GERVASUTTI, Giusto
Nacque a Cervignano del Friuli il 16 apr. 1909 da Valentino e da Teresa Milocco. Conobbe la montagna sulle Alpi Carniche, durante le vacanze estive, poi, ancora molto giovane, lo appassionarono le Dolomiti e, gradualmente, passando dalle vie normali alle pareti sempre più difficili, il G. fece dell'alpinismo la ragione di tutta la sua vita. A vent'anni era già uno dei migliori arrampicatori su calcare, ma fu il granito, la severa roccia del monte Bianco e delle Alpi occidentali, a riservargli i maggiori successi e a fare di lui il ponte ideale tra la disinibita tradizione dolomitista degli anni Trenta e l'austera accademia piemontese. Infatti il G. lasciò il Friuli per iscriversi alla facoltà di economia e commercio dell'Università di Torino.
Questa divenne la sua città di adozione e dei Torinesi egli acquistò l'understatement subalpino, peraltro vicino alla riservata dignità dei Friulani, anche se i compagni sostennero sempre che in compagnia sapeva essere socievole, allegro ed estroverso. Si presentava come un giovane colto ed elegante, dall'aspetto vagamente inglese: la giacca sempre a posto, l'atteggiamento misurato, la pipa in bocca.
Volle subito conoscere i grandi itinerari del monte Bianco; già nell'estate del 1931 si aggiudicò il classico trinomio Aiguille Verte, Aiguille du Grépon, Aiguille du Dru: fu il suo battesimo del granito.
Il G. non concluse mai gli studi universitari e, nella ricerca di un compromesso tra le esigenze economiche e l'interesse prevalente per l'alpinismo, intraprese varie e precarie iniziative commerciali. Prima nel settore degli oli minerali, poi in quello degli apparecchi radio, quindi nel commercio del sughero. Fondò anche una casa editrice, Il Verdone, che per qualche tempo diede alle stampe belle edizioni di narrativa per ragazzi e pubblicò la prima edizione della sua autobiografia alpinistica, Scalate nelle Alpi, Torino 1945.
La casa editrice non fu un vezzo intellettuale, perché il G. amava profondamente la lettura e divorava i romanzi d'avventura di R. Kipling e di J. London. Ha scritto il suo amico M. Mila: "Gli avevo rivelato Conrad e, non senza trepidazione, l'immenso ma non facile Moby Dick di Melville: era diventato per lui una specie di bibbia e non so quante volte se lo fosse riletto" (M. Mila, Scritti di montagna, Torino 1992, p. 362). Questi riferimenti letterari illuminano le motivazioni che spinsero il G. verso l'alpinismo estremo. Innanzitutto il gusto per l'avventura e, dunque, il bisogno di allontanarsi dalle vie battute.
Anche se le Dolomiti erano state i suoi monti di iniziazione, il "Fortissimo" - così lo chiamarono gli amici torinesi dopo la partecipazione al trofeo Mezzalama nel 1933 - sentì il bisogno di misurarsi con i severi terreni rocciosi e ghiacciati del Delfinato e del monte Bianco. In questa luce bisogna leggere le imprese leggendarie come la parete nordovest dell'Ailefroide, superata nel 1936 con L. Devies, e soprattutto la parete est delle Grandes Jorasses, scalata nel 1942 con G. Gagliardone, dopo ripetuti e drammatici tentativi.
Sull'Ailefroide il G. superò se stesso perché condusse tutta la salita nonostante le costole fratturate per una banale caduta durante l'avvicinamento. Ma in particolare sulle Grandes Jorasses si rivelò la sensibilità insieme forte e fragile del G., sempre teso verso nuove mete e colto, a ogni successo, da una sorta di struggimento leopardiano: "Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La mèta raggiunta è già raggiunta e già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà" (Scalate nelle Alpi, p. 267).
Il nevrotico imbarazzo del G., che non poteva risolversi neppure oltre il traguardo più ambito, ha in sé qualcosa di moderno, di atemporale. Anche quando "correva" con R. Chabod per aggiudicarsi la prima ascensione dell'ambita parete nord delle Grandes Jorasses (scalata da alpinisti tedeschi nell'estate del 1935, il G. e Chabod fecero la seconda salita), egli agiva soltanto per se stesso, da uomo libero. Ebbe poco a che fare con le consuetudini della società, si mantenne ai margini della politica e fu sempre alpinista fino in fondo, anche nel proprio individualismo.
La seconda componente tipica dell'alpinismo del G. è la ricerca basata su un gusto estetico che accomuna sia i grandi itinerari (come il magnifico pilastro del Pic Gugliermina, salito con G. Boccalatte nel 1938), sia gli innumerevoli itinerari minori scoperti e scalati nel gruppo del Gran Paradiso e anche sulle montagne del Masino e della Val Malenco.
Tutte le sue ascensioni più belle associano all'eleganza della linea la continuità dei passaggi, dove predominano le fessure e i diedri di puro stile granitico. L'itinerario più esemplare è forse il pilastro di destra del Frêney al monte Bianco, scalato con P. Bollini nel 1940. Si tratta di un itinerario dalla purezza assoluta, in cima a un bacino glaciale selvaggio e sconvolto dai seracchi, proprio a un soffio dalla vetta più alta d'Europa. Un itinerario in grande anticipo sui tempi: si pensi che per veder realizzata la salita dell'altro pilastro del Frêney, il famoso Pilone Centrale, bisognerà attendere il 1961, con la tragedia di W. Bonatti e il successo degli inglesi D. Whillans e C. Bonington.
Il 17 sett. 1946, alla fine dell'ennesima stagione sul granito del monte Bianco, era impegnato con G. Gagliardone sul pilastro più alto del mont Blanc du Tacul che oggi porta il suo nome. Il tempo cambiò e i due compagni furono costretti alla discesa. Durante una manovra in corda doppia, il G. afferrò un capo soltanto della fune, che si sfilò dal chiodo e precipitò con lui.
Fonti e Bibl.: Il testo fondamentale per la ricostruzione della vita del G. è l'autobiografia alpinistica, Scalate nelle Alpi, riedita accresciuta di vari saggi critici e con il titolo, G. G., il Fortissimo, Milano 1985. Il volume contiene anche i migliori articoli scritti da vari compagni di cordata dopo la morte del G. e gli altri suoi scritti di montagna, tra cui il Carteggio con Lucien Devies (1943). La figura del G. è ampiamente trattata in G.P. Motti, Storia dell'alpinismo, a cura di E. Camanni, Torino 1994, ad indicem. Il più recente saggio antologico e critico è: E. Camanni - D. Ribola - P. Spirito, La stagione degli eroi: Castiglioni, Comici, G., Torino 1994.