CONTI, Giusto de'
Nacque, probabilmente a Roma, intorno al 1390.
Di certo della biografia del C. si sa solo l'anno della composizione del canzoniere, alcune notizie sulla sua presenza in Rimini poco prima della morte e la data della morte. Il nome stesso del poeta è tramandato in forme diverse: lo troviamo di volta in volta menzionato come "Giusto Romano", "Giusto da Valmontone", "Iustus nat. de Comptis", mentre Celso Cittadini lo chiama "Iacopo Giusto Conti Romano". L'anno della nascita non è sicuro, e si congetura possa essere il 1389 0 il 1390 (Salfi); a ragione non la si può far risalire molto indietro fino a rendere il poeta coetaneo del Petrarca (come invece riteneva Celso Cittadini) o comunque fino ad ipotizzare una qualche forma di contatto tra il Petrarca anziano e Giusto giovanetto, come è affermato in un articolo, forse dello Zeno, apparso nel Giornale de' letterati d'Italia del 1721-22, nel quale viene accettata come vera la data della composizione del canzoniere trascritta dal Corbinelli (1409 invece di 1440). Anche il luogo d'origine del poeta è incerto, come pure il suo casato. Alcuni lo vollero nato a Valmontone, ma, in assenza di documenti specifici e attenendosi all'appellativo con cui è quasi sempre indicato (appunto "Romano"), lo si deve considerare nativo di Roma; sulla scorta del Ratti, si ritiene Giusto un illegittimo della famiglia Conti del ramo di Valmontone. La condizione di illegittimo spiegherebbe l'assenza del suo nome dagli alberi genealogici della famiglia Conti e, insieme, la sua partenza da Roma e la mancanza del cognome nell'iscrizione che Sigismondo Malatesta fece apporre al suo sepolcro ("Iustus orator Romanus iurisque consultus d. Sigismundo Malatesta Pan. F. rege hoc saxo situs est") e la dicitura "nat[uralis] de Comptis" con la quale è indicato in alcuni manoscritti.
Anche ammessa l'appartenenza del poeta alla nobile casata romana, resta da precisarne la paternità. Il Ratti nel suo accurato lavoro fa a questo proposito il nome di Ildebrandino, che, unico tra i suoi fratelli, "ebbe feconda, e numerosa prole". Particolare curioso, ma che può comunque avere una certa importanza e che di certo l'ebbe agli occhi del Ratti, i figli di Ildebrandino portarono tutti nomi stravaganti e in ogni caso del tutto nuovi rispetto alle tradizioni della famiglia: vi troviamo infatti un Alto, un Grato, un Lucido e un Sagace: un Giusto non avrebbe potuto trovare migliore compagnia. Si sa che il C. fu interpres utriusque iuris, ma frutto di sola congettura è l'affermare che abbia studiato a Bologna, dal momento che nulla di simile risulta dalle testimonianze dei contemporanei o dalla documentazione di quella università. Altrettanto infondata la notizia che lo vuole senatore romano: essa risale al Corbinelli (che defini Giusto "romano senatore" nella sua edizione de La bella mano) ed è stata propagata a lungo tanto che ancora nel 1846, in un'incisione premessa ad una raccolta di lirici pubblicata nel Parnaso italiano, il poeta è rappresentato nella veste tipica dei senatori romani. Se è incerto che a Bologna abbia condotto i suoi studi, sembra fuori di dubbio che in tale città si sia svolta la storia d'amore cantata dal poeta nel suo canzoniere. Molte le ipotesi con le quali si cerca di dare un nome ed un cognome alla sua "amasia" o, al contrario, di cancellarla del tutto facendone un mero frutto di fantasia. Già in epoca contemporanea al poeta alcuni manoscritti recavano scritto il nome dell'amata (D. Iustus de Valmontone ad Ysabettam Bononiensem; Canzonitia Cl. V. Iusti De Valmontona ad Ysabettam Bononiensem Amasiam suam), ed il Manchisi ha visto nella quinta stanza della III canzone del canzoniere ("In quella parte, dove i miei pensieri") un acrostico che dà "Isabeta mia gentile". L. Frati (1908) propose di identificare l'Isabeta cantata dal poeta con un'Elisabetta Bentivoglio, andata in sposa il 22 ott. 1441 a Guido de' Pepoli, dottore in legge. In precedenza però il Mazzuchelli, traendo lo spunto da un "sacro loco" menzionato in un sonetto, aveva ipotizzato che l'amore del C. fosse per una giovane monaca. mentre il Ratti aveva concluso "che nella sola poetica di lui fantasia esistesse l'oggetto amato". Su una strada del tutto diversa il Renazzi, quando scrive che del C. "si sa solamente che esso in Roma nel 1409 s'accese d'amore per una fanciulla".
Dell'attività letteraria del C. non si ha alcuna documentazione al di là di uno scambio di sonetti con Rossello Rosselli e con Angiolo Galli. Né documenti più precisi si hanno del resto fino al 1446 (al di là di un soggiorno fiorentino tra il 1438 ed il 1440 al seguito di Eugenio IV), anno in cui è presente nella Marca anconitana come tesoriere pontificio. Da allora è possibile seguire la sua opera di mediatore, come inviato di Niccolò V, tra Sigismondo Pandolfo Malatesta e Federigo da Montefeltro, ed il successivo trasferimento alla corte di Rimini, al seguito del Malatesta, in veste di consigliere segreto, giudice e uditore.
Nella corte malatestiana, benvoluto dal suo signore e ben accetto dalla comunità dei dotti e degli artisti, il C. morì il 19 nov. 1449 e, dopo una prima sepoltura "a' Francescani" (Battaglini, p. 87), fu onorato con un sepolcro sulla fiancata del tempio di L. B. Alberti.
La produzione del C., poeta dei non molti riportati dalla Crusca, è costituita dal canzoniere La bella mano (composto di 135 sonetti, 5 canzoni, 3 sestine, 3 ballate e 4 capitoli) e da alcuni altri sonetti non compresi in esso e scritti dopo il matrimonio di Isabetta (1441), ispirati dall'amore di altre donne (tra le quali una Laura ed una Victoria). La poesia del C., in una fortuna alterna che (in linea di massima fino al Foscolo) gli ha comunque riconosciuto un ruolo di notevole prestigio, è stata sempre definita "gentile" e "leggiadra". La cura particolare posta nella scelta delle immagini e dei vocaboli, la delicatezza del tono e la linearità dello stile, unite alla presenza mai camuffata del modello petrarchesco o, spesso, alle reminiscenze di Dante, hanno fatto a lungo del suo canzoniere un punto di riferimento obbligato per le aree culturali non toscane. A mano a mano, però, che la necessità di tale tramite e di tale mediazione veniva meno, La bella mano perdeva d'importanza per rivelarsi nella sua intima essenza: un esercizio di stile condotto, con perfezione e insieme con freddezza, sul dettato del Petrarca; quello che era stato ritenuto a lungo uno "fra i primi poeti della nostra Italia" (Muratori) e "uno de' più canor cigni del Parnaso Italiano" (Ratti), risultava un onesto imitatore, che continuava a restare "un poeta ragguardevole per un secolo che nonne offre dei migliori" (Salfi).
La prima edizione del canzoniere contiano è quella di S. Malpighi, Bologna 1472 (Iusti de Comitibus Romanis... libellus foeliciter incipit intitulatus la Bella Mano), ristampata successivamente in Venezia nel 1474 da Gabriele di Pietro, nel 1492 da Tommaso di Piasi e di nuovo nell'anno 1531. Allo scadere dei secolo I. Corbinelli curò una edizione parigina: La Bellamano. Libro di messere Giusto de' Conti, Romano Senatore, Parigi 1595, nella quale alle poesie faceva seguire una raccolta di rime di "diversi autori toscani", che furono riprese anche da T. Buonaventura quando preparò la stampa (Firenze 1715) annotata da A. M. Salvini (e recensita, forse da A. Zeno, nel Giornale de' letterati d'Italia, XXXIV [1721-22], pp. 38 ss.). Nel giro di pochi anni (1750 e 1753) uscirono a Verona due edizioni alle quali G. M. Mazzuchelli premise alcune Notizie intorno a G. de' C. Romano. A. Rubbi, nel XVI tomo del Parnaso italiano (Venezia 1784), riportò La bella mano, mentre nel 1819 uscirono a Firenze, a cura di C. Albergotti-Siri, alcune Rime inedite di Giusto de' Conti. Nel 1846 a Venezia, nel t. XI del Parnaso italiano, ancora un'edizione dei canzoniere. Le stampe più recenti sono quelle curate da G. Gigli: La bella mano, Lanciano 1916 (recensita da P. Micheli in Rass. bibl. della lett. ital., XXV [1917], pp. 306 s., e da M. Manchisi in Rass. critica della lett. ital., XXIII [1918], pp. 91-95) e quella, che raccoglie in due volumi tutta la produzione del C., di L. Vitetti (Lanciano 1918 e 1933), sulla quale si vedano gli appunti di Romanic Rewiew, X (1919), pp. 388 s., e quelli testuali di A. Balduino nel suo Manuale di filologia italiana, Firenze 1979, pp. 100 s., 202-205, 213 s.
Fonti e Bibl.: Sulla biografia del C. importanti le notizie raccolte da G. M. Mazzuchelli e citate nel testo, e quelle di N. Ratti (Su la vita di G. C. Romano, poeta volgare del sec. XV, notizie, Roma 1824) riportate in appendice al Canzoniere curato dal Vitetti. Sulla permanenza del C. a Rimini si vedano la Cronaca malatestiana del sec. XV, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script, XV, Mediolani 1719, col. 965, e A. Battaglini, Della corte letteraria di Sigismondo Pandulfo Malatesta, in Basini Parmensis poetae Opera praestantiora, Rimini 1794, pp. 87 s., ed anche B. Baldi, Vita e fatti di Federigo, di Montefeltro duca di Urbino, I, Roma 1824, p. 102. Sull'attività del C. come tesoriere si veda M. Rosi, Della signoria di Francesco Sforza nella Marca e particolarmente in Tolentino, Tolentino 1892, pp. 298 e 355, e G. Benadduci, Nuovi docum. sforzeschi secondo l'arch. Gonzaga di Mantova e quello di Tolentino, Tolentino 1899, p. 26. Del C. fanno menzione Benedetto da Cesena, contemporaneo del poeta, nel suo De honore mulierum;G. M. A. Carrara, un letterato bergamasco del XV secolo, nel De Choreis Musarum, secondo il quale "Iustus Romanus in vulgari ingua non vulgaris poeta fuit"; il Calmeta, in un manoscritto ora perduto citato dal Corbinelli; A. Stagi, nel poema Amazonida (Venezia 1503, c. LXXXI); C. Cittadini, nelle Origini della volgar toscana favella (Siena 1628, p. 185); F. Ubaldini, in Docum. d'amore di Francesco Barberino, Roma 1698, p. 91, e nei Comentari, Roma 1702, p. 31; L. A. Muratori, in Della perfetta poesia italiana, con annotazioni critiche di A. M. Salvini, I, Modena 1706, p. 25; G. V. Gravina, in Della ragione Poetica, II, Roma 1708, p. 211; F. S. Quadrio, in Storia e ragione d'ogni Poesia, II, Milano 1741, pp. 152, 197; G. Tiraboschi, in Storia della lett. ital., VI, Venezia 1925, pp. 1108; U. Foscolo, in Vestigi della storia del sonetto stal., in Ediz. naz. delle opere, VIII, p. 129; F. M. Renazzi, in Storia dell'Univ. degli studi di Roma, I, Roma 1803, p. 152. Un giudizio negativo sul C. in P. L. Ginguené, Histoire littéraire d'Italie, III, Paris 1811, pp. 477-479. Alcuni sonetti sono riportati in G. Poggiali, Serie de' testi di lingua stampati, che si citano nel vocabolario degli Accademici della Crusca, I, Livorno 1813, pp. 123-127 (sui quali ritornò poi M. Manchisi con il breve articolo Dell'autenticità dei sonetti di G. de' C. pubblicati dal Poggiali, in Rassegna critica della letter. italiana, IX[1904], pp. 97-104). Si vedano anche F. Salfi, Manuale della storia della lett. ital., Milano 1834, I, pp. 125-126; II, p. 299; C. Tonini, La coltura letter. e scientifica in Rimini dal sec. XIV ai primordi del XIX, I, Rimini 1884, pp. 98 s. (rec. in Giorn. stor. della lett. ital., VI [1885], p. 289); A. Mabellini, Un sonetto ined. di G. de' C. (nozze Vanni-Santucci), Firenze 1885; R. Renier, Notizia di un poema ined. napol., in Giorn. stor. della lett. ital., VIII (1886), p. 251; E. Rostagno, Il codice "Angelucci", ora Laur.-Ashburnhamiano del "Canzoniere" di G. de' C., in Riv. delle bibl. e degli archivi, VII (1896), p. 11 ss.; M. Manchisi, La data della "Bella mano", in Rass. critica della lett. ital., III (1898), pp. 6-10; V. A. Arullani, Dante e G. de' C., in Fanfulla della domenica, 7 luglio 1901; L. Venditti, G. de' C. e il suo canzoniere "La bella mano", Rocca S. Casciano 1903 (rec. di M. Manchisi in Rass. critica della lett. ital., VIII[1903], pp. 213-227; M. Pelaez, in Rass. bibl. della lett. ital., XII[1904], pp. 28 ss.; Id., in Giornale stor. della lett. it., XLIII [1904], pp. 439 ss.); A. D'Ancona-O. Bacci, Manuale della lett. ital., II, Firenze 1904, pp. 59 s.; M. Manchisi, La fine dell'amore di G. de' C. con Isabetta ed alcune rime ined., in Studi di lett. italiana, VII (1907), pp. 149 ss.; L. Frati, G. de' C. e madonna Isabetta Pepoli, in L'Archig., XIII (1908), pp. 140-144;U. Valente, Lirica amorosa del Quattrocento, in Riv. lett., VI (1934), pp. 28 s.;C. Dionisotti, Ragioni metriche del Quattrocento, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXIV (1947), p. 19; M. Corti, in P. J. De Jennaro, Rime e lettere, Bologna 1956, p. XLIII; C. Grayson, Alberti and the vernacular Eclogue inthe Quattrocento, in ItalianStudies, XI (1956), p. 18; G. Velli, in Renaissance News, XIV (1961), pp. 174-175, dove mette in risalto l'influenza del canzoniere del C. sull'opera di un poeta bolognese della fine dei Quattrocento (rec. a G. Calogrosso, Nicolosa bella. Prose e versi d'amore del sec. XV, a cura di F. Gaeta - R. Spongano, Bologna 1959); P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze 1963, pp. 336-39 e passim; D. De Robertis, L'esperienza Poetica del Quattrocento, in Storia della lett. ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, Milano 1966, III, pp. 420 ss.; G. Velli, A propos.ito di G. de' C., in Belfagor, XXIII (1968), pp. 348-355; A. Tissoni Benvenuti. Quattrocento settentrionale, in Letteratura italiana, Roma-Bari 1972. pp. 127 s., 169;R. Cremante, in Diz. critico della lett. ital., I, Torino 1973, pp. 630 s.; G. Gorni, Ragioni metriche della canzone tra filologia e storia, in Studi di filologia e di letter. ital. offerti a C. Dionisotti, Milano-Napoli 1973, pp. 15-24, spec. le pp. 16 s., dove annuncia di lavorare ad un'edizione de La bella mano.