Gli dei e la fabbricazione dell'umano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
“Non sono uguali la stirpe degli dèi immortali e quella degli uomini che camminano sulla terra”, ricorda perentorio Apollo a Diomede (Iliade, V, 441-442); a guardarli dall’alto dell’Olimpo, appaiono simili a foglie i miseri mortali, che ora rigogliosi fioriscono e dei frutti della terra si nutrono, ora appassiscono e muoiono (Iliade, XXI, 464-466). Immortale e sempre giovane, o più esattamente a-thanatos, "immune alla morte", e a-geraos, "immune alla vecchiaia", il dio si definisce per contrasto con l’essere umano, condannato per sua natura a un’esistenza effimera, destinato com’è al deperimento e all’estinzione della forza vitale. Ma qual è dunque l’origine della stirpe umana e che ruolo assegna agli dèi la tradizione greca nella nascita dell’uomo e nella definizione della sua condizione?
Zeus è il "padre degli dèi e degli uomini", ma questo non significa che egli sia il genitore di tutti gli dèi e della specie umana, quanto piuttosto che il dio sovrano svolge presso gli uni e gli altri una funzione paterna, di controllo e di protezione, e assicura l’equilibrio nell’universo in qualità di arbitro e mediatore. Nella maggior parte dei racconti tradizionali greci l’accento non è posto sulla genesi dell’uomo, ma sulla nascita dell’umano.
Nella Teogonia di Esiodo, poema che celebra innanzitutto la stirpe degli dèi e l’ordine di Zeus, non si incontra una antropogonia vera e propria, ossia un mito che racconti la nascita del primo uomo: pur se la loro genesi non è tematizzata in un racconto, gli uomini sono comunque presenti nel poema e ricevono la loro parte nell’ordinamento del kosmos. Dietro le potenze divine che appaiono di volta in volta sulla scena dell’universo, si profila la stirpe degli uomini e si precisano le condizioni della vita che questi hanno ricevuto in sorte: quando la Notte primordiale genera potenze di morte (tra cui Thanatos), Vecchiaia (Geras), Consunzione, e dal canto suo Eris, "Contesa", mette al mondo sinistre figure legate al dolore, alla violenza e al disordine, tale genealogia esprime, in una prospettiva teogonica, l’apparizione nel mondo di una forma di vita condizionata dalla morte, condannata al decadimento e insidiata da mali di ogni sorta.
La definizione della condizione umana nella Teogonia è il risultato di un lungo episodio i cui protagonisti sono ancora una volta gli dèi: la prima scena si svolge a Mecone (antico nome della città di Sicione), in un tempo in cui uomini e dèi banchettavano ancora insieme; chiamato a spartire un bue, Prometeo, divinità di stirpe titanica, prova a ingannare Zeus a vantaggio dei mortali, ma l’inganno non va a buon fine. La ripartizione iniqua di Prometeo, che come Crono è ankylometes, cioè "dotato di intelligenza ritorta", non sfugge al sovrano metieta, che possiede invece al sommo grado quella forma di intelligenza astuta e accorta in cui consiste appunto la metis: Zeus sceglie consapevolmente le bianche ossa nascoste sotto il grasso, lasciando ai mortali la carne, ovvero la parte commestibile dell’animale (Teogonia, 535-557).
Esiodo
Prometeo tenta invano di ingannare Zeus
Teogonia, vv. 535-557
Infatti, quando la loro contesa dirimevano dèi e uomini mortali
a Mecone, allora [scil. Prometeo] un grande bue con animo consapevole,
spartì, dopo averlo diviso, volendo ingannare la mente di Zeus;
da una parte infatti carni e interiora ricche di grasso
pose in una pelle, nascostele nel ventre del bue,
dall’altra ossa bianche di bue, per perfido inganno
con arte disposte, nascose nel bianco grasso.
E allora a lui disse il padre degli uomini e degli dèi:
"O figlio di Iapeto, illustre fra tutti i signori,
amico mio caro, con quanta ingiustizia facesti le parti".
Così disse Zeus beffardo che sa eterni consigli,
ma a lui rispose Prometeo dai torti pensieri,
ridendo sommesso, e non dimenticava le sue ingannevoli arti:
"O Zeus nobilissimo, il più grande degli dèi sempre esistenti,
di queste scegli quella che il cuore nel petto ti dice".
Così disse meditando inganni, ma Zeus che sa eterni consigli
riconobbe l’inganno, né gli sfuggì, e mali meditava dentro il suo cuore
per gli uomini mortali e a compierli si preparava.
Con ambedue le mani il bianco grasso raccolse;
si adirò dentro l’animo e l’ira raggiunse il suo cuore,
come vide le ossa bianche del bue frutto del perfido inganno:
è da allora che agli immortali la stirpe degli uomini sulla terra
brucia ossa bianche sugli altari odorosi.
Esiodo, Teogonia, trad. it. di G. Arrighetti, Milano, BUR, 1984
In questa ripartizione, che mette fine alla commensalità tra uomini e dèi, si precisano anche le loro opposte nature e i loro rapporti a venire: ai mortali, condannati a nutrirsi per sopravvivere, spetta la parte corruttibile dell’animale, agli dèi immortali la parte immateriale, cioè il fumo che sale dagli altari su cui bruciano le offerte. Gli onori che gli uomini rendono agli dèi, se da un lato sanciscono la differenza fondamentale di natura e di statuto tra immortali e mortali, creano dall’altro, attraverso il rito, le condizioni della loro comunicazione.
La seconda scena prosegue il racconto della sfida tra Zeus e Prometeo: per punire quest’ultimo attraverso i suoi protetti, Zeus smette di elargire il fuoco agli uomini e Prometeo interviene ancora una volta in loro favore, rubando una scintilla del fuoco divino per consegnarla ai mortali. Fuoco da "coltivare", che necessita di essere prodotto e alimentato, la sua introduzione prelude ad alcuni aspetti essenziali della civilizzazione umana: fuoco tecnico, per le arti, fuoco alimentare, per cuocere i cibi, e fuoco sacrificale, per onorare gli dèi. L’introduzione di un altro elemento completa la definizione della condizione umana: la creazione di Pandora, che Esiodo racconta sia nella Teogonia che nelle Opere e i Giorni.
In cambio di un bene, il fuoco, che i mortali posseggono grazie a Prometeo, il dio sovrano invia loro un essere inquietante, un "bel male", che gli uomini non potranno fare a meno di circondare d’affetto, ma che li porterà alla rovina. Concepito da Zeus, il prototipo è realizzato da Efesto, che lo plasma a partire dalla terra: Pandora ("colei che ricevette doni da tutti gli dèi" o "colei che fu dono agli uomini da parte di tutti gli dèi") ha le sembianze di una casta fanciulla e qualcosa nel viso che ricorda la bellezza delle dee immortali; Atena le insegna le arti e la tessitura, e insieme alle Ore e alle Cariti la decora di vesti e di monili appropriati; Afrodite riceve l’incarico di dotarla di "grazia", charis, ma la rende anche strumento "di tormentosi desideri e di pene che divorano le membra"; Ermes le infonde nel petto la voce, nonché un’indole ingannatrice (Le opere e i giorni, 59-82).
Esiodo
La creazione di Pandora
Le Opere e i Giorni, vv. 59-82
Così parlò, poi rise il Padre degli uomini e degli dèi. Comandò all’inclito Efesto che subito impastasse terra con acqua e vi infondesse voce umana e vigore, e che il tutto fosse d’aspetto simile alle dee immortali, e di bella, virginea e amabile presenza; e quindi che Atena le insegnasse le arti: il saper tessere trame ben conteste; ordinò all’aurea Afrodite di spargerle sulla testa grazia, tormentosi desideri e le pene che struggono le membra; e a Ermes, messaggero Argifonte, di darvi un’anima di cagna e indole ingannatrice. Così parlò e quelli obbedirono ai voleri del Cronide Zeus. Subito l’inclito Ambidestro plasmò dalla terra, per volere di Zeus, una immagine simile a casta vergine; la glaucopide Atena le annodò la cintura e l’adornò; attorno a lei le Cariti e la Persuasione veneranda le posero sul capo aurei monili; le Ore, dai fluenti capelli, le diedero una primaverile corona di fiori; e sul corpo Pallade Atena le adattò ogni ornamento. L’araldo Argifonte le infuse in petto l’indole ingannatrice, le menzogne e gli astuti discorsi, giusto il volere di Zeus dal cupo fragore, e infine le diede voce l’Araldo divino. Questa donna fu chiamata Pandora perché tutti gli abitanti dell’Olimpo le donarono doni, rovina agli uomini industri.
Esiodo, Le Opere e i Giorni, trad. it. di L. Magugliani, Milano, BUR, 1979
Da Pandora deriva la "stirpe delle donne", la cui presenza accanto all’uomo è tristemente necessaria, per fondare una famiglia e trasmettere un patrimonio, e anche rovinosa, in quanto la donna, fonte di struggimento fisico e morale, è intimamente associata a una vita che si consuma nel lavoro e nel dolore.
Pandora non è la prima donna, piuttosto un prototipo del femminile, in quello che la femminilità può avere di deteriore agli occhi di un uomo greco; la sua introduzione nella vita degli uomini sotto le sembianze di una sposa evoca inoltre l’istituzione matrimoniale: la moira degli uomini, la "parte" che spetta loro nell’ordine di Zeus, si declina anche nel registro sociale, completando così la definizione della condizione umana inaugurata, nel racconto della Teogonia, dalla ripartizione iniqua di Prometeo a Mecone.
Nelle Opere e i giorni il ruolo di Pandora si precisa e la sua figura si colora di accenti ancora più sinistri. Epimeteo, l’improvvido fratello di Prometeo, dimentico degli avvertimenti di quest’ultimo, accetta il dono che Zeus gli offre: una sposa, Pandora. Ed è nella casa di questo discendente dèi Titani che si consuma la rovina del genere umano: Pandora apre una giara contenente i mali e li disperde così nel mondo, a danno degli uomini.
Infatti, per quanto mortali, prima costoro non erano esposti alla fatica, alla malattia e al dolore, ma a causa di Pandora si inaugura per loro una forma di esistenza deteriore, ancora più fragile e penosa.
Un altro racconto offre a Esiodo l’occasione di interrogarsi sul genere umano, e il poeta vi traccia un percorso che, lungi dall’essere unitario, si articola in cinque tappe corrispondenti ad altrettanti ‘generi’ di mortali (Opere e giorni, 106-201): è il mito delle cinque stirpi. Gli uomini d’oro, i primi, sono mortali, ma, come gli dèi che li hanno creati, non conoscono la vecchiaia; vissuti al tempo di Crono, in una beatitudine completa, finiscono sì per morire, ma si trasformano allora in daimones benevoli, protettori "sulla terra" (epichthonioi) del genere umano (propriamente detto).
La seconda stirpe creata dagli dèi è quella degli uomini d’argento, analoga ma anche inferiore alla prima: essi non invecchiano, ma vivono una lunghissima infanzia e, una volta raggiunta la soglia della giovinezza, nella loro stoltezza e arroganza rifiutano di onorare gli dèi; non si estinguono dolcemente, come gli uomini d’oro, ma è Zeus che li distrugge per punire la loro empietà; da morti si trasformano anch’essi in daimones, come gli uomini d’oro, ma diversamente dai loro predecessori diventano spiriti "del sottosuolo" (hypochthonioi).
Spariscono invece nell’anonimato dell’Ade gli uomini della terza stirpe, quella del bronzo, creata da Zeus a partire dai frassini, gli alberi che danno nome e materia alla lancia del guerriero: gli uomini di bronzo, che veri e propri uomini non sono dato che non mangiano pane, pensano solo alla guerra e di fatto finiscono per uccidersi l’un l’altro.
Zeus crea allora una stirpe di gran lunga migliore, quella degli eroi: da un lato, questi hemitheoi, "semidei", segnano una nuova tappa nella storia dei rapporti tra immortali e mortali, caratterizzata da un avvicinamento di cui il loro nome e la loro nascita portano il segno, dall’altro essi inaugurano in un certo senso l’umanità storica: sono appunto gli eroi che combattono valorosamente a Tebe e a Troia, e la cui generazione viene in gran parte annientata in questi conflitti epocali. Diversamente dalle stirpi d’oro e d’argento, essi non si trasformano dopo la morte in entità divine (per lo meno non nel racconto esiodeo; bisogna tuttavia segnalare che molti di loro sono onorati con un culto nei pantheon delle città). Ma gli eroi, contrariamente agli uomini di bronzo, non saranno nemmeno avvolti collettivamente dall’anonimato della morte: alcuni di essi conosceranno infatti un destino di eccezione nell’aldilà, dove potranno risiedere nell’Isola dei Beati. All’anonimato della morte – vale la pena di aggiungere – questa stirpe sfuggirà soprattutto attraverso il kleos eroico e il canto dei poeti che lo celebra.
L’età seguente, nel racconto esiodeo, è quella del ferro, insidiata da mali di ogni sorta che si mescolano ai beni in un alterno equilibrio, esposta all’ingiustizia e al rischio di una totale decadenza: è il presente del poeta, e quello del genere umano.
Gli uomini di ferro, a differenza degli altri, non sono l’oggetto di una creazione: discendenti della stirpe eroica, essi non condividono la natura semidivina dei loro predecessori. Sono semplicemente uomini, mortali e condannati a invecchiare.
In questo complesso racconto la distanza tra l’umano e il divino è esplorata in vario modo e proiettata nella diacronia, dando corpo all’immagine di diverse stirpi mortali, di cui solo l’ultima è propriamente umana; non c’è decadenza né ascesa nel succedersi delle varie età, ma una fitta trama di opposizioni e analogie che si ordinano intorno ad alcuni valori cardine, come il culto degli dèi e il rispetto della giustizia; l’antropogonia esiodea non racconta tanto la nascita o la creazione dell’uomo, ma descrive le coordinate culturali e sociali che assegnano alla stirpe degli uomini mortali la sua peculiare posizione nell’ordine cosmico, nei suoi rapporti interni come in quelli con gli dèi.
La definizione del genere umano, o per così dire la nascita dell’umanità storica, si racconta nella Grecia antica anche attraverso un altro evento catastrofico, un diluvio inviato da Zeus: i soli sopravvissuti sono Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, che talvolta viene considerata figlia di Epimeteo e di Pandora (Apollodoro, Biblioteca, I, 7, 2).
Apollodoro
La nascita della stirpe umana da Deucalione e Pirra
Biblioteca, Libro I, 7, 2
Quando Zeus volle eliminare la stirpe di bronzo, Deucalione, su consiglio di Prometeo, fabbricò un’arca, vi pose delle provviste e si imbarcò insieme a Pirra. Zeus rovesciò dal cielo una pioggia torrenziale sommergendo la maggior parte dell’Ellade: tutti gli esseri umani morirono, tranne pochi che trovarono rifugio sugli alti monti vicini. Anche le montagne della Tessaglia allora si separarono e tutte le terre che si trovavano al di fuori dell’Istmo e del Peloponneso vennero inondate. Per nove gioni e nove notti Deucalione è trascinato sul mare dentro l’arca, poi approda al Parnaso e qui, poiché le piogge erano cessate, sbarca e sacrifica a Zeus Fixio. Zeus gli manda Ermes, invitandolo a scegliere ciò che desidera. Deucalione sceglie di far nascere da lui una generazione di uomini. Zeus allora gli disse di raccogliere delle pietre e gettarle sopra la testa: Deucalione lo fece, e dalle pietre che scagliò lui stesso nacquero uomini, da quelle che scagliò Pirra nacquero donne.
Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1996
Dalle pietre che Deucalione e Pirra seminano nella terra germoglia una nuova stirpe di esseri umani, mentre dalla loro unione nasce Elleno, eroe eponimo degli Elleni, nonché capostipite delle diverse tribù greche attraverso i figli Doro, Eolo e Xuto (padre a sua volta di Ione e di Acheo). Alla figura di Deucalione la tradizione greca associa alcuni gesti fondamentali: scampato al diluvio, egli sacrifica a Zeus, che risponde alla sua preghiera e gli indica come creare altri esseri umani.
In un certo senso, il figlio di Prometeo porta a compimento quanto adombrato nella ripartizione di Mecone, che non è ancora un vero e proprio sacrificio; lo è invece la thysia ("sacrificio") di Deucalione, che comporta il riconoscimento della superiorità degli immortali ed è accompagnato da una preghiera cui Zeus risponde.
Deucalione costruisce inoltre un altare per i Dodici Dèi, introducendo così il culto tradizionale del pantheon nel suo insieme; sempre Deucalione è considerato il primo ad aver costruito templi per gli immortali e città per gli uomini. La nuova umanità nasce dunque sotto il segno della pietas, dei giusti onori resi agli dèi e della loro risposta benevola, ma anche sotto il segno della comunità politica, legata alla terra e agli uomini che da quella sono nati.
Nei racconti cosmogonici non mancano accenni alla coppia primordiale Terra-Cielo, dalla cui unione o dalla cui separazione sarebbero nate tutte le specie viventi, e ovviamente la terra è spesso considerata "madre" in senso lato di tutto quanto vive sulla sua superficie. Inoltre, se non sviluppa particolarmente il tema della genesi dell’uomo, la tradizione greca presta invece una grande attenzione a quello dell’autoctonia, ossia della nascita dal suolo patrio, declinando l’antropogonia in senso squisitamente politico-territoriale.
Gli Ateniesi, ma anche i Tebani, si compiacciono di iscrivere le proprie origini nel suolo stesso che abitano in epoca storica: la madre-terra e la patria, in quanto terra dei padri, tendono a confondersi nell’immagine di un antenato mitico, emerso dalla terra. Come Cecrope ed Erittonio, re ancestrali di Atene, che portano nel corpo, in parte serpentiforme, il segno della loro nascita ctonia; o come gli Sparti (i "Seminati") della tradizione tebana, guerrieri emersi tutti armati dal suolo che Cadmo, futuro fondatore di Tebe, semina con i denti di un dragone: questi si uccidono tra di loro, come gli uomini di bronzo di cui racconta Esiodo, ma nei cinque sopravvissuti l’aristocrazia tebana trova i suoi antenati e le sue radici autoctone.
La fabbricazione dell’umano, che nella Teogonia di Esiodo interagisce con la strutturazione del mondo divino e si definisce nella ripartizione della moira che spetta ai mortali nell’ordine di Zeus, si ritrova in Grecia al centro di una serie di racconti che mettono l’accento non tanto sulla genesi dell’uomo e sulla sua origine divina, quanto sulla "nascita" di un genere propriamente umano: la posizione di questo genos nell’universo si determina in relazione dialettica a quella degli dèi, e la sua vocazione, sia nei racconti relativi alle origini dell’umanità storica, sia in quelli che celebrano le radici autoctone di una stirpe in particolare, è essenzialmente comunitaria e tendenzialmente politica.