedrali siciliane della fine dell’XI e del XII secolo, da Troina (1080), a Mazara del Vallo, a Catania (dal 1094), per arrivare, dopo Cefalù, alle cattedrali di Messina (fondata da Ruggero II, ma conclusa nel 1168), Monreale e Palermo (fondazioni di Guglielmo II). Sono a ogni modo evidenti, nella cattedrale di Cefalù, soluzioni distributive e tecniche nord europee – la facciata armonica, i passaggi in spessore di muro del transetto, che avrebbero dovuto proseguire nel corpo di navata, articolandola in tre livelli – ma esse vengono ricomposte in un quadro fortemente radicato nella cultura artistica e costruttiva siciliana, senza che vengano replicati, in modo pedissequo, modelli d’Oltralpe.
Bisogna ora tornare all’area lombarda, per verificare come, verso la fine dell’XI secolo, siano giunte a maturazione le premesse impostate in alcuni cantieri della prima metà del secolo, come quello di Lomello. È in Italia meno agevole seguire il processo di sistematizzazione del pilastro composito con appigli di cronologia certa – si deve pensare alla chiesa di Sant’Eufemia all’Isola Comacina (1030-1050), a San Paragorio di Noli (1050 ca.), al Sant’Abbondio di Como (1070 ca.) e ai pilastri della vecchia cattedrale di Modena (metà XI) abbattuta per fare posto alla fabbrica lanfranchiana – rispetto alla Francia in cui dopo il 1050-1060 il suo impiego diventa comune, anche per i salienti di navata. Eppure è tale processo a portare alle massime prove del romanico lombardo, nel momento in cui il pilastro composito viene impiegato in funzione di un nuovo tipo di volte, a crociera costolonata: volte costruite sull’incrocio diagonale di due archi, a cui si appoggiano quattro vele.
Il cantiere simbolo è quello della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, il cui avvio data forse già agli anni Ottanta dell’XI secolo. L’importanza del sito è dovuta al fatto che qui si sono sedimentate diverse fasi dello sperimentalismo dei cantieri milanesi, come evidenzia il blocco protoromanico delle absidi, anteriore di almeno cinquant’anni al complessivo rifacimento di fine secolo. Rifacimento il cui rigore concettuale, che piega un lessico architettonico ormai maturo e originali tecniche di copertura a una dinamica spaziale innovativa, è ancora più apprezzabile se si pensa ai condizionamenti della preesistente basilica paleocristiana, di cui si sono volute rispettare le misure (larghezza, lunghezza, rapporti dimensionali tra le navate), e l’inamovibile fulcro sacro: la sepoltura di Ambrogio sotto l’altare maggiore. In questo involucro un geniale architetto riesce a determinare, con la sequenza funzionale pilastro forte - pilastro debole, un rapporto modulare razionale tra spazi gerarchizzati. La navata centrale è larga il doppio di quelle laterali, e il sistema alternato dei pilastri fa sì che a una campata maggiore corrispondano due campatelle. Le grandi volte si appoggiano sui pilastri forti, mentre i pilastri deboli ricevono le nervature e gli archi trasversi delle crociere che coprono le due campatelle corrispondenti. Il sistema di controspinta alle enormi volte costolonate centrali, impostate su un quadrato di più di 12 metri di lato, non sarebbe però sufficiente se non contribuissero anche le volte a crociera del matroneo eretto al di sopra dei collaterali. Tipiche di un cantiere d’avanguardia sono anche alcune scelte non del tutto soddisfacenti, come la mancanza di finestre sopra i matronei, che rischierebbero di indebolire la struttura. La navata maggiore prende luce da tre enormi finestre in facciata, poste in corrispondenza delle tre campate centrali di un nartece a due piani, che funge anche da braccio orientale di un atrio porticato (1110-1120).
L’influenza del cantiere di Sant’Ambrogio è incalcolabile in città e fuori. In molti edifici ci si limita a una ripresa superficiale della decorazione plastica; in altri, come le chiese di San Savino di Piacenza, di San Sigismondo di Rivolta d’Adda (fabbriche databili entro il 1110), o di San Giorgio al Palazzo di Milano, il sistema alternato “ambrosiano” viene assunto in forma semplificata, sostituendo i matronei voltati con monofore.
Un ambito di elaborazioni originali sulla volta a crociera costolonata è poi, nei primi decenni del XII secolo, il Novarese (cattedrale di Novara, Ognissanti di Novara, abbazia di Sannazaro Sesia). Altrove infine (Santo Stefano, San Vittore al Corpo e Sant’Eustorgio di Milano, San Pietro in Ciel d’Oro, Santo Stefano e Santa Maria del Popolo di Pavia) si inizia a percorrere una diversa strada, che condurrà a una articolazione delle navate in sequenza uniforme, con campate maggiori coperte da volte a crociera oblunga.
Una precisa ripresa del complesso sistema portante di Sant’Ambrogio si ha all’inizio del XII secolo, su un tracciato planimetrico differente che prevede un transetto sporgente con campata di incrocio cupolata, in San Giovanni in Borgo (distrutta) e soprattutto in San Michele di Pavia: qui con il tentativo di superare il modello milanese e risolverne i problemi di illuminazione aprendo finestre al di sopra del matroneo. Le novità, e i connessi problemi, emersi nel cantiere ambrosiano caratterizzeranno tutto il corso del romanico padano nel XII secolo. Chiese come Santa Maria in Betlem o San Teodoro di Pavia dimostrano la fedeltà, ben oltre il 1150, ai modi costruttivi elaborati nei cantieri milanesi e pavesi di fine XI - inizio XII. Anche per l’architettura delle grandi abbazie cistercensi (Chiaravalle Milanese, Chiaravalle della Colomba, Cerreto Lodigiano etc.), sul finire del periodo preso qui in esame, la modularità della pianta bernardina, pienamente compatibile con il sistema alternato “ambrosiano”, viene declinata secondo modi costruttivi ormai radicati in area lombarda. Lo stesso varrà sovente per le chiese umiliate e per quelle degli ordini mendicanti.
Quella di Sant’Ambrogio è una ricostruzione esemplare anche per le novità che si determinano nell’organizzazione del cantiere romanico, e più ancora per le forze che danno vita all’impresa architettonica. La nuova basilica infatti non è voluta da un imperatore o da un vescovo, ma è l’esito dell’iniziativa congiunta di più poteri, della convergenza degli interessi del clero e delle componenti laiche più dinamiche: la ricostruzione fotografa la realtà sociale di una città in cui al governo del vescovo si inizia ad accostare, per poi prendere il sopravvento, quello delle magistrature laiche.
Vicenda dunque esemplare, che corre in parallelo con quella, altrettanto emblematica, della costruzione della nuova cattedrale di Modena. In un quadro storico dominato dal conflitto tra papato e impero, l’erezione di gigantesche cattedrali è il segno più eloquente di un’affermazione di ortodossia, del ribadito o recuperato legame con la Chiesa di Roma. Così a Modena, dove il testo più importante per la storia del cantiere, la Relatio translationis corporis sancti Geminiani, data l’avvio dei lavori al 1099, la città appena uscita da un lungo periodo scismatico. L’iniziativa viene presa dai maggiorenti che trovano in Lanfranco un geniale progettista (mirabile artifex). Nel 1106 vi è una consacrazione, in presenza anche di Matilde di Canossa, con la traslazione del corpo di San Geminiano. A quest’epoca dunque i lavori nel settore orientale sono probabilmente in uno stadio avanzato e la cripta presbiteriale terminata, ma tutto l’edificio viene concluso rapidamente, sulla base di un progetto unitario che lega interno ed esterno molto più di quanto oggi sia possibile riconoscere. Il perimetrale esterno è avvolto dal motivo seriale delle arcate cieche contenenti una galleria che si apre con una trifora per ogni arco.
L’apertura dell’enorme rosone e delle porte laterali in facciata, le testate di un finto transetto e l’aggiunta della Porta Regia (1178 ca.), sulla Piazza Grande, sono estranee al disegno lanfranchiano e si devono a un cantiere campionese che opera in più fasi tra fine XII e inizio XIII secolo. All’interno, simile a Sant’Ambrogio è l’adozione di un sistema alternato pilastro forte - colonna, per cui si è spesso fatto riferimento come nodo culturale di fondo a Lomello e, per le forme accordate alla scansione a tre livelli della navata, a Jumièges. Eppure il progetto di Lanfranco differisce sensibilmente dalla basilica milanese, dal momento che il duomo di Modena aveva in tutte le sue parti una copertura lignea (le volte sono del XV secolo), i pilastri polistili servivano unicamente a sorreggere archi trasversi acuti, e le trifore aperte al di sopra di ogni arcata longitudinale fingono un matroneo inesistente. Balza agli occhi il contrasto tra il magnifico paramento lapideo dell’esterno e la muratura laterizia interna, che si accende in brani di inedito classicismo nelle colonne marmoree e nei coltissimi capitelli corinzi. L’architettura di Lanfranco non è implicata nella risoluzione di complessi problemi di statica, né nella sperimentazione di originali soluzioni di copertura, ma riesce a creare, con la raffinatezza del lessico e l’equilibrio metrico, uno spazio al tempo stesso classico e romanico.
La cattedrale di Ferrara e la basilica di San Zeno a Verona mostrano una stretta parentela culturale con la cattedrale modenese. Vi si ammirano le più alte realizzazioni di Nicolò, grande protagonista della plastica padana di inizio XII secolo, e da molti ritenuto il vero architetto delle due chiese, dato il suo quasi certo periodo di formazione a Modena, tra il cantiere scultoreo di Wiligelmo e quello architettonico di Lanfranco. La cattedrale di Ferrara in particolare (fondazione 1135), completamente trasformata ma ben ricostruibile sulla base di fonti iconografiche assai dettagliate, è una riflessione sulla cattedrale di Modena trasportata in un impianto a cinque navate: impianto che sopravvive all’epoca in cattedrali paleocristiane del nord Italia come quelle di Milano o di Vercelli; ma soprattutto impianto risemantizzato, nel suo dichiarato collegamento con i modelli costantiniani romani, come affermazione di fedeltà al papato, sulla linea della cattedrale buschetiana di Pisa. L’articolazione spaziale della cattedrale ferrarese si risolve in una trama di muri-diaframma trasversali e longitudinali traforati da polifore e monofore su più livelli, e vuole essere la migliore dimostrazione di come uno spazio autenticamente romanico si possa ideare non solo per mezzo di volte in muratura ma anche, semplicemente, con la luce.
Nel momento in cui i modenesi si mettono alla ricerca di un architetto capace di innovare il loro San Geminiano, è probabilmente già da qualche anno avviato il cantiere della cattedrale di Parma. Se nulla rimane oggi della fabbrica del vescovo filoimperiale Cadalo, poi antipapa con il nome di Onorio II, è però probabile che modelli di area renana (duomo di Spira) abbiano contribuito a determinare la particolare soluzione planimetrica del nuovo, imponente edificio, consacrato – ma certo a lavori non ancora conclusi, e secondo alcuni studiosi da spostare (specie in relazione al corpo longitudinale) più verso gli anni Trenta del XII secolo – nel 1106 da papa Pasquale II. I modelli nordici influiscono sulla costruzione ad quadratum del settore orientale: campata di incrocio con tiburio cupolato, replicata nei bracci del transetto, con absidi sulla testata e sul lato est, e nel coro. Ad esso si aggrega un corpo di navata caratterizzato da un sistema alternato di tipo normanno, pilastri forti e deboli, a fascio, con nervature che in entrambi i casi salgono fino alla quota del cleristorio, superando il livello di un vero matroneo che si apre sulla navata con quadrifore. Le crociere oblunghe attuali sono andate a sostituire una copertura lignea originaria su archi trasversi.
Medesime tematiche si trovano nelle altre due grandi cattedrali del romanico mediopadano, quella di Cremona, per cui si ha una data di inizio al 1107, ma che viene danneggiata dal terremoto del 1117 e viene in parte ricostruita dal 1128; e quella di Piacenza, che un’iscrizione non più verificabile dice avviata nel 1122. In entrambe, la navata a tre livelli dispone di un falso matroneo, ossia di polifore che danno non su uno spazio fruibile bensì sui sottotetti delle navate laterali voltate a crociera. I pilastri sono cilindrici; le membrature di sezione alternata, elevate come a Parma fino al cleristorio, e che a Cremona servono per una copertura lignea, a Piacenza vengono invece utilizzate, nella seconda metà del XII secolo, per la costruzione di volte esapartite “normanne”. Nell’intricato gioco delle parentele e delle influenze tra questi cantieri maggiori, che non è possibile sciogliere essendo ancora troppo incerta la cronologia delle diverse fabriche, e in cui ha un ruolo centrale la decorazione plastica delle officine di Wiligelmo (attivo a Cremona già nel 1107 e a Piacenza nel portale nord della facciata) e di Nicolò, le cattedrali di Cremona e di Piacenza si legano anche per il tracciato planimetrico a croce con transetto trinavato (benché in entrambi i casi sia stata revocata in dubbio la sua presenza nel progetto originario) senza dubbio imitato dalla cattedrale di Pisa.