Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La rappresentazione storiografica del processo che dalla fine del Seicento alla fine del Settecento condurrà gli ebrei all’emancipazione sembra essere prigioniera di un’opposizione radicale: da una parte gli studiosi che insistono sulla genealogia illuministica dell’emancipazione civile, facendola entrare in scena assieme al razionalismo che coinvolge tutto il sistema culturale chiuso nel “ghetto”; dall’altra stanno invece quegli studiosi che insistono su un’origine economico-politica, affidando l’emancipazione al capitalismo in via di sviluppo e alla ragion di Stato. Tra chi sostiene l’origine intellettuale del processo, affidandolo alla diffusione della mentalità illuministica, vi è poi chi pone l’accento su un’iniziativa interna all’ebraismo, dato che si avverte con sempre maggiore forza la spinta a uscire dalla cultura comunitaria. Vi è invece chi privilegia l’iniziativa che viene dall’esterno delle comunità, che somigliano a cittadelle assediate dal pensiero moderno e cedono settori sempre più consistenti della tradizione. L’analisi comparata delle fonti sembra però dare un quadro meno rigido: la spinta verso l’emancipazione parte quasi simultaneamente dall’interno e dall’esterno. Se parliamo di Illuminismo ebraico, denominato per calco haskalah, non possiamo che proporre una datazione un po’ più tardiva, ma non troppo, rispetto alle Lumières francesi e all’Aufklärung tedesco.
Moses Mendelssohn nasce a Dessau nel 1729 e muore a Berlino nel 1786. Entra nel dibattito intellettuale tedesco con un saggio di estetica sulle orme di Alexander G. Baumgarten, un dialogo sull’immortalità dell’anima (Phaedon oder über die Unsterblichkeit der Seele), ammirato per l’eleganza dello stile, e degli scritti filosofici. Stringe amicizia con importanti savants del tempo (K. W. Ramler, Th. Abbt) e si lega in particolare a Ch. F. Nicolai, collaborando alla sua Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freien Künste, e a Gotthold E. Lessing, il quale pubblica diversi suoi scritti e lo immortala in Nathan il Saggio (1779): un dramma che sembra concludere la letteratura umanistica dell’equivalenza delle tre religioni monoteistiche dal momento che ognuna di loro, come racconta la parabola dell’anello, ha ereditato dal “padre” la verità. Dopo una controversia con il pastore protestante svizzero J. Kaspar Lavater, cui cerca di sottrarsi, finché gli è possibile, per la sua estraneità alla cultura della polemica confessionale, si dedica a studi esegetici e cultuali. Ma ciò che più conta è che ha deciso di procedere alla traduzione del Pentateuco in tedesco, nella convinzione che gli ebrei in diaspora, dal momento che hanno fatto delle lingue delle nazioni presso le quali vivono la loro lingua materna, devono avere a disposizione una Torah che possono comprendere integralmente. Questo non significa abbandonare l’ebraico come lingua sacra, com’è evidente a chi legga lo scritto Ritualgesetz (1767); significa che per gli ebrei il doppio registro linguistico è parte sostanziale della cultura. La decisione, poi, di fornire all’ebreo praticante tedesco la versione dei Salmi (1783) avrà delle ripercussioni importanti sul piano del rapporto “sentimentale” ebraicotedesco, perché i salmi erano al centro della liturgia luterana.
Nel 1781 Mendelssohn pubblica un libro su potere religioso e giudaismo (Jerusalem oder über religiöse Macht und Judenthum) per sostenere la tesi che il giudaismo in quanto religione non è d’ostacolo alla partecipazione degli ebrei in quanto individui alla società tedesca, dato che esso non ha alcuna pretesa di dichiarare “false” le altre credenze. Immanuel Kant coglie subito nell’opera un atteggiamento liberale e ne fa le lodi pubbliche: “Io considero questo libro come l’annuncio d’una grande riforma che, sebbene si avanzi e progredisca lentamente, coglierà non soltanto la sua nazione, ma anche le altre. Lei ha saputo congiungere la sua religione con un tal grado di libertà di coscienza che nessuno avrebbe mai in essa sospettato, e della quale nessun’altra religione potrà mai vantarsi”. Che la tesi della separazione tra Stato e istituzioni religiose espressa da un ebreo sorprenda Kant non deve “sorprendere”. Gli ebrei avevano di norma evitato con cura di entrare in argomenti di questo genere. Non solo erano discorsi pericolosi per chi non era neanche un suddito negli Stati d’antico regime; ma non facevano nemmeno parte del pensiero politico ebraico che pure, un secolo prima, aveva fortemente influenzato il dibattito europeo. Il rabbinato conservatore ha così già tutti gli elementi per dichiarare guerra al liberalismo religioso e impedire che si diffonda all’interno delle comunità.
Alla diffidenza nei confronti di Mendelssohn all’interno del mondo ebraico tedesco si aggiunge quella dall’esterno, dato che sta per scoppiare lo Spinozastreit. Friedrich Heinrich Jacobi fa sapere a Moses Mendelssohn che Lessing, prima di morire (1781), gli ha rivelato di condividere il panteismo (usato come sinonimo di ateismo) di Spinoza. La divulgazione della notizia coinvolge tutto il mondo accademico tedesco e può travolgere lo stesso Mendelssohn, data la sua intimità con Lessing. È necessario rispondere, nel 1785, con Morgenstunden , ovvero delle “lezioni sull’esistenza di Dio”” che divulgano, secondo Kant, il concetto della religione naturale e lasciano intravvedere un impianto “neoscolastico”, anche se corretto da un vago cartesianesimo, in opposizione alla tesi di Jacobi. Le Lettere sulla dottrina di Spinoza a Mosè Mendelssohn di Jacobi (1783-1785) inseriscono il primo filosofo della haskalah in un dibattito che continuerà anche dopo la morte, alla vigilia della quale egli riesce a scrivere An die Freunde Lessings.
Nella storia dell’ebraismo moderno Mendelssohn è collocato nel quadro della riforma religiosa. Il punto di collegamento tra le idee “laiche” di libertà di coscienza, per riprendere le parole di Kant, potrebbe essere il seguente: i principi dell’ebraismo cavati dalla Torah sono nati dalla ragione umana e dunque hanno un carattere universale. Essi sono quindi coordinabili con le altre imprese della ragione che, con l’Illuminismo, si era impossessata delle religioni moderne. Mendelssohn imposta alcune delle più importanti questioni affrontate di lì a qualche decennio dai riformatori. Ricordiamo, dal punto di vista teologico, il rifiuto della mitologia premio/punizione, che lo porta a criticare duramente il concetto di giustizia divina. Egli cerca di descrivere il giudaismo passato (postesilico) con i tratti della sua visione del giudaismo futuro: una religione fondata sulla rivelazione legislativa, non dogmatica e non coercitiva, che deve abolire la pratica di scomunica per tutti coloro che dissentono.
Christian Wilhelm Dohm nasce nel 1751 e muore nel 1820. Entra nella vita culturale della Prussia a partire dal 1770, partecipando con diverse pubblicazioni al movimento di idee dell’Aufklärung. Nel 1781 pubblica un saggio sul miglioramento della condizione civile degli ebrei (Über die bürgerliche Verbesserung der Juden). Fino ad allora gli ebrei erano un “oggetto” esclusivo dei teologi. Il fatto nuovo non è solo che Dohm è un alto funzionario del grande elettore di Prussia. Ma che è anche un uomo di sapere a conoscenza delle discussioni sul problema ebraico avviate nei circoli del Brandeburgo, che stanno per l’appunto spostando l’oggetto dalla letteratura religiosa a quella laica intenzionata ad accrescere la potenza dello Stato: “Nessun grande stato d’Europa – scrive Dohm – ha ancora al suo interno tutti gli abitanti che il suo suolo e la sua situazione gli consentirebbero di nutrire e per mezzo dei quali potrebbe disporre di ogni possibile vantaggio sia naturale che politico”. È dunque stupefacente per un uomo della grande burocrazia prussiana che, malgrado tutte le iniziative per “aumentare la popolazione”, la maggior parte degli Stati continui l’ostracismo nei confronti degli ebrei, non smetta di “limitare la loro propagazione” e impedisca l’accesso alle principali attività della società civile: agricoltura ed esercito, industria e magistrature. Quest’intervento di tipo pubblicistico dovrebbe essere considerato come una tensione proveniente dall’esterno del giudaismo. Il problema è che Dohm lo fa su esplicita richiesta di Meldelssohn e a spese di Cerf Berr di Medelsheim (1726-1793), uomo politico e filantropo che sarà naturalizzato francese come riconoscimento per le funzioni esercitate in quanto rappresentante (syndic générale) della nation juive d’Alsazia. E, per aggiungere problema a problema, è a Meldelssohn che Berr ha commissionato il libro. Ma Meldelssohn è dell’avviso che il primo intervento debba essere fatto da un gentile appartenente al protestantesimo. E così avviene.
Lo schema di Dohm è chiaro: la condizione ebraica è un effetto della cultura dell’oppressione impostasi nei secoli oscuri dell’Europa medievale e non un fatto di natura, come recitava di norma il pregiudizio cristiano. Adesso, nel secolo del rischiaramento, la cultura deve imporre un cambiamento che può realizzarsi solo con la concessione dei diritti civili. Dohm ritiene che i governi daranno ascolto alle sue ricerche, tese a mostrare che la condizione degli ebrei dipende dalla storia, e saranno disposti ad allargare nei loro territori il numero degli abitanti includendovi gli ebrei come uomini e cittadini. Il libro di Dohm viene tradotto in francese, per istanza dello stesso Cerf Berr, dal matematico svizzero Jean Bernoulli, e pubblicato nel 1782 con un titolo nuovo: Réforme politique des Juifs. Ciò significa che, quando Henri Grégoire propone all’accademia di Metz il Saggio sulla rigenerazione fisica e morale degli ebrei, il libro di Dohm circola clandestinamente in Francia già da diversi anni.
Se l’Illuminismo tedesco e francese mettono in evidenza un’alleanza tra ebrei e gentili che porterà all’emancipazione degli ebrei tedeschi e francesi, non dobbiamo dimenticare che si tratta d’un giudaismo quantitativamente minoritario rispetto a quello che vive nel regno di Polonia e granducato di Lituania: quasi un milione di persone costituenti poco meno di un decimo della popolazione totale. Nelle città gli ebrei sono dediti principalmente ad attività commerciali (tre quarti all’esportazione e un quarto alle importazioni); nei villaggi, gli shtetlekh, e nelle medie agglomerazioni urbane, all’artigianato (di cui costituivano il 50 percento), senza però avere accesso alle tutele che offrono le corporazioni di mestiere. Nelle grandi proprietà fondiarie – dove vengono date in appalto le diverse branche dell’economia rurale – gli ebrei sono invece dediti alla produzione casearia, allo sfruttamento delle foreste, all’orticoltura e pastorizia. Hanno poi, per concessione dei grandi signori feudali, una sorta di monopolio per la distillazione e la vendita dell’acquavite nelle osterie, che provoca una conflittualità permanente con i contadini ancora soggetti alla servitù della gleba.
A partire dall’ultima fase della guerra dei Trent’anni e dall’invasione cosacca, che segue la catastrofe morale dell’impresa condotta da Shabtai Tzvi (1626-1676) come “messia”, gli ebrei hanno seguito la decadenza del Paese e nel Settecento si forma un consistente sottoproletariato (un decimo dell’insieme), che manifesta sintomi di distacco dall’organizzazione tradizionale della vita ebraica, anche perché la crisi ha generato una sorta di sordida alleanza tra la borghesia sostenuta dal rabbinato e la nobiltà appoggiata dal clero cattolico. A questo distacco sociale sembra reagire il movimento chassidico fondato dal cosiddetto Ba’al Shem Tov (1698-1760). L’ebraismo ortodosso reagisce con i mitnagdim lituani. Ma di fatto il giudaismo ashkenazita è diviso in due componenti indipendenti, dato che ogni shtetl ha la sua sinagoga e la sua corte del rebbe dei chassidim, i quali non intrattengono ormai più alcun rapporto con le istituzioni ebraiche di autogoverno. Tutte le energie vengono impiegate nella controversia e sono poche le voci dell’ebraismo liberale. Meritano menzione il matematico e astronomo Yisra’el ben Moshe ha-Levi; Salomon Dubno, che ha collaborato con Meldelssohn insieme a Aaron Sacharia Friedenthal; Salomon Maimon, che entra in relazione con Immanuel Kant; Menachem Mendel Lefin, di origine chassidica, ma esponente della haskalah, che ha scritto (in francese) un Essai d’un plan de réforme ayant pour objet d’éclairer la nation juive en Pologne et de redresser par là ses moeurs (1791); Szymon (Shiml) Wolfowicz, che presenta alla Dieta delle proposte di riforma che lo fanno incarcerare su richiesta delle autorità di governo ebraiche; Zalkind Hourwitz, che partecipa al concorso dell’accademia di Metz sulla riforma degli ebrei; Abraham Hirszowic, autore di un Progetto di riforma e miglioramento dei costumi ebraici (1792); Salomon Polonus che, nel 1792, avendo già avuta conoscenza degli atti della Rivoluzione francese, scrive un Progetto per la riforma degli ebrei.
Nel processo involutivo della società ebraica la classe dirigente polacca inasprisce il “trattamento” nei confronti degli ebrei introducendo misure sempre più vessatorie sulle loro attività economiche (dalla feroce tassazione alle limitazioni dei diritti di residenza nelle città e centri del commercio), nella convinzione che si stia formando una “borghesia” locale in grado di rimpiazzare gli ebrei in ogni attività. A questa politica dello Stato polacco si aggiunge, e si sviluppa in modo sempre più aggressivo, l’intolleranza della Chiesa, che aveva alimentato una lunga tradizione antigiudaica. L’Illuminismo si era impiantato nella repubblica nobiliare con qualche difficoltà, sia in ambiente ebraico, sia in ambiente cristiano, e le interazioni erano estremamente modeste. All’epoca della prima spartizione della Polonia si comincia a pensare d’introdurre delle riforme prendendo a modello la legislazione di Giuseppe II in Austria. Nel 1789, Andrzej Zamojski sottopone alla Dieta un progetto sostenuto dalla parte più retriva della classe dirigente politica e religiosa per impedire, con una legge fondata su dispositivi d’isolamento forzato, che si metta in movimento un processo di integrazione degli ebrei nella società polacca. Questa iniziativa sembra diretta a contrastare le possibili implicazioni che suggeriva un opuscolo anonimo intitolato Sulla necessità d’una riforma ebraica nei territori dello stato polacco (1782), che s’inserisce nel filone “utilitaristico” a cui, per alcuni versi, ma con ben altro spessore culturale, fa riferimento anche Dohm parlando della valorizzazione di ogni segmento di popolazione per l’accrescimento della potenza statale sul territorio. Ma la parte propositiva d’assimilazione cede di fronte a quella delle limitazioni e interdizioni. Uno dei più grandi storici dell’ebraismo, Simon Dubnov, ha parlato di un progetto di assimilazione forzata guidato dalla convinzione, gravida di conseguenze nel secolo successivo, che il sistema di autogoverno ebraico rappresentasse “uno stato nello stato”. Quando qualche elemento pare mostrarsi a livello della Dieta, chiamata a discutere un progetto ricalcato su quello dell’“anonimo cittadino”, interviene nel 1795 la spartizione definitiva della repubblica nobiliare tra le potenze confinanti. Ciò significa che gli ebrei, i quali avevano fatto parte dal Medioevo della storia della Polonia e Lituania, si trovano ad essere sudditi prussiani a occidente, russi a oriente e austriaci nella parte meridionale.