Gli arredi ecclesiali (antependia, cattedre, cibori, pulpiti, ceri)
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo spazio delle chiese fra XI e XII secolo è articolato da un sistema di arredi liturgici di grande complessità, oscillante tra rimandi al passato e varianti rispetto alla tradizione. Un insieme di apparati che si dispone nella zona del coro e in quella della navata, proponendo nella prima un altare, solitamente arricchito dal suo ornamento di antependia, dossali e cibori, e fissando nella seconda, proprio al centro, un recinto, la schola cantorum, spesso dotato di uno o due pulpiti e di un candelabro per il cero pasquale. La funzione dell’edificio religioso – cattedrale, chiesa abbaziale, pieve, oratorio, collegiata, chiesa conventuale – e la destinazione dello stesso a utenti diversi – vescovi, monaci, conversi o laici – sono comunque fattori che condizionano una serie di componenti legate all’architettura, alla decorazione e, naturalmente, all’arredo liturgico.
Rispetto all’età paleocristiana e altomedievale, si assiste nell’edificio chiesastico, monastico o secolare che sia, soprattutto a una moltiplicazione degli altari, tanto che alla singola ara maggiore, posta nel punto focale del santuario, si aggiungono uno o più altari secondari, sistemati nelle adiacenze o in spazi periferici, come attesta già nel IX secolo la pianta della chiesa abbaziale di San Gallo. Quanto al formato e all’articolazione, è da notare che il rinnovato culto dei corpi dei santi e la conseguente necessaria associazione delle reliquie all’altare ne condizionano fortemente la struttura. Le sacre vestigia potevano trovar posto, infatti, nel corpo stesso dell’ara – con l’eventuale apertura di una fenestella che ne permettesse la visione – oppure, in particolare negli altari retti da sostegni, nel piano stesso della mensa, come si vede nell’altare di Saint-Sernin a Tolosa, realizzato nel 1096 da Bernardus Gelduinus.
Quest’ultima è anche l’unica soluzione applicabile agli altari portatili, notevolmente diffusi e spesso di gran qualità, come quello un tempo nell’abbazia di Stavelot (Bruxelles, Musées Royaux), ornato da Storie della Passione di Cristo e da quei personaggi veterotestamentari che ne anticipavano le gesta. Commissionato dall’abate Wibaldo, l’altarolo testimonia, nella straordinaria fattura in metalli preziosi, smalti champlevé e gemme, l’alto livello degli orafi mosani nel XII secolo. Quando, invece, nella chiesa è prevista la presenza di una cripta per ospitare le reliquie, l’altare si colloca, solitamente in asse con i sacri resti, su un presbiterio rialzato, mentre alla cripta si scende attraverso una serie di gradini posti lateralmente. Da un punto di vista tipologico, comunque, dopo il Mille si impone rapidamente la formula dell’altare - cassa quadrangolare, già presente ad esempio nell’altare di Ratchis, che avrà come conseguenza immediata lo sviluppo di un decoro sul prospetto anteriore, quello rivolto verso la navata e i fedeli. Questo rivestimento della fronte dell’altare, chiamato antependium o paliotto, può essere in metallo, pietra, legno o tessuto. In origine, infatti, la mensa è ricoperta da un drappo, un pallium appunto, che ricade, ovvero pende, davanti alla fronte dell’altare: una situazione da cui chiaramente derivano i termini paliotto e antependium. Degli anni intorno al Mille si conservano due esempi di alta fattura: l’antependium della cattedrale di Aix-la-Chapelle e quello, donato dall’imperatore Enrico II, in oro, pietre preziose e perle un tempo nella chiesa principale di Basilea (Paris, Musée national du Moyen Age, Thermes et hôtel de Cluny). Un caso eccezionale, che ai materiali e alle pietre pregiate unisce anche smalti cloisonné, è la famosa Pala d’oro di San Marco a Venezia, di fattura essenzialmente costantinopolitana e con verosimiglianza concepita in origine come un paliotto. Testimonianza importante, anche se perduta, è quella del paliotto fatto eseguire a Costantinopoli dall’abate Desiderio per l’altare di Montecassino con ben 36 libbre d’oro. Dalle parole del cronista Leone Ostiense il risultato doveva destare meraviglia: la tavola, smagliante d’oro e lucente di gemme e smalti, era ornata con episodi evangelici e quasi tutti i miracoli di san Benedetto.
Tuttavia la maggior parte degli antependia in metallo tuttora esistenti, almeno diciassette, è curiosamente conservata in area scandinava. Il fatto che siano stati realizzati in bronzo dorato, e non in oro o argento, ne ha favorito la sopravvivenza. L’esempio più antico è l’ antependium di Lisbjerg, nei pressi di Aarhus, nello Jutland (Copenaghen, Nationalmuseet), databile al 1140 ca.; l’altare, sia per l’ antependium sia per la pala sormontata da una Crocifissione in un grande arco, offre un esempio di quello che è probabilmente un modello di altare romanico diffuso in tutta Europa. In verità esistono nel mondo occidentale anche numerosi antependia realizzati in materiali meno importanti, come il legno, sia dipinto, sia scolpito. Molti di essi si conservano nella penisola iberica: in Catalogna ne restano due tra loro molto simili e di grande importanza, dipinti nel secondo quarto del XII secolo, l’uno proveniente da Hix e l’altro da Seu d’Urgell (Barcellona, Museo d’Art de Catalunya). Entrambi sono incorniciati da una ricca bordura ornamentale e mostrano nel pannello centrale un imponente Cristo in maestà con i dodici apostoli ai lati. Il più antico tra quelli scolpiti, probabilmente della seconda metà del XII secolo, proviene invece da San Pedro di Ripoll (Vic, Museu Arquelogic-Artistic Episcopal) e presenta al centro, come di consueto, la figura di Cristo in maestà in una mandorla, con i simboli degli evangelisti e i dodici apostoli.
Discreta è anche la presenza in tutta Europa di paliotti dipinti, come quello proveniente dalla chiesa delle canonichesse agostiniane di St. Walpurgis a Soest, databile intorno al 1175 e oggi conservato a Münster (Westfälische Landesmuseum).
Il progressivo declino dell’antependium è segnato, secondo qualche studioso, da alcuni significativi cambiamenti liturgici, quali lo spostamento verso l’abside dell’altare e l’uso dell’officiante di celebrare la messa non più dietro a questo, bensì davanti, con le spalle rivolte ai fedeli. Rimanendo in tal modo l’antependium quasi completamente nascosto, si fa strada la tendenza a spostare la decorazione sopra l’altare, nella sua parte posteriore. È questo forse l’atto di nascita del dossale o pala d’altare, un pannello decorativo per lo più mobile, in metallo, legno, stoffa, pietra o anche avorio.
Tuttavia una parte della critica ritiene troppo semplicistico questo passaggio dall’antependium al dossale, convinta del fatto che la posizione del celebrante non dipenda da generali trasformazioni liturgiche ma, semplicemente, dal variare della collocazione dell’altare nello spazio architettonico. La proliferazione delle messe sugli altari laterali ha, infatti, spinto questi ultimi verso il fondo di un’abside o di una cappella, con il prete costretto, quindi, a celebrare messa con le spalle ai fedeli. La decorazione sopra l’altare o sulla fronte dello stesso, come del resto la posizione del celebrante, deriva, pertanto, secondo questi studiosi, dallo specifico contesto architettonico e non da una modifica nel modo di dire messa. Il Dossale della Pentecoste (Paris, Musée National du Moyen Age, Thermes et hôtel de Cluny), di fattura mosana, mostra come la configurazione strutturale dei primi dossali del XII secolo doveva essere principalmente rettangolare, con poco sviluppo verticale e qualche variante nel coronamento, ora semicircolare, ora trilobato, ora triangolare. Esistono, tuttavia, nel contesto europeo anche episodi isolati di un uso congiunto dell’antependium e del dossale, come nel caso dell’altare maggiore della cattedrale di Santiago de Compostela, dove l’insieme era per di più sovrastato da un ricco ciborio.
Proprio quest’ultimo costituisce uno degli ornamenti chiave della zona dell’altare sin dall’epoca altomedievale. Un deciso rinnovamento nella tipologia del ciborio è segnato dall’esempio del tardo X secolo di Sant’Ambrogio a Milano, i cui riflessi si colgono in quello di San Pietro al Monte presso Civate. Una nuova tipologia, all’interno della quale si possono individuare due modelli fondamentali, viene elaborata a Roma dai marmorari romani. Il primo tipo, con quattro colonne architravate con una galleria di colonnine su cui poggiano un secondo architrave e un tetto a capanna con timpani triangolari si vede in San Clemente a Roma e in Sant’Elia a Castel Sant’Elia presso Nepi, al principio del XII secolo. Il secondo modello prevede, invece, il passaggio dalla struttura quadrangolare della base a quella ottagonale della copertura attraverso almeno due ordini di colonnine architravate, l’inferiore parallelepipedo, il superiore prismatico a sezione ottagonale; la copertura è costituita da un tetto a piramide tronca, sormontata da una lanterna a sua volta a più ordini di colonnine e con conclusione piramidale.
Di questo tipo esistono numerose testimonianze e tra i primi esempi va annoverato quello di San Lorenzo fuori le mura a Roma, realizzato nel 1148 da Angelo di Paolo. Vicini alla tipologia romana ma costituenti un capitolo a parte per le caratteristiche iconografiche e strutturali – in particolare per l’uso, al posto dell’architrave, dell’arco gemino o trilobo – sono i cibori abruzzesi in stucco della bottega del maestro Ruggero, come quello di San Clemente al Vomano presso Guardia al Vomano, opera del 1158 di Ruggero e Roberto. I cibori hanno vasta diffusione in tutta Europa, seppur con qualche variante, come i baldacchini lignei dipinti che, a partire dall’XI secolo, abbondano sugli altari spagnoli. Del ricco apparato ornamentale dell’altare fanno parte anche i candelieri e gli incensieri. I primi possono essere due, quattro o sette, disposti sopra o dietro la mensa, con una complessa elaborazione simbologica chiarita dal teologo Onorio d’Autun nel XII secolo. Sempre Onorio spiega, invece, come l’incensiere rappresenti il corpo del Signore, l’incenso corrisponda alla sua divinità e il fuoco che lo consuma allo Spirito Santo. Questi oggetti, spesso realizzati in rame e in bronzo, anche se non mancano esempi in materiali più pregiati, conoscono fra XI e XII secolo un deciso apogeo, con il massimo grado di complessità della lavorazione e del programma iconografico, come attestano i due candelieri d’argento legati al nome di Bernardo di Hildesheim (Hildesheim, Museo Diocesano) o l’incensiere in bronzo dorato del tesoro della cattedrale di Treviri. Un elemento decorativo altrettanto interessante è costituito dalla croce, che viene solitamente sistemata sopra l’altare, come si vede nell’affresco della Basilica superiore di Assisi con san Francesco davanti al Crocifisso di San Damiano, o nelle sue immediate vicinanze. Ad esempio, nella celebre abbazia parigina di Saint-Denis, intorno al 1140, una grande croce in oro di più di due metri, posta su un piede alto circa quattro, troneggiava proprio dietro l’altare maggiore. Oltre all’immagine di Cristo crocifisso, un ricco programma iconografico interessa anche il supporto sottostante, come già nel piede di croce proveniente dall’abbazia francese di Saint-Bertin del Nord del 1150-1160.
Ancora ad Assisi, l’affresco raffigurante il Presepe di Greccio mostra, invece, una croce di grande formato – il cui peso presupponeva quindi una struttura muraria di sostegno – posta sopra un possente tramezzo in muratura, destinato a separare il presbiterio dalla navata.
È con l’avvento del nuovo millennio, infatti, che si rafforza l’esigenza di una più netta divisione degli spazi fra clero e laici all’interno dell’edificio religioso. Stando alle fonti coeve, questa rigorosa scansione degli ambienti non deve, tuttavia, essere intesa come una chiusura gerarchica del clero verso i fedeli, quanto un modo per consentire a entrambi la massima concentrazione spirituale. La separazione tra la zona presbiteriale e la navata può essere affidata a un’alta parete in muratura oppure a un articolato insieme di transenne, colonnine e cornici. Nel primo caso, ben testimoniato dal già citato affresco assisiate, le alte recinzioni murarie, poste su tre lati, ospitano lungo le pareti interne i sedili per il clero e si aprono verso la navata attraverso una porta centrale, utile anche per il rientro nel coro delle processioni dei religiosi.
Ben pochi sono purtroppo gli esempi sopravvissuti di questa tipologia di coro in Italia, come nel San Benedetto al Subasio presso Assisi, mentre straordinarie testimonianze si conservano in Sassonia, dal San Michele di Hildesheim alla Liebfrauenkirche di Halberstadt. Nella penisola italiana sono, invece, numerose le attestazioni di pergulae – con lastre, colonnine e cornici – a dividere il cuore del santuario dalla navata, sebbene molte di esse siano frutto di ricostruzioni moderne. Una barriera di siffatta tipologia si vede ancora in Abruzzo, a Santa Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo, probabilmente in un insieme di epoche diverse (XII-XIII sec.), che fornisce però, in unione con altare, ciborio e pulpito, un’idea estremamente interessante di come doveva presentarsi l’arredo liturgico di una chiesa medievale. Qui, due plutei, posti più o meno al centro della navata principale, sorreggono quattro colonnine, a loro volta sostenenti una straordinaria trabeazione lignea, riccamente decorata e destinata forse a reggere icone. Alcuni studiosi ritengono che la struttura abruzzese sia una citazione di quella, oggi scomparsa, voluta sul finire dell’XI secolo da Desiderio per l’abbaziale di Montecassino e costituita da una trave di legno intagliata, decorata con oro e porpora e sostenuta da sei colonne d’argento, alla quale erano appese cinque icone rotonde, mentre tredici quadrate ne coronavano la sommità. Si tratterebbe in questo caso di una vera e propria iconostasi, organismo ampiamente diffuso nelle chiese cristiane orientali, con interessanti esempi a Hosios Lukas in Focide, nella Santa Sofia di Ochrida e nel Santo Stefano di Kastoria. Anche a Roma e nel resto del Patrimonium Petri si conservano alcuni esempi di queste pergulae, realizzate però in marmo e decorate a intarsio, nel più tipico stile “alla cosmatesca”. Proprio a Roma, nella chiesa di San Clemente del principio del XII secolo, è documentata la più importante testimonianza di schola cantorum, quel recinto, di forma solitamente rettangolare, che, allungandosi dal presbiterio verso la navata, ospita i cantori. La schola cantorum è formata da una serie di lastre, di altezza media e con un’apertura verso l’altare e una verso la chiesa, che non si legano organicamente all’architettura dell’edificio ma racchiudono uno spazio di larghezza spesso inferiore a quello della navata centrale. Fuori naturalmente dalla schola e di solito ai suoi lati comincia, invece, lo spazio dei fideles.
In collegamento con la zona presbiteriale oppure con la schola cantorum, quando essa è presente, si pone il pulpito o i pulpiti. Questi, infatti, possono anche essere in numero di due, sistemati uno a sinistra guardando l’abside, dedicato alla lettura del Vangelo, e un altro a destra, destinato invece a quella delle Epistole. La scelta, scaturita forse proprio al principio del XII secolo, dell’uso del doppio ambone, con tutta probabilità estraneo agli edifici paleocristiani e altomedievali, sembra nata per conferire un più intenso appeal coreografico alle celebrazioni, rendendo più elegante e solenne l’alternanza Epistola-canti intermedi-Vangelo, senza escludere il desiderio di rendere tangibile anche nell’arredo la gerarchia tra Vangelo ed Epistola, già ben chiara a livello cerimoniale.
Quando è presente una schola cantorum, come a San Clemente, i due amboni vengono inglobati all’interno del recinto, l’uno contrapposto all’altro. In assenza della recinzione dei cantori, invece, il pulpito, se singolo, è direttamente collegato alla barriera presbiteriale, come si vede a Santa Maria in Valle Porclaneta o nell’affresco assisiate con il Presepe di Greccio. Non mancano comunque casi in cui pulpito e recinzione sono assolutamente indipendenti. È con probabilità questa la situazione in atto nella chiesa dell’abate Desiderio a Montecassino, dove il solo pulpito, peraltro ligneo, era posto extra chorum. Sul piano tipologico a Roma si impone nettamente un ambone a doppia rampa, ovvero con alta base massiccia e continua sulla quale poggia il lettorino, fiancheggiato da due lastre triangolari che fungono da balaustra alle due scale contrapposte. Questo tipo, che ebbe grande diffusione nell’Urbe e nelle zone limitrofe, potrebbe essere una ripresa di modelli paleocristiani e altomedievali, come proverebbero i resti dell’ambone di Santa Maria Antiqua a Roma e di quello di San Cornelio a Veio (Roma, Museo dell’alto Medioevo), nonché le parole degli Ordines, ossia le raccolte sullo svolgimento dei riti liturgici. L’esistenza di amboni a doppia rampa è attestata fino alla prima metà del XII secolo anche in Campania, dove in seguito si impone la tipologia a cassa su colonne, con o senza archetti, esemplata sui famosi pulpiti della cattedrale di Salerno, realizzati intorno al 1180. Il tipo a cassa su colonne, assolutamente il più diffuso, è presente anche in Puglia, che conserva un numero relativamente ridotto di pulpiti, pochi dei quali hanno una decorazione scolpita a carattere figurativo o narrativo. Il gruppo di pulpiti più antico è associato alla bottega dell’arcidiacono Accetto, attivo nel secondo quarto del secolo XI, e l’esempio meglio conservato è quello della cattedrale di Canosa (Bari). Terra straordinariamente ricca di amboni è l’Abruzzo, concentrati nell’area centrale della regione e molto ben documentati, perché firmati e/o datati. I pulpiti abruzzesi possono essere divisi in due gruppi principali: quelli con scene narrative, come il pulpito di Santa Maria del Lago a Moscufo (Pescara), realizzato da Nicodemo nel 1159, e quelli con ornamentazione prevalentemente floreale, come si vede nel pulpito di San Clemente a Casauria (Pescara) del 1176 circa. La Toscana si distingue per un gran numero di pulpiti sia riccamente narrativi, come quello di Guglielmo, ora nella cattedrale di Cagliari ma proveniente da Pisa, o intarsiati, quale quello di San Miniato a Monte a Firenze.
Un discorso a parte meritano gli amboni e, più in generale, gli arredi liturgici romani, realizzati dai Cosmati, denominazione convenzionale con cui si indicano alcune famiglie di marmorari (tra i quali ricorre più volte il nome Cosma), attivi principalmente a Roma e nel Lazio, a partire dall’inizio del XII secolo, come veri e propri produttori e imprenditori dell’arredo liturgico. La loro opera, spesso ispirata dal confronto con l’antico, si caratterizza per un sistema ornamentale che impiega marmi bianchi e colorati, pietre dure (soprattutto porfido e serpentino), tessere di pasta vitrea e oro, a formare minuziosi e raffinati disegni geometrici.
Amboni monumentali e riccamente decorati vengono realizzati anche al di là delle Alpi, come ben attesta l’ambone eseguito nel 1181 a Klosterneuburg, nei pressi di Vienna, da Nicolas de Verdun, straordinario punto d’arrivo della scuola orafa mosana. L’ambone, trasformato fin dal 1330 in un trittico d’altare, è sontuosamente composto da placche in smalto e oro raffiguranti scene del Vecchio e Nuovo Testamento, collegate da un sofisticato rapporto “tipologico”, frequente in area oltralpina, per cui qui a ogni scena del Nuovo Testamento ne corrispondono ben due del Vecchio che la prefiguravano.
Accanto all’ambone trova posto il candelabro per il cero pasquale, protagonista assoluto delle celebrazioni del Sabato Santo, durante le quali il diacono accende solennemente dal pulpito la fiamma, simbolo della Resurrezione di Cristo. I candelabri destinati al sostegno del cero pasquale sono soprattutto di tipo colonnare e prevalentemente in argento, in bronzo, o in marmo, quali, ad esempio, le colonne intarsiate dei marmorari romani. I candelabri d’altare o in generale con funzione liturgica sono, invece, costituiti da un fusto poggiante su più piedi che termina con una punta per l’innesto della candela; diffusi sono pure quelli a bracci, due o più, fino a sette, ispirati al modello biblico.
Dell’arredo liturgico fa parte naturalmente anche il fonte battesimale. Nel corso dell’XI-XII secolo, accanto ai fonti poligonali di vaste proporzioni e impianto solenne, a rievocazione delle vasche paleocristiane, come il fonte battesimale in bronzo voluto dall’abate Hellinus (1107-1118) per la chiesa di Notre-Dame a Liegi (ora a San Bartolomeo) o quello del San Frediano di Lucca (1150 ca.), si hanno anche strutture di dimensioni più piccole, diffuse grazie all’uso del battesimo per aspersione.