Gli istituti culturali tra Stato e regioni
Nel nostro Paese esiste una grande ricchezza di fondazioni, istituti culturali, centri di ricerca, ecc., quasi tutti dotati di ingenti patrimoni documentari (biblioteche, archivi, reperti museali), presenti soprattutto nelle regioni centro-settentrionali, mentre nelle regioni meridionali fioriscono le associazioni, prive per lo più di patrimoni e concepite come luoghi di incontro e di aggregazione («Meridiana», 1995).
La maggior parte delle istituzioni culturali di cui qui ci occupiamo, per lo meno di quelle che sono attualmente funzionanti e attive, è sorta a partire dal secondo dopoguerra, ma il quadro perderebbe di significato se non avessimo presente quanto la storia degli antichi Stati italiani abbia inciso sul panorama delle istituzioni culturali.
Le accademie di scienze lettere e arti sono sorte come ‘cenacoli’ di letterati, artisti, scienziati e si sono diffuse nel Paese a macchia di leopardo tra Cinquecento e Settecento ricalcando la topografia di un’Italia delle 100 città e dei molti Stati. Dopo il triennio rivoluzionario, nella prima metà dell’Ottocento, le accademie continuarono a fiorire spesso in correlazione alla diffusione delle sette segrete e perciò esposte a frequenti chiusure forzate. Altre furono aperte o restaurate dai governi e quindi sottoposte a controllo statale. Durante il Risorgimento erano attive più di un centinaio di accademie nella penisola, distribuite tra capitali e province. La maggior parte era intitolata alle scienze, lettere e arti, ma non mancavano accademie più specializzate, votate esclusivamente alle scienze naturali o all’archeologia o all’agricoltura. Nel Sud (Regno delle due Sicilie) c’erano anche le Società economiche, sodalizi di proprietari e tecnici nominati dal governo, che avevano sulla carta vari compiti di controllo sul territorio; queste istituzioni con l’unificazione furono assorbite dalle camere di commercio. Dopo l’Unità molte accademie scomparvero, ma molte altre rimasero attive, specie nelle ex capitali. Nel 1874 Quintino Sella ridiede vita all’Accademia dei Lincei, denominata Reale Accademia Nazionale dei Lincei e che doveva costituire l’equivalente dell’Institut de France in terra italiana, i cui ranghi direttivi – caso unico – erano nominati direttamente dal governo. Anche in questo settore si fece sentire la spinta accentratrice del fascismo. Nel 1923 Giovanni Gentile istituì l’Unione accademica nazionale, che comprendeva solamente le maggiori accademie del Paese, rimesse a un controllo stringente da parte dell’autorità centrale. Tale direttiva fu confermata al momento di creare il Consiglio nazionale delle accademie, nel 1938. A farne parte furono chiamati: l’Accademia delle scienze e l’Accademia di agricoltura di Torino; gli Istituti centrali di Venezia, Milano, Bologna; l’Accademia di Modena; l’Accademia dei Georgofili; l’Accademia dei Lincei; la Società reale di Napoli; l’Accademia di Palermo. Era una piccolissima rappresentanza dei cenacoli presenti nella penisola (Casalena 2006).
Con l’avvento della Repubblica le accademie acquisirono di nuovo la propria libertà e autonomia e diverse furono ricomprese nel cosiddetto decreto Einaudi (d. legisl. 27 maggio 1948 nr. 472), che fissava i primi stanziamenti statali della nuova epoca a favore degli istituti culturali. L’autonomia significò un ritorno alla tradizione, dunque al policentrismo esasperato. Le accademie rappresentano dei luoghi eminenti nello spazio cittadino e rifuggono da qualunque ipotesi di confederazione o di associazione a rete. Ciascuna coltiva i propri interessi in autonomia, e diverse usufruiscono dei finanziamenti statali per gli istituti culturali.
Nel 1833 venne fondata la prima deputazione di storia patria, a Torino, a cui ne seguirono altre a partire dai mesi dell’unificazione. La maggior parte delle deputazioni e delle società di storia patria nacque su impulso di docenti universitari, in prevalenza storici, e di eruditi locali che intendevano raccogliere documentazione legata alla storia del territorio, su cui compiere studi e ricerche per poi pubblicarli e, al tempo stesso, consentire la consultazione della documentazione raccolta a studiosi e studenti. Nel 1883 fu creato l’Istituto storico italiano, che aveva il compito di coordinare la vita delle deputazioni e società di storia patria.
Nel 1935, quando venivano messe in discussione l’autonomia di questi enti e la cultura locale che costituiva la loro essenza, fu fondata la Giunta centrale per gli studi storici col compito di coordinare l’attività delle Reali Deputazioni e società di storia patria. Come risultato, il numero di tali istituzioni, trasformate in enti pubblici, fu portato a 17 (De Giorgi 2006). Dopo la guerra le deputazioni riacquisirono la propria autonomia, secondo il dettato dell’ultimo comma dell’art. 33 Cost. per il quale «Le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». A quel punto, le deputazioni e società di storia patria ricevevano finanziamenti dal Ministero della Pubblica Istruzione attraverso la Giunta centrale per gli studi storici, mentre le accademie ricevevano finanziamenti di;retti. A partire dal 1970 le deputazioni e società iniziarono a stabilire rapporti con le regioni, alcune delle quali hanno emanato in seguito provvedimenti legislativi finalizzati a sostenere le più attive tra queste istituzioni. Al 2014 se ne contano trenta (tab. 1).
A livello centrale ci furono vari tentativi di riorganizzare questo settore, ma il lavoro di due commissioni nominate dalla Giunta non portò a nessun risultato positivo. Nel 1967, a cura di un’altra commissione nominata dalla Giunta centrale, fu elaborata una proposta di legge volta a riordinare tutta la materia, che però non fu mai discussa. Di particolare rilievo un’altra proposta di legge presentata nel 1984 alla Camera da Valdo Spini e altri dal titolo Nuove norme per le istituzioni di alta cultura operanti nel campo della ricerca storica. La proposta, molto dettagliata, riguardava sia la Giunta centrale sia gli istituti storici nazionali, sia le deputazioni e società di storia patria: per queste ultime prevedeva che avessero come riferimento non più lo Stato centrale, ma le regioni e gli enti locali. Anche questa proposta di legge non ebbe seguito.
Con il d. legisl. 29 ott. 1999 nr. 419, relativo al programma di riordino del sistema degli enti pubblici, che offre loro tre possibilità di modifica del proprio status – privatizzazione, trasformazione in struttura scientifica a rete con istituti universitari e altre istituzioni, fusione con enti affini –, gli enti pubblici legati alla Giunta centrale e la Giunta stessa si sono trovati di fronte a scelte ardue. Dopo varie proposte di regolamento, nel 2005 è stato emanato uno specifico decreto, contestato sia dalla Giunta sia dagli istituti storici collegati, cui ha fatto seguito un ricorso accolto dal Consiglio di Stato.
Un nuovo schema di decreto presidenziale è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 28 ottobre 2009, ma non ha ancora completato il suo iter. Nel nuovo schema di decreto è salvaguardata l’autonomia della Giunta, il cui presidente è nominato dal presidente del Consiglio all’interno di una rosa di nomi proposta dalla Giunta stessa dopo una consultazione con il mondo accademico. Sono componenti della Giunta i direttori degli istituti storici (a loro volta nominati con la stessa procedura del presidente della Giunta) e alcuni tra i professori universitari di prima fascia.
La Giunta ha legami diretti con gli istituti storici nazionali con cui fa rete (Istituto italiano per la storia antica, Istituto storico italiano per il Medioevo, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Istituto italiano di numismatica) e ha rapporti con le 30 deputazioni e società di storia patria. A esse viene dato un contributo finanziario dal Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC), su indicazione della Giunta che esprime una propria valutazione in base alle attività e ai progetti presentati. Tali elargizioni rientrano nel contributo complessivo assegnato alla Giunta dal MIBAC nell’ambito della tabella triennale degli istituti culturali (l. 17 ott. 1996 nr. 534). I compiti della Giunta, oltre ai rapporti con gli istituti storici centrali e le deputazioni e società, sono: curare la bibliografia storica nazionale (pubblicata on line) e la pubblicazione di atti di convegni, di studi e ricerche nonché della «Rivista storica italiana»; tenere i rapporti con l’estero, in particolare con il Comité international de sciences historiques (che organizza i congressi mondiali di scienze storiche); offrire la propria consulenza al MIBAC per iniziative di carattere storico. Sulla carta, la Giunta si pone quindi come l’istituzione nazionale «che coordina l’attività degli istituti e degli enti di ricerca storica italiana», ma il suo raggio d’azione è circoscritto agli istituti storici di cui sopra e, pur svolgendo attività molto importanti come la pubblicazione della bibliografia storica nazionale, la sua presenza nel panorama della storiografia nazionale non appare molto incisiva (La storia della storia patria, 2012).
Nel frattempo, altre istituzioni culturali nascono subito prima e dopo la Grande guerra, su impulso della società civile, legate a eventi e personalità eminenti. Tra le principali, tuttora attive: l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), Roma 1910; l’Istituto nazionale del dramma antico (INDA), Siracusa 1914 ‒ ente dal 1925, fondazione dal 1998) ‒ con la funzione, già negli anni del fascismo, di tramite con la classicità; la Fondazione Marco Besso, Roma 1918; la Società filologica friuliana, Gorizia, poi Udine 1919, riconosciuta nel 1936; il Museo storico italiano della guerra, Rovereto 1921; il Museo storico in Trento, Trento 1923; l’Istituto nazionale di studi romani, Roma 1925; l’Istituto e museo di storia della scienza ‒ ora sottotitolo della nuova denominazione di Museo Galileo ‒ Firenze 1927; la Fondazione casa di Oriani, Ravenna 1927; la Triennale di Milano, Monza 1923, poi Milano 1933, fondazione dal 1999; la Fondazione la quadriennale di Roma, 1927, ente dal 1937; l’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, nato nel 1937 come Centro nazionale di studi sul Rinascimento per poi assumere nel 1942 l’attuale denominazione; la Fondazione il Vittoriale degli italiani, Gardone Riviera 1937. Altre istituzioni sorgono invece per consolidare l’affermarsi in Italia, come in Europa, di una crescente razionalizzazione organizzativa della cultura scientifica e umanistica; tra queste: il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Roma 1923; l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1925; l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), Roma 1926; l’Istituto nazionale di economia agraria (INEA), Roma 1928. Se ne potrebbero citare altre, ma qui vale ancora la pena di segnalare nei primi decenni del Novecento la nascita di istituti culturali legati al nuovo ruolo che l’Italia (la ‘grande Italia’) voleva conquistare nel mondo: l’Istituto italiano per l’Africa (1906), l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI), Milano 1934; l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), Roma 1933, poi fusosi con l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (IIA), 1995.
È dopo la fine della Seconda guerra mondiale che il panorama delle istituzioni culturali italiane cambia e, oltre al nuovo corso di istituzioni già esistenti (per fare solo due esempi importanti, l’Accademia nazionale dei Lincei e l’Istituto della Enciclopedia Italiana), si assiste a una fioritura di fondazioni, istituti, centri di studio, in genere privati, che sorgono, come abbiamo già detto, soprattutto nell’Italia centrale e settentrionale. Un primo nucleo nasce tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, ma il maggior numero viene fondato a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.
Hanno origini diverse, ma quasi tutte si contraddistinguono per la presenza di un patrimonio documentario librario e/o archivistico, intorno al quale viene costruita l’istituzione. I loro interessi e la relativa documentazione rientrano prevalentemente nel campo storico, ma non mancano istituzioni che si collocano in campo giuridico, politologico, sociologico, meno in quello delle scienze ‘dure’ o naturali. Non è raro che la loro fisionomia si possa considerare interdisciplinare e che essi si presentino come microcosmi nei quali è possibile condurre studi e ricerche in campi disciplinari diversi.
Gli anni postliberazione erano propizi alla nascita di queste nuove istituzioni finalizzate alla raccolta e alla conservazione della documentazione relativa a una storia fortemente segnata nel nostro Paese dalle contrapposizioni della ‘guerra civile’, una contrapposizione che si rifletteva anche su tutta la storia della nazione italiana. Su tutto incombeva inoltre la grande diffidenza che il mondo accademico nutriva nei confronti della storia contemporanea che, solo alla fine degli anni Sessanta (soprattutto dopo il Sessantotto), entrò a far parte a pieno titolo degli insegnamenti universitari (Pavone 1967). Sicché tra le accademie, gli istituti storici nazionali e le società di storia patria (De Giorgi 2006) da un lato ‒ questi, per la maggior parte, continuavano a fare storia come se nulla fosse cambiato ‒ e gli archivi statali dall’altro, che seguirono con molta lentezza l’input giunto dalla nascita dell’Archivio centrale dello Stato in Roma, cioè del primo archivio nazionale dedicato alla contemporaneità, il panorama si presentava pressoché immobile. Vi è da aggiungere – e non si tratta di un elemento secondario nella decisione di dar vita a un nuovo centro o istituto – che, nella maggior parte dei casi, il materiale documentario che si voleva offrire alla ricerca era stato raccolto non obbedendo a criteri generali, ma con il fine di non far andare dispersa la memoria degli avvenimenti recenti di cui si era stati protagonisti o di cui, comunque, si era stati partecipi.
Le motivazioni che sono alle origini della nascita dei nuovi istituti culturali possono in parte spiegare la difficoltà di definirne esattamente la fisionomia, o, per meglio dire, di definire esattamente la tipologia della documentazione conservata (D’Autilia, De Nicolò, Galloro 1994; Vittoria 1995; Bidussa 1997). Ciò vale soprattutto per gli istituti sorti tra l’immediato dopoguerra e gli anni Ottanta; per quelli fondati successivamente si nota una maggiore tendenza alla specializzazione, tendenza che, del resto, inizia da poco tempo a essere seguita, nello sviluppo delle proprie attività, anche da quelli di più antica data (Laboratorio di storia 1994; AICI 1998, 2005, 2007).
Ma da chi furono fondati questi istituti? Chi prese l’iniziativa? Tra i primi istituti storici a sorgere negli anni del secondo dopoguerra vi fu, ancora prima del 1945, la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli (Firenze 1944), erede del Circolo di cultura fondato nel 1920 da Carlo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Alfredo e Nello Niccoli sotto la guida di Gaetano Salvemini (1873-1957), chiuso per attività antifascista i primi giorni di gennaio del 1925. Nel 1946 Benedetto Croce riesce a realizzare il progetto a lungo inseguito dell’Istituto italiano di studi storici. Nel 1947 nasce la Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, a Roma su iniziativa dei figli del filosofo. Nel 1952 è inaugurata e riaperta al pubblico dal presidente Luigi Einaudi la Domus Mazziniana (già distrutta dai bombardamenti). Nel 1955 a Napoli gli eredi di Croce costituiscono la Fondazione biblioteca Benedetto Croce con lo scopo di assicurare la conservazione e l’uso della biblioteca del filosofo.
Un diverso ruolo venivano a ricoprire le istituzioni legate a progetti fondativi della nuova realtà democratica italiana: l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (INSMLI), nato a Milano nel 1949, con la finalità di salvaguardare il patrimonio documentario e ideale della Resistenza, la Biblioteca (poi Fondazione) Giangiacomo Feltrinelli (Milano 1949), l’Istituto Gramsci (Roma 1950, Fondazione dal 1982), l’Istituto Luigi Sturzo (Roma 1951), la Fondazione Giorgio Cini (Venezia 1951). Successivamente si costituirono in un breve lasso di tempo l’Istituto per le scienze religiose (Bologna 1953), la Fondazione Centro studi filosofici (Gallarate 1954), l’associazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Milano 1955), il Centro italiano di ricerche e di informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa (CIRIEC) nato a Milano nel 1956 e riconosciuto nel 1962, il Centro studi Piero Gobetti (Torino 1961), la Fondazione Luigi Einaudi (Torino 1964).
Si vanno a prendere in esame più diffusamente i primi quattro istituti, tre dei quali sorti nell’ambito della cultura antifascista, perché essi costituiscono in un certo senso un modello istituzionale che poi sarà, anche se non strettamente, seguito da altri. L’INSMLI fu fondato a Milano da Ferruccio Parri (1890-1981) sulla base di tre istituti regionali già avviati (quello piemontese, quello lombardo, quello ligure) e come sezione italiana del Comité internationale de la deuxième guerre mondiale, con il contributo di protagonisti della Resistenza e di storici (Collotti 2000, Guida agli archivi della Resistenza, 1983). L’intento dei fondatori era quello di raccogliere, conservare e studiare il materiale documentario relativo al Corpo volontari della libertà e al Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. Negli anni Sessanta l’Istituto si trasforma e, accogliendo le iniziative locali, crea una rete di istituti collegati (in un certo senso parallela a quella delle deputazioni di storia patria), volti alla raccolta della documentazione sulla Resistenza in tutto il territorio nazionale ma anche alla riflessione storiografica sulla documentazione raccolta (tab. 2).
Tra l’INSMLI e gli istituti periferici si creò una rete, sotto forma di federazione, che attualmente comprende 67 istituti associati e 10 enti collegati. Ciascun istituto gode di completa autonomia nel rispetto delle finalità comuni deliberate negli organi consultivi e deliberativi della sede nazionale. La struttura della rete è eccezionale sia in Italia sia all’estero (nulla di analogo si trova negli altri Paesi che avevano dato vita nel dopoguerra al Comité citato, neppure in Francia, nonostante anche lì il Paese sia stato altrettanto diviso come l’Italia). Nel corso degli anni i vari istituti, pur restando legati alla rete dell’INSMLI, hanno sviluppato caratteristiche proprie e interessi, sempre di storia del Novecento, che riflettono maggiormente le aspettative e le inclinazioni della cittadinanza a cui si rivolgono.
In seguito fu approvata la l. 16 genn. 1967 n. 3 che rendeva l’INSMLI Istituto storico nazionale, ente pubblico, e gli assegnava un contributo annuo e la possibilità di avere un certo numero di personale insegnante distaccato dal Ministero della Pubblica Istruzione, personale che viene distribuito tra tutti gli istituti della rete ed è prevalentemente impegnato nell’attività didattica rivolta agli insegnanti e agli studenti.
Con il passare del tempo il contributo statale è diventato sempre più inadeguato e nel 2003, in seguito alla promulgazione del già citato d. legisl. nr. 419, si trasforma in associazione di diritto privato definita nello statuto «sistema federativo paritario degli Istituti e degli Enti associati». Il caso dell’INSMLI richiede un’attenzione particolare non solo per l’eccezionalità di questa rete di istituti nel panorama europeo, ma anche perché è proprio il finanziamento concesso all’INSMLI che ha consentito poi a tutti gli altri istituti di chiedere analogo riconoscimento e anche distacchi di insegnanti presso le loro sedi.
Come si vede dalla tabella, in ogni regione sorgono uno o più istituti della Resistenza che, oltre a svolgere una significativa attività culturale, conservano e rendono pubblicamente fruibile un patrimonio documentario legato al territorio. Quasi tutti questi istituti hanno rapporti con la regione e con gli enti locali, e sono questi ultimi spesso a fornire loro le sedi, mentre le regioni emanano leggi che elargiscono contributi annuali. Alcune sono vere e proprie leggi quadro, che prevedono anche un albo cui gli istituti possono iscriversi. È di questo tipo, per es., la l. reg. 24 nov. 1997 nr. 42 della Regione Lazio, che si occupa di beni e servizi culturali, definisce i compiti di regione, province e comuni in ambito culturale, prevede una programmazione pluriennale e comprende un albo per gli istituti culturali di interesse regionale, cui tra gli altri è iscritto l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza (IRSIFAR). In base a questo albo, che ha durata triennale, vengono erogati contributi annuali commisurati alle attività svolte dagli istituti. Purtroppo da alcuni anni la contrazione delle risorse e i tagli sempre più consistenti operati nel settore della cultura hanno enormemente ridotto anche l’entità dei contributi regionali, mettendo gli istituti in serie difficoltà. L’IRSIFAR di Roma dispone da alcuni anni di una sede messa a disposizione dal Comune di Roma in uno stabile chiamato La casa della memoria e della storia, che ospita anche altre associazioni culturali.
Nello stesso anno in cui nasce l’INSMLI, il 1949, nasce a Milano la Biblioteca Feltrinelli che viene aperta al pubblico nel 1951; diventata Istituto, nel 1974 viene riconosciuta giuridicamente come fondazione (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 1997; Bidussa 2000). Al 1950 risale la nascita a Roma della Fondazione Gramsci, poi diventata Istituto, quindi (1982) Fondazione Istituto Gramsci (Giuva 1994; Vittoria 1992). L’ultimo degli istituti storici nati tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta è l’Istituto Luigi Sturzo, con sede in Roma, fondato nel 1951. L’Istituto sta lavorando a costruire una rete con gli archivi storici locali della Democrazia cristiana (DC) distribuiti su tutto il territorio nazionale, in modo da costituire anche per essi un punto di riferimento e di raccordo.
Degli altri istituti storici sorti tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta ‒ la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (FSCIRE) di Bologna, la Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) e il Centro Italiano di ricerca e di Informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa (CIRIEC) di Milano, il Centro studi Piero Gobetti e la Fondazione Luigi Einaudi di Torino ‒ i primi due hanno una specializzazione iniziale nel campo della cultura religiosa.
La Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII fu fondata nel 1953 da Giuseppe Dossetti (1913-1996) come Centro di documentazione, diventato poi Istituto per le scienze religiose, quindi associazione riconosciuta e, infine, nel 1985, fondazione. Dossetti donò al centro i suoi libri e si adoperò, con l’aiuto dei suoi collaboratori, per ampliare il più possibile la biblioteca al fine di costituire un punto di riferimento essenziale per lo studio delle scienze religiose in Italia. Con l’apertura del Concilio Vaticano II, Dossetti, che era stato per un periodo meno presente nell’Istituto perché impegnato in politica, riprese a lavorarvi intensamente, e l’Istituto divenne una sorta di laboratorio in cui venivano preparati i materiali per le discussioni all’interno del Concilio. Quello fu il periodo in cui l’Istituto costituì una vasta rete di contatti internazionali con i più importanti storici, teologi, biblisti, patrologi; rete che è tuttora molto attiva. A partire dagli anni Ottanta la Fondazione ha promosso la costituzione di vari gruppi di ricerca, anche internazionali, che hanno prodotto numerose pubblicazioni. Una delle più importanti è la Storia del Concilio Vaticano II, in cinque volumi, a cura di A. Melloni (1995-2001), tradotta in più lingue. Una fondazione quindi il cui ambito di attività è molto ben definito e costituisce un unicum nel panorama delle istituzioni culturali italiane.
Simile per specializzazione dei contenuti è la fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea. Il centro fu fondato nel 1955, nel decennale della Liberazione, dalla Federazione giovani ebrei d’Italia e divenne fondazione nel 1986. Secondo quanto è scritto nel suo primo statuto, il CDEC si proponeva «la ricerca e l’archiviazione di documenti di ogni tipo riguardanti le persecuzioni antisemite in Italia e il contributo ebraico alla Resistenza». Con il tempo le attività si sono molto ampliate e comprendono iniziative nel campo della ricerca scientifica, della didattica della shoah, della divulgazione della storia degli ebrei in Italia, nonché la costruzione di data base riguardanti la persecuzione degli ebrei in Italia. Di notevole interesse l’Osservatorio sul pregiudizio antiebraico, creato alla fine degli anni Sessanta, che svolge una continua azione di monitoraggio e di studio sull’antisemitismo, anche attraverso il portale web www.osservatorioantisemitismo.it, costantemente aggiornato su queste problematiche. In campo didattico è stato creato, con il Centro di cultura ebraica di Roma, il progetto Memoria, che si dedica alla divulgazione dello studio e della memoria della Shoah nelle scuole e istituzioni dell’Italia centro-meridionale.
Entrambe queste istituzioni acquistano un rilievo particolare per la ricca documentazione che offrono, l’una per la storia della Chiesa, l’altra per la storia degli ebrei in Italia e per l’intensa attività che svolgono nei loro rispettivi settori. Nessuna delle due è legata al territorio avendo un’apertura nazionale e internazionale, anche se la FSCIRE è stata concepita in ambito bolognese.
Nel 1956 nasce a Milano il Centro italiano di ricerche e di informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa, che è anche la sezione italiana del Centre international de recherche et d’information sur l’économie publique, sociale et coopérative, con sede a Liegi in Belgio e sezioni nazionali in molti Paesi anche extraeuropei. Il Centro si occupa soprattutto di svolgere ricerche commissionate anche da enti pubblici e ha una ricca biblioteca specializzata. Agli studi di politica ed economia si dedica la Fondazione Luigi Einaudi di Roma, creata nel 1962 da Giovanni Malagodi (1904-1991) con l’intento di promuovere studi e ricerche per contribuire alla conoscenza e alla diffusione del pensiero liberale. Ha una biblioteca specializzata e importanti fondi archivistici.
Più legato al territorio è il Centro studi Piero Gobetti di Torino. Fondato nel 1961 su iniziativa della moglie Ada, del figlio Paolo, della nuora Carla e di un gruppo di amici di Gobetti, il centro possiede un’importante biblioteca sulla storia del Novecento e un ricco archivio storico che ha come nucleo centrale le carte di Gobetti e di Ada, ma si è via via arricchito di numerosi fondi provenienti in gran parte dall’area piemontese. Il centro è molto legato alla città di Torino, come testimonia l’elenco degli enti sostenitori (Regione Piemonte, Provincia di Torino, Città di Torino, Compagnia di san Paolo, Fondazione CRT), ma, data la notorietà di Gobetti, ha di conseguenza un’apertura nazionale e internazionale. Da alcuni anni il centro ha acquisito la preziosa e ricca biblioteca di Norberto Bobbio, altro torinese di fama internazionale. Intorno alla biblioteca di Bobbio si stanno sviluppando una serie di attività, come la compilazione della sua bibliografia, la digitalizzazione di una parte degli scritti, eccetera. Tra le iniziative del Centro numerosi sono i convegni, i seminari, le mostre, organizzate per lo più utilizzando i materiali dell’archivio storico ed esposte anche all’estero, le pubblicazioni e la digitalizzazione delle riviste fondate e dirette da Gobetti.
Si può dire che il Centro Gobetti sia un esempio perfetto di fusione tra la dimensione locale e quella nazionale e internazionale: da una parte infatti mantiene continui rapporti di collaborazione con la regione, gli enti e le fondazioni bancarie locali da cui riceve sostegno e per cui svolge una serie di iniziative, dall’altra i suoi fondi librari e archivistici e le sue attività hanno un rilievo nazionale e internazionale.
La Fondazione Luigi Einaudi di Torino si distingue dalle tre precedenti per dimensione e tipo di attività. Sorta nel 1964, a pochi anni dalla morte di Einaudi, su iniziativa della famiglia e degli amici, ma con numerosi enti promotori, si proponeva di sviluppare il lascito einaudiano nel campo che gli era stato proprio, quello delle scienze storiche, economiche e sociali. Dotata inizialmente della importante biblioteca di Einaudi (70.000 volumi) e di un primo nucleo dell’archivio storico, si dedicò subito alla formazione di giovani studiosi bandendo numerose borse di studio e stanziando vari contributi di ricerca, facendo così di questa attività la sua caratteristica principale. Da allora sono circa 1000 gli studiosi che hanno usufruito di borse e contributi della fondazione e che hanno condotto le proprie ricerche anche all’estero. Parte dei risultati dei loro studi e ricerche è stata via via pubblicata negli «Annali», usciti con regolarità sin dall’inizio. Agli «Annali» si affiancano la collana degli Studi e altre numerose pubblicazioni. Notevole l’attività di seminari e convegni, tutti nelle discipline di cui la fondazione si occupa. Anche in questo caso gli enti pubblici e privati locali sono molto presenti, ma la fisionomia della fondazione si attesta sul campo nazionale e internazionale (Silvestrini 2002).
Dalla metà degli anni Sessanta il panorama si arricchisce di numerosi istituti e centri di studi e documentazione; il Centro studi emigrazione (fondato a Roma nel 1963 dalla Congregazione dei missionari Scalabriniani), l’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica (ISAP, fondato a Milano da Comune e Provincia nel 1959 e riconosciuto nel 1964), la Fondazione biblioteca archivio Luigi Micheletti (Brescia 1965, fondazione riconosciuta dal 1981), la Fondazione Giovanni Agnelli (Torino 1966), l’Archivio nazionale cinematografico della resistenza (Torino 1966), l’Istituto internazionale Jacques Maritain (Roma 1974). Nello stesso periodo furono fondati in varie regioni italiane gli Istituti Gramsci locali, di cui si è detto sopra, presso i quali è conservata per lo più documentazione archivistica legata alla storia regionale del Partito comunista italiano (PCI), ma non esclusivamente. I più ricchi di materiale sono l’Istituto piemontese, quello dell’Emilia-Romagna e quello siciliano. Il primo, per es., conserva molti fondi della Camera confederale del lavoro e carte di varie federazioni aderenti alla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL); il secondo possiede archivi importanti di organizzazioni e personalità politiche del PCI e del Partito socialista italiano (PSI) in Emilia-Romagna; il Gramsci della Sicilia dispone anche di documentazione relativa al movimento indipendentista. Pur nella loro autonomia, questi istituti hanno mantenuto legami con il Gramsci di Roma, collaborando spesso alla realizzazione di programmi concordati. In tempi recenti l’autonomia si è accentuata e alcuni, come il Gramsci veneto e quello emiliano, hanno anche cambiato denominazione.
La Fondazione Micheletti ha come sottotitolo Centro di ricerca sull’età contemporanea e fu istituita dall’imprenditore Gino Micheletti (1927-1994), che era anche un grande organizzatore di cultura. Inizialmente circoscritta alla biblioteca e all’archivio, nel 1981 divenne una fondazione, ben presto riconosciuta a livello regionale. Il Comune di Brescia, con un’apposita convenzione si preoccupò di fornirgli una sede adeguata. Particolarmente ricca la cineteca, contenente pizze cinematografiche e cassette provenienti da vari stabilimenti cinematografici. L’originalità della Fondazione Micheletti consiste nel porsi a cavallo tra un centro di studi di storia contemporanea e un centro per la cultura d’impresa.
Anche la Fondazione Giovanni Agnelli nasce per volontà di imprenditori. Istituita nel 1966 dalla FIAT e dall’IFI, è stata dotata del suo patrimonio in occasione del centenario della nascita di Giovanni Agnelli (1866-1945). È una fondazione di tipo operativo e si dedica sin dall’inizio a studi e ricerche sulla società italiana vista nel quadro internazionale. Dal 1988 ha deciso di occuparsi soprattutto dei problemi dell’educazione, bandendo borse di studio, organizzando corsi e seminari, curando numerose pubblicazioni. È molto impegnata anche sul piano cittadino e promuove varie iniziative in collaborazione con istituzioni pubbliche e private di Torino.
A una diversa tipologia appartiene l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, fondato anch’esso a Torino nel 1966 per volere, tra gli altri, di Ferruccio Parri (1890-1981) e del sindaco di Torino dell’epoca Giuseppe Grosso (1906-1973). Ha un ricco patrimonio di pellicole cinematografiche prodotte durante la Resistenza o riguardanti la guerra partigiana, il fascismo e l’antifascismo nonché una notevole raccolta di testimonianze video registrate sugli stessi argomenti. A partire da tale patrimonio l’Archivio svolge una intensa attività di seminari e convegni, di iniziative didattiche e di produzione e divulgazione di documentari.
Pochi anni dopo, nel 1969, sorge a Roma l’Istituto per lo studio della società contemporanea (ISSOCO), diventato nel 1974 Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco alla quale il suo fondatore, Lelio Basso, ha donato la sua ricca biblioteca, l’archivio storico nonché l’edificio in cui ha sede. La composizione della biblioteca e quella di una parte dell’archivio storico ‒ con documentazione francese, tedesca, russa e latino-americana ‒ concorrono a darle un carattere internazionale, oltre che nazionale, anche grazie all’attività della Sezione internazionale che da anni è impegnata (tramite il Tribunale permanente dei popoli, filiazione del Tribunale Russell) nel campo della violazione dei diritti umani.
Tra le altre istituzioni sorte in questo periodo ricordiamo l’Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale (ISALM, Anagni 1953), la fondazione Istituto nazionale di studi verdiani (Parma 1960), la Fondazione nazionale Carlo Collodi (Collodi 1962), la Fondazione Camillo Caetani (Roma 1962; si dedica, oltre che alla conservazione del ricco patrimonio documentario, al mantenimento di Palazzo Caetani), la Fondazione Adriano Olivetti (prima Ivrea, poi Roma 1962; sorta per proseguire l’opera di studio e di sperimentazione teorica e pratica di Adriano Olivetti), il Museo Bodoniano (Parma 1963), l’Istituto accademico di Roma (Roma 1964), il Centro internazionale di studi rosminiani (Stresa 1966), la Fondazione istituto internazionale di storia economica ‘F. Datini’ (Prato 1967; le sue numerose attività rientrano prevalentemente nell’ambito della storia economica dell’età preindustriale).
Negli ultimi trent’anni del 20° sec. la fioritura di istituzioni culturali è cresciuta con una sorta di passo regolare (tab. 3).
Anche nel Sud sono sorte nuove istituzioni, tra cui: il Centro di cultura e storia amalfitana (Amalfi 1975), molto legato al territorio, la Fondazione Giuseppe Di Vagno (Conversano, Bari fine anni Settanta, ideale derivazione dell’Istituto di cultura socialista Giuseppe Di Vagno, attivo a Bari nel 1943), la Fondazione Leonardo Sciascia, istituita negli anni Ottanta dal Comune di Racalmuto d’intesa con lo stesso Sciascia, il Centro internazionale di etnostoria (Palermo 1982), il Centro universitario europeo per i beni culturali (Ravello 1983), la Fondazione Guido e Roberto Cortese (Napoli 1990), la Fondazione Morra, Istituto di scienze delle comunicazioni visive (Napoli 1992), la Fondazione Pietro Piovani per gli studi vichiani (nata a Napoli negli anni Ottanta), la Fondazione Gianbattista Vico (Napoli 1999; oltre a numerose attività, si dedica al restauro di monumenti dell’area campana).
Una parte di queste istituzioni – soprattutto quelle intitolate a personalità rappresentative del mondo della politica e della cultura ‒ mostra origini e caratteristiche analoghe a quelle degli istituti sorti nel primo dopoguerra, anche se è iniziata a emergere una maggiore tendenza alla specializzazione, mentre appare via via più evidente che l’esigenza di valorizzare le fonti documentarie non è più un monopolio esclusivo dell’antifascismo.
C’è da notare inoltre che alcune istituzioni, come la Fondazione Einaudi o la Fondazione e il Centro Rosselli, sono intitolate alla stessa personalità, pur distinguendosi per il tipo di attività svolta. A Einaudi era dedicato anche un ente per gli studi monetari, bancari e finanziari fondato nel 1965 dalla Banca d’Italia e dall’Associazione bancaria Italiana (ABI), ora non più attivo ma sostituito da due istituti, sempre a lui intitolati, che si occupano delle stesse tematiche.
Quasi tutte le istituzioni fin qui nominate (e anche le molte altre non citate per ragioni di spazio) hanno ingenti patrimoni librari e archivistici, in base ai quali, ma anche in base all’attività che svolgono, è possibile immaginare ideali aggregazioni. Vi sono istituti con documentazione sulla storia dei partiti, storia del movimento operaio, storia del fascismo, storia della resistenza, storia del sindacato (area laica) e con attività collegata al tipo di documentazione posseduta. Oltre a quelli già nominati, rientrano in questo raggruppamento il Museo storico della Liberazione (Roma 1954), il Centro ligure di storia sociale (Genova 1955), l’Archivio famiglia Berneri-Aurelio Chessa (Genova 1962, Pistoia 1982, Reggio nell’Emilia 1998), l’Istituto Alcide Cervi (Reggio nell’Emilia 1972), il Centro di documentazione di Lucca (Lucca 1973), il Centro di ricerca Guido Dorso (Avellino 1978), la Fondazione Ugo La Malfa (Roma 1980), la Fondazione istituto storico Giuseppe Siotto (Cagliari 1986), la Fondazione internazionale Ferramonti di Tarsia (Cosenza 1988), il Museo storico della Liberazione a Lucca (Lucca 1988), la Fondazione Giuseppe Di Vittorio (Roma 1992), la Fondazione Anna Kuliscioff (Milano 1993), la Fondazione memoria della deportazione (Milano 2000), la Fondazione Bettino Craxi (Roma, Hammamet 2000), oltre ai vari istituti Gramsci periferici.
Tra gli istituti con documentazione sulla storia dei partiti e dei movimenti, del fascismo, della Resistenza, del sindacato (area cattolica) aggiungiamo l’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia presso l’Università cattolica del Sacro Cuore (Milano 1962), la Fondazione culturale Vera Nocentini, archivio e biblioteca storico-sindacale (Torino 1978).
Gli istituti con documentazione relativa alla storia religiosa contano anche la Facoltà valdese di Teologia (Roma 1922), la Fondazione Romolo Murri – Centro studi per la storia del modernismo (Urbino 1989), l’Istituto Paolo VI (Brescia 1978).
Tra gli istituti con documentazione orale, cinematografica e audiovisiva: la Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Roma 1979), l’Istituto Ernesto De Martino (Sesto Fiorentino 1966).
Non abbiamo fin qui citato nessuna istituzione che si occupi di movimento e storia delle donne: ne esistono molte, diffuse su tutto il territorio nazionale, che hanno per lo più la forma di ‘associazione’, parte delle quali con personalità giuridica. Numerosi sono i centri di documentazione, spesso associati a biblioteche o archivi. Tra le poche fondazioni, è attiva a Milano la Fondazione Elvira Badaracco, Studi e documentazione delle donne, costituita nel 1994 da Annarita Buttafuoco, nominata da Elvira Badaracco nel suo testamento come garante a vita del suo patrimonio economico, scientifico e politico; a Napoli dal 2003 lavora la Fondazione Valerio per la storia delle donne che si propone di far emergere e valorizzare la presenza femminile nel cammino delle società. Tra le associazioni ha una vita già abbastanza lunga l’Associazione Orlando di Bologna che ha iniziato a lavorare nella seconda metà degli anni Settanta e si è costituita in Associazione nei primi anni Ottanta. Per portare avanti la gran mole di attività, anche a livello internazionale, l’Associazione Orlando può contare sull’apporto del lavoro volontario e anche su convenzioni stipulate con il Comune di Bologna, in particolare per la realizzazione del Centro di documentazione, ricerca e iniziativa delle donne della città di Bologna. È interessante sottolineare la grande diffusione che le associazioni e i centri di documentazione riguardanti le donne hanno sul territorio. Non c’è una regione che non ne comprenda più di uno, non c’è centro o associazione che non abbia rapporti di continuità con l’ente regione e con gli enti locali, soprattutto con i comuni, che spesso hanno preso direttamente in carico queste associazioni e questi centri, anche perché il loro funzionamento consente la valorizzazione di un patrimonio locale e un rapporto ravvicinato con la società civile del territorio.
Quasi tutti gli istituti si sono impegnati, a partire dai primi anni Novanta, nell’informatizzazione dei materiali posseduti e dei servizi, la maggior parte aderendo con la propria biblioteca al Servizio bibliotecario nazionale (SBN) o ad altri sistemi e molti, con gli archivi, alla rete di Archivi del Novecento o ad altre reti. L’informatizzazione non ha riguardato solo la catalogazione, ma anche il materiale posseduto (percorsi virtuali nei musei, digitalizzazione di documenti preziosi): molti musei hanno costruito dei percorsi virtuali che consentono la visita al museo da remoto, parecchi archivi e biblioteche stanno procedendo nella digitalizzazione dei loro esemplari più preziosi che potranno così anch’essi essere letti da remoto.
Questi, tuttavia, sono solo alcuni degli elementi che hanno modificato la fisionomia degli istituti nell’ultimo ventennio.
Si è già detto che ciascuno degli istituti si presenta come un microcosmo all’interno del quale si svolgono attività diverse: nel campo della conservazione e valorizzazione del bene, o dei beni culturali posseduti; nel campo della ricerca, per lo più in area umanistica, ma anche scientifica; nel campo della didattica e della formazione a diversi livelli, fino all’alta formazione; nel campo, infine, dell’organizzazione di convegni e seminari nel corso dei quali studiosi, spesso di discipline e di nazionalità diverse, mettono a confronto i propri saperi. E tutto ciò va visto, ovviamente, in rapporto da un lato con il tipo di pubblico cui le varie attività sono rivolte; dall’altro, in relazione alle pubbliche amministrazioni di riferimento a livello europeo, nazionale e locale; dall’altro ancora, in riferimento alle istituzioni culturali che, in Italia o all’estero, assolvono a compiti analoghi.
Pur conservando ciascuno la propria specificità, gli istituti si sono resi conto dell’esigenza di costruire delle reti, non limitate solo alle biblioteche ‒ per le quali l’adesione a SBN ha dato un forte impulso alla cooperazione e agli archivi, e anche in questo caso l’esistenza di Archivi del Novecento ha portato a una notevole attività di collaborazione ‒, ma estese a tutto il complesso della loro attività.
Oltre alla rete citata degli Istituti storici della Resistenza, nel 1992 fu costituita a Roma l’Associazione delle istituzioni culturali italiane (AICI), che comprende un centinaio di soci, pochi rispetto al gran numero di istituzioni presenti in Italia, ma sufficienti per sperimentare un modo diverso di lavorare e di costruire utili rapporti di collaborazione. L’AICI si occupa innanzitutto di svolgere un’opera di informazione ai soci sulla legislazione in corso, di rappresentare gli istituti e i loro problemi nelle sedi istituzionali, di curare la pubblicazione di volumi di carattere informativo sull’attività degli istituti, di sollecitare il dibattito tra i soci su questioni di interesse comune, di programmare progetti riguardanti le strutture o progetti di ricerca in cui coinvolgere il maggior numero possibile di soci, di sollecitare gli istituti ad accogliere le pressanti richieste di innovazione che vengono dalla società.
Altre reti, sia pure di dimensioni diverse, sono operanti: la rete europea dei musei della tecnica, Simbdea che, tra l’altro, ospita la rete dei direttori dei musei etnografici italiani, la rete delle biblioteche speciali, la rete promossa dal Museo Galileo di cui fanno parte gli istituti fiorentini, l’Associazione per la valorizzazione storica della democrazia italiana, l’Associazione nazionale Antonio Gramsci, l’Unione internazionale degli Istituti di archeologia, storia e storia dell’arte in Roma, la rete informatica Lilith (nata per iniziativa dei centri di documentazione, archivi e biblioteche delle donne) e altre.
Va detto che l’innovazione ha riguardato non solo l’informatizzazione del patrimonio posseduto o la partecipazione alle reti, ma anche la forma giuridica e l’assetto organizzativo interno. Dal punto di vista giuridico alcune di queste istituzioni si sono trasformate in onlus mentre molte hanno assunto la forma di ‘fondazione’, che sembra nettamente prevalente. Sotto il profilo dell’assetto organizzativo i mutamenti appaiono abbastanza rilevanti: essi sono in gran parte collegati con l’adozione delle tecnologie dell’informazione, ma non solo. L’ampliarsi e il diversificarsi delle attività di ricerca ed editoriali, l’incremento e il miglioramento qualitativo dei servizi offerti hanno in parte compensato la riduzione degli organici. Il personale dipendente continua a essere esiguo, mentre è notevolmente aumentato il numero dei collaboratori sia per le attività legate ai beni culturali sia per quelle connesse alla ricerca, alle pubblicazioni, all’organizzazione di convegni e mostre. La formazione e l’aggiornamento del personale è un aspetto cui gli istituti dedicano molto impegno, per cui si può ragionevolmente affermare che buona parte del personale di cui dispongono è formato da risorse professionali altamente qualificate.
Tuttavia, non si può non accennare alla limitatezza delle risorse finanziarie cui gli istituti devono fare fronte – specie per quanto attiene alle risorse pubbliche, che tendono a una netta riduzione ‒ con una forte ricaduta sulla possibilità di disporre di organici adeguati alle attività svolte e a quelle che si vorrebbero realizzare. La drastica riduzione del personale ‘distaccato’ da enti pubblici (condizione concessa ormai solo a pochi istituti) e i mutamenti avvenuti nella legislazione relativa al servizio civile rendono oggi la situazione più difficile che in passato (AICI 2005).
Uno sguardo alla situazione dei Paesi dell’Unione Europea fa emergere come l’istituto culturale italiano sia effettivamente «un oggetto singolare, culturalmente e storicamente determinato» (Colla 2013). In quasi tutti i Paesi prevale la forma della ‘fondazione’, cui l’European foundation centre, creato a Bruxelles nel 1989, sta cercando di dare una definizione per arrivare a delineare l’assetto di ‘fondazione europea’. In questo concetto rientrano però, senza distinzione, istituzioni filantropiche o di sensibilizzazione del pubblico, fondazioni mediche e di ricerca e fondazioni operanti in ambito scientifico-culturale. Il numero di queste istituzioni in Europa è notevole e si aggira tra 90.000 e 110.000; se poi si considerano le fondazioni non ufficialmente costituite, si può arrivare a 273.000 con un ingente volume di risorse e di spesa. Esse non sono però distribuite in maniera paritaria. La maggior parte ha sede nei Paesi scandinavi e in Svizzera (che ha il tasso di crescita più alto in Europa), per poi passare alla Germania, all’Italia, alla Francia, al Belgio, al Portogallo, alla Grecia e infine alla maggioranza dei Paesi dell’Europa orientale. In Germania, per es., si calcola che nel 2012 fossero operanti 20.000 fondazioni private, oltre a quelle esistenti sotto forma di trust. L’Italia si colloca subito dopo con lo 0,7 per 1000 abitanti contro il 2‰ della Germania. E, per converso, è interessante notare che in quasi tutti i Paesi europei i finanziamenti sono per la maggior parte a carico dello Stato. Altro elemento da mettere in rilievo è che la maggior parte di queste fondazioni hanno affiancato alle dimensioni locale e nazionale anche quella internazionale. Basti citare come esempio le due grandi fondazioni tedesche, la Friedrich Ebert (fondata nel 1925) e la Konrad Adenauer (fondata nel 1964). Una particolarità tedesca (in certa misura estesa di recente anche alla Francia) è costituita dalla presenza e dalla visibilità di fondazioni che rappresentano la diretta emanazione di un partito politico (Colla 2013).
Anche in Italia dagli anni Duemila si avverte una duplice tendenza da parte degli istituti: legame con il territorio e rilievo istituzionale e scientifico sul piano nazionale e internazionale.
La maggior parte degli istituti considerati, accanto a un impegno sul territorio – che si concretizza in ricerche, dibattiti e convegni e/o attività di conservazione e valorizzazione di patrimoni librari e archivistici di interesse locale o per l’utenza locale –, realizza programmi di ricerca, nel quadro di collaborazioni nazionali e internazionali, che favoriscono spesso la creazione di reti tra istituti, e svolgono un ruolo rilevante in progetti di conservazione e valorizzazione di patrimoni documentari a copertura nazionale e internazionale.
Questa duplice tendenza non si è sviluppata seguendo la stessa direttrice in tutti gli istituti: in alcuni si è passati da un ambito di attività e di interessi prevalentemente locali a un’apertura a livello nazionale e anche internazionale; in altri, da un raggio di attività svolte prevalentemente in ambito nazionale e internazionale a un rapporto via via più forte con il territorio, senza che peraltro ciò abbia comportato un indebolimento del rilievo nazionale o di quello internazionale. Ed è interessante vedere come questi slittamenti siano avvenuti soprattutto negli ultimi anni e tentare di individuarne le ragioni che, a nostro parere, vanno cercate in due direzioni.
Da un lato, la crescente internazionalizzazione del mondo della ricerca e l’esigenza di adottare metodologie standard a livello nazionale e internazionale per la valorizzazione dei beni culturali hanno spinto gli istituti con iniziale esclusivo interesse locale ad aprirsi a forme di collaborazione a più vasto raggio; dall’altro, la maggiore attenzione e cura nell’organizzazione e nell’offerta dei servizi, la crescente apertura alla società civile, le relazioni con il mondo della scuola hanno determinato un rapporto più stretto col territorio anche per quegli istituti che, all’atto della fondazione, erano stati concepiti con un carattere nazionale.
Non si può non mettere in rilievo che questi mutamenti sono stati fortemente influenzati dall’adozione delle tecnologie dell’informazione, che hanno consentito di potenziare l’offerta di servizi con ricadute immediate sugli utenti ‘vicini’, ma hanno anche spinto a uscire dall’ambito locale per confrontarsi con altre realtà, per partecipare a progetti di collaborazione in rete o a programmi di ricerca europei per i quali il livello di interesse, il piano di attività e le ricadute dei progetti debbono essere ampiamente condivisi a livello internazionale.
I due aspetti, territorialità e internazionalizzazione della ricerca, non sono quindi mutuamente esclusivi o in opposizione, mentre si può senz’altro affermare che non in tutti gli istituti considerati essi sono presenti in eguale misura, così come non in tutti il percorso è avvenuto con le stesse modalità. Alcuni istituti sono passati da un ambito di operatività più legato al territorio a un altro più nazionale e internazionale; altri, invece (per es. l’Istituto Sturzo, la Fondazione Brodolini, la Fondazione Basso, la Fondazione istituto Gramsci di Roma, la Società geografica italiana), hanno seguito il percorso opposto; la Fondazione Agnelli affianca a tematiche di carattere generale iniziative di ricerca e seminariali sulla città di Torino e il suo territorio. Altri istituti ancora – come l’Istituto veneto di scienze, lettere e arti, l’Istituto nazionale di studi romani, l’Istituto internazionale Datini, l’Ente casa di Oriani o l’Istituto lombardo accademia di scienze e lettere – realizzano una valida connessione tra dimensione locale e dimensione internazionale proprio nella valorizzazione dei beni culturali posseduti o nello svolgimento di ricerche legate al territorio. In questi istituti la vocazione territoriale, con il suo ancoraggio all’identità storica e alla conservazione e trasmissione di patrimoni esistenti, si accompagna alla ricerca del confronto con istituzioni simili in un contesto nazionale e internazionale.
Alcuni istituti, poi, radicati nel luogo in cui sono sorti e dove si è svolta la maggior parte dell’attività delle personalità di cui valorizzano il patrimonio ideale e materiale (come il Centro Gobetti di Torino, l’Istituto di studi storici di Napoli con l’archivio e la biblioteca Croce, o la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice a Roma), contribuiscono fortemente a diffondere anche a livello nazionale e internazionale la conoscenza di tali personalità. In una tipologia ancora diversa rientra, per es., l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, che, istituzionalmente dedicata allo studio di problemi relativi a una determinata area geografica, ha la sua sede al di fuori di essa, a Roma, da dove mantiene una continuità di legami e rapporti con il Meridione, mentre costituisce un punto essenziale di riferimento a livello nazionale e internazionale per gli studi di meridionalistica.
È del tutto naturale che il legame degli istituti con il territorio si manifesti tramite i vari servizi resi: l’apertura al pubblico di strutture permanenti come archivi, biblioteche, raccolte storiche, musei; iniziative quali l’organizzazione di corsi di formazione e presentazioni di volumi, attività seminariale e convegnistica, allestimento di mostre e iniziative di ricerca specificamente riferite al territorio.
In sintesi, l’aspetto dell’attività degli istituti che si riferisce al binomio ‘locale/globale’ ha fatto registrare notevoli mutamenti destinati a svilupparsi ulteriormente nel prossimo futuro. La contrapposizione tra dimensione locale e dimensione nazionale/internazionale si è via via stemperata in una coesistenza e in un interscambio fruttuoso che le valorizza entrambe: da una parte, infatti, questo interscambio contribuisce a far uscire la dimensione locale da un ambito circoscritto e a vivificarla mettendola in contatto con realtà locali diverse; dall’altra, offre alla dimensione nazionale/internazionale un importante ancoraggio al territorio.
Le due tipologie configurano anche due diverse provenienze dei finanziamenti: la prima si richiama a enti erogatori di livello regionale, provinciale e comunale; la seconda tipologia e la costituzione di network di ricerca fanno riferimento a finanziamenti nazionali o europei. Anche su questo terreno sono in corso profondi mutamenti – e gli istituti dimostrano di averne chiara consapevolezza – perché, per es., diverse partecipazioni a reti internazionali costituite per partecipare ai bandi comunitari passano attraverso il coinvolgimento degli enti regionali e, in qualche caso, di quelli provinciali.
La situazione finanziaria degli istituti culturali italiani è negli ultimi anni notevolmente peggiorata, come già accennato. I contributi pubblici (Stato, regioni, enti locali) ‒ su cui gli istituti contavano soprattutto per il funzionamento delle strutture ‒ hanno subito riduzioni drastiche, che hanno creato gravi difficoltà agli istituti e pesanti danni all’utenza. I contributi da privati sono di difficile reperibilità, soprattutto se si parla di lavoro ordinario (funzionamento delle strutture). I contributi europei non finanziano a loro volta il funzionamento delle strutture, ma la realizzazione di ricerche o di iniziative varie, presupponendo che gli istituti che hanno fatto domanda possiedano strutture efficienti e funzionanti.
Diamo qui un quadro della tipologia delle fonti di finanziamento degli istituti (AICI 2005).
Occorre distinguerne tre diverse tipologie: a) i finanziamenti ordinari, che possono provenire dal Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC), dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), dal Ministero degli Affari esteri (MAE), dalle regioni; b) i finanziamenti su progetti, che possono provenire dal MIUR, dalle regioni, dalle province e dai comuni; c) i finanziamenti straordinari, che vengono invece erogati in base a leggi speciali.
Tra i principali erogatori di finanziamenti pubblici in favore degli istituti culturali figura dunque lo Stato, con il contributo di alcuni ministeri.
Ministero per i Beni e le Attività culturali.
I fondi amministrati dalla Direzione generale per i beni librari e gli istituti culturali vengono erogati essenzialmente attraverso l’applicazione della l. 17 ott. 1996 nr. 534, che prevede una tabella triennale e contributi annuali; per quanto riguarda i finanziamenti straordinari, essi vengono erogati soprattutto in base a leggi, emanate ogni anno, che utilizzano residui non spesi, ma possono derivare anche da provvedimenti legislativi che finanziano progetti di ampio respiro (per es., la Biblioteca digitale italiana). Questi ultimi sono, in massima parte, destinati a biblioteche statali, ma, in alcuni casi, gli istituti culturali possono accedervi. Esiste anche una legge per l’erogazione di contributi alle riviste di alto valore culturale (l. 5 ag. 1981 nr. 416), che tuttavia dispone di fondi esigui. La Direzione generale per i beni archivistici finanzia progetti speciali che interessano per lo più gli archivi statali ed eroga contributi agli istituti per progetti di descrizione di archivi storici, comprendenti la pubblicazione dei relativi inventari. A volte il MIBAC concede, oltre che fondi, anche contributi in servizi (uso di spazi, eccetera).
Guardando ai finanziamenti accordati dallo Stato negli anni Ottanta e Novanta del Novecento e nell’ultimo anno si possono fare alcune considerazioni. La lista di istituzioni pubblicata con il decreto Einaudi (1948) all’indomani della proclamazione della Repubblica contemplava una grande maggioranza di enti pubblici, mentre a partire dagli anni Sessanta sono entrati nelle tabelle prima del Ministero dell’Istruzione e poi del Ministero dei Beni culturali anche enti privati, attraverso una serie di leggi ad hoc (fig. 1).
Con l. 31 genn. 1961 nr. 50 è stato accordato un finanziamento alla Società italiana per l’organizzazione internazionale (SIOI). Con l. 9 marzo 1961 nr. 278 è stata finanziata la Biblioteca Dante Alighieri. Con l. 5 ag. 1961 nr. 854 è stato stanziato un finanziamento a favore del Centro internazionale di studi e documentazione sulle Comunità Europee con sede a Milano. Con l. 18 aprile 1962 nr. 207 è stato accordato un finanziamento all’Istituto di studi europei Alcide de Gasperi. Con la l. 16 dic. 1966 nr. 1132 è stato stanziato un contributo annuo di 10 milioni di lire a favore della sezione italiana dell’Association européenne des enseignants. Con la l. 16 genn. 1967 nr. 2 è stato accordato un contributo annuo di 30 milioni di lire a favore dell’Istituto Sturzo.
E gli esempi potrebbero continuare. Se negli anni Sessanta si trattava ancora di poche leggi, man mano che ci si avvicinava agli anni Ottanta e alla istituzione del Ministero dei Beni culturali, i finanziamenti agli enti privati aumentavano. Con l’entrata in scena del Ministero entrò in vigore la tabella.
Se ne può dedurre che quelle leggi siano servite ai partiti per regolare, tramite il Parlamento, il mondo degli istituti culturali ‘usandolo’ per accrescere il proprio consenso. Il finanziamento agli istituti culturali non è più stata materia precipua del governo, quanto del Parlamento, che l’ha usato per favori di scambio, introducendo nuovi attori sulla scena (fig. 2).
Un’altra considerazione riguarda la distribuzione spaziale dei finanziamenti. Essi negli ultimi trent’anni si addensano al Centro, tra il Lazio e la Toscana, ciò che deriva sia dalla presenza a Roma dei maggiori istituti sia dal più generoso finanziamento che spetta a quegli istituti culturali. Molto diffusi anche al Nord, la tabella mostra però di preferire quelli dislocati al Centro, riservando al Sud una certa attenzione per la sola Campania. Il monopolio romano era meno forte nel decreto Einaudi, che tuttavia stanziava ben 30 milioni di lire per l’Accademia dei Lincei, rendendo così sproporzionata la parte di finanziamenti che ricadevano nel Lazio. La tabella era però rappresentativa, con 16 regioni, di tutto il territorio nazionale, anche perché i finanziamenti alle deputazioni di storia patria erano ancora previsti in maniera diretta e non tramite la Giunta. Nel decreto Einaudi Roma figurava con 18 istituzioni, seguita dall’Emilia-Romagna con 8 e dalla Toscana con 7. Seguivano il Veneto e la Lombardia con 4, il Piemonte e la Sicilia con 3, le Marche e la Campania con 2, l’Abruzzo, la Sardegna, la Liguria, l’Umbria, la Calabria e il Friuli Venezia Giulia con una sola istituzione.
Nel 1997 le istituzioni romane che figuravano nella tabella erano ben 44, mentre seguivano la Toscana con 27 istituzioni, la Lombardia con 14, il Veneto con 12, l’Emilia-Romagna con 8, il Piemonte con 7, le Marche con 5, la Campania con 4, la Sicilia e l’Umbria con 2, la Liguria, la Puglia con una sola istituzione. Il peso di Roma è quindi aumentato considerevolmente nel corso dei decenni.
Nel Lazio gli istituti sono presenti solo a Roma, non nelle province, mentre al Nord e in Toscana sono dislocati anche fuori dal capoluogo di regione. Al confronto, sembra estremamente ridotto il contributo elargito dalle regioni, tranne che nel caso della Provincia autonoma di Bolzano, peraltro non raggiunta da finanziamenti statali. Il Lazio poteva contare nel 1988 su 8 miliardi di lire tra i fondi stanziati dallo Stato e quelli elargiti dalle regioni. Non è possibile sapere se gli istituti beneficianti fossero gli stessi, né in base a quali criteri la regione li abbia scelti, se in seguito a sottomissione di progetti specifici oppure come contributo all’istituzione. Si conferma anche in questo versante la posizione privilegiata della Toscana, seconda solo al Lazio (fig. 3).
Nell’ultima tabella pubblicata dal MIBAC, si conferma la vitalità degli istituti culturali del Centro-Nord, in particolare del Veneto e della Toscana, capaci di attrarre finanziamenti per quasi un milione di euro, così come si conferma la posizione defilata del Mezzogiorno, dove la sola Campania pare attrarre finanziamenti statali. Resta su tutto il predominio romano, che si è venuto accentuando, tanto che il Lazio da solo attrae il doppio delle risorse destinate alla Toscana.
È dunque una tabella ‘romanocentrica’, per quantità degli investimenti accordati alla capitale, dove del resto si trovano gli istituti più importanti, e che tuttavia fornisce una rappresentazione peculiare dell’arcipelago degli istituti di cultura in Italia (fig. 4).
Nell’ambito dello stesso MIBAC la Consulta dei comitati nazionali e delle edizioni nazionali alloca fondi su progetti (di ricerca, di eventi espositivi, di convegni) predisposti per celebrare anniversari di personalità che hanno avuto un ruolo di rilievo nella vita culturale e politica italiana o ricorrenze particolarmente significative per la storia del Paese. Per ogni progetto approvato viene istituito un comitato nazionale. La Consulta contribuisce anche alla pubblicazione delle edizioni nazionali di opere di autori il cui valore è unanimemente riconosciuto. Dal 2011, per carenza di fondi, l’attività della Consulta è stata drasticamente ridimensionata.
La Presidenza del Consiglio dei ministri ha stabilito con una Circolare del 20 genn. 2006 che gli istituti possono beneficiare, su presentazione di progetti relativi ai beni culturali mobili o per esigenze di restauro di immobili, di una quota parte dei fondi dell’8 per mille dei versamenti IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche).
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Il MIUR eroga fondi agli istituti culturali sulla base del d.m. 8 ott. 1996 nr. 623, che prevede contributi per gli istituti scientifici speciali che svolgano regolare attività di ricerca. Gli istituti attivi nel campo della ricerca scientifica più strettamente intesa possono ricevere contributi annuali in base alla l. 28 marzo 1991 nr. 113 (modificata dalla l. 10 genn. 2000 nr. 6), che finanzia iniziative per la diffusione della cultura scientifica. Presso il MIUR sono in vigore due tabelle, di cui una finanzia in massima parte i grandi enti di ricerca (come il Consiglio nazionale delle ricerche, CNR) e l’altra gli istituti culturali con attività scientifiche. I fondi erogati per il CNR, ente vigilato dal MIUR, sono in netta contrazione. Un tempo erano previsti la stipula di convenzioni per progetti pluriennali, il finanziamento a progetti di ricerca annuali, l’erogazione di contributi per pubblicazioni.
Attualmente il sostegno ai progetti di ricerca coordinati tra più istituzioni è in pratica sospeso benché, tra i compiti dell’ente sia previsto, nel quadro della collaborazione con le università e altri soggetti pubblici e privati, il sostegno ad attività scientifiche e di ricerca di rilevante interesse per il sistema nazionale. Vengono erogati contributi per progetti di ricerca individuale presentati da giovani e, raramente, per la pubblicazione di periodici o di libri. Il MIUR può finanziare inoltre Scuole di eccellenza cui partecipino le università e pubblica regolarmente bandi di gara, quasi sempre collegati con programmi comunitari, cui gli istituti possono partecipare.
Ministero degli Affari esteri. In alcuni casi il MAE finanzia, in qualità di committente, specifici progetti di ricerca. Eroga contributi per il funzionamento di istituti che svolgano un’attività molto orientata verso l’estero (per es. l’ISIAO) ed è inoltre autorizzato a dare contributi ‒ anche se negli ultimi anni sempre più raramente ‒ per viaggi di studio o per partecipazione a convegni all’estero.
Oltre allo Stato, tra i principali erogatori di finanziamenti pubblici in favore degli istituti culturali vi sono anche gli enti locali.
Regioni. I fondi erogati provengono essenzialmente dagli assessorati alla Cultura e dalle presidenze delle regioni; nel primo caso si tratta, in gran parte, di finanziamenti per il potenziamento delle infrastrutture e per la catalogazione di libri e archivi, nel secondo di contributi per iniziative specifiche. Poche regioni (tra cui la Regione Lazio) hanno promulgato leggi con tabelle analoghe a quella della l. 17 ott. 1996, nr. 534, che definiscono i criteri di ammissibilità al finanziamento.
Province. Il loro contributo è marginale (nell’ordine del 2% sul totale dei finanziamenti agli istituti) e riguarda iniziative specifiche.
Comuni. I contributi vengono in genere concessi per iniziative specifiche (soprattutto per convegni ed eventi espositivi), a parte poche eccezioni (Per es., il Comune di Roma pubblica un bando annuale che prevede contributi per gli Istituti detentori di archivi storici).
I finanziamenti dell’Unione Europea si articolano, com’è noto, su una vasta gamma di programmi. Sono erogati a seguito dell’approvazione di progetti presentati in risposta a bandi; i progetti debbono essere formulati secondo norme ben precise e ottemperare a una complessa serie di requisiti.
La complessità dei requisiti di ammissibilità al finanziamento rende difficile l’accesso a tali fondi. Non sono molti gli istituti che sono riusciti a ottenerli, ma è in atto una forte tendenza ad acquisire competenze specifiche per poter accedere più agevolmente e con maggiore continuità a questo tipo di finanziamenti.
I finanziamenti privati costituiscono una risorsa verso cui gli istituti si stanno orientando, con risultati fino a oggi non molto rilevanti.
Se operiamo una distinzione tra finanziatori privati appartenenti al mondo del non profit e al mondo del profit, risulta subito che la presenza dei primi è di gran lunga maggiore rispetto a quella dei secondi. E ciò trova la sua facile spiegazione nella scarsa visibilità immediata sia dei beni culturali posseduti da quasi tutti gli istituti, sia del tipo di attività scientifica svolta. Ciò non preoccupa troppo il finanziatore non-profit, mentre non fornisce motivazioni sufficienti al finanziatore profit. La tendenza si sta tuttavia lentamente modificando, anche perché gli istituti si stanno dimostrando molto più aperti e disponibili che in passato a occuparsi di questioni che interessano più da vicino la società attuale e a rendere più immediatamente visibile la propria attività. Accanto ai tradizionali contributi erogati dalle banche o dalle fondazioni bancarie, alcuni istituti ottengono sponsorizzazioni da aziende private per attività pubbliche (convegni o mostre), mentre altri – non molti, per la verità – svolgono ricerche commissionate da privati che si sono resi conto del valore delle competenze di cui gli istituti dispongono e hanno deciso di avvalersene.
Per incoraggiare il mecenatismo privato, è stata da pochi anni approvata una norma che prevede la deducibilità dai redditi d’impresa e di persona delle erogazioni liberali in denaro in favore di enti o soggetti che svolgono attività nel campo dei beni culturali e dello spettacolo. Questa innovazione è stata introdotta dall’art. 38 della l. 21 nov. 2000 nr. 342, poi regolata con d.m. 11 aprile 2001, nel quale, tra i destinatari di tali erogazioni, sono inclusi gli istituti culturali che ricevono finanziamenti ai sensi della l. 17 ott. 1996 nr. 534. Il MIBAC, d’intesa con l’Agenzia delle entrate del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha un compito di vigilanza sull’impiego delle erogazioni. Ci si sta battendo perché sia semplificata la procedura e perché la deducibilità sia più consistente, cosa che avviene in altri Paesi, soprattutto negli USA.
A partire dal 2010 la situazione economica degli istituti culturali italiani è entrata in grave crisi perché la maggior parte dei contributi pubblici è stata quasi dimezzata e, in alcuni casi, perfino azzerata. È diventato perciò difficile non solo mantenere tutto il personale, ma anche continuare a sottoscrivere gli abbonamenti ai periodici e ad acquistare libri, proseguire tutte le attività programmate.
Com’è noto, questi dati riguardano tutto il settore della cultura in Italia dove la percentuale dell’investimento pubblico nazionale per la cultura è sceso allo 0,19%. Con una percentuale come questa c’è il rischio gravissimo di vedere le biblioteche e gli archivi ridotti a depositi, i musei chiusi, le ricerche enormemente impoverite, le attività culturali azzerate. Il rapporto tra pubblico e privato va senza dubbio incentivato, senza dimenticare però che solo il finanziamento pubblico può garantire la regolarità del funzionamento delle strutture, base indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi attività (Crespi 2013; Sacco, Caliandro 2011).
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