Gli arredi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È possibile inquadrare l’arredo della chiesa nel Medioevo solamente se si tiene conto della concezione e dello svolgimento di quella che in tale epoca è la liturgia sacra: essa è infatti decisamente più articolata, solenne e scenografica rispetto a oggi, e risulta essere la chiave di lettura per comprendere la logica della divisione dello spazio sacro e la sua decorazione.
Immaginare l’interno di una chiesa paleocristiana o altomedievale comporta un enorme sforzo di immaginazione, dovuto sia alla difficoltà di entrare in una diversa e lontana mentalità religiosa, sia allo stato frammentario in cui versano le testimonianze superstiti. Questo discorso vale soprattutto per l’arredo liturgico di un’antica chiesa medievale, da cui ci separa un’incolmabile distanza nella concezione e nello svolgimento della liturgia sacra, che si sviluppava in modo decisamente più articolato, solenne e scenografico rispetto a oggi. La liturgia è però proprio la chiave per la comprensione del ruolo di primo piano svolto dall’arredo liturgico all’interno di una chiesa medievale. La liturgia infatti e, di conseguenza, il mobilio a essa collegato non sono in semplice correlazione con l’architettura sacra e il suo apparato decorativo, ma ne costituiscono il nodo centrale, perché l’edificio chiesastico e la sua decorazione furono concepiti per la liturgia.
Quello che sappiamo della cultura medievale ci racconta dell’esistenza di una tripartizione dello spazio sacro nelle chiese medievali d’Occidente, ovvero della presenza di uno spazio dell’altare, il vero santuario, di uno riservato al clero, il coro, e di uno destinato ai laici, ai fedeli quindi, cioè la navata. Nell’architettura paleocristiana non è ancora apertamente dichiarata una netta divisione tra uno spazio dell’altare e uno spazio per il coro, mentre viene avvertita da subito l’esigenza di separare il santuario vero e proprio dai fedeli attraverso cancelli o transenne. Già Eusebio di Cesarea nella sua descrizione della basilica di Tiro, dedicata nel 317, menziona l’alto recinto di legno che impedisce alla folla dei fedeli di avvicinarsi all’altare.
Anche nell’Africa mediterranea e in Grecia, dove a volte la nave centrale era riservata al clero, è sentita questa necessità, e le navatelle, destinate ai fedeli, vengono separate con transenne da quella principale. Tuttavia, dal momento che i fedeli sono parte viva e integrante della cerimonia liturgica, i cancelli di separazione tra la zona dell’altare e quella dei laici non sono più alti di un metro. In origine dunque, data la netta divisione tra fedeli e membri del clero, questi ultimi trovano posto in un lungo banco che segue l’andamento dell’abside, posto dietro l’altare e caratterizzato dalla presenza della cattedra papale o vescovile, ovvero un seggio, mobile o fisso, dotato di dossale e appoggi per le braccia. La cattedra individua un’insegna del potere vescovile, tanto da essere derivato dalla sua presenza il nome di cattedrale all’edificio che la ospita. La sua attribuzione al vescovo è un fenomeno precoce, già stabilizzato agli inizi del IV secolo, come parallelo tra la funzione ammaestrante del vescovo e il tradizionale attributo della docenza.
Una riflessione sulla precoce separazione vigente negli edifici di culto cristiani tra clero officiante e fedeli può venire dall’esistenza nell’antica basilica romana di San Giovanni in Laterano di una struttura chiamata fastigium argenteum, citata dal Liber Pontificalis come dono dell’imperatore Costantino e posizionata proprio tra la zona dell’altare e quella della navata. Ci sfugge purtroppo in dettaglio la sua ricostruzione, ma dalle fonti si può dedurre che era composta da quattro colonne bronzee dorate che, con i loro capitelli, raggiungevano gli otto metri di altezza e su cui doveva poggiare una trabeazione sulla quale si trovavano nel lato verso l’ingresso le statue in argento di Cristo e degli apostoli, mentre sul lato verso l’abside quelle di Cristo in trono con quattro angeli. Dalla descrizione potrebbe sembrare una monumentale quinta di divisione tra i due spazi della chiesa, ma alcuni studiosi hanno ipotizzato che potesse avere una forma più simile a un ciborio, come quello che doveva vedersi sopra la tomba dell’apostolo Pietro nella basilica vaticana. Nella chiesa lateranense non esiste tuttavia una memoria che richieda un’architettura a forma di ciborio che la metta in risalto, e l’altare, come luogo della celebrazione dell’eucarestia, in questo periodo non è ancora circondato da un ciborio, che copre di norma solamente il luogo di una tomba venerata. È probabile quindi che il fastigium, che anche il Liber Pontificalis non lega all’altare della chiesa, sia da vedere come un’architettura di prestigio, una sorta di porta triumphalis che separa il presbiterio dalle navate.
In questo dispositivo liturgico trova il suo contesto ideale, nella basilica lateranense come in altri edifici della Roma paleocristiana, il lungo corridoio recintato, largo dai due ai tre metri, che si estende al centro della nave maggiore, lungo l’asse della chiesa, per mezza navata o fino alla porta d’ingresso. In questo corridoio, che gli archeologi chiamano solea, perché leggermente sopraelevato rispetto al pavimento dell’edificio, fanno il loro ingresso solenne il vescovo e il clero all’inizio della celebrazione, ma, soprattutto, da queste barriere i fedeli osservano lo svolgersi della liturgia, offrono i loro doni e ricevono l’eucarestia.
Sible de Blaauw, studioso dell’arredo liturgico delle chiese di Roma, ritiene che dal fastigium del Laterano possano essere derivate le pergulae altomedievali, ovvero quei monumentali colonnati, sormontati da un architrave, che si estendevano per tutta la lunghezza del presbiterio davanti all’altare, solitamente destinati anche a ospitare immagini sacre. Pergole di questa tipologia sono attestate tra VII e IX secolo in San Giovanni in Laterano, in San Pietro e in Santa Maria Maggiore, e un esempio ben conservato si può ancora vedere oggi nella chiesa di San Leone a Capena vicino Roma. Naturalmente allo sviluppo delle pergulae non può essere estranea l’influenza del templon bizantino, che dopo il 500 si trova con grande frequenza nelle chiese della Grecia e di Costantinopoli.
Una sorta di ciborio doveva invece coprire e insieme aulicamente evidenziare la sepoltura di san Pietro nella basilica vaticana al tempo dell’imperatore Costantino: la memoria dell’apostolo era recintata da una serie di transenne sui cui poggiavano quattro colonne tortili, a loro volta sostenenti due costoloni ad arco incrociati, alle quali si aggiungevano altre due colonne con architravi che collegavano il baldacchino all’abside. Le colonne tortili, di cui si può cogliere ancora suggestiva memoria in quelle dell’attuale baldacchino del Bernini, erano più antiche di circa un secolo ed erano state portate dall’Oriente per espressa volontà di Costantino. Questa ricostruzione, ipotizzata su basi letterarie e iconografiche, come la capsella eburnea di Samagher (Venezia, Museo Archeologico), che nella sua decorazione si ritiene presenti una riproduzione fedele del presbiterio di San Pietro, è stata confermata dagli scavi effettuati intorno alla confessione della chiesa tra il 1940 e il 1949. Riguardo alla struttura-ciborio in generale, essa invece non riscosse un immediato successo nell’arredo liturgico delle chiese. Per trovarne una menzione nel Liber Pontifcalis bisogna arrivare infatti alla fine del V secolo, quando vengono citati due tyburia, termine che probabilmente anticipa e coincide con cyburia. Nella vita di papa Simmaco vengono citati due tyburia in argento, uno nella rotonda di Sant’Andrea presso San Pietro, l’altro super altare nella chiesa dei Santi Silvestro e Martino. La seconda menzione fornita dal Liber Pontificalis si trova circa un secolo dopo nella vita di papa Gregorio Magno, che copre l’altare di San Pietro con un cyburium ex argento puro.
Proseguendo in tal senso la lettura del Liber Pontificalis ci si accorge che fino alla fine del VII secolo i cibori menzionati sono in argento e che solo tra VIII e IX secolo compare, accanto alla presenza di cibori in argento, anche la menzione di qualche struttura in marmo. Questa panoramica delle fonti sembra cozzare con i numerosi frammenti di cibori marmorei con scultura a intreccio, diffusi a quanto sembra già nel pieno VIII secolo, ma attestati per lo più nella prima metà del IX, che troviamo decontestualizzati in molte chiese o musei.
Tuttavia a un’attenta osservazione questi frammenti, principalmente arcate, palesano con chiarezza, per via delle dimensioni ridotte, di non poter quasi mai essere appartenuti a un vero e proprio ciborio, cioè a un ciborio d’altare maggiore. Sembra più semplice destinarli ad altre funzioni, elementi di tabernacolo o arcatelle di pergulae. Esistono tuttavia anche frammenti di arcate di circa 1,50 metri che potevano far parte di cibori d’altare, come quello di Santa Cristina a Bolsena, ancora esistente pur se rimaneggiato. Anche in Francia la situazione dei cibori non cambia, dal momento che fino al X secolo inoltrato sono ampiamente attestati soprattutto cibori in materiali preziosi. Al contrario, la descrizione di Paolo Silenziario del ciborio della Santa Sofia giustinianea di Costantinopoli, la possibilità di ricostruzione di quello di Sant’Eufemia a Costantinopoli e l’eccezionale conservazione in situ di quello della Katapoliani di Paros ci garantiscono l’esistenza di cibori in marmo in Oriente.
Queste strutture presentano una tipologia abbastanza standardizzata: sono infatti composte da quattro grandi lastre con arcata inferiore semicircolare e profilo superiore rettilineo e con lati verticali pure rettilinei; questi a loro volta vengono uniti ad angolo retto a formare una struttura quasi cubica e i piedi delle arcate, congiunti a coppie, si poggiano su quattro capitelli angolari, sostenuti da altrettante colonne. La variante maggiore sembra essere stata nella copertura, che poteva essere a piramide quadrata o ottagonale, a calotta, o a semplice telaio. Esempi di cibori altomedievali in marmo si conservano comunque anche in Italia, nella chiesa di Santa Maria a Sovana, presso Grosseto, in quella di San Prospero a Perugia e in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, dove si trova il ciborio proveniente dalla distrutta Sant’Eleucadio. Un deciso rinnovamento nella tipologia del ciborio è segnato dall’esempio di Sant’Ambrogio a Milano, del X secolo, in cui la decorazione, abbandonando il consueto repertorio a intrecci vegetali, si apre alla figura umana.
Nel corso del Medioevo il ciborio assume dunque sempre più il ruolo di copertura dell’altare, che costituisce naturalmente l’elemento più significativo dell’arredo di una chiesa cristiana, in quanto punto di riferimento della celebrazione eucaristica. Dall’età di Costantino in avanti, l’altare è di norma costruito in muratura o in materiali preziosi, con una tipologia “a mensa”, cioè un piano con relativi sostegni, “a blocco”, in cui il tavolo è sorretto da un supporto chiuso, di forma compatta, o “a cassa”; quest’ultimo tipo era particolarmente adatto alla custodia delle reliquie, dal momento che presentava un incavo verticale che arrivava fino alla sepoltura del santo, mentre sulla fronte era dotato di un’apertura richiudibile per mezzo di una grata (fenestella confessionis), che permetteva un contatto fisico o visivo con le reliquie. L’altare accoglieva solitamente addobbi mobili, come le tovaglie, dalle quali si svilupperanno poi gli antependia, o paliotti in materiale rigido, che recano nel nome che li designa la traccia della loro origine tessile. In epoca paleocristiana e altomedievale ogni chiesa possedeva di norma un unico altare, posto in origine nella zona più avanzata del presbiterio. Questa situazione comincia però a modificarsi ben presto; gli altari vengono addossati sempre di più alla parete dell’abside, con la cattedra e il posto per il clero spostati davanti, e il loro numero inizia ad aumentare: per la prima metà del IX secolo la pianta della chiesa abbaziale di San Gallo testimonia di altari secondari posti nelle vicinanze di quello maggiore o in spazi periferici.
Quello che invece nel Medioevo chiamiamo comunemente coro e che trova la sua collocazione canonica davanti all’altare deve probabilmente la sua nascita alla formazione a Roma della cosiddetta schola cantorum. Questa, la cui fondazione si lega per tradizione alla figura di papa Gregorio Magno, era un’istituzione pontificia, con il principale compito di accompagnare le varie fasi della liturgia con il canto, rendendole più solenni e sacrali.
La “scuola dei cantori” trova posto, dunque, nelle chiese romane e si materializza in un recinto, delimitato da transenne, che occupa lo spazio compreso tra l’altare e la metà approssimatamente della navata centrale. Nasce così a partire circa dal VII secolo il chorus medievale e prende forma quella tripartizione dello spazio sacro propria delle chiese cristiane d’Europa, come attestano anche in modo esplicito le disposizioni del concilio di Toledo del 633, dove si legge che sacerdos et levita ante altare communicent, in choro clerus, extra chorum populus (“il sacerdote e il levita si comunicano davanti all’altare, il clero nel coro, oltre il coro il popolo”).
Il coro, il cui primo esempio noto è in Sant’Adriano a Roma (625-638), oltre a essere il luogo destinato ai cantori e agli offici quotidiani, viene a costituire una sorta di tramite, materiale e spirituale, fra i fedeli e l’altare, spazio sacro del santuario. Delle piccole porte lo mettevano infatti in comunicazione con il resto della navata e lì i fedeli facevano le loro offerte e ricevevano la comunione. A Roma quindi, siamo lontani da ciò che avveniva ad esempio in Gallia, dove il concilio di Tours (567) aveva prescritto che i laici potessero accedere all’area dell’altare per prendere la comunione. Tuttavia la situazione creatasi a Roma e presente, secondo le ricostruzioni degli studiosi, già in San Pietro in Vaticano intorno al 600, si irradia ben presto in tutta Europa. Paolo Piva ritiene che il mediatore sia stato Crodegango, vescovo di Metz tra il 742 e il 766, promotore dell’introduzione a Metz del canto liturgico e della messa romano more, con la conseguente importazione della schola cantorum. Il fatto poi che Crodegango sia stato l’autore di una Regula per i canoni della sua chiesa, divenuta subito la base delle regole canonicali occidentali, ha permesso al coro di divenire uno dei punti fermi dell’arredo liturgico cristiano.
Fin dalle origini nelle chiese è prevista la presenza di un luogo destinato alla liturgia della parola, ovvero alla comunicazione tra Chiesa e fedele: l’ambone. Dal greco ambon, probabilmente derivato dal verbo anabaino (“salire”), designa genericamente un luogo elevato, dove era possibile per i lettori e i diaconi leggere e commentare i testi sacri, nonché notificare all’assemblea le feste mobili. I vescovi usavano l’ambone per predicare in alternativa alla cattedra; i cantori verseggiavano con il popolo i testi liturgici, quali il Graduale e l’Exultet. Un caso eccezionale è costituito dall’ambone della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, distrutto ma noto nella sua straordinarietà grazie alla descrizione di Paolo Silenziario, su cui venivano incoronati gli imperatori e comunicati importanti avvenimenti. Per le sue stesse funzioni l’ambone è in stretta relazione sia con lo spazio del clero sia con quello dei fedeli ed è per questo che, quasi in una sublime metafora, trova posto a metà strada tra questi due poli, solitamente connesso nell’alto Medioevo con la schola cantorum. I primi amboni, come del resto quasi tutto l’arredo liturgico dei primissimi secoli, sono in legno e mobili, diventando solo successivamente fissi e in marmo, soprattutto in Italia, o in legno e ricoperti di lastre di materiali preziosi a nord delle Alpi. Genericamente l’ambone è costituito da una piattaforma, a planimetrie diverse, con parapetto (lettorino), posizionata su colonna o pilastri, o su un basamento e servita da una o due scale. L’ambone più diffuso dalla metà del V secolo in ambito orientale è quello dotato di due scale contrapposte, che conducono al lettorino, poggiato su pilastri o colonne per permettere il passaggio sottostante, viste le grandi dimensioni, oppure su una base piena. In realtà in Oriente sono presenti varie tipologie: in Grecia si trova un ambone caratterizzato da un parapetto, generalmente semicircolare, poggiante su uno zoccolo, con una scala d’accesso munita di balaustra decorata. In Dalmazia e in Palestina in questo tipo di ambone con una sola scala, la cassa è sorretta da colonne che poggiano su una piattaforma.
Queste tipologie vennero riprese anche nei territori occidentali soggetti al dominio bizantino. Per esempio, a Ravenna l’ambone a due scale su colonne o pilastri si vede nella chiesa dello Spirito Santo (prima metà VI secolo) o a Sant’Apollinare Nuovo (metà VI secolo), mentre quello, sempre a doppia scala, ma su un’alta base continua, si ha nel cosiddetto ambone di Agnello (557-570) nella cattedrale o nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (oggi nel Museo Arcivescovile, 587-596). Dalle fonti, come l’Historia Francorum di Gregorio di Tours o le Etymologiae di Isidoro di Siviglia sappiamo che già nel VI-VII secolo ne è attestato l’uso in Francia e in Spagna. Sempre le fonti, in questo caso il Liber Pontificalis, documentano la presenza Roma dell’ambone: sappiamo, ad esempio, che Pelagio I in San Pietro in ambone ascendit e che qualche anno dopo Pelagio II dota sempre la basilica vaticana di un ricco ambone con due iscrizioni. Relativamente alla forma delle strutture romane, l’esistenza della tipologia a doppia rampa nell’Urbe è documentata sia archeologicamente sia attraverso le fonti almeno dall’VIII secolo: l’esempio più importante è quello donato da Giovanni VII a Santa Maria Antiqua. Nell’Ordo Romanus I, a proposito della lettura del Vangelo, si afferma: Et, interposito digito suo, diaconus in loco lectionis ascendit ad legendum et illi duo subdiaconi redeunt stare ante gradum discensionis ambonis; (“E, interposto il suo dito, il diacono sale in cattedra per leggere, e allora i due sottodiaconi tornano a posizionarsi davanti al gradino dell’ambone”) in questo modo si lascia intendere la presenza di due scale diverse, una per la salita e l’altra per la discesa. Un’ulteriore conferma si trova nell’Ordo Romanus V che, riguardo al rito che precedeva la lettura del Vangelo, dice: Subdiaconi autem duo cum turibulis ante evangelium in ambonem ex una parte ascendentes et ex altera parte statim descendentes, redeunt stare ante gradum descensionis ambonis (“dunque i sottodiaconi, salendo da un lato dell’ambone con i due turiboli davanti al Vangelo, e scendendo subito dall’altra, tornano a posizionarsi davanti al gradino dell’ambone”).
Un caso a parte è invece costituto dagli amboni della Siria settentrionale: si tratta, infatti, di strutture in muratura a ferro di cavallo, collocate nella navata centrale, con la curva opposta all’abside, che svolgevano non solo le proprie specifiche funzioni, ma anche quelle dell’abside, contenendo sia i banchi presbiteriali, sia la cattedra.
Strumento fondamentale della liturgia, perché impiegato in una delle pratiche cristiane più importanti, è il fonte battesimale, ossia quel recipiente contenente l’acqua destinata al battesimo, present ein chiese e battisteri in sostituzione o in alternativa alla vasca.
In epoca paleocristiana, infatti, a ricordo del battesimo di Cristo nel Giordano, l’iniziazione al cristianesimo avveniva in età adulta e tramite immersione in una piscina. L’uso, invece, del fonte battesimale si afferma soprattutto a partire dall’alto Medioevo, quando il battesimo viene esteso anche ai bambini e la somministrazione del sacramento non avviene più solo per immersione ma anche per infusione. La forma di questa struttura, che all’origine si lega proprio a quella delle vasche paleocristiane, è solitamente circolare o poligonale, spesso con otto lati, riferiti dai Padri della Chiesa, nel binomio Battesimo uguale Ri-nascita, all’octava dies, ovvero l’ottavo giorno fuori dal ciclo della settimana, e quindi fuori dal tempo terreno limitato, in cui sarebbe avvenuta la resurrezione di Cristo. Riguardo al materiale, Debet ergo fons esse lapideus, diceva Guglielmo Durando, anche se a seguito di particolari esigenze o tradizioni artistiche locali si trovano fonti in metallo, in piombo o in legno.