Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Secolo del primo Rinascimento e anche di una vera rinascita per gli ebrei sotto il profilo della vita religiosa, scientifica e culturale, il Quattrocento resta nella storia ebraica soprattutto il tempo della grande espulsione dai Paesi iberici, dalla Sardegna e dalla Sicilia, realizzata nel 1492 e che conduce a una diaspora di dimensioni senza precedenti. L’ebraismo sefardita cerca una nuova patria in Portogallo, dove però trova nuove restrizioni e il battesimo forzato, mentre in Italia stenta a inserirsi nel tessuto ebraico locale e, per di più, a sud viene travolto con l’espulsione degli ebrei meridionali. Solo in terra islamica, e specialmente a Salonicco, si creano le condizioni per lo sviluppo di quello che diverrà il principale centro ebraico di tutto il Mediterraneo. Nel frattempo la crisi determinata dalla dispersione favorisce la nascita di un diverso approccio alla storia e della diffusione di nuove speranze messianiche.
Dopo la crisi che alla fine del XIV secolo investe l’area centro-europea, il secolo successivo vede il compimento dell’estromissione ebraica dalla compagine sociale occidentale. Tale allontanamento si realizza, sostanzialmente, con due diverse modalità: in un primo caso, consentendo agli ebrei di risiedere, in condizioni precarie e di subalternità, presso gli stessi spazi abitati dai cristiani; nel secondo caso si giunge, invece, all’espulsione definitiva. In tutto il corso del Quattrocento tale andamento generale ha modo di concretizzarsi particolarmente in Italia, nei cui territori si assiste alla progressiva immigrazione di contingenti, talora corposi, di esuli dalla Francia, dalla Germania e infine dalla Spagna. Per alcuni decenni, infatti, insediarsi nella penisola è di fatto l’ultima possibiltà per gli ebrei d’Europa. Anche grazie all’incremento demografico determinato da tali flussi migratori, nell’Italia del Quattrocento la vita e la cultura ebraica conoscono pressoché ovunque una straordinaria stagione di fioritura civile e culturale, che non sempre ha modo di svilupparsi, d’altra parte, entro un clima socialmente sereno e improntato alla convivenza pacifica. Se nell’ambito culturale si assiste, infatti, a un imponente slancio negli studi, nelle lettere e nelle scienze, accanto a isole di tranquillità, o addirittura di benessere, si stagliano i problemi di sempre: l’intolleranza, l’obbligo del “segno”, la frequente imposizione di prediche coatte, le accuse di omicidio rituale. Su quest’ultimo versante, enorme impressione suscita nel 1475 la vicenda del presunto martirio di Simonino da Trento, per il cui assassinio vari ebrei della piccola comunità locale vengono ingiustamente accusati e messi a morte.
Nell’estate del 1492 ha luogo l’espulsione degli ebrei da tutti i territori ispanici, Sardegna e Sicilia comprese, per effetto di un decreto, datato 31 marzo, dei re cattolici Ferdinando d’Aragona (1452-1516) e Isabella di Castiglia (1451-1504) e preparato su impulso dell’inquisitore generale del regno, il domenicano Tomás de Torquemada. Poco prima, ai primi di gennaio, la presa di Granada aveva definitivamente sottratto ai musulmani l’ultima porzione di territorio di Spagna e sancito il compiersi della Reconquista. Con l’espulsione degli ebrei, Ferdinando e Isabella coronano il progetto di dar corpo a un nuovo regno, unito e interamente cristiano e, per far questo, nel giro di pochi mesi vengono costrette all’imbarco non meno di 160 mila persone (ma alcune stime indicano un numero ancora superiore). Gli esuli si riversano in tutte le aree non controllate direttamente dalla corona di Spagna e trovano accoglienze diverse. Molti seguono inizialmente la strada più ovvia, recandosi nel vicino Portogallo, da dove, si crede, potrà essere facile rientrare in Spagna in caso di revoca dell’espulsione, in cui molti sperano. In terra lusitana non vi sono precedenti significativi di persecuzioni antiebraiche e il re Giovanni II accorda la residenza a tutti gli ebrei in grado di versare una somma, peraltro ragguardevole, di denaro. Tale richiesta viene soddisfatta solo da una minoranza degli esuli – cui in Spagna era stato vietato di esportare la ricchezza mobile – e, deluso, il re decide di consentire a tutti gli altri solo un breve diritto di transito, con l’obbligo di andarsene entro un massimo di otto mesi. Allo scadere del termine fissato, ben pochi hanno lasciato il Paese e ancora in meno sono riusciti ad acquistare la residenza. Con un gesto inatteso, piuttosto che allontanare gli ebrei – secondo alcuni, ritardando deliberatamente l’arrivo delle navi che avrebbero dovuto portarli altrove –, il sovrano ne dispone la riduzione in schiavitù, dalla quale saranno liberati solo nel 1495 dal successore di Giovanni, Manuele I. I fuoriusciti iberici vedono, comunque, di lì a poco svanire le proprie speranze quando, alla vigilia del matrimonio di Manuele con Isabella d’Aragona (1470-1498), figlia di Ferdinando e Isabella, il re deve promettere di allontanare gli ebrei anche dal suo regno e, puntualmente, il 5 dicembre 1496 firma il decreto di espulsione, il cui termine viene fissato entro l’anno successivo. Manuele però considera gli ebrei una risorsa necessaria al Paese e, sin dal marzo 1497, pone in essere una serie di provvedimenti atti a trattenere gli ebrei, se necessario, anche con la forza. Innanzi alla prospettiva di dover presentare al battesimo tutti i fanciulli fra i 4 e i 14 anni, la grande maggioranza degli ebrei risponde con una tenace resistenza giungendo, in qualche caso, persino al qiddush ha-shem, il suicidio. Infine, il re fa radunare gli ebrei, circa 20 mila, al porto di Lisbona con la promessa di un imbarco: ma, dopo averli isolati, lasciati per giorni senza cibo sotto la pressione del caldo e di prediche incessanti, sottomette tutti a un battesimo collettivo. Ha così origine la storia dei Marrani portoghesi, che nei due secoli a seguire si diffonderà in vari altri Paesi.
All’indomani del decreto del 1492, le prospettive sul futuro ebraico in Europa sono sconfortanti. Già espulsi da alcuni dei più importanti territori, è a tutti evidente che nelle aree della cristianità lo spazio per gli ebrei è venuto ad assottigliarsi e che solo nei Paesi islamici si danno, apparentemente, maggiori garanzie di sopravvivenza e concrete possibilità di convivenza. Non sorprende, quindi, che dopo il 1492 – e specialmente dopo le vicende portoghesi – la diaspora ebraica opti in maggioranza per la via dell’Impero ottomano, specialmente per i territori fra l’Egeo e la capitale, Costantinopoli, ove agli ebrei si prospettano condizioni di vita nettamente superiori a quelle sperimentate, almeno nei secoli più recenti, negli Stati cristiani. Cio nonostante, migliaia di esuli scelgono ancora una strada diversa e si dirigono in Italia, ove le mete possibili non sono, comunque, numerose. Grazie al suo porto, Genova viene presto raggiunta da centinaia di profughi; questi però, assai provati dal viaggio e in stato miserevole, vengono male accolti e sono infine rinchiusi in un quartiere separato, dove tuttavia riusciranno a rilanciare la presenza ebraica in città, fino a quel momento assai marginale, in seguito accresciuta ulteriormente con gli arrivi dal Portogallo. Profughi iberici giungono anche in altre città d’Italia, a Ferrara per esempio, e soprattutto a Roma; qui, però, benché riescano lentamente ad affermarsi e a costituire importanti comunità, inizialmente non vengono bene accolti nemmeno presso i correligionari. L’area che, in generale, sembra riservare agli ebrei iberici e siciliani l’accoglienza migliore è il Regno di Napoli, ove Ferrante I riconosce agli immigrati il medesimo status degli ebrei regnicoli, che in tale periodo godono di condizioni abbastanza favorevoli. Con l’eccezione di una piccola élite di medici, studiosi, o famiglie di particolare prestigio (come gli Abravanel), i profughi sono però, anche in questo caso, quasi tutti dotati di pochi mezzi e, quando nel settembre del 1492 la capitale è colpita da una grave pestilenza che si protrae per mesi, della calamità vengono prontamente incolpati gli ebrei (in seguito anche accusati di aver introdotto nel regno la sifilide). La peste del 1492-1493 decima comunque, e in maniera significativa, anche la popolazione ebraica di Napoli e, da allora, anche qui le condizioni di vita per gli ebrei divengono sempre più difficili. Dal saccheggio attuato alla vigilia dell’entrata in Napoli di Carlo VIII di Francia, la comunità ebraica esce malridotta e in questo frangente molti lasciano il regno in cerca di lidi più sicuri. Il 10 maggio 1496, vinti dalle pressioni popolari, gli Aragonesi emanano un primo bando di espulsione che, fra un rinvio e l’altro – e specialmente dopo che il territorio meridionale nel 1503 diviene viceregno di Spagna – avrà il primo e più importante effetto soltanto nel 1510. Dopo il Portogallo e l’Italia, la terza direttrice d’approdo per i profughi del 1492 è il Maghreb e l’Impero ottomano. L’ebraismo sefardita si impone rapidamente anche nel Mediterraneo islamico e, verso il Levante, trova i suoi principali centri a Salonicco e a Costantinopoli: città che divengono in breve un modello e quasi un miraggio per le comunità rimaste fra le umiliazioni e i soprusi della vita europea, e dove la presenza ebraica contribuisce in maniera determinante al raggiungimento di un grado di prosperità economica e culturale mai raggiunto in precedenza. Diversi sono, invece, gli sviluppi in Nord Africa. In Algeria, dove pure nel 1391 erano stati accolti numerosi esuli dal Regno d’Aragona e da Maiorca, i profughi del 1492 non trovano posto, a causa delle rappresaglie ancora in corso per la presa di Granada. Circa 30 mila ebrei, per lo più castigliani, trovano però rifugio in Marocco e specialmente a Fes: ove gli ebrei, già residenti da lunga data, nel 1465 erano stati decimati nel corso di una rivolta. Come altrove, anche qui l’arrivo degli Spagnoli non viene subito ben assorbito dalla comunità preesistente e viene a crearsi una prima separazione fra i due gruppi, in cui la parte più antica si autodefinisce dei “residenti” (in ebraico, toshavim), mentre i nuovi arrivati sono i megorashim, gli “esiliati”. Anche qui, comunque, i sefarditi riescono infine a prevalere.
Gli imponenti movimenti di popolazione ebraica che avvengono alla fine del Quattrocento portano con sé anche varie implicazioni religiose che, specialmente nel pensiero degli studiosi ispano-sefarditi, si concretizzano in nuovi orientamenti sia nei confronti dell’interpretazione corrente della Torah, sia nella filosofia della storia nazionale, come anche sul futuro del popolo di Israele. Tali ripercussioni hanno modo di manifestarsi principalmente attraverso un rinato sentimento messianico, una nuova spinta di studi sulla qabbalah e un rinnovato interesse nei confronti di un mito ebraico ricorrente, non a caso, in alcuni dei tempi più difficili per gli ebrei del Medioevo: quello del ricongiungimento o del ritorno delle dieci tribù perdute d’Israele. Alcune delle riflessioni più rappresentative su tali temi vengono compiute in Italia (prima a Napoli, poi a Monopoli e infine a Venezia) da Yishaq Abravanel. Persuaso che la catastrofe dell’esilio avesse allontanato gli ebrei diasporici dai valori tradizionali, Abravanel vede però negli stessi eventi del 1492 i segni del sorgere di una nuova era messianica e, in base a questa convinzione, scrive varie opere incentrate sui diversi aspetti della prossima e miracolosa liberazione del popolo ebraico dal giogo delle nazioni. La profezia di Abravanel sulla venuta del messia – prevista dapprima per il 1503, quindi per il 1531 – si presenta in termini drammatici: alla vigilia degli ultimi tempi, le dieci tribù perdute si sarebbero alleate con un regno islamico e, dopo aver sconfitto i cristiani, si sarebbero riunite a Gerusalemme, dove sarebbe apparso il messia e dove sarebbero accorsi musulmani ed ebrei per fondarvi un regno nuovo ed esteso su tutta la terra. La diffusione di apocalissi del genere, assieme alla migrazione e all’estremizzazione della speculazione cabalistica sefardita nella stessa terra d’Israele, compiuta entro il principio del XVI secolo, costituiscono le basi di quelle credenze e aspettative che, nei due secoli a venire, renderanno possibile l’apparizione sulla scena ebraica di alcuni dei più importanti pseudo-messia della sua storia.