Gli insediamenti fenici e punici in Africa Settentrionale
Numerosi autori greci e latini hanno trattato dei Fenici e delle loro fondazioni in Africa Settentrionale. Un testo tardo di Procopio presenta uno stato delle conoscenze sui Fenici ai tempi della conquista di una parte di Canaan da parte delle tribù di Israele sotto la guida di Mosè e di Giosuè. Espulsi, compressi tra la montagna e il mare, gruppi di Fenici decisero di partire. Attraverso l'Egitto raggiunsero l'Africa del Nord, che sino al VI sec. d.C. portava ancora il nome di Libye.
L'autore ci informa che i Fenici occuparono il Paese da Oriente a Occidente sino alle Colonne d'Ercole e vi fondarono numerose città. Utica, in Tunisia, e Lixus, in Marocco, sembrano essere state le fondazioni più arcaiche, tradizione riconosciuta da altri autori antichi, sebbene l'immaginario e il meraviglioso vi si trovino mescolati alla storia. Diodoro Siculo attribuisce ai Fenici "molte colonie sulle coste della Libia", cioè dell'Africa settentrionale. A quali precise colonie fa allusione? Utica? Lixus? Forse pensa ugualmente a Leptis, Hippo e Hadrumetum. Queste antiche città della Tunisia e dell'Algeria sono infatti considerate anch'esse fondazioni fenicie.
Raccontando la guerra di Giugurta, Sallustio giudicò utile ricordare le grandi tappe della storia dell'Africa per collocare il re numida, l'avversario dei Romani, nel suo contesto storico e geografico. Sottolineò la partecipazione dei Fenici alla storia del paese, poiché vi avevano fondato delle colonie. "Più tardi ‒ scrive ‒ i Fenici, alcuni per sgravare il loro Paese da un eccesso di popolazione, altri per spirito di conquista, trascinandosi dietro la plebe e gli avventurieri fondarono sulla costa Hippo, Hadrumetum, Leptis e altre città ancora, e queste, ben presto prospere, diventarono l'appoggio o la gloria delle loro metropoli". Si ha così una testimonianza storiografica di una portata considerevole: riguarda i fattori che hanno determinato la colonizzazione fenicia nell'Africa Settentrionale e la menzione delle principali fondazioni.
Solino, compilatore del III secolo dell'era cristiana, considera Hadrumetum come fondazione tiria. Per Hippo e Leptis la situazione resta ancora poco chiara: si tratta di Hippo che all'epoca romana è detta Diarrhytus, attualmente Biserta nella Tunisia del Nord-Est? O dobbiamo piuttosto riconoscervi l'altra Hippo, che al tempo dei Romani è detta Regius, l'attuale Annaba in Algeria? Niente autorizza a prendere posizione. L'etimologia di questo toponimo resta sconosciuta; sarebbe troppo audace ricollegarla a una radice semitica. È anche da tenere presente che oltre alle due Hippo dell'antichità, esiste una località, nei dintorni dell'attuale città di Mahdia, che si chiama Hiboune, senza dubbio una tardiva alterazione di Hippo. Si tratterebbe di un toponimo libico? È possibile, ma è meglio lasciare agli specialisti del mondo libico e berbero di pronunciarsi al riguardo. Lo stesso vale per Leptis, perché esiste una Leptis Minor nel Sahel tunisino, a una trentina di chilometri a sud della città di Sousse, e una Leptis Magna. Più tardi le iscrizioni neopuniche la menzionano con il nome di Lpqy, che ha portato alla forma latina di Leptis.
Parlando dei Fenici nel Mediterraneo e delle loro colonie, altri autori antichi menzionano Utica come la più antica città fenicia fondata sulle coste dell'Africa del Nord. Velleio Patercolo la colloca nel contesto che aveva portato alla fondazione di Gadeira, nella Spagna meridionale. A Sallustio si devono altre informazioni; egli evoca soprattutto le cause che erano all'origine dell'emigrazione e che portarono alla nascita di queste colonie. Si tratta di fenomeni determinati dall'eccesso di popolazione, e guidati da personaggi ambiziosi capaci di sedurre le masse e farsi seguire da avventurieri. Si tratterebbe dunque di una colonizzazione gestita da corporazioni di privati cittadini, senza che vi siano ancora coinvolte le autorità politiche. Per la città di Utica la situazione sembra molto diversa: una fondazione ufficiale, concepita e realizzata dalle autorità nel quadro di una politica economica rivolta al Mediterraneo e in rapporto con il commercio di Tartessos con altri territori lontani.
Lo stesso si può sostenere riguardo ad alcune città antiche del Marocco e alle loro origini fenicie. Nel Periplo di Scilace Lixus è chiamata "città dei Fenici". Plinio raccoglie tradizioni relative alle sue origini e al tempio consacrato al culto del suo fondatore. Nella sua Naturalis historia vi sono informazioni su Tingi, Rhysaddir, Rusibis e Zili, di cui parlano anche Tolemeo e Strabone; si ritrovano nell'Itinerario Antonino e nel Geografo di Ravenna. Tingi è anche presente negli scritti di Ecateo di Mileto, di Silio Italico, di Pomponio Mela e di Plutarco. Strabone attribuisce a Eratostene una tradizione secondo la quale i Fenici avrebbero fondato 300 colonie lungo l'Oceano, sul litorale del Marocco, completamente distrutte dagli autoctoni. Senza negare il substrato storico di una tale tradizione, il suo carattere eccessivo fu denunciato dagli antichi, in particolare da Artemidoro e da Strabone stesso.
Si possono ricollegare a questa tradizione poco contestata, città scomparse come Cotté, Lissa, Thrinké, Exilissa, il cui ricordo è tramandato da Ecateo di Mileto, Plinio, Strabone e Tolemeo? Ecco una domanda a cui sarebbe troppo audace rispondere, soprattutto quando è nota la natura degli ostacoli che si oppongono alla localizzazione e all'identificazione di altri siti il cui grado di storicità è ben più elevato: si tratta di quelle colonie fondate da Annone nel suo famoso Periplo, il cui racconto è sempre oggetto di una vivace controversia, anche se la maggioranza degli storici contemporanei crede alla sua autenticità.
Sembra così che la presenza fenicia in Marocco non sia sfuggita alla storiografia antica, sia latina sia greca; riferendosi a fonti scritte e orali di diverse origini, alcuni autori fanno inoltre riferimento a tradizioni o scritti punici. L'opera di R. Roger intitolata Le Maroc chez les auteurs anciens, pubblicata a Parigi nel 1924, costituisce uno strumento notevole di indagine per coloro che vogliano quantificare e valutare i dati storiografici relativi alla presenza fenicia e punica in questo paese. Tali indicazioni si rivelano parche e spesso più vicine al mito e alla leggenda che alla storia; ma, senza rifiutarle, lo storico può rivolgersi anche ad altre fonti molto più dirette.
Due toponimi sembrano essere stati utilizzati per designare la città antica di Lixus. Si tratta di MQM ŠMŠ, espressione fenicia che significa "alto luogo di Shamash", una divinità solare il cui culto è attestato presso i Fenici. Tuttavia, non si deve dimenticare che secondo Erodoto i Libici facevano sacrifici alla Luna e al Sole: ŠMŠ di Lixus potrebbe dunque riferirsi sia a una divinità puramente semitica, sia a qualche divinità libica di cui si ignora il teonimo. L'altro toponimo che si trova sulle monete di Lixus corrisponderebbe alla trascrizione di un toponimo locale in caratteri neopunici: si tratta di LKŠ, che le leggende latine traducono LIX oppure LIXS.
Dopo un rapido esame dei dati fondamentali relativi all'espansione fenicia in Africa Settentrionale si possono fare le seguenti osservazioni. Nella storiografia antica l'immaginario e il mito si mescolano talvolta inestricabilmente ai fatti storici. Conviene quindi procedere a un lavoro di vagliatura e di analisi al fine di distinguere, di valutare e di caratterizzare le diverse componenti del racconto o della tradizione. Per stabilire la cronologia dei fatti raccontati, alcuni autori antichi si rifanno alla mitologia, come nel caso del ritorno degli Eraclidi messo in rapporto con la fondazione di Gadeira e di Utica. Dalla maggior parte dei testi risulta che i Fenici frequentavano le coste nordafricane dall'inizio dell'età del Ferro, cioè dal tempo in cui la loro marineria effettuava lunghi viaggi per raggiungere il regno di Tartessos. Il commercio fu dunque all'origine di questa presenza fenicia in Africa Settentrionale. A fianco della colonizzazione ufficiale e della fondazione della città concepita e realizzata nel quadro di una politica e di una strategia concordate, senza dubbio, con il Palazzo e il Tempio, ci fu anche una colonizzazione condotta da corporazioni private di mercanti ambiziosi capaci di sedurre coloro che erano avidi di ricchezze e di novità o erano spinti dalle loro difficili condizioni socioeconomiche a intraprendere il cammino dell'avventura. Fatta eccezione per l'insediamento fortificato che, secondo Procopio, i Fenici avrebbero fatto costruire in Numidia, "nel luogo dove si eleva la città di Tigisis", situata a sud-est di Costantina, la storiografia antica non sembra fornire ulteriori informazioni relative alle città fenicie in territori numidi. Per l'Algeria non si dispone di nessuna informazione certa, poiché il caso di Hippo resta controverso. Auza, di cui parla Menandro di Efeso, continua a sfuggire a ogni tentativo di identificazione; S. Gsell rifiuta l'ipotesi di Auzia, l'attuale Aumale, nella regione di Algeri, situata all'interno e di difficile accesso. A questo riguardo, è opportuno ricordare che tutte le fondazioni fenicie menzionate dagli autori antichi si trovano sulla costa e in stretto rapporto con le attività legate al mare.
Considerando queste tradizioni, si possono rilevare due fasi successive per la presenza fenicia in Africa del Nord, come per tutto il Mediterraneo occidentale: una fase dove solo il commercio contava per quei navigatori fenici venuti con la precisa intenzione di arricchirsi e di ritornare nel loro paese. Per lunghissimo tempo, la loro presenza sul territorio si è manifestata per lo più tramite strutture provvisorie, spesso solo stagionali, di cui è ormai impensabile ritrovare le tracce. L'altra fase ravvisabile corrisponderebbe a una presenza stanziale, con strutture solide e durevoli, che l'archeologia è dunque in grado di riportare alla luce.
Presenze fenicie in Algeria - In questo Paese le testimonianze archeologiche si vanno sempre più intensificando e diversificando. Nel panorama generale due insediamenti meritano un'attenzione particolare: Tipasa e Rachgoun, dove gli archeologi hanno raggiunto gli strati fenici che precedono la fase relativa alla grande espansione cartaginese.
Tipasa. - Il nome di Tipasa è tuttora al centro di una serrata controversia fra gli studiosi, dal momento che esistono due teorie: l'una a favore di un'origine libica, l'altra semitica.
I sostenitori della prima teoria ritengono la T iniziale di Tipasa caratteristica dei toponimi libici, come Tetaouine, che attualmente si pronuncia Tataouine; questa T prostetica si ritrova, diversamente vocalizzata, nei toponimi Tajerouine, Tazerka, Tiddis, Tekrouan, Tehirt, Tigisis, ecc. In arabo il nome Tipasa si trasforma in Tiphesh mentre in latino è Thapsus e in greco Thapsos. Questo toponimo è documentato in Nord Africa per tre centri urbani: Tipasa, a ovest di Algeri; Thapsus nel Sahel tunisino a una quarantina di chilometri a sud di Hadrim, l'attuale città di Sousse; Tiphesh, che le fonti arabe situano nel Constantinois, non lontano da Souk Ahras. Una moneta, scoperta di recente a Ksar Helel, in Tunisia, a una trentina di chilometri a sud di Sousse, porta il nome di TP῾N, che sarebbe la forma originale di Thapsus e di Tipas. Quale sarebbe il valore semantico della radice che ha prodotto Tipasa, Thapsus o Tiphesh? Al riguardo sono state avanzate alcune ipotesi, tra cui quella di Ch. Tissot, seguito da altri studiosi come, ad esempio, J. Tixeront, il quale ravvisa un'origine semitica di Thapsa, che traduce con "passaggio". Tale interpretazione è comunque poco convincente. Si potrebbe forse collegare questo toponimo al libico FZ che indica la sabbia?
Le ricerche archeologiche condotte a Tipasa da P. Cintas hanno portato al rinvenimento di alcune tombe fenicie appartenute molto verosimilmente a marinai provenienti dall'Oriente, sia per commerciare, secondo le teorie tradizionali, sia per stabilirsi definitivamente in una terra dove si poteva vivere e prosperare lontano dai disordini e dall'insicurezza provocati dai conquistatori e dagli invasori. Le sepolture fenicie individuate e successivamente scavate sembrano risalire al VI sec. a.C. L'esame del materiale messo in luce evidenzia la presenza di prodotti fabbricati nelle città fenicie di Oriente; si tratta di oggetti importati e deposti in una tomba a camera in prossimità del porto, costruita con blocchi di pietra provenienti da cave lontane e appositamente scelti in funzione della loro destinazione. All'interno di questa tomba l'archeologo francese ha recuperato un bruciaprofumi del tipo a doppia patera, una brocca con orlo espanso e un piatto verniciato, che potrebbero situarsi fra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. A questa stessa epoca si data "una tomba scavata nella roccia, alla sommità della falesia (...), 5 m sopra il livello dell'acqua con i lati che misurano rispettivamente 3,7 e 3,3 m". La camera funeraria si sviluppa su 3 m di lunghezza e su 1,9 m di larghezza. Alla luce di queste testimonianze si è proposto di collocare nel VI sec. a.C. la più antica presenza fenicia a Tipasa. Tuttavia, la mancanza di prospezioni e di scavi sistematici induce a valutare con molta prudenza tali affermazioni. Non si può certo escludere che future ricerche allargate anche alle indagini sottomarine possano modificare il quadro delle conoscenze sin qui acquisito.
Una presenza fenicia più antica è al momento riscontrabile a Mersa Médakh e a Rachgoun, due importanti insediamenti della regione di Orano. A Mersa Médakh, non lontano da Boutlilis, G. Vuillemot ha messo in luce un abitato fenicio con strutture alquanto modeste. In particolare, è stata indagata un'abitazione costruita con pietre legate con terra e con l'alzato dei muri non portanti realizzato con mattoni crudi.
Per il tetto, i costruttori hanno fatto ricorso a tronchi di tuia fissati verticalmente nel suolo, che non solo servivano da supporto, ma che offrivano altri vantaggi per gli abitanti della casa, i quali potevano appendervi gli oggetti domestici e gli utensili: una fiasca da pellegrino, una grande coppa, un'anfora, un'arma, un utensile o anche una parure, come la collana della quale è stato possibile recuperare solo un vago in ceramica alla base di uno dei pali, in un contesto di scorie segnato dalle impronte di una cesta di vimini accanto a un vaso con prese a doppia perforazione. Le pareti interne dell'abitazione erano intonacate con argilla lisciata a mano. Le strutture indagate coprono una superficie di 6 × 3,5 m; la porta, preceduta da una soglia disposta a 0,5 m di altezza, era collocata sull'angolo sud-occidentale della casa e presentava un'apertura di 1 m. Si tratta, quindi, di un'abitazione di tipo seminterrato, ben documentata nell'Africa Settentrionale all'epoca preromana e che risulta ancora attestata nelle campagne.
Per quel che concerne i materiali, lo scopritore sottolinea la preponderanza della ceramica d'impasto, semplice o decorata: olle con prese di sospensione, pentole, brocche, coppe, ciotole, scodelle, ecc. La ceramica lavorata al tornio è presente in questa abitazione di Mersa Médakh soprattutto in rapporto alle anfore del tipo Cintas 284, che si datano al VII-VI sec. a.C. È stata rinvenuta anche una brocca con strozzatura nel collo, orlo espanso convesso e fondo con piede distinto. Erano presenti anche vasi dipinti, come testimoniano alcuni frammenti fra i quali è stato possibile riconoscere un'anfora con due piccole anse circolari disposte sulle spalle, una patera e una lucerna monolicne con ingubbiatura rossa.
Altri reperti furono messi in luce nel corso degli scavi: macine, mortai-tripodi, conchiglie, delle quali una del tipo Patella safiana sembra sia stata utilizzata come lucerna, armi, ecc. Questo materiale era disposto su tre livelli: quello superficiale, il pavimento superiore ‒ con un sottostante strato di preparazione ottenuto con materiale di riporto ‒ e infine il pavimento inferiore. Lo strato di riporto che separava i due pavimenti aveva uno spessore di 60 cm, il che farebbe pensare che l'abitazione abbia conosciuto due distinte fasi di vita in un arco di tempo relativamente breve e, per questo motivo, il materiale messo in luce nei differenti livelli di occupazione si caratterizza per una certa omogeneità culturale e cronologica. Quindi, la rioccupazione che segue all'abbandono dell'edificio può essere avvenuta sia a opera degli originari costruttori, sia da parte di nuovi individui, che però non differivano affatto dai loro predecessori. Per questo motivo si è in presenza di una facies culturale omogenea; questa è la conclusione raggiunta dall'archeologo che ha indagato l'edificio, il quale afferma: "…e se i primi costruttori della capanna non ritornarono, una nuova generazione impregnata delle loro tradizioni marcate dagli stessi bisogni succedette loro".
Niente in questo contesto sembra riflettere sintomi di ricchezza: si tratta di una presenza molto austera con lo sguardo rivolto agli insediamenti occidentali. Si discute sulla possibilità che la comunità di Fenici che viveva a Mersa Médakh potesse avere un qualche ruolo nell'attività commerciale e nella navigazione verso Occidente. Apparentemente nulla sembra avallare tale interpretazione, anche se è probabile debba trattarsi di uno scalo tecnico. L'ambiente naturale non sembra offrire vantaggi particolari per un'eventuale occupazione del territorio. Del resto la precarietà delle strutture e la modestia del materiale utilizzato testimoniano un'installazione provvisoria e un'occupazione del sito per scopi diversi dallo sfruttamento agricolo. Anche se i dati a disposizione non permettono di chiarire con esattezza la natura dell'insediamento, non si può escludere che esistessero dei legami con il commercio e la navigazione.
Rachgoun. - A Rachgoun, un'isola che si trova al centro della baia dove sfocia il fiume Tafna, sono stati individuati un abitato e una necropoli.
Gli scavi di quest'ultima hanno fornito preziose indicazioni sulla struttura delle tombe, sui modi e sulle pratiche di sepoltura, nonché sul corredo funerario. Il rituale prevalente è quello dell'incinerazione in urna deposta in una cavità poco profonda. L'inumazione sembra invece praticata molto raramente: su 114 sepolture, solo 9 si riferiscono a questo rituale. Si tratta in maggioranza di bambini morti in tenera età il cui scheletro, rinvenuto in connessione anatomica, è stato deposto in cavità spesso naturali. Il corredo ceramico si articola in forme chiuse e in forme aperte, mentre il corredo personale è composto da gioielli, amuleti e scarabei. Lo studio di questi materiali permette di inquadrare le sepolture in un arco di tempo compreso fra il VII e il VI sec. a.C. Tale datazione si basa sulle tipologie dei gioielli, sull'impiego dei metalli preziosi e sullo studio degli scarabei egiziani o egittizzanti, che trovano puntuali confronti con esemplari rinvenuti in altre necropoli la cui cronologia è stata correttamente stabilita.
Gli scavi nell'abitato hanno messo in luce strutture di tipo domestico, con muri realizzati con pietre legate con terra, intonacati con argilla e imbiancati con calce. Alcuni ambienti di queste abitazioni erano forniti di banchine, la cui altezza in rapporto al suolo varia dai 20 ai 40 cm. In certi casi, le strutture messe in luce permettono di valutare le dimensioni degli ambienti. Fra i materiali rinvenuti si segnalano soprattutto ceramiche da cucina, sia per la cottura sia per la preparazione degli alimenti, e ceramiche da dispensa per la conservazione dei prodotti agricoli. Ricca e diversificata risulta anche la presenza di ceramica d'impasto di tradizione locale. Non mancano le importazioni, come nel caso di un'anfora olearia a vernice nera attribuita da F. Villard a produzione attica del VII sec. a.C.
Le indagini condotte a Rachgoun, toponimo che compare nell'opera redatta nell'XI sec. d.C. dal geografo arabo al-Bakri nella forma Aršgūl, permettono di constatare un'occupazione del sito da parte dei Fenici dal VII sec. a.C., senza che si possa escludere una presenza anteriore. La facies documentaria si sviluppa senza interruzioni dal VII al V sec. a.C. e le motivazioni dell'abbandono dell'insediamento si devono ricercare nella sua natura strategica di controllo delle coste e di scalo marittimo nella rotta di collegamento fra la Fenicia e l'estremo Occidente mediterraneo. Nel V sec. a.C., infatti, le ragioni che furono all'origine dell'occupazione del sito vennero meno, causandone la fine repentina.
Presenze fenicie in Marocco - Dopo una fase pionieristica durante il periodo coloniale, le ricerche archeologiche in questo Paese si sono andate organizzando con programmi e con scavi di grande rilevanza solo dopo la seconda guerra mondiale. Alle indagini condotte a Lixus, sia da archeologi spagnoli sia da studiosi francesi, si sono successivamente affiancati gli scavi di Mogador che, iniziati in un periodo relativamente recente, testimoniano il crescente interesse delle autorità del Marocco indipendente per il loro patrimonio storico-archeologico. Attualmente, archeologi marocchini partecipano attivamente a prospezioni e scavi in tutto il Paese, in particolare lungo le coste atlantiche e mediterranee, da Tangeri a Lixus, da Mogador all'estremo sud del Paese. I risultati ottenuti si distinguono per la loro quantità, diversità e ricchezza.
Lixus. - Grazie ad alcuni sondaggi è stato possibile mettere in luce numerose attestazioni relative alla presenza tiria nella città, che sembra sia stata fondata nelle fasi iniziali della colonizzazione fenicia. Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze le evidenze archeologiche permettono appena di raggiungere il VII sec. a.C. Si tratta di frammenti di lucerne a un solo becco, che appartengono alla ceramica fenicia a ingobbio rosso caratteristica di questo periodo. Per questo tipo di lucerne si propone una datazione al VII e al VI sec. a.C. In questa fase arcaica si collocano anche alcuni frammenti di ceramica attica a figure nere, databili al VI sec. a.C. Bisogna comunque sottolineare il carattere molto limitato delle indagini condotte a Lixus, malgrado i lodevoli sforzi condotti da numerosi archeologi francesi e spagnoli fra i quali spiccano per importanza M. Tarradell e M. Ponsich. Futuri sondaggi, ben mirati e condotti con cura, potranno arricchire le nostre conoscenze sulle fasi più antiche della colonia e avvicinarci di più ai fondatori.
Fra gli oggetti messi in luce si segnala per importanza uno scarabeo di pasta silicea smaltata di colore terroso, che presenta incisi dei motivi disposti in due registri al di sopra del segno nb. Nel registro inferiore è presente un disegno di difficile lettura: si tratta senza dubbio di Isis o del falcone con le ali spiegate di fronte alla piuma Maât. Nel registro superiore è visibile l'ape del Basso Egitto. Per questo scarabeo è stata proposta una datazione al X sec. a.C., ma tale attribuzione è stata contestata da P. Cintas e A. Jodin, che preferiscono inquadrare il manufatto nel VI sec. a.C. Non si deve comunque dimenticare che si tratta di una scoperta di superficie effettuata fuori stratigrafia.
Tangeri. - Nella regione di Tangeri alcuni scavi hanno portato all'identificazione di necropoli che attestano una profonda penetrazione fenicia, come testimoniato dalle strutture, dalle tecniche architettoniche e dal corredo funerario delle tombe. Si tratta delle necropoli di Gebila, Gandori, Dalia, Dar Shiro, ecc. In queste necropoli le tombe sono del tipo a cassone di grandi dimensioni e di forma quadrangolare. Per la loro realizzazione sono stati utilizzati blocchi monolitici impiegati per le pareti laterali e per la copertura. Le sepolture hanno restituito materiali databili al VII sec. a.C.: si tratta di vasi e gioielli, in particolare di orecchini del tipo "a cestello".
In realtà queste necropoli coprono un arco di tempo molto ampio, che va dalla fine dell'VIII o dagli inizi del VII sec. a.C. sino alla piena espansione punica. Le aree funerarie indagate presentano densità variabile. Al momento il giacimento più importante è stato individuato nei pressi di Ain Dalia Kébira, dove sono state messe in luce 54 sepolture che si dispongono all'incirca dal VII al V sec. a.C. L'assenza di insediamenti indica che le abitazioni erano realizzate con materiali deperibili: terra ed elementi vegetali. Si tratta verosimilmente di capanne, tipiche della regione, che gli autori antichi chiamano mapalia. Le necropoli individuate si riferiscono quindi a popolazioni rurali che si interessavano maggiormente alla perennità delle loro tombe, che dovevano sfidare il tempo e resistere a ogni vicissitudine. Partendo da queste considerazioni, si ritiene che i defunti deposti nelle tombe non siano di origine orientale, ma piuttosto indigeni influenzati dalla cultura fenicia, sia direttamente sia indirettamente, tramite importanti insediamenti coloniali quali Lixus e Gadir.
Mogador. - In questo insediamento le più antiche attestazioni della presenza fenicia appaiono sotto forma di strutture difficilmente identificabili, a causa della natura deperibile dei materiali utilizzati. Sono state messe in luce sia abitazioni private sia officine destinate verosimilmente alla riparazione delle imbarcazioni.
I materiali recuperati nel corso degli scavi riguardano soprattutto ceramiche di produzione fenicia, a cui si affiancano in percentuale fortemente minoritaria ceramiche greche arcaiche e ceramiche cipriote. Le tipologie si riferiscono essenzialmente al VII e al VI sec. a.C. Sono documentate le anfore, le brocche, i piatti, le patere, le coppe, le lucerne bilicni, i bruciaprofumi, i tripodi, ecc. In associazione con la ceramica lavorata al tornio è stata inoltre rinvenuta ceramica lavorata a mano, utilizzata soprattutto per cucinare, come nel caso di un tipo particolare di pentole a fondo piatto che presentano tracce evidenti della prolungata esposizione al fuoco diretto. Fra gli oggetti in metallo numerosi sono quelli di bronzo. Le attestazioni riguardano bracciali, fibule, orecchini e campanellini. Graffiti in fenicio sono stati individuati sia su frammenti di ceramica a ingobbio rosso sia su vasi interi, come anfore, lucerne, ecc. Queste iscrizioni si dispongono in un arco di tempo compreso fra il VII e il V sec. a.C. Fra le attestazioni più antiche si ricordano in particolare quelle di Magone, uno dei marinai fenici che viveva a Mogador, il quale incise nel VII sec. a.C. il suo nome su un piatto e su un'anfora. Tale documentazione permette di riconoscere una presenza fenicia già nel VII sec. a.C., ma ciò non esclude contatti anteriori con questa zona del Marocco atlantico, dove l'isolotto di Mogador sembra essere stato utilizzato come scalo.
Alla luce di questa ricca e articolata documentazione si è quindi in grado di comprendere l'importanza degli insediamenti fenici del Marocco. Attualmente i meglio documentati sono i centri di Lixus e di Mogador. La loro influenza fu larga e profonda rivolgendosi a tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalla lingua alla religione, dai riti funerari alle credenze nell'aldilà. Da un punto di vista cronologico le testimonianze più antiche non vanno oltre il VII sec. a.C. a eccezione dello scarabeo di Lixus, la cui datazione risulta comunque controversa.
La più antica presenza fenicia in Tunisia è caratterizzata da una fase di esplorazioni e di prospezioni propedeutica ai primi scambi con le popolazioni locali, che portarono al sorgere di piccoli centri commerciali e di scali per facilitare la circolazione delle imbarcazioni da trasporto. Vista la natura stessa dei contatti, questa fase di esplorazioni risulta difficilmente documentabile, anche se essa si deve senza dubbio far risalire alla fine del XII sec. a.C. La documentazione diviene più consistente con la fondazione delle prime colonie e grazie alle testimonianze fornite dalla storiografia antica. Nonostante si sia male informati sulle modalità che portarono alla nascita dei primi stanziamenti fenici in Tunisia, c'è motivo di credere che le difficoltà iniziali e le reazioni ostili delle popolazioni locali finirono per cedere il posto a una vera cooperazione.
Il passaggio da insediamenti stagionali a scopo commerciale, difficilmente individuabili da un punto di vista archeologico, a insediamenti stabili si colloca nel corso dell'VIII sec. a.C. Tale cambiamento è percepibile soprattutto dalla comparsa delle prime necropoli fenicie in Africa Settentrionale, che testimoniano la presenza di nuclei fissi di popolazioni provenienti dal Vicino Oriente. Questa situazione è ben rappresentata da Utica, che proprio in questo periodo si trasforma da centro commerciale a colonia di popolamento. L'insediamento nordafricano diviene quindi un'entità politica, economica e sociale autonoma. Non è possibile stabilire quale fosse la natura dei rapporti fra la città-madre, nel caso specifico Tiro, e la città di Utica nell'VIII sec. a.C. Comunque, niente permette di affermare che vi fosse un controllo politico ed economico da parte dei re della metropoli fenicia.
Riguardo alle cause che portarono a questi cambiamenti provocando lo spostamento di masse ingenti di popolazione dalle città fenicie della costa siro-palestinese al Mediterraneo centro-occidentale, qualche informazione proviene dai testi antichi. Diodoro Siculo, ad esempio, lascia intendere l'esistenza di una colonizzazione ufficiale: "Questo commercio, esercitato da essi per lungo tempo, accrebbe la loro potenza permettendogli di inviare numerosi coloni, sia in Sicilia e nelle isole vicine sia in Libia, in Sardegna e in Iberia" (V, 35). Il testo di Diodoro lascia intuire che la colonizzazione ufficiale fosse la conseguenza del commercio esercitato dai Fenici. Infatti, tale processo necessitava di un lungo periodo di contatti con i diversi paesi che si affacciavano sul Mediterraneo occidentale al fine di valutarne le risorse e le potenzialità. La colonizzazione ufficiale era un'impresa molto impegnativa che necessitava di grandi risorse finanziare. I principali obiettivi di tale processo consistevano nell'assorbire l'eccesso di popolazione che affliggeva Tiro, operare per un migliore sfruttamento delle risorse dei paesi lontani e tutelare i preziosi carichi di materie prime provenienti dal Mediterraneo centro-occidentale.
La storiografia antica menziona un altro tipo di colonizzazione, che si potrebbe definire privata: "I Fenici, gli uni per ridurre la popolazione che si accalcava in madrepatria, gli altri per desiderio di dominazione, allettarono parte del popolo e altri uomini avidi di novità e fondarono, sul bordo del mare, Hippona, Hadrumetum, Leptis e altre città. Queste colonie si svilupparono velocemente e divennero il sostegno e l'onore della loro madrepatria" (Sall., Bell. Iug., XIX, 1-2).
Dai dati raccolti deriva che le fondazioni fenicie di Tunisia, allo stesso modo di quelle di altre regioni del Mediterraneo occidentale, rispondevano a situazioni diverse o, per meglio dire, specifiche. Bisogna inoltre ricordare che si tratta di avvenimenti che si sviluppano su un arco di tempo molto lungo, compreso fra la seconda metà del IX e il VII sec. a.C. Si deve infine sottolineare il dinamismo dei fattori responsabili del processo di colonizzazione: inizialmente destinate a un migliore sfruttamento delle risorse dei paesi lontani e a risolvere i problemi di sovrappopolamento delle città di madrepatria, le colonie finirono per divenire un rifugio contro l'oppressione assira.
Cartagine - La scelta del sito dove sorgerà la futura metropoli risulta particolarmente felice. Cartagine infatti si colloca su una penisola proiettata su un golfo, con insenature e cale dove le imbarcazioni provenienti dall'Oriente potevano trovare un sicuro riparo. Inoltre, la penisola scelta dai fondatori della "città nuova" si trova sul versante meridionale dello stretto che assicura il passaggio fra i due bacini del Mediterraneo. Si tratta, quindi, di una scelta ben programmata al fine di controllare la navigazione e proteggere le aree vietate ai commerci stranieri, dall'Africa alla Sicilia, dalla Spagna alla Sardegna e alle Baleari. La penisola su cui sorse Cartagine risulta collegata al continente da un istmo largo alcuni chilometri, ben fortificato sia dalla natura sia dagli uomini: mura possenti, rilievi e lagune di difficile accesso. Attualmente si possono distinguere le colline del Gebel Nahli e del Gebel Ahmar, la Sebkha er-Riana e il Lago di Tunisi, separato dal mare da un cordone litoraneo che alcuni autori antichi definiscono come "lingua" oppure come "tenia", immagine che evoca un corridoio stretto, disteso come un rettile fra le acque del lago e il mare. Gli antichi lo conoscevano bene, poiché lo dovevano percorrere per raggiungere Tunisi. Di esso si sanno le misure: mezzo stadio di larghezza secondo Appiano, cioè appena 89 m. Il cordone litoraneo non sembra sia cambiato di molto: nel punto in cui ha origine, non lontano da Le Kram, misura circa 600 m, come testimoniato dalla presenza di resti archeologici.
Il luogo scelto per fondare Cartagine aveva pianure e colline adatte a rispondere ai bisogni quotidiani della comunità, alla sua difesa, alla realizzazione dei quartieri abitativi così come dei templi e delle necropoli; allo stesso tempo vi erano terre fertili per l'agricoltura. Comunque, se l'archeologo è in grado oggi di proporre questa ricostruzione della penisola e della baia di Le Kram fino alle pianure e alle colline di Gammarth, si deve constatare che il paesaggio è molto cambiato, soprattutto per gli immediati dintorni. Basti ricordare che l'attuale Sebkha er-Riana si presentava, secondo gli autori antichi, come una baia. In effetti, la Bagrada, l'attuale Majradah, con l'apporto continuo e consistente di detriti alluvionali deve aver modificato considerevolmente la linea di costa. Per questo motivo sono necessari studi geomorfologici e paleotopografici, al fine di ricostruire l'antico paesaggio sia per la regione di Utica e per il corso del Majradah sia per la penisola di Cartagine e dei suoi dintorni.
Per cogliere queste trasformazioni i testi antichi possono essere di aiuto, come nel caso della descrizione della penisola tratteggiata da Polibio, che conosceva bene i luoghi dal momento che aveva avuto l'opportunità di soggiornarvi fra il 149 e il 146 a.C., in occasione della terza guerra punica: "Cartagine si trova in un golfo, su una penisola aggettante, il cui perimetro è per la maggior parte fiancheggiato su un lato dal mare e sull'altro da un lago. L'istmo che la collega alla Libia è largo all'incirca 25 stadi. Sul lato dell'istmo in direzione del mare si staglia, a poca distanza, la città di Utica; sull'altro lato, verso il lago, si trova Tynes". In questo testo sono presenti le principali componenti del paesaggio. La Sebkha er-Riana non esisteva ancora, al suo posto c'era una baia ridente da dove partiva la linea settentrionale dell'istmo che, secondo lo storiografo di Scipione, "è chiusa da colline difficili da sormontare, attraverso le quali la mano dell'uomo ha realizzato dei varchi verso l'interno del Paese". Sembrerebbe che all'epoca la Majradah lambisse queste colline, che oggi sono chiame Gebel Nahli e Gebel Ahmar.
Altri vantaggi naturali devono essere tenuti in conto: l'ambiente salubre e il clima. Un problema era al contrario rappresentato dall'acqua: in assenza di una falda freatica dolce e abbondante, i nuovi arrivati potevano contare soprattutto sull'acqua piovana, che veniva raccolta in grandi cisterne le quali garantivano riserve sufficienti ai bisogni della vita quotidiana. In conclusione, il sito scelto per Cartagine sembra corrispondere perfettamente agli obiettivi dei primi coloni in rapporto alla strategia internazionale, alla concezione della presenza fenicia nel Mediterraneo occidentale, alla protezione della "città nuova" e alle sue potenzialità.
La documentazione. - Quali elementi si possiedono per conoscere le diverse parti della città di Cartagine? Gli autori classici parlano dell'argomento, ma si tratta di informazioni parziali e il più delle volte difficili da verificare. Appiano, Servio, Cornelio Nepote fanno riferimento alla collina di Byrsa, senza permettere allo storico di conoscere il preciso significato di questo celebre toponimo, che potrebbe essere interpretato come uno dei nomi della città o piuttosto come un settore fortificato. Per Strabone si tratterebbe della cittadella che si ergeva nel cuore della città, ma il dibattito resta aperto. Diodoro Siculo lascerebbe intendere l'esistenza di nuovi quartieri, di rimaneggiamenti così profondi che renderebbero necessario il ricorso all'espressione greca Neapolis, che significa "città nuova". Ecco una testimonianza importante per lo sviluppo urbanistico dell'insediamento: alla città antica si affianca un nuovo settore che sembrerebbe situato a poca distanza dal nucleo primitivo dell'abitato, che si può definire come epicentro. Appiano parla di Megara con i suoi orti e frutteti ben irrigati, grazie a canali profondi e sinuosi. Si tratta della parte coltivata all'interno del sistema difensivo di Cartagine. Ciò potrebbe forse indicare che la città comprendeva l'abitato vero e proprio e un settore coltivato con fattorie appartenenti a cittadini facoltosi.
Gli autori antichi parlano anche delle mura urbiche. Le indicazioni sullo sviluppo totale della cinta muraria differiscono da un autore all'altro, dal momento che Strabone fa riferimento a 360 stadi, che corrispondono all'incirca a 64 km, mentre Tito Livio, seguendo Polibio, indica una distanza pari a 22 o 23 miglia, cioè circa 33 o 34 km. La storiografia antica fornisce inoltre indicazioni su un canale fatto scavare da Scipione l'Emiliano fra il mare e il Lago di Tunisi, sulle abitazioni che circondavano la collina di Byrsa, sulla forma e sulla disposizione dei porti, nonché sulle strutture a essi connesse al tempo della terza guerra punica.
Altri testi fanno riferimento alla piazza pubblica, chiamata agorà oppure forum, con edifici pubblici destinati alle riunioni del senato e ad altre assemblee e commissioni politiche, amministrative o giudiziarie, con portici e con templi, come quello che Appiano attribuisce al culto di Apollo. Sulla collina della Byrsa c'era il tempio di Eshmun; abitazioni extra muros a nord-est del Lago di Tunisi e in prossimità del punto in cui ha origine il cordone litoraneo sono menzionate da Appiano. Diodoro Siculo sottolinea il fatto che le strade all'interno della città erano molto strette e delimitate da abitazioni a più piani.
Le informazioni che si possono ricavare dai testi antichi riguardano quindi le principali componenti di Cartagine, dall'impianto difensivo ai porti, dalle abitazioni ai santuari, dagli edifici pubblici alle strade. Tuttavia, a un'indagine più approfondita, risultano evidenti le gravi carenze nella documentazione, dal momento che gli autori classici appartengono generalmente a un periodo posteriore ai fatti descritti. Ad esempio Appiano, che per quanto riguarda Cartagine costituisce una delle fonti principali, visse nel II sec. d.C. La sua opera, quindi, si basa su fonti anteriori, che rimaneggiate e riassunte devono aver portato per forza di cose a errori e a false valutazioni. In generale, la documentazione che la storiografia antica può fornire risulta insufficiente e incapace di rispondere a tutte le questioni poste dalle moderne ricerche. Si deve quindi ricorrere ai dati forniti dall'archeologia e dall'epigrafia.
A partire dal XIX secolo Cartagine è stata oggetto di continue ricerche che hanno portato a risultati sorprendenti. Senza dimenticare i lavori di T. Falbe e di A. Dureau de la Malle, si deve riconoscere a Ch.-E. Beulé il merito di aver intrapreso i primi scavi regolari nel sito: era nel 1857, all'epoca in cui G. Flaubert stava raccogliendo la documentazione per la sua opera Salammbô. Più tardi un'ampia schiera di archeologi, fra i quali A. Delattre, P. Gauckler e A. Merlin continuò a scavare sia nel settore dei porti, sia nelle necropoli, sia ancora nella zona del tofet di Salammbô, il più celebre santuario della città. Nel corso degli ultimi anni le indagini hanno avuto nuovo impulso, soprattutto nel quadro della campagna di salvataggio di Cartagine sotto l'egida dell'UNESCO e in stretta collaborazione con l'Institut National d'Archéologie et d'Arts de Tunis.
Gli scavi hanno messo in luce strutture relativamente ben leggibili: santuari, quartieri residenziali, vaste necropoli, che coprono un arco di tempo molto ampio compreso fra l'VIII sec. a.C. e la distruzione della città, avvenuta nel 146 a.C. a opera delle armate di Scipione l'Emiliano. Bisogna inoltre segnalare le strutture relative ai porti e al sistema difensivo. Inoltre, per una ricostruzione della metropoli punica, l'archeologo può far riferimento a una quantità considerevole di manufatti: ceramica comune e di lusso, gioielli, amuleti, scarabei, sigilli, monete, sculture di pietra, di avorio, di legno e di osso, sarcofagi ed elementi architettonici fra i più vari.
Fondamentale risulta l'apporto dell'epigrafia, soprattutto per quel che concerne i santuari. Al riguardo, si può ricordare il celebre testo inciso su una stele a segnacolo di una tomba scoperta non lontano da Borj Gedid. L'iscrizione fa riferimento ai templi consacrati al culto delle due grandi divinità femminili del Pantheon fenicio e cartaginese: Astarte e Tanit del Libano. Un'altra iscrizione punica estratta da un muro di epoca tarda si è rivelata di grande valore documentario per l'urbanistica di Cartagine. In essa si fa riferimento a importanti lavori di risistemazione di un'area della città, realizzati fra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., con l'apertura di una nuova arteria stradale in corrispondenza della cosiddetta Porta Nuova. Dopo aver definito la natura del lavoro e la data sulla base dei sufeti eponimi e dei magistrati, l'iscrizione cita, oltre all'architetto, coloro che furono incaricati della realizzazione dell'opera. Un ulteriore dato di estremo interesse deriva dal fatto che, nonostante le lacune, è possibile cogliere il riferimento a corporazioni di artigiani specializzati.
I rinvenimenti archeologici permettono di coprire più o meno tutti i periodi di vita della città. Grazie a sondaggi realizzati in un'area ampia all'incirca 400 m2, fra la collina di Byrsa e il mare, è stato possibile mettere in luce i livelli più antichi della colonia. Oltre a un'ingente quantità di manufatti, sono state individuate anche strutture riferibili ad abitazioni private, che si datano, sulla base della ceramica greca e fenicia a esse associate, all'VIII sec. a.C. Nonostante siano molto modeste, queste strutture rappresentano una testimonianza inestimabile. Infatti, l'edilizia privata arcaica risulta poco documentata a Cartagine; al momento, oltre a quelli sopra segnalati, si hanno solo limitati resti databili al V sec. a.C., mentre è necessario attendere l'epoca delle guerre puniche per avere informazioni più dettagliate sulle case dei Cartaginesi. Migliore risulta la documentazione offerta dai templi e dalle necropoli: dall'VIII al II sec. a.C. è possibile, in certi casi, seguire l'evoluzione delle forme, della decorazione e persino delle testimonianze scritte a essi collegate.
Il nucleo primitivo di Cartagine sembra sia stato stabilito nel settore compreso fra i porti e il tofet, non lontano dall'approdo che aveva accolto i primi navigatori orientali in prossimità della baia di Le Kram. Allo stesso tempo, la difesa della comunità doveva essere garantita dal controllo della sommità della collina chiamata Byrsa, il cui termine in lingua fenicia significherebbe "luogo fortificato". Agli inizi, la nuova fondazione sembra compresa nel triangolo il cui apice è rappresentato dalla collina di Byrsa, mentre la base si dispone dalla baia di Le Kram alle colline di Dermech e Douimès. Si tratta di una superficie di circa 100 ha; in quest'area oltre alla roccaforte vi erano i porti, il quartiere industriale e quello commerciale, nonché lo spazio sacro caratterizzato soprattutto dalla presenza del santuario dedicato al culto di Baal Hammon e di Tanit.
Ecco quindi le prime tre componenti della città antica. In seguito, lo spazio destinato al seppellimento dei defunti venne individuato su altre colline, il cui suolo era particolarmente favorevole alla realizzazione di tombe ipogeiche, senza comunque escludere la stessa altura di Byrsa. Sul fianco di queste colline sono state individuate le più antiche necropoli di Cartagine. A Dermech e a Douimès vennero realizzate tombe a camera databili nel corso dell'VIII sec. a.C. Fra queste alture e l'attuale baia di Le Kram sono stati messi in luce i resti di un quartiere abitativo, di cui alcune strutture risalgono a un'epoca molto antica, come nel caso di un muro costruito con un alzato in pisé e uno zoccolo di pietra, secondo una tecnica ben documentata nel Vicino Oriente antico. In un pozzo sono stati recuperati materiali ceramici ugualmente databili all'VIII sec. a.C., mentre in relazione ad altre strutture arcaiche sono state individuate tracce di attività metallurgiche e depositi di gusci di murex frantumati sui livelli più profondi.
Questi resti permettono di comprendere le principali attività svolte a Cartagine nelle fasi iniziali di vita dell'insediamento. Accanto alla trasformazione dei metalli provenienti prevalentemente dal regno di Tartessos nell'Andalusia atlantica, un ruolo molto importante era svolto dalla colorazione dei tessuti, come testimoniato dalla grande quantità di murici frantumati da cui si ricavava la porpora. Come la lavorazione dei metalli, anche la produzione di porpora per la tintura dei vestiti fu introdotta a Cartagine dai Fenici di madrepatria. Nonostante la limitatezza degli scavi, è stato quindi possibile individuare il nucleo primitivo dell'abitato di Cartagine. Per quanto concerne la cittadella, invece, la sua collocazione sulla Byrsa resta ipotetica, dal momento che la sommità della collina fu completamente spianata dai Romani per realizzarvi nuovi edifici. Si tratta ora di stabilire se l'insieme costituito dai porti, dal tofet, dall'abitato e dalla cittadella fosse circondato da una muraglia. In assoluto, nulla vieta di pensarlo, ma nessun elemento nella documentazione disponibile lo attesta. Il mare circondava la penisola da tutti i lati, eccetto da quello dell'istmo che la congiungeva al continente. Per contrastare eventuali assalti delle genti locali i primi coloni dovevano essere in grado, se necessario, di sbarrare questo passaggio largo appena 4,5 km.
La cinta muraria. - Alla vigilia della terza guerra punica la città sembra essersi espansa su tutta la penisola divisa nei differenti settori: l'abitato, i porti, i santuari, le necropoli, ai quali bisogna aggiungere la zona verde chiamata Megara. Questa occupazione si può ricostruire sulla base dei testi antichi avvalorati da numerose testimonianze archeologiche. Si deve dunque ritenere che le mura circondassero tutta la penisola; bisognava proteggere i beni della comunità e garantire la sicurezza della città da ogni tipo di sorpresa. La presenza di questa muraglia è ampiamente attestata dagli autori classici, soprattutto da Polibio, i cui scritti sembra siano stati utilizzati da Tito Livio e da Appiano. Altri autori hanno descritto le mura di Cartagine, in particolare Strabone e Diodoro Siculo, parlando delle guerre e delle offensive condotte dai Romani, dapprima con Attilio Regolo, alla metà del III sec. a.C., successivamente con Scipione l'Emiliano.
Da molto tempo gli archeologi che indagano a Cartagine si sforzano di trovare i resti dei bastioni che cedettero solo all'assalto di Scipione l'Emiliano. R. de Roquefeuil e L. Carton ipotizzarono la presenza di queste strutture difensive nel tratto di mare fra la baia di Le Kram e Borj Gedid. In effetti, resti imponenti realizzati con grandi pietre squadrate sono ben visibili sia a pelo d'acqua sia in profondità: queste strutture, che sono ancora oggetto di discussione, devono sicuramente appartenere a edifici punici, siano essi installazioni portuali oppure mura urbiche. All'indomani della seconda guerra mondiale, il generale Duval sorvolando l'istmo poté riconoscere i resti della triplice linea difensiva che doveva proteggere il passaggio fra la città e il continente. Si tratta di una fascia di 4,1 m risparmiata nel tufo naturale, delimitata a ovest e a est da due fossati ampi rispettivamente 20 e 5,2 m per un totale di 29,4 m. Lo scopritore attribuì questi resti alla cinta esterna a cui fanno riferimento gli autori classici.
Gli scavi, condotti dai membri della missione tedesca nel quadro di una iniziativa internazionale, hanno portato all'individuazione e alla messa in luce dei resti delle fortificazioni puniche lungo la riva del mare. La realizzazione di queste strutture si pone fra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. I blocchi di fondazione, estratti nelle cave di Korbous, a Capo Bon, si caratterizzano per le dimensioni ciclopiche e per il peso che in alcuni casi può raggiungere le tredici tonnellate. Gli archeologi tedeschi hanno inoltre scoperto i resti di una muraglia cosiddetta a "casematte" e di una porta urbica in corrispondenza di un'importante arteria stradale; poiché essa era esposta alla violenza del mare, giganteschi frangiflutti sono stati installati a sua protezione.
A questi ritrovamenti si deve aggiungere una serie di blocchi lavorati e stuccati messi in luce non lontano dai porti, più precisamente in prossimità dell'imboccatura del canale che doveva collegare i due bacini artificiali al mare. Si tratta di elementi della cornice che doveva appartenere a quella parte di muraglia che correva lungo la linea di costa individuata dal colonnello Baradez e da Pierre Cintas. Queste strutture potrebbero forse essere messe in relazione con la nota iscrizione commemorativa nella quale si fa riferimento alla Porta Nuova ‒ ha Shaar ha Hodesh ‒ in lingua punica. I resti individuati e messi in luce permettono dunque di stabilire che le mura urbiche di Cartagine erano un'opera colossale e particolarmente accurata. Costruita con blocchi squadrati e stuccati a regola d'arte, la muraglia presentava un aspetto abbagliante a chi la guardava sotto l'effetto della luce del sole e dei riflessi del mare.
Le strade. - Cartagine sembra ben presto presentare la pianta a "scacchiera" con le strade che si intersecavano ortogonalmente, anche se l'orientamento doveva variare da un settore all'altro della città. Gli scavi, recentemente intrapresi nel quadro della campagna internazionale per la salvaguardia di Cartagine, mettono bene in evidenza questa divergenza: nel settore che costeggiava il mare, le vie si disponevano parallelamente alla riva e il successivo impianto di epoca augustea non si discostò affatto da questo antico orientamento punico.
Gli agrimensori romani dovettero rendersi immediatamente conto della logica di tale scelta; ma, in altri casi, l'orientamento dovette subire i vincoli della topografia del sito. Ai piedi della collina di Byrsa, gli scavi hanno messo in luce un importante quartiere abitativo, nel quale la disposizione delle strade è di tipo radiale, senza escludere l'ortogonalità delle intersezioni. Si tratta di un aspetto urbanistico presente a Cartagine sin dalla fase arcaica. Grazie a questi scavi le dimensioni delle strade possono essere meglio definite: nel settore di Byrsa, esse possono raggiungere un'ampiezza variabile dai 6,5 ai 7 m, secondo un modulo ben documentato nella maggior parte delle più importanti città del Mediterraneo, senza escludere la possibilità di lievi differenze da un quartiere all'altro. Ad esempio, nel quartiere di Magone, sulla riva del mare, mentre le strade che collegano le abitazioni hanno una larghezza di 3 m, la grande via che raggiunge la Porta a Mare, identificata dalla missione tedesca, presenta un'ampiezza di 9 m. Quest'ultima potrebbe essere la grande arteria indicata dai testi antichi, che descrivono la sfilata di un'armata punica in direzione dei porti: affinché l'esercito di Bomilcar potesse marciare in cinque colonne occorrevano strade larghe, dei veri e propri viali. Si è dunque lontani dalle stradine strette che serpeggiavano lungo casupole assiepate per terminare in vicoli ciechi.
I dati archeologici sconfessano questa visione fantasiosa di una certa storiografia contemporanea: Cartagine aveva un'organizzazione urbanistica fondata su principi chiari che si adattavano ai vincoli imposti dalla topografia del luogo. Ciò ha determinato ovviamente differenze fra quartiere e quartiere in riferimento all'orientamento, all'ampiezza e all'andamento generale delle strade: il quartiere di Byrsa offre un esempio calzante. Qui le strade sono attrezzate con rampe di scale ancora ben visibili, che permettono di annullare il forte dislivello che sull'asse nord-ovest/sud-est raggiunge i 15°. Si tratta comunque di strade non carrabili, per cui la presenza di scalinate non doveva costituire un impedimento né per i pedoni né per gli animali da soma che venivano utilizzati per i trasporti quotidiani.
I porti. - La storiografia antica fornisce un'ampia serie di informazioni sulle installazioni portuali di Cartagine. A Polibio si deve la migliore descrizione dei porti cartaginesi nel periodo corrispondente alla terza guerra punica (149-146 a.C.). Altre preziose informazioni sono presenti negli scritti di Strabone e di Diodoro Siculo. Infine, cantando le gesta di Enea, Virgilio non manca di soffermarsi su questi impianti. Da tali descrizioni apprendiamo che i porti erano due bacini artificiali sulla terraferma e quindi ben riparati dalla risacca del mare e dalla violenza dei venti. Per designare questi bacini artificiali gli autori antichi hanno utilizzato il termine cothon, facendo probabilmente riferimento al nome usato dagli stessi Cartaginesi. I semitisti mettono in relazione questo sostantivo alla radice QT, attestata anche nella lingua araba, il cui significato è "tagliare".
Si tratta di due bacini di forma e di dimensioni differenti: uno per le imbarcazioni commerciali, raggiungibile direttamente dal mare, l'altro, militare, di forma circolare con al centro un isolotto dove era stato realizzato un padiglione per l'ammiraglio e le strutture di comando. Due lagune ancora visibili a lato della baia di Le Kram, sono state identificate da molto tempo con i porti punici. I recenti scavi hanno fornito nuovi elementi che confermano l'identificazione proposta: bacini di carenaggio e resti di una costruzione ovoide situata al centro dell'isola, detta dell'Ammiragliato. Si deve comunque osservare che i sondaggi effettuati non hanno messo in luce strutture antecedenti al IV sec. a.C.
Gli edifici civili. - Gli scavi di Cartagine non hanno ancora portato al rinvenimento degli edifici pubblici segnalati dagli autori antichi, come, ad esempio, l'agorà, che doveva sicuramente esistere, chiamarsi Maqom e svolgere un ruolo importante nella vita sociopolitica della comunità cartaginese.
Le abitazioni. - Due grandi quartieri residenziali sono stati individuati e scavati: l'uno sul fianco sud-orientale della collina di Byrsa, l'altro sulla riva del mare, detto "quartiere di Magone". I lavori, effettuati nel corso degli ultimi anni, hanno messo in luce numerose abitazioni con strade che si intersecano ortogonalmente, anche se in al-
cune situazioni la presenza di forti dislivelli ha portato all'utilizzo di scalinate. Queste abitazioni, che formano un quartiere di molti isolati, si affacciano sulla via pubblica con porte munite di soglie a strapiombo, al fine di evitare l'inquinamento esterno. Superata la soglia, si accedeva a un vestibolo lungo e stretto, che aveva piuttosto la forma di un corridoio. Una di queste case è accessibile attraverso un corridoio, lungo 6 e largo 0,9 m, disposto perpendicolarmente alla corte, la cui vista sfugge in questo modo alla curiosità dei passanti. Gli scavi hanno permesso di constatare, d'altra parte, che se l'entrata esterna era chiusa da una porta, anche il passaggio dal vestibolo alla corte era scandito da claustra di legno che garantivano l'intimità della famiglia. I pavimenti erano realizzati con estrema cura: si tratta del cosiddetto "mosaico punico", il pavimentum Punicum citato dagli autori romani, composto di agglomerati di malta con amalgamate schegge di marmo, pietre colorate e frammenti di ceramica. La corte presenta generalmente una forma quadrangolare. Fonte d'aria e di luce, dalla corte si accedeva ai vari ambienti, dalle stanze di rappresentanza a quelle private dei padroni di casa, dai magazzini alle cucine, ai bagni. In alcuni casi è stato possibile individuare le scale che permettevano di raggiungere il piano superiore e le terrazze.
Per tutte queste abitazioni puniche esisteva il problema sia dell'approvvigionamento sia del reflusso dell'acqua. Il suolo di Cartagine non dispone di riserve abbondanti. Le sorgenti erano rare e poco generose, malgrado la celebre "fontana dalle mille anfore", che si trovava ai piedi della collina di S. Monica, in prossimità del mare. Furono quindi realizzati numerosi pozzi per raggiungere la falda freatica: gli archeologi che hanno operato a Cartagine ne hanno individuati alcuni. Ad esempio, l'abitazione scavata da J. Renault agli inizi del Novecento ne aveva uno; inoltre, S. Reinach e E. Babelon nell'aprire una trincea di scavo in località Feddan el-Behim si imbatterono fra l'altro in pozzi e cisterne di epoca punica.
Le ricche abitazioni del quartiere di Magone erano fornite di pozzi che raggiungevano la falda freatica. Esisteva una tecnica per la realizzazione di questi pozzi, le cui pareti, una volta scavata la roccia sino a raggiungere la falda freatica, erano generalmente rivestite di piccole pietre oppure di lastre ben tagliate, come nel caso dei pozzi rinvenuti ai limiti del muro di cinta del Museo di Cartagine; si è potuto constatare che per ogni assise sono state utilizzate quattro lastre lavorate in modo da essere perfettamente allineate.
Per far fronte alla carenza d'acqua della falda freatica, che bisognava ricercare talvolta molto in profondità e con un dispendio di energie particolarmente elevato, i Cartaginesi ricorrevano all'utilizzo di cisterne impermeabilizzate con malta idraulica composta di calce, sabbia, cocci e cenere. Queste cisterne presentano generalmente forma allungata con i lati corti curvilinei e sono dette "a bagnarola"; un sistema di derivazione assicurava l'incanalamento delle acque verso questi serbatoi, installati sia nella corte sia sotto il pavimento degli ambienti che componevano l'abitazione. In una delle case scavate nel quartiere di Byrsa la cisterna risulta collocata sotto il pavimento dell'ambiente principale, mentre la vera del pozzo, scavata in un calcare di colore grigio, è visibile nella corte. Numerose cisterne a bagnarola sono state individuate e scavate a Cartagine nel quartiere di Byrsa, così come nel quartiere di Magone. Nel corso degli scavi condotti nell'abitazione punica di via Astarte, sul fianco sud-orientale della collina di Byrsa, sono state messe in luce due cisterne comunicanti, che
presentano la caratteristica forma allungata con i lati corti curvilinei e una copertura con lastre alloggiate in modo da formare un tetto a doppio spiovente. Nell'esplorare il sito di Cartagine, S. Reinach e E. Babelon identificarono numerose cisterne puniche di cui una, lunga 5,5, larga 3 e profonda 8,5 m, presentava una copertura con lastre a doppio spiovente e le pareti rivestite di malta idraulica. Infine, A.-L. Delattre affermava di aver individuato alcune cisterne puniche fra la collina di Byrsa e il mare.
Ma l'acqua che si cercava faticosamente di recuperare e di conservare per rispondere ai bisogni quotidiani della popolazione di Cartagine doveva, una volta utilizzata, essere smaltita. Per il reflusso delle acque sporche e di quelle piovane non raccolte i Punici, a Cartagine e altrove, erano riusciti a realizzare un sistema particolarmente elaborato ed efficiente: in caso di pioggia i doccioni e i gocciolatoi facevano defluire l'acqua dalle terrazze, evitando che infiltrazioni e umidità penetrassero nei muri delle case. Lo scavo di una delle abitazioni arroccata sui fianchi scoscesi della collina di Byrsa ha permesso di notare la presenza di una conduttura a parete che doveva raccogliere le acque del tetto per evacuarle. L'assenza di una cisterna autorizza a considerare questo tubo di terracotta che discende lungo il muro come parte di una grondaia.
J. Ferron e M. Pinard hanno messo in luce un sistema di derivazione delle acque composto da un tubo discendente di piombo raccordato a una conduttura di terracotta all'altezza del suolo. Secondo gli scopritori, questa conduttura incanalava le acque piovane del tetto in una cisterna. A ciò si deve aggiungere la scoperta di un filtro che serviva a raccogliere tutti i residui che potevano ostruire le condutture. L'utilizzo del piombo per i tubi e per i filtri è documentato anche a Kerkouane in una casa del III sec. a.C. In questo insediamento presso Capo Bon è stato messo in luce un grande filtro in piombo raccordato con una conduttura sotterranea, che partendo da un ambiente coperto incanalava le acque sporche verso l'esterno dell'abitazione attraversando lo spessore del muro. A Kerkouane sono stati recuperati un gran numero di grondaie, di gocciolatoi e di doccioni, di cui uno monumentale aveva la forma di un bucranio. Al riguardo, si deve segnalare il recupero a Cartagine di un doccione di grandi dimensioni a testa di leone attualmente visibile al Museo del Bardo. Nonostante il doccione sia stato rinvenuto fuori contesto, chi scrive ritiene che debba attribuirsi a epoca punica, mentre altri studiosi preferiscono datarlo al I sec. a.C.
Oltre alle acque piovane, le case puniche dovevano smaltire anche quelle utilizzate per uso domestico. Gli scavi condotti nel quartiere di Byrsa hanno permesso di accertare che spesso una conduttura in forma di canaletta aerea o coperta, corre all'altezza del pavimento lungo le pareti del corridoio o vestibolo, passa sotto la soglia e raggiunge un pozzo di scarico situato nella strada, non lontano dall'abitazione. I dati esposti permettono dunque una migliore conoscenza di alcuni quartieri residenziali della città nel periodo compreso fra la prima parte del III e la metà del II sec. a.C. Non solo è possibile sapere dove si trovavano le abitazioni, ma degli edifici si conoscono anche altri elementi relativi alla struttura, ai materiali impiegati, alla tecnica edilizia e al tipo di decorazioni architettoniche, che dovevano essere molto ricche.
I santuari. - In una città dell'antichità i santuari rappresentano una delle principali componenti del tessuto urbano. Per Cartagine gli autori classici fanno riferimento a templi e santuari consacrati al culto di divinità puniche. Si tratta spesso di informazioni brevi, ma in alcuni casi si possono ricavare importanti elementi per la conoscenza della struttura, della decorazione, delle particolarità architettoniche e cultuali e delle circostanze che furono all'origine della costruzione e della scelta del luogo.
A fianco della documentazione storica si ha un'altra fonte di informazione, la cui credibilità non può essere messa in dubbio: l'epigrafia. Iscrizioni puniche scoperte a Cartagine fanno riferimento a templi costruiti o a luoghi sacri, come, ad esempio, le grotte. Numerose stele votive che presentano dediche alle principali divinità di Cartagine, Tanit e Baal Hammon, provengono da un santuario a loro consacrato dagli stessi abitanti della città. Altre iscrizioni puniche fanno intendere, direttamente o in maniera implicita, la presenza di templi. Una di esse, scoperta non lontano da Borj Gedid menziona un edificio consacrato alle divinità Tanit e Astarte, il cui culto fu diffuso dai Cartaginesi in tutto il mondo punico, dall'Africa Settentrionale, alla Sicilia e alla Sardegna, dalle Baleari, in particolare a Ibiza, alla Spagna.
Il culto di Astarte è attestato grazie a un'iscrizione a Madidi, nei dintorni di Mactar. Altri testi punici permettono di dedurre l'esistenza a Cartagine di templi consacrati al culto di Milqashtart, Hoter-Miskar, Sid-Tanit, Saphon, Baal Addir, ecc. Di tali templi però si conoscono solo le divinità titolari, dal momento che queste testimonianze epigrafiche non forniscono alcuna indicazione sulla loro struttura e collocazione. In effetti, il più delle volte si tratta di iscrizioni fatte redigere da persone che, in occasione di un sacrificio indirizzato alla dea Tanit e al Signore Baal Hammon, declinano la loro identità e si definiscono "servitori del tempio dedicato a quelle divinità". Solo una tariffa dei sacrifici, che i Cartaginesi potevano consultare sulla facciata del tempio dedicato a Saphon, fornisce qualche indicazione sulle imposte che i fedeli dovevano pagare ai sacerdoti addetti ai sacrifici.
Oltre a questa ricca documentazione di tipo storiografico ed epigrafico vi sono gli apporti forniti dall'archeologia. Resti di edifici sacri sono stati individuati e messi in luce in alcuni settori della città. Si tratta di testimonianze che chiariscono il significato dei testi antichi e contribuiscono a una migliore comprensione della distribuzione degli spazi sacri all'interno del tessuto urbano.
Il santuario detto tofet di Salammbô. - Si tratta di uno spazio sacro dove i Cartaginesi offrivano sacrifici ed erigevano stele commemorative. La scoperta del santuario avvenne in modo fortuito nel 1921, nel corso di uno scavo clandestino. Le indagini portarono subito all'individuazione del recinto sacro del più grande santuario cittadino, i cui resti sono ancora visibili non lontano dai porti punici, molto verosimilmente nel luogo dove sbarcarono i fondatori della colonia.
Incoraggiati dai primi risultati e soprattutto dal rinvenimento della stele detta "del sacerdote con bambino", attualmente visibile al Museo del Bardo, molti archeologi decisero di intraprendere i primi scavi. Nel 1923 L. Poinssot e R. Lantier presentarono un rapporto sui lavori condotti e sul valore dei monumenti messi in luce. Due anni dopo si procedette all'apertura di un nuovo cantiere finanziato da una missione americana e diretto da F.W. Kelsey e da J.-B. Chabot. Poco più tardi G.-G. Lapeyre diresse la terza campagna di scavi al tofet, dopo che ebbe ottenuto il permesso di esplorare un terreno che all'epoca apparteneva a L. Carton. L'Académie des Inscriptions et Belles Lettres pubblicò le comunicazioni preparate dai primi archeologi, nelle quali si faceva soprattutto riferimento all'importante documentazione epigrafica e iconografica presente sulle stele.
All'indomani della seconda guerra mondiale P. Cintas poté esplorare, a sua volta, un terreno che apparteneva alla famiglia Hervé. Ancora più recentemente, nel quadro della campagna internazionale per la salvaguardia di Cartagine, un'équipe dell'American Schools of Oriental Research ha indagato il tofet di Salammbô. Alla luce di questi differenti scavi il tofet di Salammbô appare come un santuario di tipo cananeo. Da un punto di vista morfologico si presenta come un'area sacra a cielo aperto, dove venivano erette stele, altari e molto probabilmente anche edifici cultuali, a giudicare dalla presenza di importanti elementi architettonici messi in luce durante gli scavi, come nel caso di un frammento di cornice a gola egizia, che potrebbe appartenere a una struttura di questo tipo, ma anche a un'entrata monumentale del santuario stesso.
Gli scavi hanno inoltre portato al recupero di numerosi reperti, quali amuleti, gioielli, maschere funerarie, statuette di terracotta, urne e stele. È stato possibile classificare le stele e le urne basandosi su vari elementi: dalla tipologia alle dimensioni, dalla decorazione alle iscrizioni. Lo scavo del tofet infatti si è rivelato particolarmente difficoltoso, dal momento che i materiali risultavano ammassati e sconvolti in antico. Agli abitanti di Cartagine l'area sacra di Salammbô doveva presentarsi come un terreno cosparso di collinette artificiali sulle quali si ammassavano urne e stele. Ai tempi dei Romani il tofet fu completamente sconvolto: il terreno venne infatti spianato in modo da ospitare nuovi edifici, come il santuario dedicato a Saturno e i magazzini per lo stoccaggio delle merci, oppure altre costruzioni i cui resti sono ancora visibili sul luogo. Le stele con la loro documentazione di tipo iconografico ed epigrafico si sono rivelate particolarmente importanti per la conoscenza del mondo punico. Senza voler esaminare in questa sede l'ingente massa della documentazione, si ritiene utile segnalare i limiti cronologici del complesso, le cui fasi più antiche si fanno risalire alla metà dell'VIII sec. a.C. Le deposizioni più recenti si collocano invece intorno alla metà del II sec. a.C., data che corrisponde alla distruzione di Cartagine.
Lo scavo del tofet di Salammbô ha permesso di recuperare una componente importante del tessuto urbano. Si tratta di un luogo frequentato da tutta la comunità, dal semplice cittadino ai sufeti e ai più alti magistrati. L'accesso a questo spazio non era vietato agli stranieri e il tofet era anche frequentato dagli schiavi, come testimoniato dalle iscrizioni. In un primo momento il tofet di Salammbô fu interpretato come un santuario dove i bambini venivano incinerati e immolati ritualmente alla coppia divina Baal Hammon e Tanit. A conferma di tale interpretazione si citavano le migliaia di stele votive le cui iscrizioni indicavano sia i destinatari della dedica sia il voto dei loro autori. La famosa stele "del sacerdote con bambino" è stata considerata come un'immagine eloquente della cerimonia sacrificale: il sacerdote avrebbe preso fra le sue braccia il bambino destinato al sacrificio.
Riesaminando la documentazione, alcuni studiosi hanno proposto di considerare il tofet come un semplice cimitero destinato ai bambini nati morti o morti poco dopo la nascita, ai quali veniva praticato il rituale dell'incinerazione. Tale interpretazione si scontra con le migliaia di iscrizioni incise sulle stele, che sono tutte di tipo votivo e nelle quali si invocano divinità a cui si fanno offerte e a cui si indirizzano voti in attesa della loro benedizione. In tutti questi documenti epigrafici non c'è alcun riferimento alla morte. Il tofet di Salammbô, allo stesso modo degli altri tofet del mondo punico, non è una necropoli, bensì un santuario. L'iscrizione CIS, I, 3778 non ammette dubbi, dal momento che in essa si fa esplicito riferimento al santuario di Baal Hammon.
Bisogna tuttavia spiegare il motivo della presenza di ossa calcinate all'interno delle urne seppellite nell'area sacra del tofet. Al riguardo, sono state proposte varie ipotesi, fra le quali si impongono all'attenzione quelle di S. Ribichini e del compianto S. Moscati. Chi scrive, tenendo conto di tutti i dati a disposizione, propone la seguente interpretazione. Una lettura attenta delle iscrizioni del tofet invita a considerare questo spazio come un santuario aperto a tutte le classi sociali. Anche gli stranieri vi potevano accedere. La presenza di Greci è stata segnalata a Cartagine e soprattutto a Costantina, dove talvolta i teonimi sono trascritti in lettere greche. Questi stranieri che si recavano al tofet non avevano certo l'intenzione di offrire a Baal Hammon un loro figlio. Questa non era nemmeno l'intenzione di coloro che venivano da altre parti del mondo punico, come nel caso di Arishat figlia di Ozmilk, una donna dell'alta società di Erice, in Sicilia. Nell'iscrizione si qualifica infatti come Baalat Eryk, espressione che si può tradurre con cittadina o notabile di Erice. Essendo di passaggio nella metropoli punica, questa nobildonna dovette sentire il bisogno o il desiderio di rendere omaggio a Baal Hammon con un atto sacrificale, forse accompagnato da un voto o da una richiesta. Quindi, questo spazio sacro si presenta essenzialmente come un santuario dove la gente veniva a fare voti e a indirizzare richieste, secondo il motto latino do ut des. Il voto era quindi accompagnato o seguito da un sacrificio. I testi forniscono molteplici informazioni sul linguaggio liturgico, la formulazione della dedica e della preghiera. Certe espressioni rimangono comunque enigmatiche. La presenza di ossa di bambini nelle urne del tofet è certa, ma non si ha il minimo indizio né iconografico né epigrafico che permetta di mettere in rapporto questi resti con un sacrificio. Al contrario, il sacrificio di animali è ben documentato: su una stele è inciso un altare sul quale si può vedere la testa della vittima animale. Le ossa incinerate di bambini molto piccoli o di feti presenti nelle urne richiedono comunque una spiegazione. Se non si tratta di una necropoli, come è possibile giustificare la loro presenza in un santuario? Si può tentare di rispondere a tale quesito facendo ricorso all'antropologia culturale. Questo tipo di approccio sembrerebbe legittimo, nella misura in cui in differenti religioni i bambini morti in tenera età ‒ e a maggior ragione ‒ i feti, non sembrano appartenere alla comunità degli adulti. Tale differenziazione si coglie sia nel tipo di tomba, sia nel rituale funebre e nel luogo scelto per la sepoltura.
S. Moscati ha ricordato che in certe necropoli greche i bambini venivano incinerati in aree ben distinte da quelle consacrate alle sepolture degli adulti. Questo fenomeno è stato constatato da chi scrive anche per le necropoli islamiche, dove esistono settori esclusivamente riservati alle tombe dei bambini. S. Gsell ha attirato l'attenzione sulla specificità delle pratiche relative alla sepoltura dei bambini presso i Greci e i Romani, dal momento che queste piccole creature erano destinate a una rinascita. Al giorno d'oggi, in Giappone, i bambini morti in tenera età si chiamano Gizu e i loro corpi sono deposti in settori riservati all'interno dell'area sacra del tempio. Ciò indica che per i buddhisti e gli scintoisti i bambini morti precocemente godono di uno statuto particolare. Lo stesso è possibile affermare per il mondo punico. In effetti, il fatto che i bambini morti in tenera età e i feti fossero incinerati e sepolti all'interno dello spazio sacro riservato al culto di Baal Hammon e di Tanit autorizza a pensare che per i Punici queste piccole creature non fossero morte bensì richiamate da Baal presso di sé, per qualche misterioso motivo. Sottomessi alla volontà divina, i genitori avrebbero restituito il bambino a Baal secondo un rituale che prevedeva, fra le altre cose, l'incinerazione. Essi avrebbero approfittato dell'occasione per rivolgere alla coppia divina una richiesta, al fine di poter ricevere un altro figlio al posto di quello che gli era stato rapito. Di tale procedura, però, si ignora tutto; non ci sono quindi vere offerte di bambini alla divinità. In questo caso sarebbe preferibile parlare della restituzione di un bambino già morto di morte naturale, che si tratti di un bambino in tenera età, oppure di un feto.
Si può dunque affermare che: il santuario detto tofet è uno spazio il cui signore incontrastato è Baal Hammon. Esso è aperto a tutti coloro che hanno una richiesta da indirizzare alla divinità. I fedeli vi si recano anche per compiere un sacrificio al fine di ottenere una grazia, oppure per espiare una colpa; non si tratta di un santuario destinato in particolare al sacrificio di bambini; i genitori che si recano al tofet per consegnare a Baal il loro figlio (un bambino morto in tenera età o un feto) colgono l'occasione per indirizzare una richiesta alla divinità: essi sollecitano un nuovo figlio al posto di quello che è stato restituito. Il loro compito si traduce quindi in una doppia azione: la restituzione del figlio reclamato dalla divinità e una richiesta accompagnata da un sacrificio. In conclusione, i Cartaginesi non sacrificavano affatto la loro progenie a Baal Hammon: i bambini morti in tenera età e i feti erano infatti chiamati a raggiungere la divinità, che poteva compensare i genitori di tale perdita ascoltando le loro preghiere e accordando loro un altro figlio capace di renderli felici. La mortalità infantile provocava all'epoca perdite così gravi che sarebbe stato un atto suicida da parte dei Cartaginesi offrire i loro figli in sacrificio.
Le necropoli. - Le prime importanti scoperte archeologiche avvenute a Cartagine nel corso del XIX secolo si riferiscono all'individuazione delle necropoli. Nonostante le profanazioni che le vestigia puniche avevano subito da tempo immemorabile, ampi settori della città dei morti furono risparmiati dalle devastazioni denunciate agli inizi del III sec. d.C. da Tertulliano. Mentre assisteva ai lavori per la costruzione dell'odeon, il focoso apologeta della religione di Cristo fu testimone della distruzione delle tombe cartaginesi. Ecco la sua testimonianza: "Recentemente, in questa città, per realizzare le fondamenta dell'odeon, sono state violate molte delle antiche sepolture e la gente ha potuto vedere con orrore i resti degli scheletri, che deposti all'incirca 500 anni fa non si erano ancora completamente seccati, e dei capelli che avevano conservato il loro odore".
Nel 1862 M. Gouvet scoprì alcune tombe puniche nel settore di Dermech, cioè a qualche centinaio di metri dalle terme di Antonino, non lontano dall'incrocio formato attualmente dall'Avenue du Président Bourguiba e dall'Avenue des Thermes. Ma è a partire dal 1897 che Padre Delattre e P. Gauckler poterono scavare numerose tombe puniche a camera, localizzate in diversi settori della città e disposte su un arco di tempo molto ampio. La mancanza di un'appropriata documentazione non permette di sapere quante sepolture furono indagate, ma dovevano essere sicuramente più di 3000, forse 3500. A queste si devono aggiungere quelle che furono distrutte in modo sistematico dai costruttori della Cartagine romana, a partire dall'epoca di Augusto, tutte le sepolture scavate dai clandestini e infine tutte quelle che sono ancora sotto terra, sia nella zona urbanizzata sia in quella non edificabile, secondo un decreto della Repubblica Tunisina del mese di ottobre del 1985. Si tratta quindi di migliaia di tombe, che si riferiscono a un arco di tempo di circa sei secoli e mezzo.
Le zone occupate dalle sepolture cartaginesi arcaiche formano un arco che si estende lungo i fianchi delle colline di Byrsa, Giunone, Dermech e Douimès, fino a raggiungere la costa. In questo settore sono state individuate le tombe più antiche, che vanno dall'VIII al V sec. a.C. Con lo sviluppo del tessuto urbano, sempre più denso ed esteso, e con l'esplosione demografica e le esigenze della vita economica e sociale, i Cartaginesi per seppellire i loro morti dovettero ricorrere a soluzioni diverse: in primo luogo, riutilizzare le tombe antiche, come più volte sottolineato dagli archeologi. Oltre a questo espediente, a partire dal IV sec. a.C., vennero destinati nuovi spazi per le sepolture. Furono quindi interessate le colline dette del Teatro, dell'Odeon e di Santa Monica. La necropoli si estese inoltre verso Ard el-Morali e Bou-Mnigel, due terreni attualmente attraversati dalla linea ferroviaria del Tunis-Goulette-Marsa. Infine, in prossimità della costa, le tombe degli ultimi secoli di vita della metropoli punica occuparono Ard el-Kheraib.
A questi due settori funerari della città corrispondono due grandi periodi cronologici: il periodo arcaico, dall'VIII al V sec. a.C., e il periodo classico, dalla fine del V sec. a.C. alla caduta di Cartagine, nel 146 a.C. Per gli ultimi secoli di vita della metropoli si deve segnalare la presenza di tombe da una parte e dall'altra della penisola. In effetti, fra il Lago di Tunisi e la cinta muraria di Cartagine sono state individuate e scavate alcune sepolture. Inoltre, Delattre scoprì fra la Marsa e Sidi Bou Said tombe databili fra il IV e il III sec. a.C. A tali rinvenimenti si devono aggiungere le tombe all'interno di proprietà private, soprattutto nella campagna. Tuttavia, se le necropoli puniche di Cartagine sono state nel loro insieme esplorate, resta ancora molto da fare per uno studio sistematico delle strutture e del loro contenuto, dal momento che i rapporti di scavo sono spesso lacunosi e si interessano solo marginalmente dell'architettura delle tombe, della loro morfologia e delle loro principali componenti.
Si deve inoltre tenere presente che, in alcuni casi, le aree funerarie furono utilizzate dai vivi per altri scopi. Il fenomeno è stato evidenziato dagli scavi condotti sulla collina di Byrsa, dove intorno al IV sec. a.C. officine metallurgiche furono installate in corrispondenza di tombe del VII sec. a.C. Un fenomeno simile ebbe luogo a Dermech dove P. Gauckler individuò le botteghe dei ceramisti, affermando che i laboratori punici sono di epoca relativamente recente, dal momento che sono state trovate sotto molti di essi tombe cartaginesi particolarmente antiche, dell'VIII e del VII sec. a.C., caratterizzate da un corredo funerario originale e ricco: vasi arcaici di fabbricazione locale o di importazione protocorinzia, statuette di Astarte sedute o stanti, gioielli d'oro massiccio, maschere funerarie, figurine e scarabei egittizzanti e un pettine di avorio lavorato su tutte e due i lati, da una parte con l'immagine di un sovrano di tipo assiro su un carro tirato da due cavalli, dall'altra con una palmetta di tipo fenicio fra due geni di forma umana con le grandi ali ricurve".
Stando così le cose, il quadro delle conoscenze sulle necropoli di Cartagine risulta, in una certa misura, incompleto. Bisognerà quindi attendere nuovi scavi e nuove scoperte nei magazzini del Museo di Tunisi e in quelle sedi straniere dove il materiale rinvenuto nella metropoli nordafricana è custodito. Nel corso di questi ultimi anni e nel quadro della campagna internazionale di salvataggio di Cartagine, numerose tombe puniche del periodo arcaico o degli ultimi anni di vita della città sono state scavate in condizioni eccellenti, sia da archeologi tunisini sia da missioni straniere. Sulla collina di Byrsa, ad esempio, sono state messe in luce numerose sepolture con ricchi corredi di VII e di VI sec. a.C. composti da ceramica locale e greca, gioielli, amuleti, oggetti d'osso e d'avorio, ecc. Si deve quindi riconoscere che sulle necropoli di Cartagine si possiedono già molte informazioni in rapporto alla morfologia delle tombe, alla loro architettura, al corredo e alle pratiche funerarie.
Le sepolture cartaginesi si dividono in due grandi categorie: quelle a fossa semplice o costruita e quelle a camera. Queste ultime sono composte da un lungo pozzo verticale di forma quadrangolare, la cui profondità varia a seconda delle circostanze sino a raggiungere i 30 m, e da una camera funeraria, che si sviluppa perpendicolarmente alle pareti del pozzo. L'accesso a questo ambiente era possibile grazie a scalini a forma di mezzaluna, disposti in modo alternato e a intervalli regolari, ricavati direttamente lungo le pareti del pozzo, oppure sulle lastre che le ricoprivano. Tale procedimento è stato riconosciuto anche in pozzi di Cartagine e di Kerkouane. Gli scavatori di pozzi lo hanno realizzato affinché si potesse raggiungerne facilmente il fondo del pozzo quando era necessario effettuare recuperi o lavori di pulitura.
Per quel che concerne le camere sepolcrali, quando si trattava di una tomba collettiva venivano scavati nello spessore delle pareti dei loculi disposti in modo sovrapposto, oppure l'uno di fronte all'altro; esistono al riguardo numerose soluzioni. L'architettura di certe tombe a camera testimonia un'attenzione particolare da parte dell'artigiano incaricato della realizzazione della struttura, che risulta talvolta arricchita da una decorazione parietale. Padre Delattre, ad esempio, in una tomba della necropoli di S. Monica ha rilevato la presenza di una cornice scolpita che sormontava l'entrata della camera sepolcrale. Questo elemento architettonico è talvolta documentato anche all'interno della stessa camera funeraria, le cui pareti erano rivestite di lastre in arenaria ben squadrate. Gli archeologi che nel corso delle loro indagini hanno avuto la possibilità di mettere in luce tombe di questo tipo non hanno mancato di sottolineare la solidità delle strutture e la buona tecnica costruttiva. Nel descrivere una delle camere funerarie che aveva aperto e scavato, Delattre esprimeva tutta la sua ammirazione per la qualità dei rivestimenti delle pareti, che erano ricoperte da uno stucco molto fine e duro che aveva il colore bianco scintillante e l'aspetto cristallino della neve.
All'interno delle camere funerarie erano inoltre presenti nicchie, banchine, vasche e sarcofagi, tutti elementi che meriterebbero un'attenzione particolare. Nelle ricche tombe della necropoli di S. Monica è stata recuperata una serie di sarcofagi e di ossuari di marmo. Gli scavi hanno inoltre evidenziato la presenza di sarcofagi di legno, dei quali purtroppo sono rimaste solo le tracce sul terreno, oltre ai chiodi, alle coppiglie e ai rinforzi angolari di ferro, di rame e di piombo che servivano per assemblare le varie parti dei feretri. I corredi funerari erano generalmente composti da ceramica locale e importata, da gioielli d'oro, d'argento e di pietre preziose o semipreziose, da amuleti e da una gamma molto vasta di oggetti di pasta vitrea, di avorio e di metallo.
Gammarth o Megara - Gammarth si situa a nord della penisola di Cartagine, compresa fra l'Ariana a ovest, il mare sia a nord sia a est, e infine le alture del Gebel Khaoui a sud. Al giorno d'oggi si presenta come una ricca periferia di Tunisi che prolunga la Marsa. Del periodo romano si possono citare a titolo di esempio il santuario rurale, in cui sono state messe in luce alcune statue cultuali, la celebre necropoli ebraica scoperta da Delattre e molti mosaici. All'epoca cartaginese risalgono i resti di abitazioni a carattere rurale: si tratta di ville lussuose che si caratterizzano per la ricchezza di stucchi e modanature e per i pavimenti mosaicati di opus signinum. Nel corso dell'inverno del 1968, uno scavo di salvataggio ha permesso il recupero di una di queste abitazioni puniche nella spiaggia della Baia delle Scimmie, dove una società turistica voleva costruire un complesso alberghiero. Nel togliere lo spesso accumulo di sabbia portato dal vento, la pala meccanica si imbatté nei resti della casa: un pavimento di calcestruzzo, spigoli di muri, una cisterna, un forno e numerosi manufatti, soprattutto vasi di ceramica comune, ceramica a vernice nera, monete, ecc. La villa venne abbandonata senza dubbio con l'occupazione di Cartagine da parte dei Romani, nel 146 a.C. P. Cintas individuò nell'area una statua punica a carattere funerario, ma sembra che non fosse in situ. Le ricerche intraprese in relazione a tale scoperta non hanno rivelato alcuna traccia di necropoli.
L'edificio di Gammarth. - Nel mese di agosto del 1967 alcuni lavori edili misero in luce resti appartenenti a un edificio di epoca punica. Avvertito della scoperta, il Centre de la Recherche Archéologique et Historique costituì un'équipe con il compito di continuare lo scavo dell'edificio e di controllare i lavori del cantiere. L'insieme dell'edificio sembra abbia coperto una superficie di circa 200 m2, che gli scavi non sono riusciti a mettere in luce completamente. L'ala sud della struttura si trovava in parte sotto una carreggiata, mentre per il settore che si estende a nord del corridoio d'entrata il terreno sembra sia stato sconvolto e pesantemente rimaneggiato, in modo che nuovi sondaggi risultano necessari al fine di stabilire i limiti esatti dell'edificio e delle strutture annesse.
Per la costruzione di questo edificio il proprietario dovette ricorrere a materiali diversi: pietrame minuto, pietre da taglio, elementi vegetali e terra. I muri presentano uno zoccolo relativamente solido realizzato con pietrame e un alzato di terra e paglia secondo la tecnica del pisé. La pietra da taglio è utilizzata per i gradini, per la vera e per i rivestimenti delle pareti dei pozzi e verosimilmente anche per i pilastri e le colonne, di cui rimangono solamente due capitelli. Per i rivestimenti dei muri si è provveduto con un intonaco fatto di sabbia, calce e ceramica ridotta in frammenti minuti. Con la malta idraulica risultano ricoperte le pareti delle cisterne e delle vasche, mentre i pavimenti erano realizzati in opus signinum; il legno era utilizzato per le porte e le travature dei tetti. Tutti questi materiali per la costruzione di edifici sono attestati anche in altri siti punici, in particolare, per quel che concerne la Tunisia, a Cartagine e a Kerkouane.
La pianta dell'edificio prevedeva un ampio andito perpendicolare a un corridoio che costituiva la cerniera dell'edificio. Il passaggio dall'andito al corridoio era scandito da una soglia preceduta da un gradino che permetteva di superare il dislivello esistente fra le due parti dell'edificio. Due ali sono chiaramente distinguibili da una parte e dall'altra del corridoio: l'ala occidentale comprende un bagno costruito su un basamento a cui si accedeva grazie a due scalini, di cui il primo installato sul corridoio; il secondo gradino conduceva a uno stretto corridoio che immetteva al bagno provvisto di una doppia banchina disposta a squadra e di due vasche. La vera del pozzo è visibile al di sopra del basamento, che serviva da supporto anche a un sistema di adduzione dell'acqua, purtroppo di difficile lettura: le parti conservate non permettono infatti di comprenderne l'articolazione. A fianco di questo grande bagno, sul lato meridionale, ma a un livello inferiore, sono visibili tre ambienti in successione, di cui l'ultimo in gran parte scomparso sotto la strada. Nonostante l'ala orientale si trovi in pessimo stato di conservazione è possibile riconoscere un ambiente dove giace un contrappeso; dietro questa stanza si trovano tre vasche di forma circolare e un dolium, con il fondo interrato. Per la sistemazione di questa parte dell'edificio, il costruttore fece realizzare una specie di basamento, la cui altezza in rapporto al suolo attuale è di 50 cm. Contigua a questa stanza ve ne era un'altra, di cui si è conservato solo l'inizio del muro perimetrale. Lo scavo, allo stato attuale, non permette di ricostruire la parte anteriore dell'edificio, quella che si trova davanti al basamento dell'ala orientale e a meridione dell'andito.
Dalla sua scoperta, avvenuta nel 1967, questo monumento punico è praticamente inedito: non esiste infatti alcun rapporto di scavo esaustivo, né tantomeno alcuna descrizione. Talvolta vi si è fatto allusione, ma si tratta nel migliore dei casi di brevi notizie a scopo didattico in relazione alla periferia di Cartagine, di cui si possiedono le descrizioni degli autori antichi. La soglia è scomparsa così come l'inizio del muro meridionale; il muro settentrionale si conserva in tutta la sua lunghezza, in modo che risulta possibile stabilire la superficie dell'andito, la cui lunghezza è di 14,7 m e la sua larghezza di 1,36 m. Il muro settentrionale si conserva per un'altezza di 77 cm e ha uno spessore di 36 cm; la tecnica di costruzione prevedeva l'utilizzo di pietrame minuto amalgamato con terra. L'intonaco, che doveva proteggere e abbellire le pareti, sembra sia completamente scomparso. Allo stato attuale, il suolo non presenta alcuna traccia di pavimenti autorizzando a credere che questi fossero realizzati in terra battuta. Questo tipo di andito, molto lungo e relativamente stretto, è ben documentato all'interno del mondo punico e in altre aree del Mediterraneo antico. Le numerose abitazioni di Kerkouane presentano un andito del tutto simile; lo stesso accade per alcune case di Delo. Questo lungo andito, le cui origini andranno molto verosimilmente ricercate nel Vicino Oriente, è attestato anche a Cartagine, in particolare nel quartiere di Byrsa, e persiste nell'architettura domestica dell'Africa romana.
Sul fondo dell'andito, in corrispondenza della sua parete meridionale, un'apertura introduce nel corridoio che sostituisce il patio. L'andito-vestibolo e il corridoio-patio sono disposti a squadra, in modo da formare un'entrata a gomito o a zig-zag largamente attestata nel mondo punico. Tutto sembra sia stato concepito per garantire l'intimità della dimora. Lo stesso accorgimento si riscontra a Kerkouane e in Sardegna, così come in molti altri siti del Mediterraneo e in Mesopotamia sin da epoche molto antiche.
Il corridoio era preceduto da un alto gradino e dalla soglia. Il gradino era lungo 1,1 m, largo 0,55 m e alto 0,33. La soglia, larga 1,45 m, fu estratta dal suolo in tre frammenti combacianti; essa era ricavata da un calcare arenoso molto duro. Superata la soglia si accedeva al corridoio di forma quadrangolare, della lunghezza di 6,75 m e della larghezza di 1,9 m. Il limite posteriore del corridoio era costituito da un muro in pisé, di cui rimane l'angolo sud-orientale. Il suolo è pavimentato in opus signinum, con frammenti di marmo bianco allineati quasi regolarmente; l'intervallo fra due allineamenti misura 12 cm. Il calcestruzzo è composto da calce e da ceramica polverizzata che rende l'impasto di un colore rosa o rosso mattone. A 2,45 m dalla soglia si trova un grande ambiente composto da una cucina e da un bagno disposti su livelli differenti. La cucina, la cui identificazione risulta comunque ipotetica, aveva la parete di fondo più larga di quella dell'entrata. Dall'entrata alla parete di fondo la cucina misurava all'incirca 3 m; riguardo alla larghezza essa era di 1,3 m sul lato dell'entrata e di 1,9 m sulla parete di fondo. Il bagno era collocato su un basamento, alto 0,55 m rispetto al pavimento del corridoio, ed era raggiungibile grazie a due gradini. Esso si componeva di due settori: il primo con doppia banchina disposta a squadra, che doveva servire da spogliatoio; il secondo settore, collocato sul fondo, con due vasche disposte anch'esse a squadra.
Un passaggio largo 0,46 m metteva in comunicazione lo spogliatoio con il settore delle vasche, di cui una occupava la parete di fondo, mentre l'altra era installata contro la parete di sinistra rispetto all'entrata. La prima delle due vasche era costruita in muratura con le pareti rivestite di malta idraulica di colore bianco a imitazione del marmo. Installata a un'altezza di 63 cm, la vasca aveva la forma di una piramide rovescia, le cui dimensioni erano 1,75 m di lunghezza, 0,9 m di larghezza e 0,52 m di profondità. Pressoché identica alla precedente, la vasca collocata sulla parete sinistra se ne differenziava per la profondità, che era di soli 0,2 m. Tale dislivello sembra sia stato previsto per facilitare lo scarico delle acque dalla prima alla seconda vasca. Lo spazio antistante le due vasche era pavimentato in opus signinum. Dietro il bagno e a fianco dell'andito, verso meridione, si possono notare un pozzo e una specie di basamento, che sembra sia servito da supporto a una incastellatura di cui si ignora la funzione precisa. In questo settore sono anche presenti le tracce di un sistema di adduzione dell'acqua in connessione con le due vasche. La vera del pozzo era composta da quattro blocchi ben squadrati, di un calcare relativamente tenero, disposti di taglio. Il pozzo presenta una sezione quadrangolare, con le pareti rivestite di blocchi ben tagliati nello stesso tipo di calcare di quelli utilizzati per la vera; degli scalini permettono di raggiungere il fondo del pozzo in caso di dragaggio.
Nel prolungamento del grande ambiente composto dalla cucina e dal bagno si possono notare i resti di altre due stanze contigue, di cui la prima ha la forma di un quadrilatero regolare di 2,6 m di lato. La sua entrata, di 0,6 m, si trova fra la parete meridionale e il muro della facciata orientale; non c'è alcuna traccia di soglia né di stipiti. Costruiti con ciottoli amalgamati con terra, ma accuratamente intonacati, i muri sono conservati per un'altezza di 1,14 m. Passando alla seconda stanza, questa, pur essendo in un cattivo stato di conservazione, è comunque riconoscibile: il muro settentrionale e l'inizio del muro di fondo sono conservati per un'altezza di 1 m. È da notare che il muro di fondo ha uno spessore superiore agli altri: esso è di 0,75 m; parte del muro della facciata è conservata, ma tutta la parte meridionale della stanza è scomparsa sotto l'attuale livello del suolo; lo stesso dicasi per l'edificio in generale.
Per quel che concerne l'ala orientale, vi si riconoscono attualmente due stanze che danno sul corridoio. A forma di quadrilatero, l'una misura 3,75 m di larghezza, ma il suo cattivo stato di conservazione non permette di stabilirne la profondità. I muri perimetrali sono ugualmente mal conservati e comunque ben visibili sul terreno. L'accesso a questa stanza è consentito da un'entrata larga 0,95 m. In fondo all'ambiente si nota la presenza di tre vasche di diverse dimensioni. La prima, contigua alla parete settentrionale, è di forma cilindrica con un diametro di 0,55 m; la sua attuale profondità misura 0,6 m. Le sue pareti hanno un rivestimento idraulico ben impermeabilizzato, composto da calce e da argilla cotta, del quale si distinguono due strati sovrapposti. La seconda vasca si colloca a 41 cm a ovest della prima vasca; ha una forma subcilindrica con un diametro di 90 cm circa a livello del suolo; ha una profondità di circa 1,15 m. Un rivestimento idraulico impermeabilizzato, fatto di calce e di argilla cotta ne ricopre le pareti. La terza vasca è a 46 cm dalla seconda e ha una forma sub-cilindrica con un diametro di 0,87 m e una profondità di circa 1,12 m; anche in questo caso le pareti sono ricoperte da un rivestimento idraulico impermeabilizzato.
Di fronte a queste tre vasche e nell'angolo che forma il muro di facciata con il muro settentrionale, si rileva la presenza di un contrappeso costituito da un grosso blocco ben tagliato a forma di parallelepipedo della lunghezza di 1 m e della larghezza di 0,75 m. Una scanalatura larga 4 cm e profonda 3 cm attraversa longitudinalmente la parete esposta al cielo; a ciascuna delle sue due estremità figura un incastro a coda di rondine, elemento spesso collegato a questo tipo di contrappeso.
Dietro le tre vasche la lettura diventa difficile; si indovina appena che la stanza si estende verso est, ma non si può stabilire una ricostruzione certa di questa parte dell'edificio. Forse dobbiamo pensare a un elemento originario, ora scomparso, che implica la presenza del contrappeso: verosimilmente una pressa con tutti i suoi accessori da collocare tra la seconda e la terza vasca, oppure tra la prima e la seconda. Contigua a questa stanza del contrappeso, vi è un'altra stanza che si sviluppa verso meridione; è facilmente riconoscibile il muro settentrionale e una parte del muro di facciata. Lo stato attuale dell'edificio non autorizza una restituzione certa. Vicino alla parete settentrionale, si nota la presenza di un fondo di dolio incassato nel suolo. Il diametro della parte conservata è di 0,98 m.
Fra i numerosi reperti messi in luce durante gli scavi si segnalano per importanza due capitelli di ispirazione ionica realizzati con un'arenaria color sabbia e all'origine perfettamente stuccati, in modo da ricoprire tutte le irregolarità e dare agli elementi architettonici l'apparenza del marmo. Questo tipo di capitelli sembra sia stato largamente utilizzato nell'architettura cartaginese, come testimoniato da numerosi documenti iconografici e architettonici. Per la documentazione iconografica basti ricordare le stele rinvenute nel tofet, che presentano in alcuni casi confronti molto stringenti con i capitelli di Gammarth. Riguardo alla documentazione architettonica, si deve ricorrere a monumenti punici progettati precedentemente alla distruzione di Cartagine, come nel caso del Mausoleo di Dougga e di quello di Sabratha. Si possono inoltre ricordare i numerosi capitelli decontestualizzati, di cui non si conoscono i monumenti per i quali erano stati realizzati, rinvenuti a Volubilis, Lixus e Sala, in Marocco, così come quelli scoperti nel settore di Byrsa.
Riguardo alla tipologia della struttura indagata, sembra che ci si trovi in presenza di un edificio che doveva servire sia come dimora sia come oleificio, oppure come magazzino. Il proprietario doveva essere molto verosimilmente un ricco possidente, che aveva un oliveto o una vigna nella fertile periferia di Cartagine, la Megara di cui parlano gli autori antichi. Egli fece realizzare una costosa dimora, con un settore destinato a un oleificio o a un torchio per il vino, come ben evidenziato dagli scavi. Tale situazione ricorda una delle raccomandazioni di Magone, che consigliava a chi possedeva una proprietà terriera di vendere la propria casa in città. Per la "casa-oleificio" di Gammarth, un confronto particolarmente interessante nel mondo punico riguarda un edificio messo in luce a Volubilis, mentre per l'epoca romana la documentazione è molto più ampia, come segnalato da R. Étienne.
Riguardo alla cronologia dell'edificio, nulla è possibile dire sulla data della sua edificazione, mentre i materiali recuperati nelle discariche, soprattutto la ceramica comune e la ceramica a vernice nera sia d'importazione sia di fabbrica locale, permettono di stabilire che le ultime fasi di vita della villa si collocano nel II sec. a.C. Ci sono buone ragioni per ritenere che l'edificio di Gammarth sia stato distrutto dai soldati di Scipione l'Emiliano fra il 149 e il 146 a.C., durante il violento attacco sferrato contro Cartagine.
Tunisi - I dati della storiografia antica. - Secondo G. e C. Picard, le origini di Tunisi, che esisteva già nel IV sec. a.C., sono misteriose. Che sappiamo dell'antica Tynes, che ha dato origine a Tunisi, l'attuale capitale della Tunisia?
Per il periodo fenicio-punico il dossier di Tynes resta molto scarno. Gli autori dell'antichità classica hanno avuto più di una volta occasione di ricordare l'origine libica di questa città. Polibio, Diodoro Siculo e Tito Livio ce la presentano come una città ben difesa, sia dalla natura sia dalle fortificazioni. Plinio il Vecchio parla di un oppidum Tunicense. Nel suo racconto relativo all'invasione di Agatocle contro i territori cartaginesi, Diodoro Siculo distingue due città che hanno come nome Tynes: per evitare confusione, accorda a una delle due, l'epiteto di "la bianca". All'indomani della sconfitta di Imilcone davanti a Siracusa, nel 396 a.C., Diodoro Siculo riferisce che per essere stati abbandonati dal generale cartaginese i Libici si rivoltarono, marciarono su Tunisi e la invasero. Ciò fu una grave minaccia per Cartagine.
Più tardi, nel 310 a.C., Agatocle invase i territori cartaginesi. Dopo aver attraversato Capo Bon, l'armata greca giunse a minacciare la capitale del mondo punico. Essa occupò Tynes, dove stabilì un campo base per i suoi attacchi contro i Cartaginesi. Queste informazioni relative all'occupazione di Tunisi da parte dei soldati di Agatocle ci sono pervenute tramite Diodoro Siculo e Giustino, l'epitomatore di Trogo Pompeo. Dopo questa dura prova Tunisi cadde nel silenzio per restarvi sino alla prima guerra punica. Avendo deciso di spostare la guerra in terra africana, Attilio Regolo, generale romano, si ricordò del metodo adottato in passato da Agatocle, il tiranno di Siracusa. Sbarcò quindi a Capo Bon e con la sua armata attuò distruzioni e saccheggi sistematici. I soldati di Regolo si lasciarono dietro solo rovine e desolazione. Continuando raggiunsero Tunisi e vi si installarono al fine di spaventare i Cartaginesi, assediati e minacciati dalla fame e dalle epidemie. Quando i Cartaginesi ebbero stipulato la pace con i Romani, il pericolo non era del tutto neutralizzato, dal momento che loro mercenari combattevano ancora in Sicilia. Questi ultimi, esasperati e delusi da Cartagine, decisero di farsi giustizia da soli e sotto la guida di Mathos il Libico e Spendios il Greco si impossessarono di Tunisi nell'attesa di prendere la capitale.
Si deve aspettare la seconda guerra punica perché Tunisi sia nuovamente citata dagli autori antichi. Questa volta essa è legata al nome di Scipione l'Africano, vincitore di Annibale. Da Utica, dove aveva il suo accampamento invernale, il generale romano si diresse verso Tunisi, che fu abbandonata dalle truppe cartaginesi incaricate di difenderla. Ma Scipione dovette ritirarsi per andare in soccorso della sua flotta posizionata di fronte a Utica e minacciata da una flotta cartaginese. Sconfitto Syphax, i Cartaginesi cercarono di firmare la pace. In questa circostanza Scipione ricevette a Tunisi l'ambasciata cartaginese formata da 30 membri scelti tra i senatori. Dopo la battaglia di Zama, Scipione ritornò a Tunisi, dove ricevette una nuova delegazione cartaginese. Fu in quel momento che si decise la triste sorte di Cartagine. Annibale accettò il trattato sotto pesanti condizioni; esortò i suoi concittadini affinché una delegazione raggiungesse il vincitore a Tunisi per notificare l'accordo e la sottomissione del popolo cartaginese.
Menzioni su Tunisi si hanno ancora in un testo di Strabone in riferimento alla terza guerra punica, durante la quale, per aver appoggiato Cartagine, la città fu saccheggiata e distrutta. Grazie alla sua collocazione davanti a Cartagine, Tunisi sembra aver giocato un ruolo considerevole. Era uno dei principali obiettivi delle armate che invadevano i territori cartaginesi, nutrendo la speranza di impossessarsi della capitale del mondo punico. Tunisi fu quindi sede di accampamenti degli eserciti di Agatocle, di Regolo, di Spendios, di Pathos, di Scipione e di Massinissa, per citare solo alcuni tra i più celebri.
I resti archeologici. - Le nostre informazioni riguardo l'antica Tunisi restano comunque insufficienti. Gli storici classici se ne interessarono solo in occasione di alcuni eventi militari o diplomatici. Della città stessa ignoriamo quasi tutto; soltanto nell'ultima decade del Novecento l'archeologia, tramite rinvenimenti fortuiti, ha potuto arricchire di nuovi dati la documentazione letteraria.
Lavori di sistemazione del territorio effettuati al Parco del Belvedere hanno portato alla scoperta di anse di anfore puniche e di monete d'oro coniate a Cirene. Nei suoi Cahiers d'archéologie tunisienne J. Renault menzionò un'urna intagliata nella pietra che conteneva delle ossa calcinate, individuata in prossimità dell'entrata di una vecchia prigione civile. Di fattura ordinaria, quest'urna è provvista di un coperchio con acroteri. Ha una lunghezza di 0,38 m e una larghezza di 0,27 m; la profondità della vasca è di 15 cm, mentre lo spessore delle pareti misura 3,5 cm; la sua altezza, infine, è di 0,28 m. Lo stesso archeologo segnala altri oggetti punici nel luogo scelto per la sede della Direzione dell'Agricoltura, anche se purtroppo non specifica la natura di tali oggetti.
Nella realizzazione delle fondazioni della nuova prigione civile è stata scoperta una lucerna di fabbrica rodia a una profondità dai 2 ai 3 m rispetto alla superficie. I costruttori dell'Ospedale Civile ebbero la gradevole sorpresa di individuare numerose monete puniche di bronzo. Presso la Fortezza della Rabta, i lavori effettuati per le fondazioni di un edificio pubblico, hanno permesso la messa in luce a diversi metri di profondità di una vera di pozzo riempita di terra di riporto e di frammenti di ceramica. Tra gli altri reperti antichi c'era un frammento di lucerna di fabbrica rodia ‒ in terra smaltata marrone chiaro ‒, dotato di un'aletta. Furono inoltre raccolte due monete puniche: la testa di Demetra sul recto e il cavallo sul verso non lasciavano alcun dubbio riguardo alla loro identificazione.
In seguito a dei lavori effettuati nella zona della Rabta, nel mese di febbraio del 1934 fu scoperta una tomba punica. Si trattava di un ossuario intagliato in un calcare grigio, "con un coperchio a due prese con acroteri: altezza 0,26 m; lunghezza 0,46 m; larghezza 0,32 m". L'ossuario doveva contenere certamente delle ossa: L. Poinssot precisa che "questo ossuario è simile a quelli conservati al Bardo e trovati a Cartagine".
Gli stessi lavori di terrazzamento hanno permesso di riportare alla luce "dei frammenti di ceramica a vernice nera di una grande giara decorata da cerchi di color rossastro di epoca punica". Nel 1969 ci fu la scoperta di una tomba a camera, di un forno per la cottura dei vasi e di una discarica, da cui provengono numerosi frammenti di ceramica comune e di ceramica a vernice nera, con una morfologia che ricorda quella delle produzioni etrusco-campane. Si tratta molto verosimilmente di imitazioni locali, per le quali è stata proposta una datazione al IV-III sec. a.C.
La tomba ipogeica fu identificata grazie alla presenza di una grande lastra, relativamente ben tagliata e collocata sopra il pozzo di accesso alla camera funeraria. Il pozzo risulta verticale e a sezione quadrangolare: le sue pareti sono rivestite di ciottoli di diverse dimensioni amalgamati con un composto di terra e argilla. La profondità del pozzo è di 3,1 m, mentre l'entrata misura 2 × 0,7 m. Sul fondo del pozzo si trova un breve corridoio che introduce nella camera funeraria, le cui pareti erano originariamente rivestite da lastre squadrate di considerevole grandezza. Sulla parete di fondo della camera funeraria è stata realizzata una falsa porta, mentre sul pavimento si trova una fossa con il fondo e le pareti ricoperte di lastre squadrate; anche la copertura era costituita da una lastra sulla quale sono state rinvenute tracce di pittura rossa. Nella camera funeraria era stato deposto pure un ossuario di calcare duro e un abbondante corredo funerario composto da otto anfore di differente tipologia, una oinochoe e un askos.
Utica - I dati della storiografia antica. - Gli autori antichi, in particolare Polibio, Sallustio, Tito Livio, Appiano e Velleio Patercolo, forniscono una notevole quantità di informazioni sulla più antica delle fondazioni fenicie in Africa. Il sito di Utica ha una grandissima importanza, basti evocare la sua conquista operata da Agatocle nel 308 a.C., al momento della guerra fra Cartagine e i tiranni sicelioti, il tentativo di sbarco che vi fece Scipione durante la seconda guerra punica nel 204 a.C. e meglio ancora il nome di Catone il Giovane, associato per sempre a quello della città assediata dalle truppe di Cesare durante la guerra civile, nella quale si suicidò nel 46 a.C.
Utica è la più antica delle città fenicie in Africa, poiché secondo Plinio il Vecchio (Nat. hist., XVI, 216) sarebbe stata fondata nel 1101 a.C. Essa ha avuto un ruolo di primo piano prima di essere eclissata da Cartagine. Inoltre, dopo la distruzione della sua vicina nel 146 a.C. Utica fu per 130 anni la capitale della provincia romana d'Africa, fino alla nuova fioritura dell'antica metropoli cartaginese. Nonostante avesse perduto da quel momento il suo primato politico riuscì a mantenere nei primi secoli dell'impero un'effettiva attività economica, fondata verosimilmente sulla valorizzazione dell'entroterra agricolo, come testimoniato dalla ricchezza della sua architettura domestica.
Della presenza di un porto militare e di un porto mercantile a Utica si hanno solo testimonianze scritte, abbastanza numerose, di documenti antichi che hanno riportato eventi di cui la città era stata protagonista dal III al I sec. a.C. Ma nessuna di queste citazioni dà una descrizione precisa di queste installazioni portuali. È impossibile sapere se si trattasse di porti ricavati nella roccia del tipo a cothon, di cui se ne conoscono altri esempi in epoca punica, oppure degli apprestamenti più classici costituiti da moli e da banchine, o ancora di un semplice ormeggio poco attrezzato, come riferisce per un'epoca più tarda un'opera geografica oggi perduta.
Per il toponimo alcune ipotesi risalgono al XVII secolo: si propose di farne la "città antica" in rapporto a Cartagine, la "città nuova". A favore di questa etimologia, si ricorse a una radice semitica, attestata in ebraico e in arabo: 'TQ, che implicherebbe la nozione di antichità. Questa prima ipotesi non ebbe larghi consensi, sebbene P. Cintas, ripreso da M. Gras, P. Rouillard e J. Teixidor nella loro recente monografia L'univers phénicien, precisò che si trattava di un toponimo che la città ebbe solo dopo la fondazione di Cartagine. Questa è comunque una giustificazione che necessita di prove che attualmente sono mancanti; per legittimare una tale ipotesi, bisognerebbe conoscere il nome che essa aveva in precedenza.
Sono state proposte altre etimologie: la radice 'TQ con l'iniziale ayin, conterrebbe la nozione di splendore e magnificenza. Si può anche considerare il concetto di affrancamento riconoscibile soprattutto nella lingua araba, dove lo schiavo che riceve la libertà porta il nome di 'tyq. Si segnala inoltre che nella lingua tunisina 'tqat designa il ramo dell'albero, spesso un ramo molto grande. Ecco dunque un campo semantico abbastanza ampio. La scelta parrebbe difficile. Ma tutte queste spiegazioni restano comunque tributarie della radice. Se si tratta veramente di 'TQ potrà essere affermato solo quando sarà stata identificata con certezza. Allo stato attuale della documentazione, del nome di Utica si conoscono solo le forme greche e latine. A questo dossier bisogna aggiungere la legenda 'TG letta su delle monete scoperte a Leptis? P. Cintas l'accreditò avvicinandola a 'TQ. A favore di questa ipotesi si può segnalare che il passaggio da ayin ad aleph non è solo possibile, ma anche largamente attestato. Stessa cosa per il qof e il gimel; ciò detto la forma 'TQ può generare 'TG. Ma questa interpretazione resta dubbia, malgrado il parere favorevole di J. Alexandropoulos.
Fondato nel 1101 a.C., il comptoir di Utica sembra aver giocato per molto tempo il ruolo di scalo sulla rotta della marineria fenicia, che per secoli solcò le acque del Mediterraneo fino al di là delle colonne d'Ercole, dove i Fenici avevano già fondato Gadeira, l'attuale Cadice sulle coste meridionali della Spagna. Facendo ciò i Fenici non hanno creato un centro dal nulla. Piuttosto avrebbero installato il loro comptoir presso un piccolo villaggio libico, già conosciuto con il nome di Utica o di Utican (la desinenza -an è caratteristica dell'onomastica libica tanto per gli antroponimi quanto per i toponimi). Da questo momento in poi le due comunità dovevano vivere in osmosi. Per concludere si ha una certezza: la lectio più corrente nei testi latini è proprio Utica, un toponimo con l'iniziale "U". Questa iniziale è ricorrente nell'onomastica libica ed è attestata per numerose località, come nel caso di Uzappa, Usalis, Uchi, Uchrès e Uthina, solo per fare alcuni esempi. Sulla base di queste affermazioni, quindi, si sarebbe portati a riconoscere nel toponimo Utica un'origine libica. In questo caso i Fenici, sbarcando dal lato dell'estuario del Majradah, l'antico Bagrada, s'installarono in un villaggio libico il cui nome era Utica o piuttosto Utican.
Il sito di Utica si trova attualmente nel Nord-Est della Tunisia, a diversi chilometri dal mare. Fu un porto soltanto fino alla Tarda Antichità. Inizialmente accolse coloro che avevano navigato fino a Tartessos; più tardi, Utica ebbe la sua propria flotta mercantile. Cartagine dovette molto spesso utilizzare il porto di Utica sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, soprattutto nel corso del conflitto che la oppose a Roma. Secondo Polibio, Amilcare vi sbarcò per porre fine alla guerra dei mercenari, ma durante la terza guerra punica, Utica abbandonò la causa di Cartagine per aprire il suo porto alla flotta di Scipione. Nel corso dei secoli il Majradah finì per interrare il Sinus Uticensis: il mare indietreggiava di fronte al fiume e Utica finì col ritrovarsi molto lontano dalla riva. La complessità di questa metamorfosi impedisce di cogliere la topografia dei luoghi. "Essa era ‒ dice Appiano ‒ la più grande città della Libia dopo Cartagine; copriva un'isola naturale o artificiale con le alture dominanti la stessa isola a sud-ovest". Coloro che hanno descritto Utica nel XIX secolo credettero di aver ritrovato le tracce di una depressione che separava dal continente l'estremità del promontorio, dove giacciono i resti dell'antica città. S. Gsell avvalorò questa tesi, parlando di un braccio di mare che separava l'isola dalla penisola e aveva il ruolo di approdo. Senza escludere tutto ciò, P. Cintas e C. Picard hanno apportato qualche modifica: per questi ultimi non si tratterebbe di un braccio di mare, ma di un meandro del Majradah. Per A. Lézine, invece, non sono mai esistiti corsi d'acqua, braccio di mare o canale nel sito di Utica durante l'età antica. Le prospezioni archeologiche non sono ancora giunte ad alcuna certezza.
I porti di Utica. - Da un punto di vista archeologico gli scavi effettuati a Utica nel XIX secolo non hanno avuto alcun carattere scientifico. La mappa della città pubblicata da A. Daux (1869), indica porti la cui localizzazione è probabilmente frutto di fantasia. Le ultime ricerche importanti risalgono agli anni successivi alla seconda guerra mondiale (P. Cintas, 1951; A. Lézine, 1956). Cintas, che mise in luce costruzioni di epoca romana e che raggiunse livelli di occupazione punica (necropoli con tombe scavate nella roccia), pensa che questi si trovino essenzialmente sotto 6 m di strati alluvionali e 5 m sotto la falda freatica. In effetti, il sito di Utica è oggi situato a 10 km in linea d'aria dal mare, in seguito all'azione alluvionale del Majradah, che ha colmato l'antica baia al bordo della quale si situava la città. È quindi sotto un deposito alluvionale di grandi dimensioni che sono scomparsi gli eventuali resti delle installazioni portuali. Sin dall'antichità, d'altronde, si sono prodotte importanti modificazioni della linea di costa: le descrizioni del sito fatte da Polibio e da Cesare fanno pensare che gli insabbiamenti si siano verificati nei dintorni di Utica già negli ultimi secoli prima dell'era cristiana. È probabile che tali insabbiamenti abbiano reso necessaria la risistemazione delle installazioni portuali; si può dunque pensare di trovare come a Cartagine diverse fasi successive dello stesso porto e non è certo che le si debba ricercare nello stesso luogo.
I resti archeologici. - Gli scavi intrapresi a Utica sono iniziati a metà del XIX secolo: nel 1815 il conte C. Borgia vi condusse alcune esplorazioni. Inviato in Tunisia da Napoleone III per un'indagine sulle campagne di Giulio Cesare, A. Daux (1869) vi fece una serie di prospezioni di cui ignoriamo l'ampiezza. Altri archeologi si recarono a Utica, attratti dal prestigio della città: N. Davis nel 1856, B. Smiths nel 1878, il conte d'Herisson nel 1880. Avendo acquistato il terreno, i conti Jean e Jacques de Chabannes la Palice procedettero a scavi i cui risultati furono pubblicati dall'Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Altri archeologi stranieri e tunisini hanno lavorato sul sito di Utica, soprattutto J. Martin nel 1914 e l'Abbé Moulard (1923-25). Dopo la forzata interruzione delle ricerche a causa della seconda guerra mondiale, Cintas intraprese i suoi scavi nel 1948.
Gli edifici del periodo fenicio-punico sono stati obliterati dalle strutture di epoca romana. A. Lézine riconobbe i resti di una costruzione punica sotto una ricca dimora conosciuta con il nome di Villa dai Capitelli Istoriati. Egli scoprì inoltre le tracce di un'urbanistica regolare a pianta ortogonale e i resti di un atelier di ceramica punica. Inoltre, sono state riconosciute e scavate alcune tombe, le più antiche delle quali risalgono all'VIII sec. a.C.: si distinguono la tipologia della tomba a fossa semplice, della tomba scavata nella roccia e della tomba costruita con mattoni crudi.
Al VI e al V sec. a.C. appartengono le tombe a sarcofago scavato nella pietra. Il fondo del sarcofago presenta una tavola centrale fiancheggiata da due cavità, sistemate laddove venivano adagiati la testa e i piedi del morto. Per l'Abbé Moulard tale disposizione rispondeva a esigenze rituali, secondo le quali la posizione del corpo nel sarcofago prevedeva che il bacino fosse in posizione elevata e i piedi e la testa pendessero in queste cavità. Parrebbe più plausibile giustificare la tavola centrale con esigenze tecniche, in rapporto alla natura della pietra e al suo formato: si tratterebbe di un distanziatore, il cui unico ruolo era di mantenere stabili le pareti laterali del sarcofago. Sul fondo di quest'ultimo e a ciascuna delle estremità vi compaiono talvolta dei fori o delle incisioni previste per alloggiare i piedi del feretro. Numerosi esemplari di questi sarcofagi monolitici di arenaria sono attualmente visibili nel sito.
La necropoli di Utica si distingue inoltre per la ricchezza dei corredi funerari delle sue tombe, in cui sono documentate anche importazioni di ceramica greca. Gli scavi dell'Abbé Moulard nel 1924 giunsero alla scoperta di due belle lekythoi decorate con leoni affrontati e scene di lotta. Su un'altra lekythos messa in luce da Cintas si riconosce Teti che spinge il figlio Achille alla ricerca di gloria e successi. In questo modo i miti greci entravano nel mondo fenicio-punico. Fra gli oggetti rinvenuti negli scavi della necropoli di Utica si annoverano gioielli, amuleti, oggetti d'avorio e di osso: su un anello d'oro è raffigurato Baal Hammon seduto su un trono fiancheggiato da sfingi; egli leva la mano destra in segno di potenza e di benedizione, nella mano sinistra tiene uno scettro. Su uno scarabeo di calcedonio color giallo pallido si trova incisa l'immagine di un soldato inginocchiato: è il famoso arciere di Utica, che con un casco provvisto di alto cimiero si appresta a scoccare una freccia verso destra. Su un altro scarabeo di cornalina montato in oro è raffigurato Pegaso. Fra gli oggetti di metallo si può ricordare un rasoio votivo che su una delle facce reca incisa l'immagine di Ercole in lotta con il toro dell'isola di Creta; sull'altra faccia compare il mostro Scilla, il cui corpo di forma umana sino al busto termina con una coda di animale marino.
I reperti di terracotta includono statuette, stampi e una protome di uomo barbuto di cui C. Picard dà una puntuale descrizione: "la capigliatura abbondante è sistemata dietro le orecchie e acconciata con cerchi concentrici stampati. La fronte è bassa, ricoperta di capelli; le sopracciglia folte incorniciano due occhi immensi, orizzontali, allungati a mandorla; il naso corto e carnoso alla sua estremità, le guance rotonde piene, la bocca piccola, orizzontale, ben modellata. Una barba liscia, lunghissima, tagliata dritta è divisa in due trecce verticali. Le orecchie ben modellate risultano abbellite da un disco, a meno che esse non abbiano il lobo deformato per l'usanza di portare un anello. Si tratta di una fisionomia di tipo semita" (Picard 1967). In una tomba del IV sec. a.C. sono stati ritrovati gli utensili di un artigiano ebanista descritti da Cintas nel modo seguente: "Avevano semplicemente messo a caso vicino a lui tutte le cose che verosimilmente si trovavano sul suo banco di lavoro il giorno della sua morte (...) un martello, un'accetta, un coltello di ferro e un utensile per lucidare in pietra dura" (Cintas 1951).
Gli scavi di Utica hanno permesso di riconoscere le tracce di altre attività artigianali, soprattutto la pesca, l'artigianato ceramico, la coroplastica. L'Abbé Moulard ha messo in luce i resti di un laboratorio artigianale con forni per la cottura della ceramica; le discariche hanno permesso di identificare resti di anfore, vasi-biberon, lucerne, coppe, piatti; alcuni frammenti portano degli stampi: lettere dell'alfabeto fenicio, la spiga, il caduceo, la palma, il pesce, il crescente lunare e il disco solare, il segno di Tanit, ecc. In queste discariche vi erano anche alcune statuette. Secondo lo scopritore, questa ceramica non può risalire oltre il IV sec. a.C., ma i forni sembra siano entrati in funzione già nel VII sec. a.C. Il sito di Utica ha inoltre fornito alcune stele e qualche rarissima iscrizione. Segnalata da Cintas, una di queste stele è ricavata dal calcare arenario: raffigura una donna in una nicchia con frontone triangolare; essa leva la mano destra in segno di benedizione e nella sinistra piegata sul petto tiene un contenitore per unguenti. Ai piedi della nicchia è incisa un'iscrizione in caratteri corsivi di difficile lettura.
Il Museo del Bardo possiede infine una ricca collezione di oggetti provenienti dal sito di Utica. L'Antiquarium del sito presenta bellissimi reperti: ceramica, statuette, gioielli, scarabei, amuleti, avori, stele, ecc. Questo è ciò che resta della più antica fondazione fenicia della Tunisia. Utica non ha dato alcuna testimonianza precedente all'VIII sec. a.C. Dopo la distruzione di Cartagine, nel 146 a.C., Utica divenne capitale della provincia romana d'Africa per circa un secolo.
Il Capo Bon - Nel primo trattato romano-cartaginese del 509 a.C. Polibio definisce Capo Bon Kalòs Akroterios, cioè Capo Bello. Per la sua localizzazione M. Grosse scrive: "situata a nord-est della Tunisia, la penisola di Capo Bon proietta in mare il suo promontorio, lungo all'incirca 90 km, che rappresenta una delle più evidenti irregolarità del litorale dell'Africa settentrionale" (Grosse 1969). Oltre alle sue coste sabbiose e rocciose, il Capo Bon si presenta come una regione di fertili pianure e di montagne.
Gli storici del mondo classico sottolineano le risorse agricole di questa regione africana. Diodoro Siculo (XX, 8) ci informa che sul finire del IV sec. a.C. Agatocle e il suo esercito furono sedotti dalle città e dalle ricche fattorie sparse sul territorio. Qualche decennio più tardi, nel 255/4 a.C., Capo Bon fu attraversato dalle truppe romane sotto la guida di L. Manlio Vulso e M. Attilio Regolo. In proposito, Polibio riferisce che i soldati "si misero a devastare il territorio, distruggendo senza incontrare resistenza le numerose fattorie installate in modo magnifico, raccogliendo un'enorme quantità di bestiame e più di ventimila schiavi che furono condotti sulle loro imbarcazioni" (Pol., I, 29, 6-7).
Queste due testimonianze storiche sottolineano la prosperità di Capo Bon, regione ben valorizzata ai tempi di Cartagine. Gli insediamenti erano numerosi e importanti. Secondo G. e C. Picard questo territorio divenne un distretto cartaginese dopo i Magonidi. Cartaginesi molto ricchi sembra che vi possedessero ampie tenute con fattorie ben organizzate, stalle e frutteti, dove crescevano alberi che fecero la fortuna del luogo: l'ulivo e la vite, a cui si devono aggiungere il fico e il melograno. Quanto agli agrumi, si tratta prevalentemente di apporti recenti, anche se fra i motivi di un mosaico romano scoperto a Nabeul, l'antica Neapolis, si è creduto di riconoscervi il cedro. Capo Bon era quindi per Cartagine una regione importante, sia per le sue ricchezze agricole e per le sue risorse marine, sia per il suo valore strategico.
Nel corso degli ultimi anni prospezioni condotte a Capo Bon dal Centre d'Études Phéniciennes-Puniques et des Antiquités Libyques hanno portato all'individuazione di numerosi siti punici e libici, tanto sulle coste che all'interno della penisola. Fra i siti punici identificati di recente e in alcuni casi anche scavati si devono segnalare, oltre a Kerkouane, Menzel Bouzelfa, Beni Khiar, Menzel Temime, Korba (l'antica Curubis), Menzel el-Horr, dove chi scrive ha individuato i resti di una vasta necropoli punica completamente distrutta da una cava di pietra. A el-Haouaria, una missione congiunta italo-tunisina ha riconosciuto e scavato resti di una fortezza e di un tempio, di cui lo strato di abbandono presenta reperti databili alla metà del II sec. a.C. In piena campagna, nei dintorni di el-Haouaria, sono state individuate tombe puniche a seguito di importanti lavori agricoli e dell'improvvisa apertura di una strada. Il proseguimento delle indagini archeologiche in quest'area sarà prezioso per la conoscenza della vita rurale e dello sfruttamento del suolo nelle epoche preromane. In attesa di una più ampia documentazione, si ritiene che le tombe puniche rinvenute in posizione isolata appartengano a grandi proprietari locali, che secondo i consigli di Magone, l'agronomo, dopo aver abbandonato le loro dimore cittadine erano venuti a vivere in campagna all'interno delle loro proprietà. Bisogna comunque ricordare che questa regione fu frequentata prima dell'arrivo dei Fenici, dal momento che sono stati rinvenuti importanti indizi di una occupazione da parte delle popolazioni autoctone, soprattutto ad Ain el-Harouri, dove la presenza libica è testimoniata da una necropoli rupestre.
Per designare le tombe scavate nella roccia gli archeologi e gli storici tunisini utilizzano il termine hanout (pl. haouanet), che nella lingua parlata indica la bottega dell'artigiano. Questo tipo di architettura tombale sembra precedere l'arrivo dei Fenici e la fondazione di Cartagine, anche se l'uso di tali strutture funerarie si dovette sicuramente mantenere a lungo nel tempo, probabilmente anche dopo la distruzione della metropoli nordafricana. In certi haouanet è stato possibile riconoscere l'impronta di maestranze puniche attraverso il tipo di decorazione dipinta o scolpita. Anche per gli haouanet di Ain el-Harouri si è potuta isolare una componente punica, come nel caso dei fregi dipinti con cinabro che presentano il motivo dei triangoli opposti per le estremità, caratteristico delle tombe puniche della fine del IV e degli inizi del III sec. a.C. In questo sito, quindi, si manifesta in modo evidente quell'osmosi fra cultura libica e cultura punica che è stata ben evidenziata nell'architettura domestica di Kerkouane, come si vedrà meglio in seguito.
Sul Capo Bon si localizzano vari insediamenti, fra i quali si ricordano quelli di Kelibia e di Aspis. Di essi si possiedono importanti e diversificate informazioni: testi greci e latini, epigrafi e resti archeologici relativi all'architettura religiosa, funeraria, civile e militare. Questo ricco dossier non è ancora stato oggetto di uno studio sistematico, per cui i dati risultano dispersi e di difficile utilizzazione. Molta documentazione, sia per il periodo romano sia per quello punico, risulta inoltre inedita. La presenza di una necropoli punica a Kelibia è stata segnalata già nel 1945 da G.-Ch. Picard e risulta menzionata anche nell'opera di Cintas, Céramique punique, pubblicata nel 1950.
Aspis è conosciuta soprattutto grazie alle testimonianze della storiografia antica, in rapporto all'invasione di Agatocle del 310 a.C. e alle guerre puniche. Essa fu assediata e presa d'assalto dal console Attilio Regolo intorno al 254/3 a.C. e dal console Pisone nel 148 a.C. Recentemente è stata individuata una vasta necropoli punica, le cui tombe sono disposte lungo i fianchi di una collina di roccia arenaria, che si trova sul mare presso l'attuale forte di Kelibia e non lontano da Hammam el-Ghezaz. I materiali rinvenuti (ceramica, amuleti, gioielli, utensili, ecc.) si dispongono lungo un ampio arco di tempo compreso fra il V e il II sec. a.C. Bisogna comunque ricordare che è stato messo in luce solo un settore di una necropoli molto vasta, in gran parte distrutta dall'apertura di una cava entrata in attività senza dubbio dopo l'epoca romana. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di un ustrinum, che presentava tutt'intorno uno spesso strato di cenere pieno di ossa calcinate. All'estremità della fossa è stato messo in luce un foro nel quale si doveva incastrare molto verosimilmente una stele, la cui funzione era strettamente connessa all'ustrinum.
La necropoli presenta tombe a fossa semplice e tombe ipogeiche con scala d'accesso, dromos e camera funeraria. Lo scavo di una tomba a camera ha permesso di stabilire una datazione ipotetica della struttura fra la fine del IV e il III sec. a.C. Il rituale praticato è quello dell'incinerazione, che prevedeva molto verosimilmente l'utilizzazione dell'ustrinum rinvenuto in precedenza. Il corredo funerario era composto solo da un'anfora di colore rosa e sul suolo erano ben visibili tracce di ocra rossa. Sul pavimento, al centro della camera funeraria sono stati rinvenuti i resti di un uccello di piccola taglia e i frammenti di un unguentarium. Le pareti erano ravvivate da una decorazione lineare a registri, dipinta con cinabro, tranne la parete di fondo che presentava una decorazione molto più complessa del tipo "a scacchiera" e con l'immagine di un mausoleo. Quest'ultima è frequentemente documentata nelle necropoli puniche e nelle haouanet, in particolare in quelle di Khroumirie e Mogods, nella Tunisia di Nord-Ovest. L'esempio più eloquente è offerto dalla tomba VIII di Gebel Melezza scavata da P. Cintas ed E.G. Gobert.
L'ultimo aspetto di questa necropoli di Aspis riguarda l'epigrafia. Si tratta di due testi scritti in lettere corsive comunemente definite neopuniche. Anche se associate a un contesto funerario, le due iscrizioni sono di natura diversa. Il testo della tomba n. 24, scavata nel mese di luglio del 1985, rappresenta un epitaffio: si tratta del nome del defunto, scritto con pittura rossa al di sopra dell'entrata della camera funeraria, sulla facciata di un mausoleo. Per quanto riguarda la lettura non ci sono dubbi, dal momento che le lettere sono ben identificabili: da destra a sinistra si riconoscono SMGNYM.
L'altra iscrizione appartiene alla tomba n. 22. Molto più lungo del precedente, il testo è composto da ventuno lettere in scrittura corsiva, la cui lettura non pone alcun problema. Il testo comincia con il sostantivo BR, cioè "scavo", che in questo caso si riferisce allo scavo della tomba ipogeica. La lettura BR sembra la più corretta, dal momento che questa radice contiene in sé la nozione di scavo. Bisogna quindi scartare assolutamente la lettura BN, verbo che significa "costruire", nel qual caso nel testo dovrebbero figurare una vera costruzione e dei materiali per la sua realizzazione. Si tratta dunque di una frase nominale, essendo il predicato una preposizione relativa il cui verbo precede il soggetto: è una struttura molto ben documentata in semitico. L'iscrizione si può quindi tradurre: "scavo che ha fatto Arshim figlio di Bodashtart". Lo scalpellino Arshim firma così la sua opera: ne era certamente fiero e volle tramandarla ai posteri. Questo comportamento dell'artigiano che firmava il prodotto del suo lavoro era diffuso nel mondo libico-punico.
La fortezza di Aspis. - Sul promontorio conosciuto con il nome di Ras Mostapha si trova una fortezza d'epoca ispano-turca a 77 m a strapiombo sul mare. La costa protetta da questa fortezza si colloca a 75 km da Pantelleria e a 160 km dall'estremità sud-occidentale della Sicilia. Sotto la struttura militare, la cui realizzazione si colloca fra il XVI e il XVII secolo, sono stati identificati i resti di una fortificazione punica, che fu presa d'assalto dagli eserciti di Agatocle nel 310 a.C. e dai soldati dei consoli romani Manlio e Regolo nel 255/4 a.C. durante la prima guerra punica. L'apprestamento militare resistette però agli attacchi di Lucius Calpurnius Piso Caesonius, che aveva nel 148 a.C. il comando dell'armata romana in Africa.
Le prospezioni condotte sotto la direzione di F. Barreca nel corso dell'estate del 1966 hanno permesso di riconoscere le tracce delle mura perimetrali e delle torri. Partendo da questi pochi dati, l'archeologo italiano restituì la pianta dell'edificio, che doveva essere pentagonale e munita di sei torri quadrangolari disposte a intervalli regolari. Le porte erano due: una a nord-est, in corrispondenza della porta della fortezza ispano-turca, l'altra a sud-ovest, in modo da collegare la struttura militare con il quartiere del porto. Sulla base di alcuni rinvenimenti, in particolare ceramica e monete, e alla luce delle tecniche architettoniche, Barreca propose di collocare la vita dell'edificio fra il V e il II sec. a.C. Un migliore inquadramento cronologico della fortificazione potrà essere stabilito solo dopo un'esplorazione sistematica del sito e lo scavo di tutti i resti dell'edificio.
Kerkouane. - Situato all'estremità di Capo Bon, fra Kelibia ed el-Haouaria, il sito di Kerkouane è stato individuato nel 1952 e successivamente scavato sotto l'egida dell'Institut National d'Archéologie et d'Art. Il toponimo Kerkouane designa in realtà i dintorni del sito punico, mentre il nome antico della città sembra sia stato Tamezrat.
La città venne costruita su una falesia orientata nord-sud; a est si trova il mare a cui si contrappongono immense distese di terre coltivabili. Nel VI sec. a.C. Kerkouane-Tamezrat si presentava come un insediamento capace d'importare e di apprezzare la ceramica greca a figure nere: coppe ioniche del tipo B2, oinochoai, di cui una racconta l'avventura di Ulisse nella grotta di Polifemo. La fine di Kerkouane si colloca nel III sec. a.C., senza dubbio nel quadro della prima guerra punica (269-241 a.C.). Si tratta quindi di una città punica il cui aspetto urbanistico attualmente visibile si colloca tra la fine del IV e la metà del III sec. a.C. Distrutto probabilmente dai soldati di Regolo, l'insediamento fu definitivamente abbandonato e non più occupato.
Riguardo all'urbanistica della città, si evidenzia che strade larghe e relativamente dritte formano un reticolo a scacchiera, le cui caselle sono riempite da insulae. Le piazze sono sistemate in modo tale da rispondere alle esigenze della vita economica e sociale, mentre il sistema difensivo è costituito da una doppia cinta muraria, con le porte, le torri quadrangolari o con il lato frontale curvilineo, le scale per l'accesso ai camminamenti, gli alloggiamenti per le guarnigioni, nonché i depositi per le armi e i materiali necessari alla difesa della città. La porta occidentale è di grande interesse, dal momento che si tratta di una porta "a tenaglia" che si inserisce fra due cortine parallele, secondo uno schema di origine vicino-orientale, di cui uno degli esempi più interessanti è attestato a Tell en-Nasbeh, in Palestina. Lo studio dell'insediamento di Kerkouane ha permesso inoltre di stabilire l'esistenza di un'urbanistica punica che affonda le proprie radici negli strati più profondi dell'Oriente semitico, senza peraltro escludere esperienze diverse legate soprattutto al mondo ellenistico.
Materiali e tecniche di costruzione. I materiali da costruzione e le tecniche architettoniche sono ampiamente documentate a Kerkouane. I materiali utilizzati per la costruzione della città si caratterizzano per la loro diversità: la pietra, dai blocchi informi fino alle lastre ben tagliate e lavorate; i mattoni crudi e quelli cotti di forma quadrangolare, losanghiforme o esagonale (i mattoni cotti erano progettati in modo da incastrarsi l'uno nell'altro, così da formare una coppia omotetica grazie a un sistema di incastri e di scanalature); il legno, la calce, la pasta vitrea, l'ossidiana, la conchiglia, così come altre componenti, costituivano l'ampia gamma di materiali a disposizione del costruttore.
Per quel che concerne le tecniche architettoniche è stato ugualmente possibile apprezzare la diversità e il grado di elaborazione: il pisé, in primo luogo tecnica conosciuta nel Vicino Oriente dall'età del Bronzo, soprattutto nel paese di Canaan, in modo che niente possa impedire di ravvisarvi una tecnica importata dai Fenici. Un'altra tecnica individuata a Kerkouane di probabile origine orientale attestata a Ugarit e in siti palestinesi fin dall'età del Bronzo è quella della costruzione a grappe disposte verticalmente, la tecnica di costruzione con pietre squadrate collegate con l'aiuto di grappe a forma di coda di rondine è utilizzata soprattutto prima dell'ultima fase della città, quella che ha preceduto l'invasione di Agatocle intorno al 310 a.C. Nel III secolo, molti blocchi squadrati e provvisti di intagli a coda di rondine sono stati sia inclusi in costruzioni di materiali più poveri, sia riutilizzati: nell'uno e nell'altro caso, la via degli Artigiani offre tutta una serie di testimonianze probanti. Sono state riconosciute altre tecniche, come l'apparecchio ciclopico e l'apparecchio a ciottoli inseriti, tecnica ampiamente attestata in Mauretania. Vi è quindi una documentazione considerevole e molto significativa.
Per quel che concerne la decorazione architettonica si distingue una decorazione a elementi funzionali, come la colonna, l'arco e anche il capitello, e una decorazione a valore estetico, rappresentata da modanature con profili diversi, che sono dovuti all'abilità degli stuccatori. Stucchi e modanature erano spesso evidenziati con colori vivi come il rosso e il rosa, anche se sono documentati altri colori come il nero e il grigio. Si segnala infine la presenza di pavimenta punica, che decoravano i pavimenti delle case.
L'architettura domestica. Per quel che concerne l'architettura domestica, si hanno elementi di estremo interesse, dal momento che sono stati messi in luce settori abitativi molto ampi. Si è potuto quindi evidenziare la diversità delle abitazioni, sia dal punto di vista della forma sia della ricchezza. Tuttavia, la struttura più comune, che presenta talvolta alcune variazioni sul tema, è quella in cui i vari elementi sono organizzati intorno a una corte. Che sia interamente scoperta o dotata di portici, la corte si sviluppa costantemente in maniera da garantire l'intimità delle persone che la frequentano. Perpendicolare al corridoio d'accesso, essa sfugge alla curiosità del passante indiscreto. L'entrata dell'abitazione è scandita da una soglia a strapiombo sulla strada, da cui si accede a un lungo corridoio, che introduce nella corte, talvolta poco spaziosa, dotata di pozzi ben realizzati e muniti di vera. Per far defluire le acque di scarico si ricorre a una canaletta, che partendo dalla corte attraversa tutto il corridoio in direzione della strada in modo da raggiungere la fogna. Intorno alla corte si aprono i vari ambienti, pavimentati da calcestruzzo di colore rosso contenente frammenti di mattoni e di ceramiche insieme a minute schegge di calcare e di marmo bianco. Dalla corte partiva una scala, di cui non restano generalmente che tre scalini, per accedere al piano superiore e alle terrazze. Di particolare interesse sono i bagni, composti generalmente da uno spogliatoio e da una vasca a semicupio, con un sedile e altri accessori, soprattutto vasche per l'acqua necessaria a lavarsi. Presente in quasi tutte le abitazioni, il bagno lascia intendere l'interesse che i Punici avevano per la pulizia del corpo e per l'igiene.
Accanto alla casa a corte centrale, schema le cui origini orientali sono incontestabili, compaiono case a struttura lineare, i cui elementi si pongono in linee parallele. Si segnala inoltre la struttura con ambienti disposti in fila, attribuibile senza dubbio al sostrato libico.
Qualunque siano gli antecedenti, la casa punica di Kerkouane si presenta come una realizzazione "a programma" o piuttosto "su programma". Tutto è previsto per rispondere a precise necessità. Il bagno quindi ha la stessa importanza di altre parti della casa, come la corte, il vestibolo o la stanza principale, che serve da soggiorno e da camera da letto.
I sistemi idrici a Kerkouane sono ben documentati sia per l'approvvigionamento sia per il deflusso dell'acqua: vasche, canalette, fogne a cielo aperto o sotterranee, doccioni e gocciolatoi a parete e interparietali. La città di Kerkouane sembra aver totalmente ignorato la cisterna, la cui costruzione e manutenzione dovevano essere più onerose della perforazione di un pozzo.
Il tempio di Kerkouane. Rimanendo nel campo dell'architettura, si deve segnalare la scoperta di un tempio che allo stato attuale delle conoscenze risulta il più grande santuario costruito del mondo punico. La pianta di questo edificio religioso è conforme ai prototipi semitici, con un'entrata munita di due pilastri frontali, un vestibolo e una corte sulla quale si aprivano numerosi ambienti. Nella corte è stato rinvenuto un altare collocato di fronte a una cappella destinata a custodire l'immagine divina. Uno degli elementi caratteristici del santuario è rappresentato dalla presenza di un atelier destinato alla fabbricazione di oggetti votivi, in particolare figurine, delle quali è stato possibile recuperare qualche frammento insieme a scarti di fornace.
Si è potuto riconoscere una triade divina composta da una dea e da due dei che indossavano la tiara conica, di cui uno barbuto e l'altro con i tratti propri di un giovane individuo. L'identificazione di queste divinità risulta alquanto problematica, ciò nonostante il tempio di Kerkouane fornisce un apporto molto importante per la conoscenza dell'architettura religiosa. Da un punto di vista urbanistico o della sintassi urbanistica, la scoperta di questo santuario permette di constatare che nella città punica gli spazi sacri non erano forzatamente relegati alla periferia dell'abitato, ma potevano trovarsi al suo centro.
Al Pantheon cittadino appartengono divinità i cui volti sono stati stampati sull'argilla, oppure incisi sul lato piatto degli scarabei rinvenuti nelle tombe: fra le figurine si segnala la dea cacciatrice e la dea guerriera che divide il trono con un dio di cui resta solo la parte inferiore. Una placchetta, sempre di terracotta, rappresenta un dio che cavalca un ippocampo: potrebbe essere il Poseidone dei Punici, citato dagli autori antichi e nel famoso Giuramento di Annibale. Un medaglione di terracotta riproduce l'immagine di un dio mezzo uomo e mezzo pesce. Si tratta di Tritone o piuttosto di Kousor, attestato a Ugarit e più tardi nell'onomastica di Cartagine? La coroplastica di Kerkouane offre altre immagini relative al mondo marino: Scilla, ippocampi.
Il culto domestico è documentato dalla presenza di cappelle e di altari all'interno di abitazioni private. Su alcuni di questi altari di terracotta è stata rinvenuta la rappresentazione di grifoni che attaccano un cervide.
L'economia e la società. Per la vita economica e sociale, oltre agli edifici, preziose indicazioni vengono dai reperti messi in luce nel corso degli scavi: instrumentum domesticum, monete, scarti di lavorazione, utensili, ecc. Si deve comunque lamentare l'assenza di elementi legati al mondo rurale: a Kerkouane, infatti, il genere di vita sembra sia stato essenzialmente cittadino. Nelle abitazioni nulla fa pensare alla campagna o ai lavori nei campi e all'interno del tessuto urbano non vi sono indizi di ripari per animali. Al contrario, evidenti sono le tracce di attività artigianali, con botteghe di intagliatori di pietre, stuccatori, muratori, tessitori, ceramisti, coroplasti, pescatori e tintori. È risaputo, infatti, che i Fenici erano maestri nella preparazione della porpora e nella tintura dei tessuti che commercializzavano in tutto il Mediterraneo. Kerkouane era senza dubbio uno dei centri di fabbricazione della porpora, come testimoniato dalla presenza di un enorme accumulo di gusci di murex frantumati.
Nella popolazione era presente una forte componente libica che emerge chiaramente dallo studio dell'architettura, in particolare dalle strutture con ambienti disposti in fila, dalla ceramica lavorata a mano, dall'onomastica e da alcune pratiche funerarie, come nel caso dell'utilizzo dell'ocra rossa e soprattutto del rituale dell'inumazione, con il corpo del defunto in posizione coricata laterale e contratta. Sulla base della superficie dell'insediamento e del numero di abitazioni, da una parte, e il profilo e la composizione della famiglia, dall'altra, è possibile stabilire intorno a 2000-2500 il numero di abitanti di Kerkouane-Tamezrat. In una casa potevano vivere al massimo tra le cinque e le sette persone, dal momento che in questo insediamento la famiglia è ridotta alla sua più semplice espressione: padre, madre e qualche figlio ne costituiscono la cellula base, a cui si possono aggiungere servitori e domestici.
La necropoli. La necropoli di Arg el-Ghazouani fu individuata in modo del tutto fortuito nel 1929, nel corso di un'inchiesta giudiziaria legata al traffico di reperti antichi. Purtroppo il saccheggio sistematico delle tombe del luogo continuò sino alla vigilia della seconda guerra mondiale, con una dispersione dei corredi in molte collezioni private soprattutto francesi. Nel frattempo vennero avviati anche scavi regolari, della cui pubblicazione fu incaricato Cintas. Fra il 1965 e il 1966 H. Gallet de Santerre condusse due brevi campagne di scavo, nelle quali furono messe in luce 39 sepolture in anfora e 10 in fossa semplice e in camera funeraria scavata nel calcare arenoso di Arg el-Ghazouani.
Le anfore risultano intenzionalmente rotte nella pancia, in modo da introdurre senza difficoltà il corpo del piccolo defunto, secondo una pratica ben attestata in Oriente e in altre aree del mondo punico. I corredi erano poveri o del tutto assenti. Le anfore, semplicemente alloggiate nelle cavità della roccia, risultano generalmente orientate est-ovest, anche se per sfruttare tutto lo spazio disponibile alcune sono state disposte perpendicolarmente alle precedenti. In questa necropoli di bambini sono state rinvenute anche due tombe a incinerazione in urna: in un caso il recipiente conteneva le ossa calcinate di un bambino associate ad alcune perline, nell'altro vi erano molte ossa attribuibili a più individui. Si sono potuti distinguere, infatti, i resti di un adulto o di un adolescente e alcuni denti di bambino. Le tombe a incinerazione, come del resto quelle a inumazione, potevano contenere quindi deposizioni multiple (Gallet de Santerre - Slim 1983).
Negli anni seguenti gli scavi sono continuati con la messa in luce di tombe a camera, che in alcuni casi si sono rivelate di grande interesse scientifico. Ad esempio, nel 1970 è stata scavata una tomba al cui interno era collocato un sarcofago in legno con il coperchio che presentava l'immagine in rilievo di una donna, interpretata come Astarte, la dea protettrice dei morti. Venendo a periodi più recenti, nel 1992 sono state indagate dieci tombe con un dromos a scalini, che introduceva in una camera funeraria di forma quadrangolare. Nel corso della campagna di scavi sono stati recuperati molti reperti, che vanno dalla ceramica comune alle importazioni in vernice nera, dagli oggetti di metallo ai gioielli, agli scarabei e ai vaghi di collana di pasta vitrea e di cornalina. Fra le offerte si deve segnalare la presenza di resti di uova e di pesce. In due camere funerarie si è potuto constatare che sul pavimento, in corrispondenza di un vaso, era stato deposto un uovo di gallina, come documentato in altre parti del Paese in particolare nel Sahel. Per quel che concerne i resti di pesce essi erano ben visibili nei piatti deposti nelle tombe; in un caso si è anche potuto stabilire il tipo di pesce offerto al defunto, un pagello. Un'offerta simile è stata individuata nella necropoli di Aspis, di cui si è parlato in precedenza.
Nella camera funeraria il defunto, generalmente inumato, poteva essere disteso sul dorso o su un fianco, oppure contratto, cioè in posizione fetale. Quanto alla sua collocazione, il corpo poteva essere adagiato direttamente sul suolo, oppure veniva preparato un letto funebre o un sarcofago di legno. In alcuni casi tre loculi si disponevano sulle due pareti laterali e su quella di fondo della camera funeraria. Dal momento che si trattava di tombe di famiglia, la camera funeraria poteva ospitare molte deposizioni relative a membri della stessa famiglia.
Sebbene l'inumazione sia prevalente, ad Arg el-Ghazouani non mancano casi di incinerazione. Oltre agli esempi segnalati in precedenza, si ricorda per la campagna del 1992 il caso del tutto eccezionale della tomba n. 3, dove l'incinerazione sembra abbia avuto luogo nella camera funeraria, poiché sotto le ossa calcinate è stato recuperato uno spesso strato di cenere e gli elementi del corredo, fra cui spicca per importanza un anello d'oro con raffigurata una testa femminile, portavano evidenti tracce del fuoco vivo. Nella tomba n. 6, infine, sono attestati tutte e due i rituali: nel loculo di destra, infatti, era alloggiato il corpo inumato di un individuo, mentre in quello di sinistra si trovavano i resti incinerati di un altro individuo, verosimilmente di sesso femminile, a giudicare dalla composizione del corredo che presentava due specchi di bronzo.
Riguardo alla cronologia della necropoli, le sepolture più antiche messe in luce sino a oggi non risalgono oltre il VI sec. a.C., mentre quelle più recenti si situano nel III sec. a.C. Nulla comunque esclude la possibilità che vi siano delle tombe posteriori all'abbandono dell'abitato. Non lontano da Kerkouane, verso nord, si trova la necropoli di Gebel Melezza, che ha restituito una delle tombe a camera più interessanti di tutto il paese, in virtù della sua ricca decorazione che si sviluppa lungo le due pareti laterali e su quella di fondo. Inquadrati da cornici a losanghe e a triangoli giustapposti sono raffigurati mausolei, altari, galli, una città fortificata, il simbolo cosiddetto "di Tanit" e un crescente lunare.
Korba. - Korba, l'antica Curubis, si trova sul lato orientale di Capo Bon ed era un porto lagunare di considerevole importanza. Della città punica si possiedono poche indicazioni, ma il sito deve la sua notorietà soprattutto al rinvenimento di due statue funerarie, purtroppo in frammenti, che raffigurano personaggi femminili stanti, con la mano sinistra che regge il tradizionale contenitore per profumi e la mano destra alzata in segno di adorazione, come è possibile ricostruire sulla base di esemplari integri da Cartagine. Si segnalano inoltre due stele funerarie, di cui una porta inciso il nome del defunto: 'DNBL.
A nord dell'abitato, in località Ksar es-Saad si trova la necropoli, disposta su una collina parallelamente alla linea di costa. Nonostante le devastazioni selvagge operate in passato, lo scavo della necropoli di Korba ha riservato elementi di notevole interesse, dal momento che le tombe a camera presentano particolarità non documentate altrove a Capo Bon. Queste tombe, infatti, oltre alla loro buona fattura presentano scale con due rampe disposte a squadra, dromos a forma di cavedio, camera funeraria dotata di numerose nicchie (in un caso ne sono state individuate addirittura sei) e decorazioni sia dipinte sia scolpite. La cronologia dei monumenti risulta ancora da definire con precisione, dal momento che non si hanno studi specifici al riguardo; sembra tuttavia certo che la necropoli fosse in piena attività nel corso del IV e del III sec. a.C.
Menzel Temime. - In questa località è stata rinvenuta una necropoli punica disposta sulle colline, oggetto in passato di scavi clandestini. Sono state individuate 89 tombe a camera, di cui 4 ancora intatte, e numerose tombe a fossa, di cui solo una si era salvata dalle devastazioni dei clandestini. Queste ultime erano di forma quadrangolare e dotate di una risega su tutti i lati, in modo da alloggiare stabilmente le lastre di copertura. In alcuni casi si è riscontrata la presenza di incisioni, che interrompono la risega a intervalli regolari, nelle quali dovevano essere inseriti travetti per l'apprestamento di una sovrastruttura del tipo a cupula.
Le tombe ipogeiche presentano la classica tripartizione con scala, dromos e camera funeraria. In molti casi le pareti della camera funeraria erano dipinte. Purtroppo non è sempre possibile comprendere i motivi che dovevano abbellire la tomba, dal momento che le devastazioni operate dall'uomo e gli agenti atmosferici hanno finito per danneggiare irreparabilmente la delicata decorazione realizzata con l'ocra. Alcune eccezioni fanno comprendere l'attenzione riservata alla camera funeraria, come nel caso della tomba 32, che presenta un doppio fregio di losanghe che corre lungo tutte le pareti della stanza. Sulla parete di fondo, all'incirca in posizione assiale, si staglia il cosiddetto "segno di Tanit", dipinto in ocra rossa all'interno di un pannello a sommità triangolare. Infine, sulla parete anteriore della camera funeraria sono state individuate tracce di un volto umano, di cui si possono ancora distinguere i tratti salienti.
La tomba 49 presenta una decorazione ugualmente elaborata, dove è ben visibile al di sotto della nicchia l'immagine di un volatile, senza dubbio un gallo con una coda così folta e lunga da ricordare quella di un fagiano. Il paragone con il gallo della tomba di Gebel Melezza viene immediato e impone delle riflessioni sul significato di questo animale in contesti funerari: è probabile che l'uccello nell'escatologia semitica e quindi in quella punica rappresenti l'anima del defunto. Nella tomba 85 è documentata una scena rituale: un uomo che porta una vistosa acconciatura con piume si dirige verso un mausoleo per una visita rituale o per compiere un sacrificio funerario. Per la cronologia della necropoli un utile indizio è fornito dai reperti rinvenuti durante gli scavi. Infatti, la presenza di ceramica di produzione locale, di vernice nera e di monete permette di risalire al IV sec. a.C.
Ras ed-Drek. - Ras ed-Drek è uno dei massicci montuosi che forma il Gebel Sidi Labiadh, a nord di Capo Bon. In questa località è stato individuato un tempio a forma di quadrilatero quasi regolare, con 11,3 m di lunghezza e 7,85 m di larghezza. Relativamente ben conservati, i muri perimetrali permettono di delimitare senza la minima difficoltà la superficie coperta dall'edificio, che risulta articolato in quattro parti dalla presenza di tre muri divisori.
I materiali rinvenuti, tra i quali spiccano numerosi frammenti di vernice nera che appartengono alla ceramica precampana e alla cosiddetta "Campana A", permettono di collocare il tempio fra il IV e il III sec. a.C. L'edificio sembra sia stato definitivamente abbandonato dopo la terza guerra punica. Non lontano da questo spazio sacro è stata individuata una fortezza punica, di cui rimangono solo le scale di accesso, i muri perimetrali realizzati con blocchi ciclopici e alcune cisterne. La costruzione dell'edificio sembra risalire al V sec. a.C.; a giudicare dai materiali rinvenuti (anfore greco-italiche, ceramica a vernice nera del tipo Campana A, monete, ecc.). La fortezza rimase in funzione sino alla fine dello Stato cartaginese.
Siti della Bizacena - La Bizacena è stata una regione prospera della Tunisia punica. Essa corrisponderebbe grosso modo all'attuale Sahel, che si sviluppa a sud di Capo Bon, all'altezza di Enfida, per proseguire lungo la costa sino a raggiungere il territorio di Gebiniana, a nord di Sfax. Il nome di questa regione cambia da un periodo all'altro e talvolta da un autore all'altro. In Polibio si trova la forma ΒυσσάτιϚ e ΒυζάϰιϚ gli autori latini, in particolare Tito Livio e Plinio il Vecchio, utilizzano la forma Byzacium. - Cartagine era molto gelosa di questa regione e si opponeva a tutti i commerci stranieri, come testimoniato dal primo trattato romano-cartaginese del 509 a.C., che vietava ai Romani di navigare al di là di Capo Bello, cioè di Capo Bon (Pol., III, 22, 5-7). La metropoli nord-africana voleva quindi mantenere un rapporto esclusivo con la Bizacena, sicuramente a causa del suo grande valore strategico e della sua importanza economica dovuta alla fertilità delle terre.
Hadrumetum. - Citato ripetutamente dagli autori classici l'insediamento antico non è stato oggetto di indagini approfondite, per cui allo stato attuale delle conoscenze si conoscono relativamente bene solo il tofet e la necropoli, mentre l'abitato, situato sotto la moderna città di Sousse, è ancora tutto da indagare.
Lo scavo del santuario ha avuto inizio all'indomani della seconda guerra mondiale, sotto la direzione scientifica di Cintas. Gli strati più antichi raggiunti dall'archeologo francese non risalgono oltre il VI sec. a.C., ma è possibile che la messa in funzione del tofet sia precedente, dal momento che le indagini furono compromesse sia dalla presenza di edifici storici quali la grande moschea, sia dal raggiungimento della falda freatica con il successivo allagamento dello scavo. Ciò nonostante furono individuate numerose urne e stele, che si sono rivelate di grande interesse.
Le stele inscritte hanno permesso di constatare l'importanza del signore Baal Hammon e della dea Tanit, conosciuta con l'appellativo di "faccia di Baal". Questi monumenti si distinguono nettamente dalle stele rinvenute nel tofet di Cartagine. Infatti, le stele di Sousse presentano caratteristiche proprie sia per quel che concerne la morfologia, sia per l'iconografia e per il contenuto delle epigrafi. Fra le iconografie più note si ricorda quella del dio Baal Hammon, seduto su un trono fiancheggiato da sfingi alate, che impugna nella mano sinistra uno scettro, mentre alza la mano destra in segno di benedizione. Altre stele raffigurano una divinità femminile, molto verosimilmente Tanit, seduta su uno sgabello e vestita con una lunga veste, che tiene in mano un oggetto sferico. Si segnala, infine, il motivo della facciata di una cappella, i cui pilastri frontali sono coronati da magnifici busti hathorici e sormontati da un fregio con urei e disco solare alato. Sia in questa stele sia in altre l'influenza egiziana appare chiaramente percepibile. Il contenuto epigrafico delle stele del tofet di Sousse è meno ricco di quello delle stele rinvenute a Salammbô, ma ci sono alcuni elementi linguistici e una serie di informazioni che meritano l'attenzione del filologo e dello storico. Una di queste iscrizioni, ad esempio, fa allusione a "la porta del santuario", che potrebbe indicare sia la porta del tofet stesso, oppure una delle porte urbiche.
Riguardo alla necropoli, le prime tombe puniche furono rinvenute alla fine dell'Ottocento in località Borj Cherch. Di queste solo una fu scavata e pubblicata da G. Hannezo. Successivamente, altre sepolture furono individuate da L. Foucher all'interno della casba, ai piedi della torre aghlabide di Khalaf el-Fata. Da quel momento la necropoli di Hadrumetum non fu più oggetto di indagini, per cui si può affermare che lo spazio funerario dell'insediamento punico resta poco conosciuto e che le tombe scavate non corrispondono all'importanza che la città dovette avere nell'antichità. Allo stato attuale della documentazione, si possono distinguere due tipi di tombe: il tipo a fossa semplice e il tipo ipogeico, con pozzo e camera funeraria scavati nella roccia. Riguardo al rituale funebre, risulta documentata sia l'inumazione sia l'incinerazione, senza che si possa al momento stabilire una differenza cronologica fra le due pratiche. I materiali rinvenuti nelle tombe, fra cui si segnalano importazioni attiche, permettono di inquadrare le poche sepolture scavate nell'ambito del IV sec. a.C. Il settore arcaico della necropoli, quindi, non sarebbe ancora stato identificato, mentre molto meglio conosciuta risulta la necropoli detta "neopunica", con riferimento alle sepolture successive alla distruzione di Cartagine.
Leptis Minor. - È una delle città più importanti della costa della Bizacena, corrispondente al moderno centro di Lemta.
La più antica menzione di Leptis si trova nel Periplo dello Pseudo-Scilace, la cui datazione si colloca nell'ambito del IV sec. a.C. Fra gli autori antichi che parlano di questo centro si devono senz'altro citare Polibio, Sallustio, Tito Livio, Plinio il Vecchio, l'autore del Bellum Africanum e Appiano. Si dispone, quindi, di una ricca tradizione storiografica che permette di seguire le tappe salienti della città punica. Durante la guerra dei mercenari (240-237 a.C.), Mathos, uno dei comandanti delle truppe ribelli, combatté non lontano da Leptis, dove fu vinto; Annibale nel 203 a.C., quando dovette rientrare in Africa per proteggere i territori di Cartagine minacciati da Scipione, sbarcò nel porto di questa città e da lì prese la strada verso Ruspina e Hadrumetum. Inoltre, nei momenti precedenti la distruzione di Cartagine da parte di Scipione l'Emiliano Leptis fu fra le città che abbandonarono la causa della metropoli africana nella speranza di sfuggire ai saccheggi e alle distruzioni operate dai Romani.
A queste numerose informazioni letterarie si devono aggiungere i dati provenienti dall'archeologia e dall'epigrafia. Il territorio di Leptis è stato oggetto di continue prospezioni e scavi a partire dalla fine dell'Ottocento, che hanno soprattutto indagato l'area della necropoli. L'abitato si estendeva lungo la costa in stretta relazione con le installazioni portuali. I resti della città punica sono quindi da ricercare sotto la moderna Lemta e nei suoi immediati dintorni, in corrispondenza delle rovine di epoca romana ancora oggi ben visibili. Tornando alle aree funerarie, se ne distinguono due: la prima a Sidi Marrakchi, che si trova a 2 km da Lemta, la seconda a nord di Bouhjar, sul tavolato che domina il Wadi Kherizane. Lo studio delle strutture ancora visibili ha permesso di riconoscere la presenza di due tipologie di tombe: il tipo a fossa e il tipo a pozzo provvisto di scala di accesso. Per quel che concerne il primo tipo, la fossa risulta più o meno profonda, con una risega tagliata su tutti i lati, in modo da assicurare il perfetto alloggiamento delle lastre di copertura. Le tombe a pozzo potevano avere una o più camere funerarie: nel caso in cui le camere funerarie erano due le aperture erano realizzate l'una di fronte all'altra, oppure a squadra. Una delle tombe scavate presenta una camera doppia, di cui le due componenti si collocano in fila, l'una dietro all'altra, secondo uno schema tipico del mondo libico.
Nelle necropoli di Leptis sono attestati sia l'inumazione sia l'incinerazione. Fra le pratiche funerarie si segnala l'uso dell'ocra e dell'offerta di alimenti. Alcuni indizi inoltre sono da mettere in relazione con pratiche che precedevano o seguivano l'interramento del defunto: all'entrata di una camera funeraria è stato individuato un tavolo in muratura sul quale erano disposti ben 14 unguentari. In altre tombe è stata segnalata la presenza di tracce di fuoco all'interno delle camere funerarie, oppure di vasi disposti in nicchie ricavate nelle pareti dei pozzi.
Il corredo era prevalentemente composto da ceramiche, sia lavorate a mano sia al tornio. Si tratta soprattutto di ceramica di produzione locale, ma non mancano le importazioni. Fra gli altri oggetti si ricordano coltelli, accette di bronzo, frammenti di specchi e monete. La cronologia delle sepolture si colloca fra il IV e il I sec. a.C. Più difficile stabilire la fondazione della città, visto lo stato lacunoso della documentazione; seguendo la tradizione di Sallustio si può proporre come ipotesi la data del VI-V sec. a.C.
Thapsus. - Il sito è collocato sulla punta di Ras Dimas ed è citato nel Periplo dello Pseudo-Scilace e da Diodoro Siculo in riferimento alla spedizione di Agatocle sul suolo africano nel 310 a.C. Durante la terza guerra punica Thapsus, nella speranza di sopravvivere, cedette alla pressione di Roma e abbandonò la causa di Cartagine. Fu una delle sette città che dopo la legge agraria del 111 a.C. meritarono il titolo di "città libere e amiche del popolo romano".
Gli scavi hanno riguardato soprattutto la vasta necropoli che si estende in località el-Behira. Le tombe ipogeiche presentano la particolarità, segnalata anche per alcune sepolture di Korba, di un cavedio, cioè di un patio, che si colloca fra la scala di accesso e la camera funeraria. Altro elemento distintivo è dato dalla presenza di cippi, che dovevano segnalare la presenza delle tombe. Le camere funerarie risultano generalmente prive di decorazione. Si deve comunque segnalare la presenza di rare tracce di cinabro visibili sul soffitto e intorno alle nicchie; nella tomba n. 13 un filetto di pittura rossa corre lungo tutte le pareti della camera funeraria a pochi centimetri dal soffitto.
Riguardo al corredo funerario, la ceramica costituisce l'elemento dominante, con produzioni sia locali sia importate dal mondo greco. Sono stati recuperati anche anelli di bronzo e di argento, vaghi di collana di pasta vitrea, amuleti, orecchini, spilloni, monete di bronzo. Nella tomba n. 1, oggetto di scavi clandestini, è stata rinvenuta una statuetta di terracotta che rappresenta una musicante intenta a suonare un flauto doppio. A questi reperti si possono aggiungere elementi di legno e chiodi, che rappresentano i resti dei feretri in cui erano collocati i corpi dei defunti.
Per quel che concerne il rituale, quello maggiormente praticato era l'inumazione, anche se durante gli scavi ottocenteschi condotti da D. Novak sono stati riscontrati casi di incinerazione. Tracce di ocra rossa sono documentate sugli scheletri dei defunti e frammenti di ocra sono stati raccolti all'interno di alcune camere funerarie. Si deve infine segnalare la scoperta di iscrizioni che attestano la presenza di antroponimi caratteristici dell'onomastica libica, come nel caso della tomba n. 10, dove si è potuto decifrare il nome del morto e di suo padre: BNN BN NZRS. Sulla base dei materiali rinvenuti nelle tombe e dei dati epigrafici è stato proposto di datare le sepolture fra la fine del IV e il III sec. a.C.
Fra i centri del Sahel particolare rilievo assume la città di Mahdia, dove sono state identificate importanti vestigia riferibili al periodo punico. Sulla linea di costa le indagini hanno evidenziato la presenza di un bacino artificiale (cothon) ricavato dal taglio del banco roccioso. La struttura presenta orientamento nord-est/sud-ovest, con l'apertura a mare collocata sul lato sud-orientale larga all'incirca una decina di metri. La superficie del bacino risulta particolarmente ampia, dal momento che i lati lunghi raggiungono all'incirca i 100 m e quelli corti i 50 m. Sono state rilevate tracce delle banchine ed è stata segnalata la presenza di un canale, della larghezza variabile fra i 5 e i 6 m e della profondità di circa 0,5 m, che sembra sia stato realizzato per assicurare la circolazione dell'acqua ed evitare in tal modo l'insabbiamento.
Di grande interesse sono inoltre le necropoli che si estendono sia sulla penisola su cui si sviluppava molto verosimilmente l'abitato sia all'interno del Paese per una profondità di oltre 12 km. Si tratta quindi di un complesso molto grande che testimonia l'importanza e la densità dell'insediamento di riferimento. Sono state individuate più di 1000 tombe, la maggior parte delle quali risultava violata dai clandestini. Si distinguono le tombe a fossa semplice e le tombe a pozzo. Riguardo a queste ultime i pozzi, talvolta molto profondi, potevano presentare sul fondo delle camere funerarie. Si hanno casi in cui i pozzi davano accesso a due camere funerarie disposte l'una di fronte all'altra, oppure su lati contigui. Alcuni ipogei potevano presentare pozzi con camere funerarie su tutti e quattro i lati, mentre non sembrano al momento attestati casi di camere funerarie sovrapposte.
Le camere funerarie presentano generalmente forma quadrangolare, ma in alcuni casi la parete di fondo risulta absidata. Fra gli arredi si segnalano scalini per facilitare l'accesso dal pozzo alla camera, banchine, loculi e nicchie. Si hanno indicazioni di camere funerarie dipinte in ocra rossa, con decorazioni lineari e temi vegetali, fra cui spicca per importanza il motivo del fiore di loto. Risultano attestate sia l'inumazione sia l'incinerazione. Nel primo caso il defunto era deposto all'interno di feretri di legno in decubito dorsale allungato, oppure in decubito laterale allungato o contratto. Nel rituale dell'incinerazione, le ceneri erano raccolte in brocche o in anfore successivamente deposte sulle banchine o all'interno di nicchie ricavate per tale scopo. Il corredo era composto generalmente da vasi di produzione locale e da rare importazioni; in alcuni casi sono stati recuperati oggetti relativi al corredo personale quali spilloni per capelli, specchi, coltelli, monete, manufatti in avorio e vaghi di collana in pasta vitrea. Con le dovute cautele imposte dalla perdita di molta documentazione, l'utilizzo di questa vasta necropoli si colloca fra la fine del V e il II sec. a.C.
A 5 km a sud di Mahdia si trova il sito di el-Alia, dove nel 1898 D. Novak ha individuato e in parte scavato una vasta necropoli che si sviluppa sulle colline che si distendono lungo la linea di costa. Le indagini hanno interessato 64 tombe, di cui attualmente se ne conservano circa la metà. Le tombe a pozzo erano segnalate da pietre collocate in prossimità dell'apertura o da stele, di cui si ignora l'esatta collocazione. Queste ultime sono scomparse, anche se dai rapporti di scavo è possibile risalire alle raffigurazioni che vi erano scolpite. Si tratta di quattro esemplari: il primo presentava un personaggio di sesso maschile con le braccia abbassate, collocato sul fondo di una nicchia; il secondo, una figura femminile vestita con una lunga tunica e con le braccia distese lungo i fianchi; per il terzo e il quarto la descrizione è troppo sommaria. P. Gaukler fa riferimento a una figura divina resa simbolicamente fra un caduceo a destra e una scure o un'asta verticale a sinistra.
Dal fondo dei pozzi, che si raggiungeva tramite una scala laterale, si aprivano gli accessi per le camere funerarie, le quali si disponevano ad un livello più basso. Queste ultime potevano avere forme e dimensioni variabili. Riguardo agli arredi, le camere funerarie erano provviste di uno scalino, che serviva per facilitare l'entrata, di banchine e di nicchie. Si hanno indicazioni di decorazioni dipinte in ocra rossa con raffigurazioni di animali, fra cui un elefante, e motivi vegetali. A fianco alle tombe puniche sono state rinvenute anche tombe megalitiche delle popolazioni autoctone. Si tratta di camere realizzate con muri di pietre a secco disposte su un numero di assise variabile da due a quattro; le coperture erano formate da grosse lastre di circa 3 m2 di superficie e di 30 cm di spessore. Le camere funerarie erano ricoperte da tumuli composti da terra e da pietrame minuto, la cui altezza era all'incirca di 1,6 m e il diametro della base poteva variare fra i 12 e i 30 m.
Gli archeologi che hanno indagato la necropoli segnalano tre tipi di sepoltura: l'inumazione, l'incinerazione e la scarnificazione. Quest'ultima pratica è tuttavia poco probabile. Per l'inumazione, che sembra sia stata la più frequente, il morto veniva deposto in decubito dorsale allungato o in decubito laterale contratto su una banchina, oppure dentro un sarcofago. È attestato l'uso di dipingere di ocra rossa il viso del defunto e di compiere delle offerte alimentari. Il corredo era essenzialmente composto di vasi in ceramica sia al tornio sia a mano prevalentemente di produzione locale, anche se sono state individuate delle importazioni, come nel caso delle lucerne ad alette. Le tombe scavate si collocano fra il III e il II sec. a.C., anche se in certi casi i materiali potrebbero risalire sino alla fine del IV sec. a.C., e attestano l'esistenza di un centro libico fortemente influenzato da una cultura di tradizione fenicia. In definitiva el-Alia è una testimonianza molto importante di incontro e di interferenza etnoculturale.
A sud dell'attuale cittadina di Ksour es-Saf sono state individuate e quindi scavate tre tombe puniche. Si tratta di tombe a pozzo, la cui profondità varia da uno a due metri. Una di queste tombe presenta due camere funerarie disposte su lati contigui sul fondo del pozzo. Le dimensioni variano da 2 a 2,4 m di lunghezza. L'altezza della camera meglio conservata è di 1,6 m; essa è a un livello più basso rispetto al fondo del pozzo, dal momento che il pavimento si trova a 0,6 m sotto la soglia. Una di queste tombe presenta le pareti del pozzo rivestite da blocchi irregolari di piccole dimensioni, mentre la camera funeraria è realizzata con blocchi ben squadrati messi in opera con cura. L'ambiente era decorato con una cornice scolpita, elemento molto raro nell'architettura funeraria della Bizacena.
I defunti sono stati inumati in sarcofagi di legno e disposti ritualmente in posizione distesa sul dorso o su un fianco in posizione contratta. Tracce di ocra rossa sono state individuate sui resti scheletrici e sulle pareti esterne dei sarcofagi. Ossa di piccoli volatili deposti all'interno di un'anfora costituiscono la prova di un'offerta alimentare. Il corredo funebre era rappresentato da ceramiche al tornio o modellate a mano prevalentemente di produzione locale, anche se non mancano importazioni. Una di queste tombe conteneva la famosa corazza italiota attualmente custodita al Museo del Bardo. Si è proposto di riconoscere in questa corazza il ricordo delle imprese vittoriose nella penisola italiana di uno dei soldati di Annibale. La datazione dei contesti si colloca fra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., anche se la presenza punica nella regione potrebbe essere più antica.
In corrispondenza dell'attuale centro di el-Djem sorgeva l'antica città di Thysdrus, che conobbe un grande sviluppo in epoca romana. L'autore anonimo del Bellum Africanum la presenta infatti come un importante centro di produzione di olio e di cereali. Le vestigia relative al periodo punico sono soprattutto relative alla necropoli messa in luce lungo la strada per Sfax, di fronte alla stazione di el-Djem. Purtroppo le strutture tombali sono andate completamente distrutte, ma il loro contenuto si è fortunatamente in gran parte salvato. Si tratta di corredi costituiti da ceramica al tornio o modellata a mano: anfore, lekythoi, unguentaria, coppe troncoconiche con o senza presa di sospensione e lucerne. I materiali si collocano fra il II e il I sec. a.C., ma questo è solo un aspetto della città preromana, le cui fasi di vita più antiche aspettano ancora di essere investigate.
Stefano di Bisanzio attribuisce la fondazione di Acholla a Fenici provenienti da Malta. L'origine fenicia potrebbe essere provata dal toponimo, che secondo alcuni studiosi deriverebbe dalla radice GL che implicherebbe la nozione di rotondità e suggerirebbe la forma circolare. Il nome fenicio della città potrebbe essere restituito con GLT e pronunciato Agoulat. Si tratta comunque di un'ipotesi che manca di puntuali testimonianze. Riguardo ai resti archeologici, non c'è nulla che sia oggigiorno visibile. In passato è stata data notizia del rinvenimento di un santuario collocato in prossimità della linea di costa, dove sono state rinvenute delle stele con il cosiddetto "simbolo di Tanit" e delle urne che contenevano resti ossei. Purtroppo, i risultati degli scavi non sono mai stati pubblicati e i materiali risultano dispersi. Un'altra segnalazione è fornita da Ch. Saumagne, che parla del rinvenimento di tombe a fossa sulla spiaggia di Acholla da cui provengono degli unguentaria.
La presenza fenicia nel Mediterraneo occidentale, inaugurata senza dubbio prima della fine del II millennio a.C. e coronata dalla fondazione di Cartagine nell'814 a.C., si è dimostrata estremamente importante per tutti i popoli con cui è venuta in contatto. Cartagine ha contribuito in modo molto efficace a liberare definitivamente l'Africa del Nord, le isole del Mediterraneo occidentale e le coste meridionali della Spagna dalle nebbie della preistoria. Queste regioni si trasformeranno poco a poco in focolai culturali di intensa attività: ovunque saranno percepibili cambiamenti e novità in tutti i campi della vita economica, politica, culturale, sociale e militare. Per spiegare queste trasformazioni si deve attribuire una funzione fondamentale all'azione diretta dei Fenici di madrepatria e di Cartagine, ma bisogna anche sottolineare il ruolo giocato dalle popolazioni locali. L'attività commerciale fenicia e la fondazione di Cartagine hanno certamente aiutato le genti autoctone a conoscersi meglio e a prendere coscienza delle proprie potenzialità e delle proprie ricchezze interne ed esterne. S. Agostino sosteneva che "secondo persone molto dotte, c'erano molti buoni insegnamenti nei libri punici".
L'apertura del mondo libico alle correnti economiche e culturali del Mediterraneo e il suo inserimento nella storia, ecco ciò che si può mettere all'attivo dei Fenici e dei Cartaginesi. In precedenza, i Libici di cui parlano i testi dell'Egitto faraonico e più tardi Erodoto stazionavano ai limiti della storia; la loro cultura si situava in quella zona difficile da definire che gli specialisti chiamano protostoria. Furono i Fenici che introdussero la scrittura presso i Libici e la lingua di Cartagine si impose in seguito nei palazzi reali tanto in Numidia quanto in Mauretania.
Grazie ai contatti con i Fenici prima e con i Cartaginesi poi i Libici poterono apprezzare i vantaggi della vita sedentaria. Ciò portò a un'accelerazione del processo di sedentarizzazione delle tribù della Numidia e della Mauretania, sostenuto e incoraggiato dai re locali, che in questo modo potevano condurre con migliore successo la loro politica sociale e fiscale, facilitare l'azione dell'amministrazione reale e realizzare i propri progetti a favore del palazzo e della collettività. Le popolazioni autoctone avevano quindi una propria cultura: una scrittura, un'architettura, credenze e Pantheon strutturati, così come testimoniato dall'archeologia e dall'epigrafia. Fra i re d'Africa ve ne furono alcuni come Siface, Massinissa e Giugurta la cui levatura oltrepassò le frontiere dell'Africa. Ma a favore dei Fenici e di Cartagine si deve segnalare in campo politico l'introduzione di alcune nozioni completamente nuove per il Mediterraneo occidentale e per l'Africa, come quella di stato, di costituzione, di amministrazione e di potere organizzato. Nella sua Politica Aristotele non mancò di lodare la costituzione di Cartagine. Altre importanti città puniche come, ad esempio, Utica, Hippo, Leptis, Hadrumetum, Neapolis, Kerkouane e Sabratha dovettero contribuire nelle loro rispettive regioni a introdurre presso le popolazioni africane le nuove forme politiche e amministrative.
Malgrado le scarne indicazioni che si possiedono per i regni di Numidia e Mauretania, si sa che numerose città africane adottarono il sufetato, istituzione che sopravvisse alla fine di Cartagine e si mantenne per lungo tempo anche dopo la conquista romana. Il nonno di Massinissa, Zilalsan, ricoprì la carica di sufeta, come attesta l'iscrizione bilingue di Dougga, attualmente esposta al Museo del Bardo. Grazie a un'altra iscrizione si sa che c'erano dei sufeti a Volubilis, in Mauretania, nel corso del III sec. a.C. Si tratta quindi di cambiamenti che modificarono in modo radicale la società, l'economia, l'organizzazione politica e amministrativa e la religione dei popoli libici. Nelle campagne della Numidia e della Mauretania il numero di coloro che adoravano Tanit e soprattutto Baal non finiva di aumentare, con implicazioni sia a livello di culto sia a livello di manifestazioni private. Il magistero culturale di Cartagine si impose così profondamente all'interno delle popolazioni indigene, abitanti della regione di Ippona, che ancora all'epoca di s. Agostino proclamavano con fierezza le loro origini cananee.
In generale:
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Bizacena:
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Piccola Sirte:
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Algeria:
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Marocco:
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