ERIZZO, Giusto Antonio
Secondogenito di quattro maschi, nacque a Venezia il 30 ag. 1679 da Battista di Giacomo e da Giulia Belegno di Giusto Antonio del procuratore Paolo. La famiglia, che prima risedeva a S. Benetto, si era da poco trasferita nel palazzo sul Canal Grande, alla Maddalena, che da allora l'avrebbe contraddistinta col suo nome.
Poiché i fratelli scelsero tutti il celibato, toccò all'E. il compito di assicurare la continuità della casata; ci provò dapprima con Andriana Gradenigo di Pietro di Domenico, del ramo a S. Pantalon (20 sett. 1706), e poi, rimasto vedovo assai presto, con Bianca Giustinian di Gerolamo di Francesco, che sposò il 3 giugno 1711; da lei ebbe due figlie rimaste nubili e Battista, nato nel maggio 1717. Questi sposò nel 1739 Marina Gradenigo di Bartolomeo, detto Giovanni. del ramo in Rio Marin, ed ebbe cinque femmine e due maschi, tra cui Paolo Antonio (1750-1824), che ebbe un ruolo importante durante la crisi finale della Repubblica.
Prestigiosa, certo superiore alla disponibilità patrimoniale, la carriera politica dell'E.: savio agli Ordini (1704-05), Ufficiale alle Cazude (1713-14), savio alle Decime (1714-15), luogotenente a Udine (1720-22), provveditore agli Ori e monete (1723-24), procuratore sopra gli Atti dei sopragastaldi (1727-28), provveditore alla Giustizia vecchia (1728-29), censore (1729-30), capitano a Brescia (1731-33), consigliere ducale per il sestiere di Cannaregio (1733-34), presidente sopra l'Esazion del denaro pubblico (1734-37), membro del Consiglio dei dieci (1735-36), membro del Collegio delle acque (1736-37), conservatore delle Leggi (1737), revisore delle Scuole grandi (1737-38), aggiunto alle Beccarie (1737-39), membro del Consiglio dei dieci e inquisitore di Stato (1738-39), regolatore alla Scrittura (1740-42), membro della zonta del Senato (1741-42, e ancora nel 1742-43), provveditore sopra Beni inculti (1742, fino alla morte).
L'E. morì a Venezia il 31 ag. 1743.
Il 9 apr. 1731 era stato anche eletto ambasciatore a Vienna, ma, come avrebbe ricordato egli stesso, parlando di sé in terza persona "ellevato al più cospicuo posto della patria ... amò meglio andarsi a perdere ... nella prefettizia di Brescia, senza niuna marca maggior di riconoscenza, piutosto che ... d'assumer un impiego così elevato bensì, ma anco per lui pericoloso". Al suo posto fu eletto Marco Foscarini, che dell'ambasceria viennese avrebbe fatto uno dei momenti qualificanti per l'ascesa al dogato, ma nella circostanza l'E. preferì uniformarsi ad una massima costante nella sua famiglia: in precedenza aveva già rinunciato a tre rettorati, come il fratello Marco Antonio e l'omonimo zio, che addirittura aveva ottenuto la dispensa da ben quattro reggimenti.
A monte di tali scelte sta ovviamente la situazione economica degli Erizzo: la redecima del 1712 attribuisce loro una rendita netta di ducati 4.284:2, costituita da 54 immobili a Venezia (oltre al palazzo dominicale) e 706 campi, con l'immancabile seguito di livelli agrari e fabbricati rustici, sparsi tra il Padovano e il Vicentino: la successiva notifica del 1740 vede aumentare reddito e patrimonio: ducati 6.047:14, rappresentati da 77 stabili a Venezia e da 884 campi, con tre ville padronali (sempre a tale data, il solo E. risultava inoltre intestatario di altri ducati 486 di rendita, garantiti da 21 case a Venezia di ragion dotale della nuora, Marina Gradenigo; si spiega in tal modo come, nel 1756, nel suo esame sulla situazione economica del patriziato, Giacomo Nani collochi gli Erizzo alla Maddalena nel novero delle famiglie della categoria di mezzo, formata da quelle che "hanno il loro bisogno").
La ragione di questo positivo incremento delle entrate va forse ricercata, in qualche misura, in una diversa gestione dei beni (nel 1712 gli Erizzo risultano condurre "alla parte" 140 campi, che un trentennio più tardi, nel contesto di un generalizzato aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, diventano 294), ma per la maggior parte dipese da tutta una serie di lasciti, riconducibili ad una politica di concentrazione patrimoniale tenacemente perseguita in nome della "ragion famigliare": questa fu infatti una casata che visse ed operò nell'ottica tradizionale patrizia, che non dispose di grandi fortune, ma che riuscì a non disperderle e a conservare un ruolo di prestigio nella classe senatoria, grazie ad una condotta prudente, accorta, disposta a sacrifici personali e a rinunce, accettata e fatta propria da tutti i suoi esponenti.
Una carriera politica che avrebbe potuto essere brillante, tra le più prestigiose in rapporto ai contemporanei, dunque, quella dell'E., e che invece fu deliberatamente gestita sotto il basso profilo della mediocrità, per quanto onorata e rispettabile. I reggimenti di Udine e Brescia, infatti, non gli consentirono davvero di mettere in luce i suoi talenti; anche le numerose lettere da lui indirizzate, in tali circostanze, ai capi del Consiglio dei dieci non fanno che proporre l'abituale galleria di omicidi, violenze, furti, prevaricazioni.
Forse possiamo cogliere, nell'uomo, un indizio di particolare sensibilità, quando raccomandò al magistrato la supplica di una condannata: "Dalla profondità d'oscuro carcere s'alzano al trono le voci lagrimevoli miste co' sospiri più dolenti di me infelicissima Giulia Bagnada ad implorare pietà. L'errore della mia più tenera ed incauta gioventù, a cui seguì l'imputatione d'aver suffocato un parto, mi fece sentire l'orribile condanna di prigione in vita ... . Sono ormai terminati undeci anni che soffro le pene inseparabili dal sepolcro dé vivi, nell'esser mio deplorabile ingombrato dai fantasmi della disperazione ...". La lettera è del 20 dic. 1720: l'E. era appena giunto a Udine, era alla sua prima esperienza di rettore; tono ben diverso hanno invece i dispacci da Brescia, un decennio dopo, sia che si tratti della "ferita mortale" con cui venne ammazzato l'infelice che in Valsabbia cercava lumache e fu invece scambiato per un orso, "solito a ritrovarsi a quelle parti"; sia che il movente dell'omicidio consista in un semplice alterco, che peraltro nulla sottrae alla gravità della conclusione: "Osservato da Domenico Benetti che Francesco Losio adoperava l'archibuggio come un bastone, lo rimproverò, dicendole se quella era la forma di portarlo. Il Losio senza rispondere dimenò con l'arma stessa una percossa al mentovato Bonetti, e questo essendo pure armato d'archibuggio, lo scaricò contro il Losio, quale trafitto con palla da una parte all'altra, passò inconfesso all'altra vita"; né più pietoso egli appare nei riguardi dei suoi amministrati della Valcamonica, che "non compariscono poveri che quando si tratta di sodisfar ai publici aggravi".
Non è dunque in una carriera politica del tutto normale che dobbiamo rintracciare i meriti dell'E., quanto in una Istruzione paterna, morale civile ed economica, anonima e non datata, ma con ogni probabilità scritta fra il 1734 ed il 1738, e indirizzata al suo unico figlio.
L'Istruzione (l'E. la definisce "una eredità di consigli e di salutari avvertimenti, forse più utili al vivere onesto umano di quello potessero essere le ricchezze e le facoltà più abbondanti") si articola su tre punti: "II primo sarà quello d'essere un vero christiano. Il secondo sopra l'esser ... nobile e cittadino di repubblica libera e grande. Il terzo sopra la... domestica ed economica direzione".
La prima delle tre partizioni consiste sostanzialmente in un invito a dimostrarsi cristiano privatamente e pubblicamente (sempre, però, mantenendo "il sacerdozio diviso dal principato", secondo una massima peculiare all'ideologia veneziana); la seconda insiste invece sul rapporto esistente tra la condizione patrizia e l'attività politica: il suggerimento ch'egli rivolge al figlio è di astenersi dal coltivare eccessive ambizioni di carriera, giacché, oltre ai mezzi economici, gli mancano anche particolari pregi intellettuali ("astienti dalla ricerca di qualsiasi impiego, e lascia che la patria ti ponga in quel nichio che più a lei piace e che ti crederà più adattato.... Imita perciò tuo padre e pensa ad una quieta e pacifica vita, se puoi. Vivi a te stesso, vivi alle tue domestiche applicazioni. Tu per verità, a parlarti da sincero e affettuoso padre, non sei nato per esser grande. Non te lo accorda né la tua nascita, né le tue fortune, né il tuo talento, né io certamente ravviso in te quei spiriti che ti potessero far elevare a' più cospicui posti e gradi della Repubblica"). Questa franchezza di linguaggio, che rappresenta uno degli aspetti più interessanti ed originali del documento, si ritrova intatta nel terzo punto, che è poi quello principale, dedicato al comportamento da adottare nell'ambito della famiglia.
Dopo la scontata raccomandazione ad eliminare le passività gravanti sul patrimonio, il figlio dovrà prendersi cura dei domestici, ma anche richieder loro un pronto servizio, per quanto concerne poi i fattori e gli agenti, riveda personalmente i conti della loro amministrazione, né lasci mai ad essi il maneggio del denaro. Paghi puntualmente le spese di casa, né si azzardi a cedere gioielli e argenteria, che sono "ornamenti degni per un proprio ed onorato lustro" e, tra l'altro, "effetti di studiati civanzi ed una economica riserva di tuo avo, e mio zio".
Quanto al matrimonio, dovrà scegliere la moglie non tra le famiglie "più bizzarre e moderne", ma tra quelle "i cui parenti non abbino ad esserti molesti, e la suocera e le cognate non abbino ad infastidirti con consigli poco sani"; ella sarà bensì amata e custodita "come la gioia più preciosa della casa", ma non dovrà avere gondola propria, né seguire la moda, né ricevere visite. Suppergiù allo stesso rigore dovrà improntare l'educazione dei figli, che terrà lontani dai collegi e soprattutto da Padova, provvedendoli invece d'un vecchio saggio religioso precettore e di maestri di francese, danza, scherma, equitazione; quando poi saranno divenuti adulti, destini "il più capace all'economia et al matrimonio, e quello che sarà più dotato di talento ed applicato allo studio per i pubblici impieghi".
La ricerca di taluni valori tradizionali, quali l'onore e la virtù, rimane palesemente esclusa da questo scritto, che invita invece ad una condotta prudente e schiva ed è sensibile soprattutto alle ragioni dell'economia; del resto, esso non risulta finalizzato alla circolazione, alla proposta aperta o anonima, ma ad uso personale, interno ad un specifico nucleo famigliare (che peraltro doveva essere largamente rappresentato nell'ambito dell'aristocrazia veneziana): di qui la sua originalità, la presa di distanza dalla profluvie di tanti, troppi moralistici prodotti di precettori istitutori maestri che, tra Sei e Settecento, affrontarono il problema dell'educazione patrizia. Ora, se la fiducia nelle istituzioni repubblicane, come pure nella tradizione cattolica e nella condizione nobiliare, appare ancora assiomatica e nell'assunto proemiale della Istruzione, in realtà tutta una serie di riserve, di silenzi, di cautele affiora diffusamente nello scritto, che in fondo, con la sua stessa presenza, par quasi voler colmare il vuoto ideologico di una classe, di una società i cui tessuti si sono fortemente allentati, dove lo stesso senso dello Stato - così forte nella tradizione veneta - sembra risentire degli scompensi prodotti dalla transizione fra una Repubblica in grado di "fare" la storia ed una ormai ridotta alla condizione di subirla.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. cod. I, St. veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti..., III, p. 416; Ibid., Avogaria di Comun. Indice matrimoni con figli, sub voce; Ibid., Avogaria di Comun, b. 125/3582: Contratti di nozze; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 25, cc. 38, 186, 189; reg. 26, cc. 21, 149, 192, 199, 202, 265; reg. 27, cc. 2, 199, 203; Ibid., Elezioni dei Pregadi, reg. 21, c. 28; reg. 22, cc. 38, 47, 58, 75, 78, 81, 108; reg. 23, cc. 57, 80; Ibid., Miscellanea codici. Elezioni del Consiglio dei dieci, reg. 67, sub 3 ott. 1735, 15 nov. 1737, 1º ott. 1738; Ibid., Savi ed esecutori alle Acque, b. 559: Collegio Acque, c. 26r; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lettere di rettori, b. 179, nn. 212-271 (Udine); b. 48, nn. 304-334 (Brescia); b. 49, nn. 1-67 (Brescia); tre lettere dell'E., luogotenente a Udine, al podestà di Portobuffole, a motivo di un mancato pagamento di cereali, in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. 547 C/112; alcuni suoi dispacci come inquisitore di Stato, in Arch. di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato. Lettere ai provveditori generali in Terraferma, b. 143, nn. 189-193. Per la sua condizione patrimoniale, Ibid., Dieci savi alle Decime. Redecima del 1739, b. 288/1036; b. 321/661; b. 322/956; Padova, Bibl. univ., Mss. 914: I. Nani, Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l'anno 1756, cc. non num.; Archivio di Stato di Vicenza, Archivio Erizzo, passim (ma si veda, in particolare, bb. 10, 66, 94, 95).
L'Istruzione è conservata in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Archivio Pisani, b. 165/8, ed èstata pubblicata da G. Gullino, "Una eredità di consigli e di salutari avvertimenti": l'istruzione morale, politica ed economica di un patrizio veneziano al figlio (1734-1738?), in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea…, a cura di A. Tagliaferri, Udine 1984, pp. 339-363. Si veda inoltre: G. Gullino, Nobili di Terraferma e patrizi veneziani di fronte al sistema fiscale della campagna, nell'ultimo secolo della Repubblica, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma..., a cura di A. Tagliaferri, Milano 1981, p. 204; Id., I Pisani dalbanco e moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma 1984, p. 272.