Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il “popolo”, inteso come insieme delle classi sociali meno elevate, diviene nella ricerca di alcuni autori e correnti, in diverse modalità e gradi, soggetto della rappresentazione. Se da un parte il populismo tende a idealizzare eccessivamente il mondo rurale e operaio, esaltato come portatore di valori positivi tradizionali, dall’altra vari scrittori hanno reso, con efficacia realistica, la vita delle classi più povere nelle loro concrete determinazioni sociali. In vari paesi europei ha avuto grande diffusione il realismo socialista sul modello di quello russo inaugurato da Maksim Gor’kij.
Maksim Gorkij
La madre
GORKIJ - LA MADRE
Ogni giorno, sul sobborgo operaio, nell’aria fumosa, greve, fremeva e urlava la sirena della fabbrica e, obbedienti all’appello, dalle piccole case grigie uscivano frettolosi sulla strada, come scarafaggi atterriti, uomini tetri e cupi che non erano riusciti a ristorare nel sonno i loro muscoli. Nel freddo crepuscolo andavano per la via non lastricata verso le alte gabbie di pietra della fabbrica, che li aspettava con impassibile sicurezza, accendendo nella strada melmosa decine di occhi viscidi, quadrati. Il fango sciacquava sotto i piedi. Si udivano rauche esclamazioni di voci assonnate, grosse bestemmie laceravano rabbiosamente l’aria, incontro agli uomini venivano altri suoni, il tumulto sordo delle macchine, il borbottio del vapore.
M. Gorkij, La madre, Roma, Editori Riuniti, 1980
Benché il termine “popolo” indichi in generale la collettività dei cittadini, ci si riferirà qui al popolo (e al corrispondente aggettivo “popolare”) inteso come insieme delle classi sociali meno elevate, con un tenore di vita economica, sociale e culturale modesto. Detto questo, la coppia “scrittori e popolo” rimanda all’idea di letteratura popolare, espressione che può definire tre diversi fenomeni, i primi due concernenti la sociologia della letteratura: innanzitutto la produzione di origine popolare, quella produzione orale (e in certa misura anche scritta) che trae origine dalle tradizioni e dalla cultura del popolo. In secondo luogo il popolo è considerato come pubblico; avremo così una letteratura prodotta di solito dalle classi colte, che, per le sue caratteristiche di facilità e immediata comprensione, assume prevalentemente carattere educativo o evasivo. Infine, possiamo considerare quella che assume il popolo, in diverse modalità e gradi, a soggetto privilegiato o principale della rappresentazione. Quest’ultima declinazione è stata spesso legata al concetto di populismo, cioè alla tendenza a idealizzare eccessivamente e genericamente il popolo, visto come portatore di valori positivi, spesso tradizionali, senza tenere conto delle sue concrete determinazioni e articolazioni sociali. Daremo una panoramica di questo terzo aspetto seguendo un criterio geografico, muovendoci cioè dall’Europa occidentale a quella orientale.
Nei primi decenni del Novecento, il portoghese Abel Botelho intitola significativamente Patologia Social la sua ricerca in chiave naturalistica; parallelamente acquista una certa importanza il romanzo umanitario, ispirato ai grandi romanzieri russi, come per esempio Tolstoj, introdotto in Portogallo da Jaime de Magalhã. Ricordiamo, di quest’ultimo filone, João Grave (Gente Pobre, 1912 e Os Famintos, 1903) e Raul Brandão (Os Pobres, 1906; Húmus, 1917) che, nei loro romanzi, hanno posto l’attenzione sui più poveri e miserabili. Durante il regime di Salazar il partito comunista clandestino orienta la produzione letteraria verso il cosiddetto neorealismo, indicando come modelli il naturalismo francese e il realismo socialista sovietico. Il movimento neorealista, sviluppatosi a Coimbra a partire dal 1939, è caratterizzato dunque da uno spirito progressista e dalla volontà di ritornare alle fonti popolari dato che la poesia, come scrive Mário Dioníso, è “nelle fabbriche, nelle file di automobili, nella città […] nelle lotte degli uomini”. I principali autori sono Alves Redol e Manuel de Fonseca. Il primo rappresenta i problemi sociali ed economici del suo paese natale, il Ribatejo, nel romanzo Gaibéus (1939), nel quale si racconta il risveglio della coscienza di classe dei braccianti agricoli sfruttati dai grandi proprietari terrieri. Come Redol, anche Manuel de Fonseca affronta i temi del bracciantato, del latifondo, delle violenze poliziesche (e difatti entrambi gli autori sono invisi al potere salazarista), divenendo così una sorta di cantore epico della sua regione nativa, l’Alentejo, e dell’oppressione del suo popolo – come si vede nella raccolta poetica Rosa dos Ventos (1940) e nel romanzo Cerromaior (1943) –. Fuori dal neorealismo è José Cardoso Pires, per il quale si è parlato relativamente ai suoi primi romanzi, Hóspede de Job (1963) e Il delfino (O Delfim, 1968), di “folklore picaresco” e “saga popolare”. Dopo la fine del regime ricordiamo O Dia Prodígios (1979) di Lídia Jorge, nel quale la rivoluzione di aprile è filtrata attraverso lo sguardo atemporale di una comunità rurale dell’Algarve, con uno stile definito da alcuni “realismo fantastico”, e il romanzo storico-sociale di José Saramago Una terra chiamata Alentejo (Levantado do Chão, 1980), epopea di una famiglia contadina dalle prime battaglie sindacali alla rivoluzione dei garofani.
Nella vicina Spagna il quotidiano “El pueblo” pubblica i primi romanzi a sfondo sociale e naturalistico (sul modello di Émile Zola) di Vecente Blasco Ibáñez, tra i quali La barraca (1898), dove sono descritti i dissidi tra i piccoli proprietari terrieri, e La bodega (1905), dove è narrata la ribellione contadina a Jerez. Del 1904 è anche l’interessante trilogia La lucha por la vida (composta da La busca, Mala hierba e Aurora roja) di Pío Baroja, forse il primo ritratto del disperato mondo sommerso del sottoproletariato e della borghesia declassata della grande città portoghese. L’opera teatrale Divine parole (Divinas palabras, 1929 tradotta in italiano nel 1941 da Elio Vittorini) del famoso Ramón del Valle-Inclán , sorta di “tragicommedia di paese”, ritrae invece il mondo contadino feudale della Galizia. Sulla scia della tradizione rurale (e dunque anche di Valle-Inclán) è il primo romanzo realistico di Camilo José Cela, La famiglia di Pascual Duarte (1942), segnato anche da toni umoristici e autoparodici. Tra le due guerre ricordiamo il modello – abbastanza disomogeneo – della novela social de preguerra, a cui appartengono, accomunati dalla critica sullo stato sociale, sia romanzi proletari (La turbina, 1930, di César M. Arconada) sia dichiaratamente fascisti come Hermes en la vía publica di Antonio de Obregón. Nel dopoguerra tra i drammi realistici-storici di Antonio Buero Vallejo vanno citati Un soñador para un pueblo (1958) ed El concerto de San Ovidio (1962), ambientato nell’imminenza della Rivoluzione francese.
La descrizione populista della realtà parigina accomuna alcuni scrittori francesi di inizio Novecento: Charles-Louis Philippe in Bubu de Montparnasse (1901) racconta il degradato mondo senza vie d’uscita della prostituzione parigina, mentre Francis Carco in Jésus-la-Caille (1914) e Rue Pigalle (1928) rappresenta Montmartre e la bohème di inizio secolo.
I paesaggi e il popolo delle montagne delle Cévennes sono invece il soggetto dei romanzi Rosso il bandito (Roux le bandit, 1925) e Gli uomini della strada (Les hommes de la route, 1927) di André Chamson. Tra le due guerre si ricordi la vena populista di Eugène Dabit (Hôtel du Nord, 1929) e lo scrittore Léon-Paul Fargue che con immagini ricercate evoca fedelmente la vita notturna e popolare della capitale in D’après Paris (1932) e Il pedone di Parigi (Le piéton de Paris, 1939). Grande scalpore suscita nel 1936 l’uscita di Ritorno dall’URSS di André Gide, descrizione del viaggio fatto in Russia con una delegazione di intellettuali. Dall’ostentata perfezione dei riti d’accoglienza, l’attenzione dello scrittore passa ben presto alle crepe del sistema, come per esempio la spersonalizzazione dei contadini nelle grandi aziende rurali collettive, i kolchoz, o le miserie dei bambini abbandonati di Sebastopoli. Nel dopoguerra Roger Vailland aderisce, negli anni tra il 1952 e il 1956, al canone del realismo socialista e, rifacendosi alla tradizione naturalista francese, rappresenta la vita e le difficoltà del mondo operaio nei romanzi Gamba svelta, occhio acuto (Bon pied, bon œil, 1950), Bel busto (Beau pasque, 1954) e 325.000 franchi (325.000 francs, 1955); incentrato sulla vita dei preti operai è invece I santi vanno all’inferno (Les saints vont en enfer, 1952) di Gilbert Cesbron.
Ricordiamo anche il prolifico scrittore populista Armand Lanoux – tra i tanti romanzi Quando il mare si ritira, vincitore del premio Goncourt 1963 – e lo svizzero di lingua francese Charles-Ferdinand Ramuz che nei suoi La bellezza sulla terra (La beauté sur la terre, 1927), Derborence (1934) e Se il sole non tornasse (Si le soleil ne revenait pas, 1937) rappresenta la vita dei montanari e degli abitanti della valle del Vaud.
In area tedesca tra fine Ottocento e inizio Novecento grande popolarità riscuotono i cosiddetti “Romanzi della terra natia” (Heimatroman), espressione di una ideologia conservatrice e nazionalista sostenitrice di una società agraria divisa per ceti. Mentre la letteratura naturalista francese rappresenta le classi più basse con atteggiamento scientifico, per dimostrare le tesi del determinismo biologico e sociale, gli espressionisti tedeschi sono interessati alle scene della vita popolare perché considerate parte inscindibile della realtà, fuori da ogni falso estetismo. Conoscere e rappresentare il popolo che vive nelle periferie, nelle strade, negli ospedali, nei ghetti, nei centri industriali e metropolitani significa descrivere e vivere più profondamente e consapevolmente nel mondo circostante, disumanizzato dalla realtà urbana. Per alcuni poeti la poesia diventa anche possibilità di confronto con le ingiustizie e le degenerazioni del presente mentre il popolo, cioè il proletariato, sulla base di una fede quasi magica nello “spirito della storia”, è visto come fautore di cambiamenti utopici: si veda ad esempio Paul Zeich autore di Il distretto nero (Das schwarze Revier 1909) e Il ponte di ferro (Die eiserne Brücke, 1914). Il proletariato industriale è il soggetto dei drammi di Ernst Toller, tra i quali I distruttori di macchine (Die Maschinenstürmer, 1922), ispirato al movimento luddista inglese dell’Ottocento. In Uomo massa (Masse Mensch, 1921), basato sugli eventi rivoluzionari del XX secolo, l’attenzione è però posta sulla contraddizione insolubile che deve affrontare il capo rivoluzionario, diviso tra i principi etici che guidano la rivolta e le circostanze che obbligano all’uso della forza. Vicino a Toller per le tematiche è poi il dramma I non violenti (Die Gewaltlosen, 1919) di Ludwig Rubiner, caratterizzato da uno slancio idealistico e astratto che sfocia in un socialismo umanitario alla Tolstoj. Tra le due guerre, nel 1928, nasce la Lega degli scrittori proletario-rivoluzionari (Bund proletarisch-revolutionärer Schriftsteller), che cerca di conciliare le sue direttive estetiche con quelle del partito comunista. I ceti popolari più poveri e svantaggiati sono il soggetto dei romanzi di Anna Seghers, una delle scrittrici di spicco del gruppo. Il romanzo La rivolta dei pescatori di Santa Barbara (Der Aufstand der Fuscher von St. Barbara, 1928) narra la (fallita) rivolta dei pescatori bretoni, La via di Febbraio (Der Weg durch den Februar, 1935), quella dei lavoratori viennesi del febbraio 1934; I sette della miniera (Die Retung, 1937) è una sorta di memoriale di anonime persone cadute durante la lotta di classe; La settima croce (Das siebte Kreuz, 1946), probabilmente il più famoso romanzo della Seghers, celebra la “povera gente” come speranza per un futuro di fraternità; infine Transito (Transit, 1948) tratteggia i sentimenti e le incertezze di quella variegata massa di emigranti (gente comune, intellettuali, antifascisti) costretta a lasciare l’Europa minacciata dai totalitarismi. B. Traven, che si identifica con il pubblicista tedesco Ret Marut, trascorre numerosi anni in Messico dove trae il materiale per i romanzi I raccoglitori di cotone (Die Baumwollpflücker, 1926), sui lavoratori nelle piantagioni, e La rosa bianca (Die weiße Rose, 1929), sulle lotte indigene conto l’espansionismo economico americano. Sempre del 1929 è il famoso Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, prima rappresentazione in un romanzo tedesco del variegato mondo dei bassifondi metropolitani con la sua popolazione di povera gente, ladri, trafficanti e vagabondi tra cui si muove il protagonista Franz Biberkopf. Nel dopoguerra ricordiamo il Gruppo 61, nato nel 1961 a Dortmund con lo scopo di documentare, attraverso la letteratura, le condizioni di vita, specialmente delle classi popolari, nella contemporanea società industriale. Il gruppo produce opere per lo più stereotipate, eccezion fatta per i romanzi di Max von der Grün, tra cui Fuoco fatuo e fiamme (Irrlicht und feuer, 1963), rappresentazione realistica della vita quotidiana dei minatori del bacino della Ruhr, e Strada sdrucciolevole (Stellenweise Glatteis, 1973), angoscioso ritratto della condizione operaia.
In Italia tra Ottocento e Novecento Giovanni Pascoli identifica il popolo con il proletariato, che, nello specifico, è il contadino. Questi è l’ultimo rappresentante di quei valori umani distrutti dal capitalismo industriale: l’idealizzazione della vita agreste (Nuovi poemetti, 1909) è accompagnata dall’esaltazione della guerra coloniale, attraverso la quale il popolo acquisirà terre da lavorare che gli porteranno nuovo benessere (La grande proletaria si è mossa, 1911). La cecità di fronte ai grandi cambiamenti della società industriale, le nostalgie antistoriche per il lavoro agricolo e la difesa dei valori tradizionali da riscoprire torneranno spesso in seguito nelle opere degli scrittori populisti. Significativa la figura di Piero Jahier. Il suo Con me e con gli alpini (1919) celebra gli alpini (la maggior parte dei quali sono contadini), il loro calore e la loro umanità; modello di umanità chiamato a combattere una guerra che non comprende, per servire non solo la patria, ma anche un’idea universale di libertà e giustizia. Il popolo è la vigorosa forza della nazione che, con il suo sacrificio, si adopera per l’ideale: c’è la generica traccia di un vago riformismo contadino messo in secondo piano rispetto alle ragioni spirituali che presiedono alla guerra. Questo tipo di populismo democratico convive nei primi anni del Novecento con un populismo nazionalista di stampo conservatore. Nelle opere di Alfredo Oriani ed Enrico Corradini – si ricordino di quest’ultimo i due romanzi La patria lontana (1910) e La guerra lontana (1911) – il popolo è portatore ed espressione dello spirito bellicista e interventista. In seguito questa concezione sarà il nucleo portante dell’attività della rivista “Il Selvaggio” di Mino Maccari e di Curzio Malaparte, autore de La rivolta dei santi maledetti (1921), dove è esaltata la rozzezza e concretezza manesca del popolo, di contro alla borghesia fragile e corrotta. La classe operaia è invece il soggetto politico al centro delle riflessioni che Antonio Gramsci sviluppa nei Quaderni del carcere (1929-1937), scritti durante la reclusione a cui lo condanna il regime fascista. Gramsci vede gli intellettuali come mediatori di cultura, diffusori di valori nella società: la classe operaia deve crearsi degli intellettuali “organici” che siano in grado di sviluppare le sue esigenze e la sua identità. Attraverso questo lavoro gli operai raggiungeranno l’egemonia, sia culturale sia politica, che permetterà loro di imporre le propria supremazia nella società civile. Grande attenzione è dunque data al legame tra cultura e divulgazione: Gramsci sottolinea l’importanza delle forme di circolazione come il folklore, il mito, il giornalismo e la letteratura popolare. Proprio attraverso la letteratura popolare d’appendice, nata fuori dall’Italia alla fine dell’Ottocento, Gramsci riconosce una delle vie fondamentali di diffusione della cultura tra gli strati più bassi e la via di una definizione di cultura nazional-popolare basata su una fertile comunicazione tra intellettuali e popolo. Quello a cui punta Gramsci non è però la formazione di una nuova letteratura nazional-popolare, diretta espressione dei caratteri “primigeni” del popolo, quanto piuttosto una comunicazione che possa circolare e diffondere a un pubblico il più ampio possibile strumenti di conoscenza organici e funzionali.
Dopo l’esperienza della guerra e della resistenza, la ricerca neorealista tenta una sintesi tra stili linguistici alti e bassi: un nuovo linguaggio “medio”. Il neorealismo vuole raccontare i fatti in cui sono celebrati i valori collettivi e le gesta del popolo, in alcuni casi idealizzate e trasposte su un piano epico, in una distinzione semplicistica e aproblematica basata sui criteri moralistici di bene/male, giusto/sbagliato. Sullo sfondo del neorealismo si svolge l’attività di alcuni scrittori, per i quali la rappresentazione della concreta realtà popolare si coniuga con il desiderio di indicare la strada verso uno sviluppo socialista della società, dando espressione alle lotte delle classi popolari. In Conversazione in Sicilia (1938-1939), di Elio Vittorini, il protagonista racconta in prima persona il viaggio in treno che lo riporta in Sicilia, dove egli è nato e dove ritrova la madre. Arrivato al paese natale, il viaggiatore si immerge nuovamente nel mondo contadino e popolare che appare nelle sue connotazioni mitiche e primigenie; attraverso una serie di momenti lirici e di figure simboliche che rappresentano forme eterne dell’umanità, Vittorini riconosce nel popolo l’ancestrale radicamento nella terra, i valori autentici da cui si può ripartire per un riscatto e per una partecipazione attiva e vitale al mondo contemporaneo minacciato dall’incombere della guerra. Il valore mitico della terra e del popolo, che richiama il ciclo eterno e sempre uguale della nascita e della morte, è uno dei temi ricorrenti della produzione di Cesare Pavese – si veda per esempio la raccolta di poesie Lavorare stanca (1936), i romanzi Paesi tuoi (1941) e La luna e i falò (1950). Il mondo campestre è il luogo dove balenano anche i segni del “selvaggio”, forze ignote che invece sono controllate e ridotte all’impotenza nella realtà cittadina. Il popolo delle campagne è caratterizzato dalla vitalità naturale originaria che si rivela però al tempo stesso inesorabile e mortale, mentre d’altro canto l’uomo della città ha elaborato un’esistenza civile e sociale ma ha perso il contatto con la natura. Il nuovo mondo del proletariato urbano nato negli anni Cinquanta e Sessanta, è invece la realtà di cui Vasco Pratolini vuol farsi cronista: il quartiere fiorentino (Metello, 1955) è il luogo dove si sviluppano i rapporti personali e sociali del popolo; lo scrittore raccoglie una serie di episodi e frammenti della vita popolare e, più che renderli nella loro reale concretezza, li evoca liricamente con tonalità certo spontanee ma patetiche e variamente malinconiche. Anche in questo caso il popolo del proletariato urbano è trasposto in una visione populistica e sentimentale. La vita dei giovani delle borgate romane è invece il soggetto dei due romanzi di Pier Paolo Pasolini Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Nel mondo squallido e fatiscente della periferia la povertà e l’istinto elementare di sopravvivenza spingono i personaggi da un furto all’altro, in un’esistenza caratterizzata da piccole miserie, da atti teppistici e dalla ricerca insistente di oggetti-merce da scambiare con denaro. È un mondo animalesco, primitivo e vitalistico, in cui, tuttavia, Pasolini ritrova le tracce di un’autenticità popolare, di una serie di legami e rapporti umani che la borghesia ha ormai dimenticato. Come già aveva fatto con l’universo rurale friulano (nella raccolta Poesie a Casarsa, 1942), lo scrittore si immerge in questa realtà degradata, affascinato e incuriosito dalla sua spontaneità. Tuttavia egli riconosce con lucidità la tragica emarginazione del sottoproletariato romano che, ben diversamente dall’incontaminata purezza del mondo contadino, viene corrotto e schiacciato da una società basata sul denaro, vedendo così inevitabilmente fallire le proprie aspirazioni e i propri progetti.
Il rapporto contrastante tra natura e civiltà industriale percorre tutta l’opera dell’inglese David Herbert Lawrence. L’arcobaleno (The Rainbow, 1915), attraverso le vicende di tre generazioni della famiglia Brangwen da metà Ottocento in poi, ripercorre la distruzione della civiltà contadina inglese sostituita da quella industriale. C’è da un parte la celebrazione dell’originario mondo rurale e dei suoi abitanti, dall’altra un’interessante rappresentazione dei cambiamenti sociali dell’Inghilterra del secondo Ottocento. Per Lawrence l’unica possibilità di riscatto è nella vitalità naturale dell’eros, impersonato ne L’amante di Lady Chatterley (Lady Chatterly’s Lover, 1928) dal guardiacaccia Mellors, figlio di un minatore e appartenente a un mondo popolare non corrotto dalla civiltà. La relazione di Lady Chatterly con l’uomo le permette, attraverso la fonte quasi sacrale della sessualità, un riavvicinamento all’autenticità naturale che la società borghese ha ormai perso. Ricordiamo, poi, sempre in Inghilterra, Arnold Wesker che nell’opera teatrale Radici (Roots, 1959) ritrae l’arretratezza culturale e sociale del proletariato, e la scrittura della poco nota Beryl Bainbridge, che nei suoi romanzi (tra i tanti, Harriet Said, 1972) e racconti ha unito l’umorismo nero a un’analisi realistica delle condizioni di vita delle lower classes (classi più basse) inglesi, alle prese con ingiustizie e violenza. In Scozia e all’estero grande successo hanno avuto i romanzi sociali di Irwin Welsh (tra cui Trainspotting, 1993) che raccontano la vita difficile delle strade e dei sobborghi britannici.
Passando all’area scandinava, mentre Jeppe Aakjaer rappresenta lo sfruttamento del proletariato rurale danese ne I figli dell’ira (1904), Martin Andersen Nex si concentra invece sui disagi di quello urbano con i quattro volumi di Pelle il conquistatore (1906-1910) e con i tre volumi di Pelle, figlia dell’uomo (1917-1921).
In Estonia ricordiamo Mait Metsanurk e Anton Hansen-Tammsaare con il suo ciclo di romanzi Verità e giustizia (1926-1933), entrambi esponenti del realismo proletarista. In Finlandia Johannes Linnankoski (pseudonimo di Vihtori Peltonen; 1869-1913) descrive la vita popolare con toni realistici e moraleggianti ne Il canto del fiore rosso (1905), e Joel Lehtonen ne La valle del canneto (1919-1920) racconta con umorismo la giornata di due braccianti. I giovani poeti degli anni Ottanta trattano problematicamente tematiche sociali con scetticismo e ironia: mentre Arto Melleri (1956-2005) crea atmosfere grottesche e simboliche, Teemu Hirvilammi (1955-) descrive nelle sue ballate la vita degli operai nelle strade di Helsinki – Per quelli che camminano nella pioggia (Niille jotka dallaa sateessa, 1981) –. Negli ultimi anni ha riscosso grande successo la poetessa Heli Laaksonen – Il piccione nuota (Pulus uis, 2000) – che, con il recupero del dialetto parlato di Laitila, villaggio rurale nell’ovest della Finlandia, ha elaborato liriche che trattano dei più svariati temi. La scomparsa della società contadina è invece il soggetto dei numerosi romanzi dello scrittore svedese Sven Deblanc, tradotto all’estero in più di 18 lingue. Premio Nobel nel 1920, Il risveglio della terra (1917) del norvegese Knut Hamsun, è una rievocazione nostalgica dell’antica civiltà contadina; di quegli anni sono anche Huskuld il messo (1924) e I cavalli neri (1928), romanzi di tipo popolare e realistico del connazionale Tarjei Vesaas. Da citare infine il racconto Gente libera (1934-1935) del più grande scrittore islandese Halldór Laxness (pseudonimo di H.K. Gudjónsson; 1902-1998), efficace descrizione delle miserevoli condizioni di vita dei contadini del suo Paese.
In concomitanza con l’abolizione della servitù della gleba (1861), nasce in Russia il movimento del populismo (narodnicestvo) che vede nella figura del contadino l’agente attivo dei grandi cambiamenti sociali; l’eccessiva ammirazione e l’ingenua idealizzazione del popolo si scontrano con la realtà dei fatti e le speranze furono presto disilluse. Lo sviluppo industriale, con il conseguente inurbamento, e lo scoppio della rivoluzione d’ottobre riaccendono il dibattito sulla campagna. Si pone la questione se la rivoluzione dovesse puntare alla modernizzazione del Paese o al recupero del contadino e della comune (obscina). Significativi di questo periodo sono i “poeti contadini”, Nikolaj Kljuev e Sergej Esenin. Per Esenin, che vede la Russia come un Paese fondamentalmente rurale, la spontaneità campestre avrebbe avuto un nuovo stimolo proprio dalla rivoluzione che fin dall’inizio ha promesso la terra ai contadini come si evince da Giorno di commemorazione dei defunti (Radunica, 1916). In seguito, quando la nuova situazione rivela il suo carattere urbano, Esenin divenne un chuligán (sorta di “teppista”) mescolandosi al popolo delle bettole moscovite che, insieme al cocente rimpianto per una Russia ormai tramontata e per le vane speranze portate dalla rivoluzione, sono presenti in Mosca bettoliera (Moskva kabackaja, 1924) e La Russia che se ne va (Rus’ uchodjascaja, 1924). Nelle opere di Kljuev, tra le quali ricordiamo il Libro dei canti (Pesnoslov, 1919), l’origine contadina dello scrittore si esprime nel valore primordiale e sacrale dato alla natura e nell’identificazione del cristianesimo con il popolo. Egli, come Esenin, crede in una rivoluzione contadina di stampo mistico-simbolico (frequente è il tema della ribellione sociale nelle sue poesie) ma le illusioni si infrangono ben presto contro la realtà dei fatti, come testimonia ad esempio la raccolta di poesie L’izba e il campo (Izba i pole, 1928). Il gruppo detto La fucina (Kuznica), attivo durante gli anni della rivoluzione, si riunisce con lo scopo di produrre un’“arte proletaria […] specchio nel quale la massa operaia deve potersi contemplare”. La generica definizione programmatica produce così, per esempio, il Messia di ferro (Zeleznyj Messija) di Vladimir Kirillov in cui il messia è il proletariato, titano che chiama a fratellanza tutti i popoli e Poesia del colpo operaio (Poezija rabocego udara) in cui è esaltato il lavoro collettivo del popolo. Maksim Gor’kij stesso è poi additato da Stalin come esempio del letterato per antonomasia; suo il famosissimo romanzo La Madre (Mat’, 1906), considerato il primo esempio del futuro realismo socialista, che nel 1926 Pudovkin adatterà per il cinema nell’omonimo film. Il soggetto è il proletariato nella sua forza rivoluzionaria e portatrice di giustizia. Nilova causa involontariamente l’arresto del figlio, l’operaio rivoluzionario Pavel e, mentre questi è agli arresti, si avvicina alle idee che ne animano l’attività. Il figlio nel frattempo riesce però a evadere e durante un corteo di scioperanti è ucciso dalle guardie a cavallo dello zar. Nilova, addolorata ma fiera di Pavel, raccoglie la bandiera e lo sostituisce alla testa del corteo. Il primo congresso dell’Unione degli scrittori (1934) decreta, per bocca di Maksim Gor’kij, il canone del realismo socialista che indirizzerà la produzione artistica durante tutto il periodo stalinista: il cittadino, il contadino deve trovare nella letteratura le risposte e l’ottimismo necessari per superare le difficoltà quotidiane e contribuire a realizzare il passaggio dal socialismo al comunismo. Nei romanzi la vita privata sparisce, il nuovo eroe viene piuttosto dal popolo e si adopera per la causa, sullo sfondo della collettivizzazione e dello sviluppo tecnico e industriale. Probabilmente la più grande raffigurazione del popolo russo nel Novecento è quella del Dottor Zivago (Doktor Zivago, 1957) di Boris Pasternak. Attraverso le vicende dell’omonimo protagonista che si intrecciano, in spazi e tempi diversi, con quelle di svariati altri personaggi, Pasternak dà una descrizione realistica degli anni tra la rivoluzione del 1905 e quelli successivi alla guerra civile. La ricostruzione storica degli eventi si distanzia dalla retorica della letteratura ufficiale e propone un affresco della storia russa profondamente radicato negli avvenimenti nazionali in cui il popolo ha giocato un ruolo fondamentale.
Grande successo all’estero ha avuto l’albanese Ismail Kadaré, che ha scritto vari romanzi (tra gli altri Il generale dell’armata morta, 1963) nello stile del realismo socialista in cui tratta, ricorrendo all’elemento fantastico, le tradizioni nazionali e rivoluzionarie del suo popolo. Nell’orbita del realismo socialista è anche la poetessa bulgara Elisaveta Bagrjana – Cinque stelle, 1953; Da una riva all’altra, 1964; sempre in Bulgaria si ricordi la rappresentazione del mondo contadino fatta in chiave psicologica da Canko Cerkovski in Dalle pieghe del cuore (1926) e quelle di stampo populista di Elin-Pelin (pseudonimo di Dimitar Ivanov Stojanov) di cui citiamo Terra, uscito nel 1928; qualche anno più tardi, nel 1934, Jordan Jovkov dà, nel romanzo Il podere presso il confine, una rappresentazione realistica delle problematiche sociali connesse con la decadenza del latifondo bulgaro. In Grecia Alexandros Papadiamandis rappresenta nei suoi numerosissimi racconti (tra i quali L’assassina, 1903), la povera società di pescatori e marinai di Skiathos, conciliando l’analisi naturalista con quella psicologica. In ambito rumeno Liviu Rebreanu dà ne La voce della terra un’interessante rappresentazione della povertà dei contadini della sua terra d’origine, la Transilvania. Nei vari romanzi di Cezar Petrescu – tra cui La capitale, 1929 – tema costante è il passaggio dal mondo rurale a quello industriale vissuto da giovani contadini che vedono infrangersi le loro speranze di fronte al corrotto mondo della città. Nel dopoguerra Zaharia Stancu si afferma come narratore realista con la vita dei contadini ne Lo scalzo (1948) e I mastini (1952).
Nella vicina Moldavia si ricordi Duiliu Zamfirescu, con l’affresco dell’antico mondo rurale del ciclo romanzesco in cinque parti Storia dei Co manesteni (1894-1910). In Ucraina citiamo i drammi a carattere sociale e politico di Aleksandr Kornejcuk come L’assalto (1931). In Ungheria il 1938 vede l’uscita del romanzo di stampo populista Magiari di Gyula Illyés e Tutte le poesie e traduzioni poetiche di Attila József, nelle quali è ritratta la condizione del proletariato e la sua volontà di cambiamento nel nuovo contesto urbano. Nella repubblica ceca Konstantin Biebl affronta tematiche proletarie in Ladro di Bagdad (1925), mentre Ivan Olbracht, rappresentante di spicco del realismo boemo, narra la presa di coscienza rivoluzionaria in Anna la proletaria (1928). Si ricordi infine il polacco Wladyslaw Stanislaw Reymont, premio Nobel nel 1924: il suo romanzo I contadini (Chlopi) è una sorta di epopea dei contadini in quattro libri dove il protagonista collettivo è la comunità del villaggio di Lipce, presentata in un quadro metastorico che non è tuttavia privo di conflitti.